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Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime | Categoria: Diritto processuale amministrativo Numero: 32 | Data di udienza: 9 Luglio 2012

* DIRITTO PROCESSUALE AMMINISTRATIVO – Riti speciali – Art. 119 cod. proc. amm. – Errore del giudice – Concessione dell’errore scusabile – Presupposti.


Provvedimento: Sentenza
Sezione: Adunanza Plenaria
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 9 Agosto 2012
Numero: 32
Data di udienza: 9 Luglio 2012
Presidente: Coraggio
Estensore: De Nictolis


Premassima

* DIRITTO PROCESSUALE AMMINISTRATIVO – Riti speciali – Art. 119 cod. proc. amm. – Errore del giudice – Concessione dell’errore scusabile – Presupposti.



Massima

 

CONSIGLIO DI STATO, Adunanza Plenaria – 9 agosto 2012, n. 32


DIRITTO PROCESSUALE AMMINISTRATIVO – Riti speciali – Art. 119 cod. proc. amm. – Errore del giudice – Concessione dell’errore scusabile – Presupposti.

I riti speciali, e segnatamente quello di cui all’art. 23-bis, l. Tar (ora art. 119 cod. proc. amm.), sono stabiliti dal legislatore per ragioni di interesse generale e hanno applicazione oggettiva, sicché al fine della verifica se una determinata controversia rientri nell’ambito di applicazione di un rito speciale o del rito ordinario, sono irrilevanti il comportamento processuale delle parti o del giudice trattandosi di evenienze che non escludono ex se la doverosa applicazione del rito (ordinario o speciale), effettivamente stabilito dalla legge; tuttavia se l’errore del giudice circa il rito da applicare e i conseguenti termini si inquadra in un complessivo comportamento fuorviante delle stesso giudice e delle controparti (che in primo grado hanno anche tratto vantaggio dell’errore stesso), si determina una situazione che oggettivamente giustifica la concessione dell’errore scusabile.

Pres. Coraggio, Est. De Nictolis – Ministero dell’economia e delle finanze e altri (Avv. Stato) c. A.A. e altri (avv. Chiti) e altri (n.c.)


Allegato


Titolo Completo

32

SENTENZA

 

CONSIGLIO DI STATO, Adunanza Plenaria – 9 agosto 2012, n. 32

N. 00032/2012REG.PROV.COLL.
N. 00030/2012 REG.RIC.A.P.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero 30 del 2012 di registro dell’ad. plen. (n. 3983 del 2008 r.g.), proposto da:
Ministero dell’economia e delle finanze, Agenzia del Territorio, Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Osservatorio sul patrimonio immobiliare degli enti previdenziali, rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliati per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;

contro

Ambrosino Adriana, Apicella Vincenzo, Becatti Aldo, Brunarosa Sabatini, Dalli Cardillo Giuseppe, Frea Sergio, La Croce Antonio, Mela Gianfranco, Rubicone Imperatrice, Serreli Giorgio, rappresentati e difesi dall’avvocato Mario P. Chiti, con domicilio eletto presso l’avvocato Guido Alpa in Roma, piazza Benedetto Cairoli, 6;
Stilli Annamaria, Viani Leonetta;

nei confronti di
INPDAP, SCIP – Società di cartolarizzazione immobili pubblici, in persona del legale rappresentante, rappresentati e difesi dall’avvocato Giuseppe Fiorentino, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via S. Croce in Gerusalemme, 55;

per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale della Toscana, 10 settembre 2007 n. 2330.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
visto l’appello incidentale;
viste le memorie difensive;
vista l’ordinanza 13 aprile 2012 n. 3256 di rimessione all’adunanza plenaria;
visti tutti gli atti della causa;

relatore nell’udienza pubblica del giorno 9 luglio 2012 il Cons. Rosanna De Nictolis e uditi per le parti l’avvocato dello Stato Vinci Orlano, l’avvocato Chiti e l’avvocato Fiorentino;
ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1. Il decreto-legge 25 settembre 2001, n. 351 (Disposizioni urgenti in materia di privatizzazione e valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico e di sviluppo dei fondi comuni di investimento immobiliare) disciplina un complesso procedimento di privatizzazione sostanziale mediante dismissione di alcuni beni stabilendo che l’Agenzia del demanio, con propri decreti dirigenziali, individui i singoli beni oggetto del procedimento stesso (art. 1). L’art. 3, comma 13, del predetto decreto, nella versione applicabile ratione temporis, prevede che gli immobili così individuati possono essere trasferiti a titolo oneroso ad una società a responsabilità limitata di cartolarizzazione con «decreti di natura non regolamentare del Ministro dell’economia e delle finanze», i quali dovranno, su proposta dell’Osservatorio sul patrimonio immobiliare degli enti previdenziali, indicare gli «immobili di pregio».
La stessa norma dispone che si «considerano comunque di pregio gli immobili situati nei centri storici urbani», ad eccezione di quelli individuati con i suddetti decreti nel rispetto del procedimento sopra indicato.
Con decreto ministeriale 31 luglio 2002 sono stati stabiliti i criteri ai quali deve conformare la propria attività l’Osservatorio e l’Agenzia del territorio nella definizione degli immobili di pregio e, tra questi, viene indicata la «ubicazione nel centro storico, individuato in base alle perimetrazioni dei piani regolatori (zone omogenee di tipo A), con esclusione delle zone degradate soggette a piani di recupero individuate negli stessi piani regolatori».
L’art. 26, commi 5 e 6, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 ha modificato, in parte, l’art. 3, comma 13, del decreto-legge n. 351 del 2001, prevedendo, oltre ad alcune innovazioni rilevanti sul piano delle competenze, che si «considerano comunque di pregio gli immobili situati nei centri storici urbani» ad eccezione di quelli individuati con decreto ministeriale, su proposta dell’Agenzia del Territorio, «che si trovano in stato di degrado e per i quali sono necessari interventi di restauro e di risanamento conservativo, ovvero di ristrutturazione edilizia».

2. Nella vicenda in esame, con deliberazione del 14 marzo 2003 dell’Osservatorio sul patrimonio immobiliare degli enti previdenziali, di concerto con l’Agenzia del territorio, sono stati individuati un «primo lotto di immobili di pregio».
Con decreto ministeriale del 1° aprile 2003 è stato approvato l’elenco degli immobili di pregio da trasferire alla società di cartolarizzazione.

3. I ricorrenti nel giudizio di primo grado sono conduttori di immobili di proprietà dell’INPDAP – situati in Firenze viale Matteotti, n. 28, inseriti in detto elenco – che avevano presentato domanda di acquisto degli stessi.
Essi – avendo il disposto inserimento determinato un aumento del valore di cessione – hanno impugnato, innanzi al Tribunale amministrativo regionale della Toscana, gli atti sopra indicati, con ricorso, contenente domanda cautelare, le cui notificazioni si sono perfezionate in date tra il 10 e il 16 giugno 2003, e depositato il successivo 2 luglio.
In particolare, hanno dedotto: a) violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990; b) violazione dell’art. 3, comma 13, del decreto legge n. 351 del 2001;
c) eccesso di potere.

4. Il Ministero dell’economia e delle finanze si è costituito con atto del 7 agosto 2003 e con ricorso del successivo 30 agosto ha proposto regolamento di competenza.
L’INPDAP e la società di cartolarizzazione immobili pubblici si sono costituiti, con atto separati, il 9 settembre 2003.

5. Il Tar adito ha fissato la camera di consiglio per la trattazione della domanda cautelare il 9 settembre 2003. All’esito di tale camera di consiglio non è stato assunto alcun provvedimento. Alla camera di consiglio del 6 aprile 2006 è stata discussa l’istanza di regolamento di competenza proposta dall’Avvocatura distrettuale di Firenze. Con ordinanza del 12 giugno 2006 si è dato atto della rinuncia alla predetta istanza. L’udienza pubblica si è svolta il 23 novembre 2006: prima di tale udienza i ricorrenti hanno depositato memorie il 10 giugno e l’11 novembre e documenti il 22 e 26 maggio, il 31 ottobre e il 2 novembre; il Ministero ha depositato memorie e documenti il 9 giugno. All’esito della discussione, con ordinanza del 22 gennaio 2007, è stato ordinato al Responsabile dell’Osservatorio patrimonio Enti previdenziali di depositare la copia autentica della delibera impugnata. La successiva udienza è stata fissata il 10 maggio 2007: prima di tale udienza i ricorrenti ha depositato memorie il 26 aprile.

6. Il ricorso di primo grado è stato accolto con la sentenza 10 settembre 2007 n. 2330, non notificata.
Il Tar ha ritenuto che l’amministrazione avesse violato l’art. 7 della legge n. 241 del 1990, nella parte in cui è stata omessa la comunicazione di avvio del procedimento. Nella sentenza si afferma che la partecipazione era necessaria per consentire un apporto dei privati in ordine ai seguenti dati: a) l’art. 3, comma 13, del decreto-legge n. 351 del 2001 considera di pregio gli immobili situati nei centri urbani, «tra cui però individua numerose eccezioni»; b) «l’ubicazione degli edifici di interesse dei ricorrenti è in un centro definito “storico” solo per opinabile estensione compiuta, peraltro ad altri fini, dallo strumento urbanistico e non coincidente con le zone indicate dal decreto 31 luglio 2002»; c) il punto 5 dei criteri allegati prevede che, nei casi in cui si tratti di immobili degradati, è necessario verificare se si superi una determinata soglia di valore.

7. Il Ministero dell’economia e delle finanze, l’Agenzia del territorio, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, hanno impugnato la predetta sentenza, con atto spedito per la notificazione il 2 maggio 2008.
Le notificazioni si sono perfezionate in date 5 e 26 maggio 2008 e i depositi sono avvenuti in date 24 maggio, 4 giugno e 11 giugno 2008.
In primo luogo, si rileva che non occorrerebbe la comunicazione di avvio del procedimento sia perché si tratta di atti di programmazione che svolgono una funzione preparatoria rispetto alla ulteriore attività di effettiva dismissione degli immobili sia perché sussisterebbero esigenze di celerità connesse all’esigenza di «recupero di liquidità» da parte dello Stato.
In secondo luogo, si sottolinea come gli immobili in esame siano ubicati nella zona A) del vigente piano regolatore generale e, in particolare, nel centro storico fuori le mura e non si trovano in una situazione di degrado. A tale ultimo proposito, si deduce che, anche a volere considerare i requisiti prescritti dall’art. 3, comma 13, del decreto-legge n. 351 del 2001, come modificato dal decreto-legge n. 269 del 2003, una volta accertata la insussistenza di una situazione di degrado non occorrerebbe l’ulteriore verifica volta a stabilire se sono necessari «interventi di restauro, di risanamento conservativo o di ristrutturazione edilizia».

8. Ha proposto appello incidentale l’INPDAP prospettando argomentazioni analoghe a quelle sopra riportate, con atto spedito per le notificazioni in data 29 maggio 2008 e depositato in data 10 giugno 2008.
Con riguardo alla violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990 l’INPDAP aggiunge che, nella specie, l’attività sarebbe vincolata con conseguente non necessità di garantire la partecipazione procedimentale.

9. Si sono costituiti in giudizio i ricorrenti di primo grado eccependo, in via preliminare, la irricevibilità degli appelli per tardività. In particolare, si è rilevato che, applicandosi, ratione temporis, alla fattispecie all’esame di questo Collegio l’art. 23-bis della legge Tar, l’appello avrebbe dovuto essere proposto nel termine di centoventi giorni dalla pubblicazione della sentenza. Nel caso in esame, la sentenza è stata depositata il 10 settembre 2007, l’appello principale risulta notificato il 2/26 maggio 2008 e quello incidentale in data 29 maggio/4 giugno 2008, dunque oltre il termine massimo previsto.

10. La VI sezione del Consiglio di Stato, con ordinanza 8 giugno 2008 n. 3235, ha rigettato la domanda cautelare rilevando che, «ad un primo sommario esame», l’appello risulta notificato tardivamente.

11. Chiamata la causa ad udienza pubblica davanti alla VI sezione, con memoria del 22 marzo 2012 l’Avvocatura generale dello Stato ha chiesto, in relazione alla tardività dell’appello, che venga riconosciuto l’errore scusabile in quanto il giudice di primo grado non avrebbe seguito la procedura prefigurata dal citato art. 23-bis e, in particolare, non avrebbe depositato il dispositivo (si cita Cons. Stato, sez. VI, sentenza 24 febbraio 2011, n. 1175; Cons. Stato, sez. VI, ordinanza 24 gennaio 2012, n. 299).
Con memoria del 26 marzo 2012 anche l’INPDAP ha chiesto che venga concesso l’errore scusabile richiamando i medesimi precedenti.
12. La sezione VI, con l’ordinanza 13 aprile 2012 n. 3256 ha rimesso all’esame della plenaria l’esame dell’eccezione di irricevibilità e le questioni di diritto ad essa sottese.
Non è contestato che la notificazione dell’appello è avvenuta oltre il termine di centoventi giorni, decorrente dalla pubblicazione della sentenza, previsto dall’art. 23-bis della legge Tar.
Si tratta, ad avviso dell’ordinanza di rimessione, di stabilire se possa integrare gli estremi dell’errore scusabile, ai fini della rimessione in termini, la circostanza che il giudice non abbia seguito la procedura speciale prevista dal citato articolo. Occorre, pertanto, accertare quale sia la relazione esistente tra il mancato rispetto nel giudizio di primo grado di tale procedura da parte del giudice e il mancato rispetto nel giudizio di secondo grado della regola processuale che, sempre in attuazione della medesima disciplina, impone l’osservanza del termine dimezzato per la proposizione dell’atto di appello.
Sul punto si è delineato un contrasto interpretativo tra singole Sezioni di questo Consiglio.


DIRITTO

1. La questione di diritto rimessa all’esame della plenaria è se, nella speciale disciplina processuale di cui all’art. 23-bis della legge Tar, il mancato rispetto del rito da parte del giudice di primo grado possa dare luogo alla concessione dell’errore scusabile in favore della parte appellante che non abbia rispettato i termini abbreviati del rito stesso.

2. L’art. 23-bis della legge Tar disciplina un rito speciale accelerato in presenza di particolari materie specificamente indicate.
La norma contempla due diversi precetti normativi.
Il primo individua, con elencazione tassativa, le specifiche controversie che rientrano nel suo ambito applicativo e, tra queste, menziona anche quelle concernenti i provvedimenti relativi «alle procedure di privatizzazione o di dismissione» di beni pubblici (comma 1, lettera e).
Il secondo attiene alla disciplina delle regole processuali che devono essere seguite in presenza delle materie elencate.
In particolare, si stabilisce che:
i) tutti i termini processuali, salvo quelli per la proposizione del ricorso, «sono ridotti alla metà» (comma 2);
ii) «il dispositivo della sentenza è pubblicato entro sette giorni dalla data dell’udienza, mediante deposito in segreteria» (comma 6);
iii) «il termine per la proposizione dell’appello avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale» pronunciata nei giudizi tassativamente indicati «è di trenta giorni dalla notificazione e di centoventi giorni dalla pubblicazione della sentenza»;
iv) queste disposizioni «si applicano anche davanti al Consiglio di Stato, in caso di domanda di sospensione della sentenza appellata».

3. Il codice del processo amministrativo ha riprodotto, con modifiche, la disciplina contenuta nella disposizione riportata distinguendo un rito abbreviato comune a determinate materie comprese quelle relative alla privatizzazione e dismissione di beni pubblici (art. 119) e un rito speciale relativo al settore dei contratti pubblici (art. 120).
In relazione al primo si confermano le regole stabilite dall’art. 23-bis per quanto attiene al dimezzamento dei termini, che non opera esclusivamente per il ricorso introduttivo, il ricorso incidentale e i motivi aggiunti (art. 119, comma 2) e si prevede la pubblicazione anticipata del dispositivo rispetto alla sentenza non oltre sette giorni dalla decisione della causa quando almeno una delle parti, nell’udienza di discussione, dichiara di avere interesse (art. 119, comma 5).
In relazione al secondo, è stabilita l’applicazione delle medesime regole con alcune eccezioni tra le quali l’obbligo, nel solo giudizio di primo grado, della pubblicazione del dispositivo che definisce il processo (art. 120, comma 9).

4. L’istituto dell’errore scusabile, prima della entrata in vigore del codice del processo amministrativo, era disciplinato, con riferimento a particolari fattispecie, dalle seguenti disposizioni:
a) l’art. 34 del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato disponeva che se veniva impugnato innanzi a quest’ultimo, «per errore ritenuto scusabile», un provvedimento non definitivo, il Consiglio poteva assegnare un breve termine per la riproposizione del ricorso all’autorità gerarchica;
b) l’art. 36 dello stesso testo unico stabiliva che, in presenza di un errore «ritenuto scusabile», il Consiglio di Stato poteva concedere alla parte la possibilità di rinnovare o integrare la notificazione all’autorità amministrativa e ai controinteressati;
c) l’art. 34 della legge Tar prevedeva che il Consiglio di Stato, «in caso di errore scusabile», avrebbe potuto rimettere in termini il ricorrente per proporre l’impugnativa al giudice competente o per rinnovare la notificazione del ricorso.

4.1. L’art. 37 cod. proc. amm. ha trasposto in una disposizione normativa tale principio stabilendo che «il giudice può disporre, anche d’ufficio, la rimessione in termini per errore scusabile in presenza di oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto o di gravi impedimenti di fatto».

L’art. 11, comma 5, cod. proc. amm., di disciplina della traslatio iudicii, contiene uno specifico riferimento all’istituto della rimessione in termine, ritenendolo applicabile, «ove ne ricorrano i presupposti», nei «giudizi riproposti» a seguito di una decisione sulla giurisdizione.

4.2. Nel processo civile l’art. 153, comma 2, prevede – con norma, anch’essa generale, introdotta dalla legge n. 69 del 2009 – che «la parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini».

4.3. La giurisprudenza formatasi nella costanza del “vecchio” regime processuale era nel senso di considerare la rimessione in termini per errore scusabile un istituto di carattere eccezionale [Cons. St., sez. IV, 30 dicembre 2008 n. 6599], posto che esso delinea una deroga al principio cardine della perentorietà dei termini di impugnativa; l’attuale art. 37 cod. proc. amm. non offre elementi per giungere a una differente conclusione [Cons. St., ad. plen., 2 dicembre 2010 n. 3].

4.4. L’art. 37, al pari della previgente disciplina processuale dell’istituto dell’errore scusabile, è stato considerato dalla plenaria una norma di stretta interpretazione, dal momento che un uso eccessivamente ampio della discrezionalità giudiziaria che essa presuppone, lungi dal rafforzare l’effettività della tutela giurisdizionale, potrebbe alla fine risolversi in un grave vulnus del pariordinato principio di parità delle parti (art. 2, c. 1, cod. proc. amm.), sul versante del rispetto dei termini perentori stabiliti dalla legge processuale [Cons. St., ad. plen., 2 dicembre 2010 n. 3].

5. La questione relativa all’applicabilità dell’istituto dell’errore scusabile in presenza di una proposizione tardiva dell’appello e del mancato rispetto delle regole che presiedono alla disciplina del rito speciale in primo grado da parte del giudice è stata oggetto, come già sottolineato, di due diversi orientamenti giurisprudenziali.

5.1. Un primo orientamento sostiene che – nel caso in cui il giudice di primo grado, «consapevolmente o meno», non abbia seguito il rito di cui all’art. 23-bis della legge Tar e, in particolare, risulta che non abbia depositato il dispositivo della sentenza entro il termine di sette giorni dalla camera di consiglio – l’appellante è «tratto in errore sull’applicabilità del termine breve per la proposizione dell’appello», con la conseguenza che «deve essere concesso l’errore scusabile» [Cons. St., sez. VI, 24 febbraio 2011 n. 1175].
Questa interpretazione è stata seguita anche dall’ordinanza della Sesta sezione del 24 gennaio 2012, n. 299 che, accogliendo uno specifico motivo di revocazione, ha ribadito – con riguardo alla medesima fattispecie che viene in rilievo in questa sede – la concedibilità dell’errore scusabile qualora il giudice di primo grado non abbia seguito l’iter procedimentale prefigurato dall’art. 23-bis e, in particolare, non abbia pubblicato il dispositivo.

5.2. Un secondo orientamento – seguito, in particolare, dalla decisione dell’adunanza plenaria, 3 giugno 2011 n. 10 – ritiene che sia «irrilevante» la condotta processuale «tenuta dal giudice nel corso del giudizio di primo grado, trattandosi di evenienza che non esclude ex se la doverosa applicazione del rito (ordinario o speciale), effettivamente stabilito dalla legge» [in questo senso anche Cons. St., sez. IV, 23 dicembre 2010 n. 9376].

5.3. Nonostante tale orientamento sia stato seguito dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato la sezione VI ha ritenuto necessario ugualmente rimettere ad essa l’esame della questione in quanto la decisione richiamata non è stata adottata per dirimere il contrasto in esame ovvero per risolvere una questione di massima di particolare importanza relativa all’interpretazione delle norme applicabili nel presente giudizio. L’affermazione contenuta nella sentenza citata della plenaria costituisce, infatti, soltanto un passaggio argomentativo necessario per la decisione nel merito dell’intera controversia.

5.4. L’ordinanza di rimessione alla plenaria ritiene che a fondamento dell’errore scusabile vi sia una situazione di assenza di colpa processuale, ossia di violazione incolpevole dei termini processuali.
L’ordinanza di rimessione ricorda che sono stati considerati, tra l’altro, come modelli di riferimento, nel giudizio sulla concedibilità dell’errore scusabile, il comportamento di chi sia stato tratto in errore dall’oscurità e ambiguità della normativa applicabile, dal cambiamento del quadro legislativo, da contrasti giurisprudenziali, da attività equivoche poste in essere da parte della stessa pubblica amministrazione, mentre non possono venire in rilievo aspetti di mera rilevanza soggettiva.
In questo contesto l’attività del giudice consiste nello stabilire se la condotta concreta sia o meno conforme alla regola di condotta predefinita. Se sussiste, anche alla luce delle specificità della fattispecie, uno “scarto” tra di esse deve ritenersi colpevole la violazione della norma processuale con conseguente impossibilità di riconoscere l’errore scusabile ai fini della rimessione in termini.
Applicando questi principi generali al caso in esame l’ordinanza di rimessione trae le seguenti conclusioni:
– in primo luogo, opera il livello di tipizzazione normativa delle condotte costituito, nella specie, dalla rilevanza dei soli comportamenti posti in essere in presenza di oggettive «ragioni di incertezza su questioni di diritto»;
– in secondo luogo, opera il livello di tipizzazione giurisprudenziale della condotta standard. Nel caso specifico il contrasto interpretativo riguarda questa fase: si tratta, infatti, di stabilire se possa costituire una condotta predefinita quella posta in essere in presenza di un errore determinato dal comportamento del giudice che non ha osservato le regole processuali che scandiscono i momenti della sua attività. In altri termini, si tratta di stabilire se nell’ambito del catalogo dei comportamenti sopra riportati, che vengono normalmente valutati nel giudizio relativo all’errore scusabile, possa essere inserito anche quello in esame.
L’ordinanza di rimessione ritiene che tale condotta standard debba essere inclusa tra quelle sino ad ora tipizzate dalla giurisprudenza. Non si ravvisano, infatti, valide ragioni per escludere che la parte, nello stabilire quali siano le regole processuali applicabili nella specie, possa essere tratta in “inganno” dal comportamento processuale del giudice.
Infine, secondo l’ordinanza di rimessione, opera il livello costituito dalla valutazione della specificità della condotta concreta che impone di verificare se la stessa, alla luce di tutti gli elementi a disposizione del giudice, possa considerarsi effettivamente conforme alla regola di condotta della diligenza. In questa ottica, possono assumere rilievo, ad esempio, la stessa “natura” della materia che viene in rilievo, il comportamento delle parti stesse al fine di verificare se esse abbiamo o meno seguito il rito speciale, la gravità delle violazioni.

6. Rileva anzitutto la plenaria che non è contestabile che la controversia oggetto del presente appello, afferente ad una procedura di dismissione di immobili pubblici ad uso residenziale, rientri nell’ambito di applicazione del rito abbreviato di cui all’art. 23-bis, della legge Tar (oggi: art. 119 cod. proc. amm.).
La giurisprudenza si è univocamente orientata in tal senso, affermando l’art. 23-bis, lett. e), della legge Tar, si riferisce non solo alle “ampie operazioni di dismissione di beni pubblici” ma “anche all’alienazione dei singoli beni”. Il rito abbreviato trova la sua ragion d’essere nell’esigenza che i giudizi in talune materie di particolare interesse, strategico o finanziario, dello Stato e della comunità vengano definiti con sollecitudine e con priorità rispetto al generalità delle controversie; in tale prospettiva, l’alienazione dei beni dello Stato e degli altri enti pubblici riveste tali connotati, non solo per quel che attiene ai programmi generali di dismissione delle proprietà pubbliche ma anche agli atti attuativi dei programmi medesimi, in quanto strumenti essenziali per il risanamento della finanza pubblica [Cons. St., sez. VI, 13 luglio 2006, n. 4418].
Si è pertanto ritenuto che il rito abbreviato si applichi sia agli atti del procedimento di evidenza pubblica di vendita [Cons. St., sez. V, 9 giugno 2008, n. 2814] sia ai provvedimenti di qualificazione degli immobili come di pregio [Cons. St., sez. VI, 29 maggio 2008, n. 2533; Id., 10 settembre 2008, nn. 4320 e 4325; più di recente, Cons. St., sez. VI, 29 maggio 2012 n. 3180].
Pertanto, non c’è sicuramente margine per la concessione dell’errore scusabile sotto il profilo della incolpevole ignoranza della soggezione di tale tipo di controversia al rito abbreviato.

7. Quanto alla ulteriore questione, – se l’errore del giudice di primo grado, consistente nell’applicare il rito ordinario in luogo di quello speciale, possa far considerare consequenziale e scusabile l’errore della parte che propone appello rispettando i termini del rito ordinario anziché quelli del rito speciale – la plenaria non intende discostarsi da quanto da essa già statuito con la propria decisione n. 10 del 2011, fermo restando che dei principi ivi espressi occorre fare corretta applicazione caso per caso.

7.1. Si è in tale decisione affermato (par. 29.1., lett. c), che al fine della verifica se una determinata controversia rientri o meno nell’ambito di applicazione del rito dell’art. 23-bis, della legge Tar, da un lato è del tutto irrilevante il comportamento processuale delle parti e, dall’altro lato, è del pari irrilevante la condotta processuale tenuta dal giudice nel corso del giudizio di primo grado, trattandosi di evenienza che non esclude ex se la doverosa applicazione del rito (ordinario o speciale), effettivamente stabilito dalla legge [in tal senso anche Cons. St., sez. IV, 23 dicembre 2010 n. 9376].

7.2. Aggiunge ora la plenaria che i riti speciali e il loro ambito applicativo sono stabiliti dalla legge, per ragioni che rientrano nelle scelte discrezionali del legislatore (nel caso del rito dell’art. 23-bis, l. Tar, ora artt. 119 e 120 cod. proc. amm., per la esigenza di interesse generale di una celere definizione di determinate tipologie di controversie), e pertanto l’applicazione del rito è doverosa ed oggettiva, e non vi è spazio per una scelta del rito, o sua disapplicazione, ad opera delle parti o del giudice.
Le parti sono tenute a seguire il rito speciale, e il giudice a sua volta è tenuto alla sua osservanza.
Se la parte non rispetta i termini del rito speciale incorre in un errore processuale che determina decadenza, salva la ricorrenza dell’errore scusabile.
Parimenti, se il giudice di primo grado non rispetta il rito speciale, incorre in un errore che, se del caso, può dar luogo a vizio della sentenza contestabile con i rimedi impugnatori che l’ordinamento appresta.

7.3. Nel processo amministrativo non possono trovare applicazione pedissequa i principi enunciati dalla Cassazione in tema di erronea scelta del rito da parte del giudice. Ritiene la Cassazione che se il giudice di primo grado tratti la causa secondo il rito erroneamente adottato e, non formulando alcun rilievo al riguardo, ritenga implicitamente che il rito in concreto seguito sia quello prescritto, il principio di ultrattività del rito e dell’apparenza comporta che il giudizio deve proseguire nelle stesse forme [Cass. civ., sez. II, 21 maggio 2010 n. 12524].
Secondo la Cassazione rileva il rito adottato dal giudice che, a prescindere dalla sua esattezza, costituisce per la parte il criterio di riferimento, anche ai fini del computo dei termini previsti per le attività processuali; ne consegue che, ove una controversia in materia di lavoro sia erroneamente trattata fino alla conclusione con il rito ordinario, trova applicazione il principio dell’apparenza o dell’affidamento, per il quale la scelta fra i mezzi, i termini ed il regime di impugnazione astrattamente esperibili va compiuta in base al tipo di procedimento effettivamente svoltosi, a prescindere dalla congruenza delle relative forme rispetto alla materia controversa [Cass. civ., sez. lav., 23 aprile 2010 n. 9694].
Tali principi non possono essere pedissequamente seguiti nel processo amministrativo nel quale i riti non rientrano nella disponibilità delle parti o del giudice, essendo imposti dalla legge per ragioni di interesse pubblico. Sicché, i termini di decadenza di un rito speciale, non possono essere superati dall’erronea scelta del rito.

8. Quanto sin qui esposto ha per conseguenza che l’errore del giudice di primo grado non può di per sé solo determinare un mutamento del rito in appello.
Nonostante l’errore del giudice di primo grado, le parti che ne impugnano la decisione restano tenute, in appello, al rispetto del rito stabilito dalla legge.
Si tratta tuttavia di stabilire se, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso concreto, l’errore in cui è incorso il giudice di primo grado possa essere considerato come causa dell’errore della parte e quindi possa giustificare la concessione dell’errore scusabile.
I presupposti per la concessione dell’errore scusabile sono stati già chiariti dalla plenaria di questo Consesso [Cons. St., ad. plen., 2 dicembre 2010 n. 3]: l’oscurità del quadro normativo, le oscillazioni della giurisprudenza, i comportamenti ambigui dell’amministrazione pubblica.
Ove ricorra un quadro normativo oscuro, o vi siano oscillazioni della giurisprudenza o della pubblica amministrazione, l’errore del giudice di primo grado può a sua volta essere giustificato da tali presupposti fattuali e pertanto essere considerato una concausa dell’errore della parte.
Esiste poi un ulteriore ipotesi in cui l’errore del giudice può essere considerato causa dell’errore della parte e rendere scusabile l’errore di quest’ultima, ed è quando il giudice ordina alla parte il compimento di un adempimento processuale prescrivendo modalità erronee. In tal senso, la plenaria ha già in passato statuito che costituisce errore scusabile la notificazione del ricorso in appello all’amministrazione statale nel domicilio reale, quando la stessa sia effettuata in ottemperanza ad un ordine del giudice ai fini dell’integrazione del contraddittorio e tale ordine faccia riferimento all’amministrazione e non all’Avvocatura dello Stato [Cons. St., ad. plen., 19 gennaio 1993 n. 1].
Al di fuori di questi casi, l’errore del giudice può divenire rilevante ai nostri fini solo se si inquadra in un complessivo comportamento fuorviante dello stesso giudice e delle controparti.
Così, se in primo grado viene seguito il rito ordinario senza che nessuna delle parti, che anzi ne traggono vantaggio, né il giudice rilevino la necessità di seguire il rito speciale, e senza che vi siano altri indizi della necessità di seguire il rito speciale (qualificazione del ricorso nel registro dei ricorsi, misura del contributo unificato) si determina una situazione complessiva, oggettivamente e concretamente idonea a trarre in errore la parte.
Sicché, la parte che, nel proporre appello, segue i termini del rito ordinario anziché quelli del rito speciale, incorre in un errore che può essere ritenuto scusabile.
E’ quanto si è verificato nel caso di specie in cui:
a) lo stesso ricorso di primo grado sembra depositato oltre il termine abbreviato di 15 giorni e dunque con il rispetto dei termini ordinari anziché di quelli abbreviati (questione, questa, che, come si dirà, dovrà essere accertata dalla Sezione VI);
b) il ricorso di primo grado non risulta qualificato, nel registro ricorsi del Tar, come ricorso soggetto al rito abbreviato, né tale qualificazione emerge dagli avvisi di segreteria alle parti;
c) il giudizio di primo grado si è svolto con le forme del rito ordinario, in quanto non vi è stata trattazione celere, né è stato pubblicato il dispositivo prima della motivazione (si ricordi che nel vigore dell’art. 23-bis, l. Tar, la pubblicazione anticipata del dispositivo avveniva d’ufficio, e non a istanza di parte come accade nel vigore dell’art. 119 cod. proc. amm.);
d) la misura del contributo unificato, versato in epoca anteriore alla differenziazione delle misure per il rito abbreviato, non fornisce indizi a favore dell’utilizzo del rito abbreviato.

8.1. Deve in conclusione enunciarsi il seguente principio di diritto: <<i riti speciali, e segnatamente quello di cui all’art. 23-bis, l. Tar (ora art. 119 cod. proc. amm.), sono stabiliti dal legislatore per ragioni di interesse generale e hanno applicazione oggettiva, sicché al fine della verifica se una determinata controversia rientri nell’ambito di applicazione di un rito speciale o del rito ordinario, sono irrilevanti il comportamento processuale delle parti o del giudice trattandosi di evenienze che non escludono ex se la doverosa applicazione del rito (ordinario o speciale), effettivamente stabilito dalla legge; tuttavia se l’errore del giudice circa il rito da applicare e i conseguenti termini si inquadra in un complessivo comportamento fuorviante delle stesso giudice e delle controparti (che in primo grado hanno anche tratto vantaggio dell’errore stesso), si determina una situazione che oggettivamente giustifica la concessione dell’errore scusabile.

9. Da quanto esposto consegue la ricevibilità sia dell’appello principale che di quello incidentale.

10. Per la decisione del merito, su cui non vi sono questioni oggetto di contrasto di giurisprudenza, l’affare viene rimesso alla Sezione VI, che dovrà anche procedere a verificare d’ufficio, con le forme dell’art. 73, comma 3, cod. proc. amm., la ricevibilità del ricorso di primo grado.
E, invero, in punto di diritto, la plenaria rileva, da un lato, che ai sensi dell’art. 35, cod. proc. amm. la tardività della notifica e del deposito del ricorso è questione rilevabile d’ufficio, e, dall’altro lato, che la tardività del ricorso di primo grado è rilevabile d’ufficio anche nel giudizio di appello, atteso che il citato art. 35 non pone limitazioni al rilievo d’ufficio in grado di appello (a differenza di quanto dispongono gli artt. 9 e 15 cod. proc. amm. rispettivamente per la questione di giurisdizione per la questione di competenza). Il che ben si comprende sul piano logico e sistematico, perché l’erronea scelta del giudice (per ragioni di giurisdizione o competenza) è un vizio relativo, atteso che, a monte, esiste un giudice avente giurisdizione e/o competenza, sicché il vizio è emendabile, la tardività del ricorso è un vizio assoluto, atteso che decorso il termine legale ultimo, nessun giudice può occuparsi del ricorso, sicché il vizio non è emendabile ed è rilevabile d’ufficio anche in grado di appello.

11. La liquidazione delle spese della presente fase sarà effettuata dalla Sezione VI con la sentenza definitiva.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato – adunanza plenaria, parzialmente e non definitivamente pronunciando sull’appello principale e incidentale in epigrafe, li dichiara ricevibili.
Restituisce la causa alla Sezione per la decisione del merito.

Spese al definitivo.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 luglio 2012 con l’intervento dei magistrati:

Giancarlo Coraggio,    Presidente
Giorgio Giovannini,    Presidente
Gaetano Trotta,    Presidente
Pier Giorgio Lignani,    Presidente
Stefano Baccarini,    Presidente
Alessandro Botto,    Consigliere
Rosanna De Nictolis,    Consigliere, Estensore
Marzio Branca,    Consigliere
Francesco Caringella,    Consigliere
Anna Leoni,    Consigliere
Maurizio Meschino,    Consigliere
Raffaele Greco,    Consigliere
Angelica Dell’Utri,    Consigliere
        
IL PRESIDENTE
      
L’ESTENSORE

 

IL SEGRETARIO
 
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 09/08/2012
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
Il Dirigente della Sezione

 

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