APPALTI – Interdittiva antimafia – Dichiarazioni dei collaboratori di giustizia – Giudizio in ordine al tentativo di infiltrazione mafiosa – Elementi indiziari – Principi del “più probabile che non” e dell’”oltre ogni ragionevole dubbio”.
Provvedimento: Parere
Sezione: 1^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 18 Giugno 2021
Numero: 1060
Data di udienza: 12 Maggio 2021
Presidente: Torsello
Estensore: Neri
Premassima
APPALTI – Interdittiva antimafia – Dichiarazioni dei collaboratori di giustizia – Giudizio in ordine al tentativo di infiltrazione mafiosa – Elementi indiziari – Principi del “più probabile che non” e dell’”oltre ogni ragionevole dubbio”.
Massima
CONSIGLIO DI STATO, Sez. 1^ – 18 giugno 2021, parere n. 1060
APPALTI – Interdittiva antimafia – Dichiarazioni dei collaboratori di giustizia – Giudizio in ordine al tentativo di infiltrazione mafiosa – Elementi indiziari – Principi del “più probabile che non” e dell’”oltre ogni ragionevole dubbio”.
Ai fini dell’emissione di un’interdittiva antimafia, può legittimamente tenersi conto, oltre che dei precedenti di Polizia e ai procedimenti penali, del contenuto delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. È ben vero che nel processo penale tali dichiarazioni non possono essere poste alla base del giudizio di colpevolezza se non si acquisiscono i c.d. riscontri esterni (articoli 192, 197 bis e 210 c.p.p.), ma, per la diversità tra la logica del “più probabile che non “ e quella dell’“oltre ogni ragionevole dubbio”, tali dichiarazioni possono essere correttamente considerate, ad colorandum, unitamente a tutti gli altri elementi indiziari, per il giudizio in ordine al tentativo di infiltrazione mafiosa.
Pres. Torsello, Est. Neri
Allegato
Titolo Completo
CONSIGLIO DI STATO, Sez. 1^ - 18 giugno 2021, parere n. 1060SENTENZA
Numero 01060/2021 e data 18/06/2021 Spedizione
REPUBBLICA ITALIANA
Consiglio di Stato
Sezione Prima
Adunanza di Sezione del 12 maggio 2021
NUMERO AFFARE 00047/2021
OGGETTO:
Ministero dell’interno.
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto, con istanza sospensiva, da -OMISSIS- -OMISSIS- avverso il provvedimento della Prefettura di Reggio Calabria prot. n. 0022726 del 27 febbraio 2020 con cui è disposta l’applicazione della misura interdittiva antimafia ex art 91 d.lgs. 159/11 con contestuale diniego di iscrizione nella white list provinciale dell’impresa individuale -OMISSIS- -OMISSIS-; contro il Ministero dell’interno e la Prefettura di Reggio Calabria;
LA SEZIONE
Vista la nota prot. n. 0000132 dell’11 gennaio 2021 di trasmissione della relazione del 24 dicembre 2020 con la quale il Ministero dell’interno ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull’affare consultivo in oggetto;
esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Vincenzo Neri;
Premesso.
1. Il ricorrente, titolare dell’omonima ditta individuale, il 18 gennaio 2017 ha presentato istanza per ottenere l’iscrizione dell’impresa nell’elenco dei fornitori di beni, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa (c.d. white list) istituito presso la prefettura di Reggio Calabria. Con provvedimento prot. n. 0022726 del 27 febbraio 2020 oggetto di gravame, la Prefettura ha disposto l’applicazione della misura interdittiva antimafia ex art 91 d.lgs. 159/11; il provvedimento vale altresì quale diniego di iscrizione dell’impresa nella white list provinciale.
2. Il ricorso è affidato a due motivi con cui è dedotta, sotto diversi profili, l’illegittimità dell’interdittiva emessa dal Prefetto per violazione degli articoli 84 e 91 del d.lgs. 159/11, per eccesso di potere per essere la motivazione non idonea a disegnare un quadro indiziario univoco nel senso della pericolosità sociale dell’interessato, ma contenente singoli elementi di fatto risalenti nel tempo, disconnessi tra loro ed inidonei a chiarire il nesso tra la gestione dell’attività di impresa e il pericolo di infiltrazione mafiosa.
3. Il Ministero nella relazione, dopo avere evidenziato, tra l’altro, che l’attività svolta dall’impresa del ricorrente ha ad oggetto sociale “estrazione, fornitura e trasporto terra e materiali inerti, confezionamento, fornitura e trasporto di calcestruzzo e di bitume …” e che, pertanto, rientra tra le società “come maggiormente esposte a rischio di infiltrazione mafiosa”, ex articolo 1, comma 53, l. 190/12, ha concluso per l’infondatezza del ricorso.
Considerato.
4. Come esposto in narrativa, oggetto della controversia è l’interdittiva antimafia.
Giova ricordare che la legislazione antimafia persegue l’obiettivo di prevenire le infiltrazioni mafiose nell’economia legale pubblica e privata, ovvero nei rapporti dei privati con le pubbliche amministrazioni e nei rapporti tra i privati, con la finalità di tutelare la sicurezza pubblica e contrastare la criminalità organizzata di stampo mafioso. In altri termini, in una prospettiva anticipatoria della difesa della legalità, l’autorità amministrativa ha come obiettivo l’eliminazione dal circuito dell’economia legale dei soggetti economici infiltrati dalle associazioni mafiose che, in quanto tali, esercitano la libertà di iniziativa economica privata assicurata dall’articolo 41 Cost. in contrasto con l’utilità sociale, in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.
La Corte Cost, con la recente sentenza 26 marzo 2020 n. 57, ha affermato che quello che si chiede alle autorità amministrative non è di colpire pratiche e comportamenti direttamente lesivi degli interessi e dei valori costituzionali, compito naturale dell’autorità giudiziaria, bensì di prevenire tali evenienze, con un costante monitoraggio del fenomeno, la conoscenza delle sue specifiche manifestazioni, l’individuazione e la valutazione dei relativi sintomi, la rapidità di intervento. È in questa prospettiva anticipatoria della difesa della legalità che si colloca l’interdittiva antimafia, alla quale, infatti, viene riconosciuta dalla giurisprudenza natura «cautelare e preventiva» (Consiglio di Stato, adunanza plenaria, sentenza 6 aprile 2018, n. 3), comportando un giudizio prognostico circa probabili sbocchi illegali della infiltrazione mafiosa.
Il sistema della documentazione antimafia, previsto dal d.lgs. 159/11 (c.d. Codice antimafia), si fonda sulla distinzione tra le fondamentali misure di prevenzione amministrative: le comunicazioni antimafia (articoli 87-89) – richieste per l’esercizio di qualsivoglia attività dei privati soggetta ad autorizzazione, concessione, abilitazione, iscrizione ad albi, segnalazione certificata di inizio attività (c.d. s.c.i.a) e c.d. silenzio assenso – e le informazioni antimafia (articoli 90-95), operanti nei rapporti dei privati con le pubbliche amministrazioni (es. contratti pubblici, concessioni e finanziamenti).
In particolare, la comunicazione antimafia consiste nell’attestazione, a carico di determinati soggetti individuati dall’articolo 85 del d.lgs. 159/11, della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’articolo 67 (articolo 84, comma 2).
L’informazione antimafia, invece, rispetto alla comunicazione presenta un quid pluris individuabile nella valutazione discrezionale da parte del Prefetto del rischio di permeabilità mafiosa capace di condizionare le scelte e gli indirizzi dell’impresa. Infatti, l’autorità prefettizia esprime un motivato giudizio, in chiave preventiva, circa il pericolo di infiltrazione mafiosa all’interno dell’impresa, interdicendole l’inizio o la prosecuzione di qualsivoglia rapporto con l’Amministrazione o l’ottenimento di qualsiasi sussidio, beneficio economico o sovvenzione (“l’informazione antimafia consiste nell’attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’articolo 67, nonché, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 91, comma 6, nell’attestazione della sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate indicati nel comma 4”, articolo 84, comma 3).
Il pericolo d’infiltrazione mafiosa, infatti, fa venir meno l’affidabilità dell’imprenditore in ordine alla sua capacità di essere impermeabile ai tentativi della criminalità mafiosa di inserirsi nel tessuto economico e commerciale attraverso la sua impresa, di non cooperare né di prestarsi in alcun modo a disegni criminali.
Per la giurisprudenza amministrativa, l’interdittiva antimafia costituisce una misura preventiva con funzione di massima anticipazione della soglia di prevenzione, volta a colpire l’azione della criminalità organizzata impedendole di avere rapporti con la Pubblica amministrazione (cfr. Consiglio di Stato, sez. I, pareri 1 febbraio 2019 n. 337 e 21 settembre 2018 n. 2241).
Dal quadro giurisprudenziale delineato da questo Consiglio di Stato emergono i principi che l’Amministrazione deve tenere presenti in sede di emanazione delle interdittive, gli elementi oggettivi rilevanti nella materia ed i criteri per la motivazione di tali misure (in particolare, Consiglio di Stato, sez. III, 27 aprile 2021, n. 3379 ripercorre efficacemente i principi elaborati da consolidata giurisprudenza della III Sezione).
In ordine alla motivazione del provvedimento prefettizio, il Consiglio di Stato ha chiarito che occorre indicare gli elementi di fatto posti alla base della valutazione – elementi che possono essere desunti da provvedimenti giudiziari, atti di indagine o accertamenti svolti dalle Forze di Polizia in sede istruttoria – e che vanno esplicitate le ragioni in base alle quali, secondo la logica causale del «più probabile che non», sia ragionevole dedurre il rischio di infiltrazione mafiosa nell’impresa sulla base di elementi indiziari gravi, precisi e, se plurimi, anche concordanti.
La motivazione può essere eventualmente fatta per relationem, richiamando i provvedimenti giudiziari o gli atti delle stesse Forze di Polizia, laddove già essi contengano con chiarezza il percorso logico seguito dall’Amministrazione per formulare siffatto giudizio di pericolosità.
In ordine alla forma, è stato precisato che non si richiedono all’informativa antimafia formalismi linguistici, né formule sacramentali, essendo idoneo a sorreggere la valutazione discrezionale del provvedimento prefettizio anche un apparato motivazionale asciutto, scarno, finanche poco elaborato, dal quale, però, si evincono le ragioni sostanziali che giustificano la valutazione di permeabilità mafiosa dell’impresa sulla base degli elementi raccolti dagli organi competenti.
Nel tempo, attraverso una cospicua serie di pronunce del giudice amministrativo, è stata enucleata, solo a titolo esemplificativo, un’ampia casistica di tali elementi indiziari. Essi non costituiscono un numerus clausus e non consistono solo nelle circostanze desumibili dalle sentenze di condanna per particolari delitti e dalle misure di prevenzione antimafia, ma possono emergere da tutti gli altri provvedimenti giudiziari, qualunque sia il loro contenuto dispositivo. Rilevano inoltre i rapporti di parentela, amicizia, colleganza, frequentazione, collaborazione che, per intensità e durata, indichino un verosimile pericolo di condizionamento criminale.
Hanno un loro ruolo anche le vicende anomale nella formale struttura o nella concreta gestione dell’impresa, sintomatiche di cointeressenze o di condiscendenza dell’impresa e dei suoi soci, amministratori o gestori di fatto, con il fenomeno mafioso nelle sue più varie forme (per la completezza e chiarezza si segnala Cons. Stato, sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743).
Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 8883 del 2019, ha aggiunto che lo stesso legislatore – articolo 84, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011 – ha riconosciuto quale elemento fondante l’informazione antimafia la sussistenza di “eventuali tentativi” di infiltrazione mafiosa “tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate”. Eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa e tendenza di questi ad influenzare la gestione dell’impresa sono nozioni che delineano una fattispecie di pericolo, propria del diritto della prevenzione, finalizzato, appunto, a prevenire un evento che, per scelta del legislatore, non necessariamente è attuale, o inveratosi, ma anche solo potenziale, purché desumibile da elementi non meramente immaginari o aleatori.
La giurisprudenza ha osservato inoltre che gli elementi di fatto valorizzati dal provvedimento prefettizio devono essere valutati non atomisticamente, ma in chiave unitaria, secondo il canone inferenziale – che è alla base della teoria della prova indiziaria – quae singula non prosunt, collecta iuvant, al fine di valutare l’esistenza o meno di un pericolo di una permeabilità della struttura imprenditoriale a possibili tentativi di infiltrazione da parte della criminalità organizzata, “secondo la valutazione di tipo induttivo che la norma attributiva rimette al potere cautelare dell’amministrazione, il cui esercizio va scrutinato alla stregua della pacifica giurisprudenza … (ex multis, Consiglio di Stato, sez. III, sentenza n. 759/2019)” (così da ultimo Cons. Stato 1049/21; n. 4837/2020 e n. 4951/2020).
Sul punto, il giudice amministrativo (Cons. Stato, sez. III, 5 settembre 2019 n. 6105) ha precisato inoltre che il pericolo dell’infiltrazione mafiosa, quale emerge dalla legislazione antimafia, non può tuttavia sostanziarsi in un sospetto della pubblica amministrazione o in una vaga intuizione del giudice – evenienze queste che consegnerebbero l’istituto, pietra angolare del sistema normativo antimafia, ad un diritto della paura – ma deve ancorarsi a condotte sintomatiche e fondarsi su una serie di elementi fattuali.
Tra questi alcuni sono tipizzati dal legislatore (art. 84, comma 4, del d.lgs. n. 159 del 2011: si pensi, per tutti, ai cc.dd. delitti spia), mentre altri, “a condotta libera”, sono lasciati al prudente e motivato apprezzamento discrezionale dell’autorità amministrativa, che può desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa, ai sensi dell’articolo 91, comma 6, del d.lgs. 159/11, da provvedimenti di condanna non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali “unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata”.
Sempre con la sentenza da ultimo citata (n. 6105/19), il giudice amministrativo ha affermato che la legge italiana, nell’ancorare l’emissione del provvedimento interdittivo antimafia all’esistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, ha fatto ricorso, inevitabilmente, ad una clausola generale, aperta, che tuttavia non costituisce una “norma in bianco” né una delega all’arbitrio dell’autorità amministrativa imprevedibile per il cittadino e insindacabile per il giudice.
Si osserva altresì che “la funzione di “frontiera avanzata” svolta dall’informazione antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato impone, a servizio delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini.
E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve arrestarsi.
Negare però in radice che il Prefetto possa valutare elementi “atipici”, dai quali trarre il pericolo di infiltrazione mafiosa, vuol dire annullare qualsivoglia efficacia alla legislazione antimafia e neutralizzare, in nome di una astratta e aprioristica concezione di legalità formale, proprio la sua decisiva finalità preventiva di contrasto alla mafia, finalità che, per usare ancora le parole della Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza De Tommaso c. Italia, consiste anzitutto nel “tenere il passo con il mutare delle circostanze” secondo una nozione di legittimità sostanziale”.
Di recente, la Corte costituzionale, con la già citata sentenza n. 57/2020, ha ricordato che, a fronte della denuncia di un deficit di tassatività della fattispecie – specie nel caso di prognosi fondata su elementi non tipizzati ma “a condotta libera”, “lasciati al prudente e motivato apprezzamento discrezionale dell’autorità amministrativa” – un ausilio è stato fornito dall’opera di tipizzazione giurisprudenziale che, a partire dalla citata sentenza di questo Consiglio, 3 maggio 2016, n. 1743, ha individuato un “nucleo consolidato (…) di situazioni indiziarie, che sviluppano e completano le indicazioni legislative, costruendo un sistema di tassatività sostanziale.
Tra queste: i provvedimenti “sfavorevoli” del giudice penale; le sentenze di proscioglimento o di assoluzione, da cui pure emergano valutazioni del giudice competente su fatti che, pur non superando la soglia della punibilità penale, sono però sintomatici della contaminazione mafiosa; la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dal d.lgs. n. 159 del 2011; i rapporti di parentela, laddove assumano una intensità tale da far ritenere una conduzione familiare e una “regia collettiva” dell’impresa, nel quadro di usuali metodi mafiosi fondati sulla regia “clanica”; i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia; le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa e nella sua gestione, incluse le situazioni in cui la società compie attività di strumentale pubblico sostegno a iniziative, campagne antimafia, antiusura, antiriciclaggio, allo scopo di mostrare un “volto di legalità” idoneo a stornare sospetti o elementi sostanziosi sintomatici della contaminazione mafiosa; la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi “benefici”; l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità”.
Il Giudice delle leggi, dunque, ha confermato la legittimità delle disposizioni in materia di interdittiva antimafia, ritenendo che “il dato normativo, arricchito dell’articolato quadro giurisprudenziale, esclude la fondatezza dei dubbi di costituzionalità avanzati dal giudice rimettente in ordine alla ammissibilità, in sé, del ricorso allo strumento amministrativo e, quindi, alla legittimità della pur grave limitazione della libertà di impresa che ne deriva”.
Quanto alla verifica del nesso eziologico, è stato diffusamente spiegato dalla giurisprudenza che la regola del “più probabile che non” integra un criterio di giudizio di tipo empirico-induttivo che ben può essere integrato da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali (qual è quello mafioso) e che conferma l’estraneità delle informazioni antimafia alla logica penalistica della certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio. Se infatti si accogliesse una simile logica, risulterebbe vanificata la finalità anticipatoria dell’informazione antimafia che è quella di prevenire un grave pericolo e non anche quella di punire, nemmeno in modo indiretto, una condotta penalmente rilevante.
È stato osservato altresì che ciò che connota la regola probatoria del “più probabile che non” non è un diverso procedimento logico, ma la (minore) forza dimostrativa dell’inferenza logica, sicché, in definitiva, l’interprete è sempre vincolato a sviluppare un’argomentazione rigorosa sul piano metodologico, “ancorché sia sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale” (Cons. St., sez. III, 26 settembre 2017, n. 4483).
Passando ad altro aspetto, occorre rilevare che, sulle conseguenze dell’interdittiva antimafia del Prefetto, di recente, è intervenuta l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato (sentenza 26 ottobre 2020, n. 23) ribadendo che la misura comporta una particolare forma di incapacità giuridica del soggetto (persona fisica o giuridica) ad essere titolare di quelle situazioni giuridiche soggettive (diritti soggettivi, interessi legittimi) che, sul loro cd. “lato esterno”, determinino rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione (in precedenza anche Cons. Stato Ad. Plen. 6 aprile 2018 n. 3; Cons. Stato, sez. IV, 20 luglio 2016 n. 3247).
L’incapacità è descritta, in primo luogo, come “parziale, in quanto limitata ai rapporti giuridici con la pubblica amministrazione (di modo che può parlarsi di una sorta di “incapacità giuridica pubblica)”; in secondo luogo come “tendenzialmente temporanea, potendo venire meno per il tramite di un successivo provvedimento dell’autorità amministrativa competente”. L’incapacità “comporta – alla luce della disciplina speciale di cui al d. lgs. n. 159/2011 – l’insuscettività di avere rapporti, in particolare patrimoniali, con la pubblica amministrazione (nei sensi e limiti innanzi precisati) e la nullità dei negozi eventualmente posti in essere – in violazione dell’interdittiva – da o con il soggetto incapace”.
Osserva inoltre la Plenaria che l’interdittiva antimafia attiene ad una valutazione del soggetto in quanto tale, al di là del singolo rapporto intrattenuto con l’amministrazione pubblica, e che, ove sopravvenuta, riverbera le proprie conseguenze ab externo su tale rapporto. Non si tratta, dunque, del riconoscimento alla pubblica amministrazione di un potere autoritativo, unilateralmente e discrezionalmente (se non liberamente) esercitato onde influire sul rapporto instaurato con il privato, bensì dell’accertamento dell’insussistenza della capacità del soggetto (per pericolo di infiltrazioni mafiose) ad essere titolare di rapporti con la pubblica amministrazione. Benché intervenga in occasione di uno specifico rapporto con l’amministrazione, tale accertamento ha per oggetto fenomeni a questo esterni (e non afferenti al contenuto del provvedimento o del negozio giuridico), i quali coinvolgono, più in generale, la persona (fisica o giuridica) del privato, determinando una forma di incapacità del soggetto.
Quanto al sindacato giurisdizionale, è stato osservato che le complesse valutazioni prefettizie sono, sì, discrezionali, ma dalla forte componente tecnica e sono soggette a vaglio giurisdizionale pieno ed effettivo.
Il giudice amministrativo è chiamato a valutare la gravità del quadro indiziario, posto a base della valutazione prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, e il suo sindacato sull’esercizio del potere prefettizio, con un pieno accesso ai fatti rivelatori del pericolo, consente non solo di sindacare l’esistenza o meno di questi fatti, che devono essere gravi, precisi e concordanti, ma di apprezzare anche la ragionevolezza e la proporzionalità della prognosi inferenziale che l’autorità amministrativa trae da quei fatti secondo un criterio di tipo probabilistico.
Il sindacato per eccesso di potere sui vizi della motivazione del provvedimento amministrativo, anche quando questo rimandi per relationem agli atti istruttori, scongiura il rischio che la valutazione del Prefetto divenga, appunto, una “pena del sospetto” e che la portata della discrezionalità amministrativa in questa materia, necessaria per ponderare l’esistenza del pericolo infiltrativo in concreto, sconfini nel puro arbitrio (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 5 settembre 2019 n. 6105).
5. L’art. 1, comma 53, l. 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione) elenca le attività “maggiormente esposte a rischio di infiltrazione mafiosa” per le quali è richiesta l’iscrizione nell’elenco di cui al comma 52, la c.d. white list, anche per stipulare contratti (o subcontratti) relativi a servizi, lavori e forniture pubblici.
È opportuno precisare che il diniego di iscrizione nella white list provinciale presenta identica ratio delle comunicazioni interdittive antimafia, in quanto si tratta di misure volte alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della pubblica Amministrazione (sul punto, Consiglio di Stato, sez. I, parere 21 settembre 2018 n. 2241). Questo Consiglio ha stabilito che “le disposizioni relative all’iscrizione nella c.d. white list formano un corpo normativo unico con quelle dettate dal codice antimafia per le misure antimafia (comunicazioni ed informazioni), tanto che, come chiarisce l’art. 1, comma 52-bis, della l. n. 190 del 2012 introdotto dall’art. 29, comma 1, d.l. n. 90 del 2014 conv., con modificazioni, dalla l. n. 114 del 2014, “l’iscrizione nell’elenco di cui al comma 52 tiene luogo della comunicazione e dell’informazione antimafia liberatoria anche ai fini della stipula, approvazione o autorizzazione di contratti o subcontratti relativi ad attività diverse da quelle per la quali essa è stata disposta””. Ha altresì avvertito l’interprete che “l’unicità e l’organicità del sistema normativo antimafia vietano all’interprete una lettura atomistica, frammentaria e non coordinata dei due sottosistemi – quello della c.d. white list e quello delle comunicazioni antimafia – che, limitandosi ad un criterio formalisticamente letterale e di c.d. stretta interpretazione, renda incoerente o addirittura vanifichi il sistema dei controlli antimafia …” (Consiglio di Stato, sez. III, 24 gennaio 2018, n. 492).
In ordine al rapporto tra questi due sottosistemi, è pacifico in giurisprudenza che il diniego di iscrizione nella white list costituisce una determinazione conseguente e di natura vincolata rispetto alla misura interdittiva antimafia, tanto che non occorre la previa comunicazione del preavviso di rigetto previsto dall’articolo 10 bis, l. n. 241 del 1990; è altrettanto pacifico che l’iscrizione nella white list è ricollegata ad un’attività istruttoria della medesima tipologia e contenuto di quelle previste per le informative antimafia e, anche in questo caso, è stabilita la necessità di un aggiornamento periodico degli elementi che evidenziano tentativi di infiltrazione mafiosa, con conseguente sussistenza di un obbligo di provvedere, in capo all’Amministrazione, in ordine alla revisione di tali procedimenti (così, ad esempio, TA.R. Lazio, Roma, sez. I. 5 settembre 2016 n. 9548).
6.1. Venendo al merito del ricorso, con la prima censura parte ricorrente deduce la violazione degli articoli 84 e 91 d.lgs. 159/2011 poiché l’Autorità avrebbe omesso di individuare “indizi utili a concludere per la sussistenza della pericolosità sociale in capo al ricorrente essendo passati in rassegna fatti risalenti e comunque incapaci anche solo di sostenere il fondato sospetto sul rischio attuale di infiltrazione mafiosa” (pagina 6 del ricorso). In particolare, a dire del ricorrente, il Prefetto avrebbe considerato quali elementi indiziari vicende giudiziarie risalenti nel tempo (quali la condanna del 2004 per detenzione illegale di armi, la misura di prevenzione della sorveglianza speciale poi annullata in sede di appello), procedimenti penali conclusi con due assoluzioni con formula piena, due controlli di polizia nel corso dei quali il ricorrente è stato notato in compagnia di “soggetti controindicati”. Inoltre, sarebbero “oscuri e non chiariti i nessi inferenziali con l’attività imprenditoriale con il rischio rilevato nel 2020” (pagina 7 del ricorso).
6.2. Con la seconda censura, parte ricorrente, in primo luogo, afferma la mancanza di attualità nel giudizio compiuto dall’amministrazione (pagina 9) e, in secondo luogo, ribadisce sostanzialmente quanto già dedotto col primo motivo, esaminando singolarmente i fatti che compongono il quadro indiziario posto dal Prefetto a fondamento dell’interdittiva e ritenendo che quest’ultima si limiti ad una “rassegna fattuale di accadimenti risalenti”, senza alcuna connessione tra i dati storici, né alcuna spiegazione su come tali fatti possano influenzare il “presente” della ditta del ricorrente. Si sottolinea, ancora una volta, che il soggetto è sì pregiudicato, ma non per delitti di mafia, avendo ottenuto l’assoluzione con formula piena nei procedimenti penali per mafia.
7. La Sezione ritiene opportuno esaminare congiuntamente i motivi di censura, stante la loro stretta connessione.
Giova preliminarmente osservare che il ricorso, a giudizio della Sezione, opera un tentativo di esame analitico, e frazionato, dei singoli fatti emersi nell’istruttoria, tralasciando di considerare la visione d’insieme che sorregge, con una soglia certamente rispettosa del criterio del “più probabile che non”, la valutazione del rischio di infiltrazione nell’attività d’impresa.
Sotto altro profilo, poi, non può essere trascurato che la pluralità, l’univoca convergenza e la gravità dei fatti rendono irrilevante la circostanza che in alcuni casi taluni fatti si collocano in un momento temporale non recente.
Sotto diverso profilo ancora, quanto ai contatti con soggetti controindicati – definiti “sparuti controlli di Polizia” – è la frequentazione in sé a denotare, unitamente agli altri fatti gravemente indizianti, il rischio che l’imprenditore sia collocato in un contesto relazionale complessivamente sintomatico di un pericolo di infiltrazione della criminalità organizzata nell’impresa.
Non va poi sottaciuto il fatto che, oltre ai precedenti di Polizia e ai procedimenti penali, nell’interdittiva antimafia è sinteticamente esposto il contenuto delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, collaboratori che lo inseriscono tra gli organici ad una cosca mafiosa.
È ben vero che nel processo penale tali dichiarazioni non possono essere poste alla base del giudizio di colpevolezza se non si acquisiscono i c.d. riscontri esterni (articoli 192, 197 bis e 210 c.p.p.), ma, nel caso di specie, per le ragioni prima evidenziate – nonché per la diversità tra la logica del “più probabile che non “ e quella dell’“oltre ogni ragionevole dubbio” – tali dichiarazioni possono essere correttamente considerate, ad colorandum, unitamente a tutti gli altri elementi indiziari, di per sé già sufficienti, per il giudizio in ordine al tentativo di infiltrazione mafiosa.
8. Alla luce del quadro normativo e dei principi giurisprudenziali prima evidenziati, emerge in sintesi che nessuna delle censure del ricorrente è in grado di scalfire il quadro indiziario di infiltrazione mafiosa risultante dai plurimi elementi indicati e valorizzati nella motivazione del provvedimento impugnato né, tantomeno, la ragionevolezza del complessivo giudizio di permeabilità mafiosa espresso dalla prefettura.
In realtà, ad un’attenta e corretta lettura dell’interdittiva impugnata, risulta chiaramente che l’autorità amministrativa ha accertato una serie inconfutabile di gravi elementi sintomatico-presuntivi (nei dettagli: la condanna nel 2004 alla reclusione per detenzione illegale di armi, violazione delle norme sul controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi e ricettazione; l’avviso orale nel 1989; la misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno dal 2000 al 2002 del Tribunale sezione misure di prevenzione di Reggio Calabria, successivamente annullata in appello; l’arresto nel 1987, con soggetti della cosca di ‘ndrangheta alla quale era ritenuto contiguo, per associazione di tipo mafioso, detenzione e porto illegale di armi, seguito dall’assoluzione per non aver commesso il fatto; l’arresto nel 1997 per associazione di tipo mafioso, seguito dall’assoluzione per non aver commesso il fatto; le diverse dichiarazioni dei collaboratori di giustizia; l’essere stato più volte controllato con “soggetti controindicati”) che la Prefettura ha poi valutato nel loro complesso, con l’ampia discrezionalità che connota tale giudizio, traendo la conclusione che il ricorrente è inserito in un contesto di cointeressenze economico-imprenditoriali compromesso dall’infiltrazione della criminalità organizzata di tipo mafioso.
Il giudizio di tipo empirico-induttivo formulato del Prefetto – ai sensi del quale “il quadro informativo emerso in seguito alle attività svolte … evidenzia la sussistenza di elementi sintomatici di infiltrazione mafiosa … In particolare assumono rilevanza le vicende giudiziarie anzidette, che al di là dell’esito penale, delineano un soggetto vicino alla criminalità organizzata, come affermato dai collaboratori di giustizia … peraltro anche in caso di proscioglimento in sede penale gli accertamenti delle forze di polizia non perdono idoneità a fungere da elementi da apprezzare ai fini di un’informativa antimafia sfavorevole …” – è quindi coerente con le risultanze istruttorie, ben motivato e immune dal vizio di eccesso di potere.
9. Conclusivamente, per le considerazioni sino a qui espresse, il Consiglio esprime parere nel senso che il ricorso vada respinto.
P.Q.M.
esprime il parere che il ricorso debba essere respinto.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52, comma 2, D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare gli interessati.
L’ESTENSORE
Vincenzo Neri Mario
IL PRESIDENTE
Luigi Torsello
IL SEGRETARIO
Maria Grazia Salamone
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.