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Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime | Categoria: Diritto processuale civile, Inquinamento atmosferico, Risarcimento del danno Numero: 18810 | Data di udienza: 28 Gennaio 2021

INQUINAMENTO ATMOSFERICO – Immissione (ILVA) – Spandimento di polveri minerali che superino la normale tollerabilità ex art. 844 c.c. – Compressione del diritto di proprietà – Limitazione del godimento – Danno da deprezzamento commerciale dell’immobile – RISARCIMENTO DEL DANNO – Danno risarcibile – Fattispecie: accertamento del superamento della “normale tollerabilità” delle immissioni di polveri – DIRITTO PROCESSUALE CIVILE – Mezzi di prova – Poteri e limiti del giudice civile – Prove atipiche.


Provvedimento: SENTENZA
Sezione: 3^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 2 Luglio 2021
Numero: 18810
Data di udienza: 28 Gennaio 2021
Presidente: VIVALDI
Estensore: IANNELLO


Premassima

INQUINAMENTO ATMOSFERICO – Immissione (ILVA) – Spandimento di polveri minerali che superino la normale tollerabilità ex art. 844 c.c. – Compressione del diritto di proprietà – Limitazione del godimento – Danno da deprezzamento commerciale dell’immobile – RISARCIMENTO DEL DANNO – Danno risarcibile – Fattispecie: accertamento del superamento della “normale tollerabilità” delle immissioni di polveri – DIRITTO PROCESSUALE CIVILE – Mezzi di prova – Poteri e limiti del giudice civile – Prove atipiche.



Massima

CORTE DI CASSAZIONE CIVILE, Sez. 3^ 2 luglio 2021 (Ud.28/01/2021), Sentenza n.18810

INQUINAMENTO ATMOSFERICO – Immissione – Spandimento di polveri minerali che superino la normale tollerabilità ex art. 844 c.c. – Compressione del diritto di proprietà – Limitazione del godimento – Danno da deprezzamento commerciale dell’immobile – RISARCIMENTO DEL DANNO – Danno risarcibile – Fattispecie: accertamento del superamento della “normale tollerabilità” delle immissioni di polveri nel quartiere Tamburi di Taranto.

La compressione o la limitazione del diritto di proprietà o altro diritto reale, che siano causate dall’altrui fatto dannoso, sono suscettibili di valutazione economica non soltanto se ne derivi la necessità di una spesa ripristinatoria (cosiddetto danno emergente) o di perdite dei frutti della cosa (lucro cessante), ma anche se la compressione e la limitazione del godimento siano sopportate dal titolare con suo personale disagio o sacrificio. Pertanto se da un lato, la mancanza di un danno non patrimoniale conseguente alle immissioni intollerabili non esclude la configurabilità di un danno risarcibile di natura patrimoniale come conseguenza dell’illecito costituito dalle immissioni medesime; dall’altro, l’esclusa esistenza di danni materiali da deterioramento di strutture dell’edificio o di un danno da deprezzamento commerciale dell’immobile non comporta anche l’esclusione della possibilità di apprezzare un danno patrimoniale della diversa specie predetta (ossia da perdita di talune significative facoltà di godimento), economicamente valutabile, se non nel loro valore di scambio, quanto meno sul piano del valore d’uso. Nel caso di specie, l’illiceità derivava dal fatto generatore del danno arrecato a terzi – cioè lo spandimento di polveri minerali che superino la normale tollerabilità – sicché, il criterio del preuso, cui fa riferimento l’art. 844 c.c., comma 2, ha carattere assolutamente sussidiario e facoltativo ed il giudice non è, evidentemente, tenuto a farvi ricorso essendosi anche opportunamente evidenziato che, nell’ipotesi di superamento della normale tollerabilità di immissioni, l’azione è inquadrabile semplicemente nello schema generale dell’illecito aquiliano, ex art. 2043 c.c. e non trova ragione di applicazione, in radice, il criterio della priorità di un certo uso.

RISARCIMENTO DEL DANNO – Limiti della normale tollerabilità – Risarcimento danni di cui all’art. 2043 c.c..

In tema di immissioni, l’art. 844 c.c., impone, nei limiti della normale tollerabilità e dell’eventuale contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà, l’obbligo di sopportazione delle propagazioni inevitabili determinate dall’uso delle proprietà attuato nell’ambito delle norme generali e speciali che ne disciplinano l’esercizio. Al di fuori di tale ambito, si è in presenza di un’attività illegittima di fronte alla quale non ha ragion d’essere l’imposizione di un sacrificio, ancorché minimo, all’altrui diritto di proprietà o di godimento, e non sono quindi applicabili i criteri dettati dall’art. 844 c.c. di contemperamento di interessi contrastanti e di priorità dell’uso, ma, venendo in considerazione, in tale ipotesi, unicamente l’illiceità del fatto generatore del danno arrecato a terzi, si rientra nello schema dell’azione generale di risarcimento danni di cui all’art. 2043 c.c.

RISARCIMENTO DEL DANNO – Sistema di responsabilità civile – Fatto illecito contrattuale o extracontrattuale – Danno emergente e lucro cessante – Artt. 1223 e 2056 c.c..

Il sistema di responsabilità civile è fondato sulla distinzione, ex artt. 1223 e 2056 c.c., tra fatto illecito, contrattuale o extracontrattuale, produttivo del danno e il danno stesso, da identificare nelle conseguenze pregiudizievoli di quel fatto, nella loro duplice possibile fenomenologia di «danno emergente» (danno «interno», che incide sul patrimonio già esistente del soggetto) e di «lucro cessante» (che, di quel patrimonio, è proiezione dinamica ed esterna), come tale apprezzabile sia in ambito patrimoniale che non patrimoniale, perdita-danno emergente-sofferenza interiore, da un lato, e, dall’altro, mancato guadagno-lucro cessante-danno alla persona nei suoi aspetti esteriori/relazionali.

DIRITTO PROCESSUALE CIVILE – Mezzi di prova – Poteri e limiti del giudice civile – Prove atipiche.

La mancanza nell’ordinamento processuale vigente, di una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova comporta che il giudice possa legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove c.d. atipiche, purché idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico – riservato al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato – con le altre risultanze del processo e senza che ne derivi la violazione del principio di cui all’art. 101 c.p.c., atteso che, sebbene raccolte al di fuori del processo, il contraddittorio si instaura con la produzione in giudizio. Per tal motivo è stato in particolare precisato che il giudice civile, in assenza di divieti di legge, può formare il proprio convincimento anche in base a prove atipiche come quelle raccolte in un altro giudizio tra le stesse o tra altre parti, delle quali la sentenza ivi pronunciata costituisce documentazione, fornendo adeguata motivazione della relativa utilizzazione, senza che rilevi la divergenza delle regole, proprie di quel procedimento, relative all’ammissione e all’assunzione della prova.

(rigetta il ricorso sentenza della CORTE D’APPELLO DI LECCE, sez. dist. di Taranto, n. 45/2018 dep. 31/01/2018.) Pres. VIVALDI, Rel. IANNELLO, Ric. Ilva s.p.a. c. De Giorgio ed altri

 

In allegato nota a sentenza: Le conseguenze della lesione di diritti fra indennizzo e risarcimento nello svolgimento di attività inquinanti. Gisella Ferrara.


Allegato

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Titolo Completo

CORTE DI CASSAZIONE CIVILE, Sez. 3^ 02/07/2021 (Ud.28/01/2021), Sentenza n.18810

SENTENZA

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE,

composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

omissis

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 11757/2018 R.G. proposto da ILVA S.p.21. in amministrazione straordinaria, rappresentata e difesa dagli Avv.ti Giuseppe Lombardi, Prof. Lotario Benedetto Dittrich e Alberto Deasti, con domicilio eletto presso il loro studio in Roma, via del Plebiscito, n. 102;

– ricorrente –

contro

De Giorgio Salvatore e De Pasquale Anna; Mariano Salvatore e Alini Salvatrice; Comparato Pietro e Vitale Daniela; Peluso Michele e Valentini Elisabetta; Gallo Carmela; Urbano Antonio e Urbano Bernardo, tutti rappresentati difesi dall’avv. Massimo Moretti, con domicilio eletto in Roma, via Ovidio, n. 32, presso lo studio dell’Avv. Massimo Malena;

– controricorrenti –

e nei confronti di

Fago Carolina, Campo Eva, Campo Loredana, Campo Catia, Campo Sonia; Gallo Carmela; Urbano Antonio e Urbano Bernardo;

– intimati –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, n. 45/2018 depositata il 31 gennaio 2018.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28 gennaio 2021 dal Consigliere Emilio Iannello;

lette le conclusioni motivate del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Alessandro Pepe, formulate ai sensi e con le modalità previste dall’art. 23, comma 8-bis, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, con le quali si chiede il rigetto del ricorso

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, ha confermato la decisione di primo grado che, in parziale accoglimento della domanda proposta dagli odierni intimati o loro danti causa, aveva condannato l’ILVA S.p.A. al risarcimento dei danni da questi subiti per la “compressione del diritto di proprietà”, inteso come “diritto a godere in modo pieno ed esclusivo di un bene”, determinata dalla perenne esposizione degli immobili al fenomeno di immissioni di polveri minerali: danni equitativamente liquidati nella misura del 20% del valore dei beni.

2. Avverso tale decisione l’ILVA S.p.a. in amministrazione straordinaria ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi, cui hanno resistito solo alcuni degli intimati, depositando controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Si dà preliminarmente atto che per la decisione del presente ricorso, fissato per la trattazione in pubblica udienza, questa Corte ha proceduto in Camera di consiglio, senza l’intervento del procuratore generale e dei difensori delle parti, ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8-bis, convertito dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, non avendo alcuna delle parti né il Procuratore Generale fatto richiesta di trattazione orale.

2. Con il primo motivo la ricorrente denuncia “violazione dell’art. 2697 c.c., sull’onere della prova, dei principi in materia di efficacia della prove civili atipiche, dell’art. 2729 c.c., sull’ammissibilità delle presunzioni semplici (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), nonché omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) in relazione all’accertamento del superamento della “normale tollerabilità” delle immissioni di polveri nel quartiere Tamburi di Taranto; violazione della regola del giusto processo regolato dalla legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in relazione all’art. 111 Cost.)”.

2.1. La Corte di merito ha ritenuto, conformemente al primo giudice, che il superamento della «normale tollerabilità» ex art. 844 c.c., delle immissioni di polveri minerali provenienti dallo stabilimento siderurgico fosse comprovato: «dall’emergenza, dalle pronunce penali, di una evidente, continua massiva propagazione di polveri minerali” provenienti dallo stabilimento siderurgico; “dalla espressamente evidenziata realizzazione di barriere frangivento e nuove colline ecologiche (cfr. perizia di parte ILVA); dalla accurata descrizione dei luoghi compiuta dal c.t.u.; dai recenti provvedimenti legislativi del giugno, agosto e dicembre 2013 finalizzati proprio alla salvaguardia della tutela dell’ambiente (e, nel contempo, dei livelli occupazionali); dalla notevole entità, evidenziata dalla stessa appellante ILVA, del fenomeno di spandimento di polveri minerali, invero “… noto, in tutta la sua gravità, già dagli anni ‘70 e ‘80… (appello, pag. 45)”; dal fatto inoltre che “persino il decreto del Ministero dello Sviluppo Economico inerente (al)la procedura di amministrazione straordinaria della Soc. ILVA del 21/1/2015… cita, nelle premesse, norme che, implicitamente ma inequivocabilmente, presuppongono la raggiunta consapevolezza della grave situazione ambientale nella città di Taranto ricollegata all’attività dello stabilimento siderurgico”».

2.2. La ricorrente oppone, sul punto, i seguenti argomenti:

a) gli accertamenti contenuti nelle sentenze penali menzionate non sono idonei a fornire la prova del superamento della normale tollerabilità delle immissioni (ed averli utilizzati comporta, secondo la ricorrente, violazione della regola sull’onere della prova, lesione del diritto ad un giusto processo, motivazione meramente apparente, violazione dell’art. 2729 c.c.) perché:

– tali sentenze si riferiscono alla situazione ambientale presente in Taranto negli anni 1999-2002, e sono state emesse sulla base di accertamenti tecnici compiuti nel 1999 e di sopralluoghi effettuati nel 2001, laddove, nel presente giudizio, si trattava di valutare la tollerabilità delle immissioni con riferimento alla data di proposizione della domanda (dicembre 2008); né può validamente argomentarsi una prosecuzione nel tempo del fenomeno dalla realizzazione di barriere frangivento o di colline ecologiche, da cui potrebbe piuttosto logicamente presumersi soltanto una diminuzione delle immissioni;

– tali accertamenti non hanno efficacia di giudicato nel presente giudizio, poiché né ILVA né gli attori sono state parti di quei procedimenti penali;

– l’efficacia di prova atipica attribuibile a tali sentenze non è di per sé sufficiente a giustificare il convincimento espresso in mancanza della necessaria correlazione con gli altri elementi acquisiti al giudizio;

b) non sono stati esaminati i seguenti fatti e documenti, idonei, in tesi, a dimostrare che ILVA ha sempre esercitato la propria attività produttiva in conformità alla normativa vigente e senza superare il limite della normale tollerabilità:

– ILVA è stata sottoposta alla procedura di controllo per il rilascio dell’A.I.A. (Autorizzazione Integrata Ambientale) molti anni prima che gli attori instaurassero il giudizio;

– tale autorizzazione è stata rilasciata in data 4/8/2011 ed è stata sottoposta ad una procedura di riesame, positivamente conclusosi il 22/10/2012;

– da numerosi provvedimenti giurisdizionali prodotti si evince che ILVA ha legittimamente svolto la propria attività contenendo le immissioni nel limite della normale tollerabilità;

– ILVA ha ottenuto la certificazione IGQ A25 E06 secondo la norma UNI EN ISO 14001 per il proprio stabilimento di Taranto;

– il D.P.R. 6 dicembre 2013, aveva sancito la validità definitiva dell’A.I.A. 4 agosto 2011, riconoscendo che ILVA è un'”azienda conforme alle norme UNI EN ISO 14001: 2004 per le seguenti attività EA: 17. “Tutte le attività che concernono alla produzione di acciaio da ciclo integrale e attività connesse, ivi compresi gestione di parchi minerali, agglomerazione, cokeria, altoforno, acciaieria, laminazione, tubifici, zincatura e manutenzione impianti”.

3. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia “violazione dell’art. 2697 c.c., sull’onere della prova, dei principi in materia di efficacia della prove civili atipiche, dell’art. 2729 c.c., sull’ammissibilità delle presunzioni semplici, dei limiti di applicazione del “fatto notorio” (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), nonché omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio in relazione all’accertamento della supposta “compressione” del diritto di proprietà (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5); violazione della regola del giusto processo regolato dalla legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in relazione all’art. 111 Cost.)”.

3.1. La questione risulta affrontata in sentenza, alle pagg. 11-12, nell’esame del quarto motivo d’appello, con il quale per l’appunto l’appellante ILVA deduceva la mancata dimostrazione dell’esistenza della descritta compressione del diritto di proprietà.

La Corte territoriale ha rigettato tale doglianza rilevando che: “dalle sentenze penali – culminate nella cennata pronuncia della S.C. del 2005 – risulta accertato, al di là di ogni ragionevole dubbio, lo spandimento sistematico di polveri minerali che si depositano (e continuano a depositarsi) su abitazioni e strade del quartiere Tamburi; in ordine ai disagi provocati da tale fenomeno si mostrano ben significative le testimonianze menzionate dal Tribunale e riferentesi a sentenza penale del 2002… (deposizioni Guarino, Intini, Di Bello);… il fenomeno de quo non ha mai avuto soluzione definitiva”.

Ha quindi da ciò tratto ragionevole “prova per presunzioni dell’allegata limitazione nel godimento delle proprie abitazioni da parte degli appellati, concretata da indubbia – e peraltro assolutamente “notoria” – limitazione alla possibilità del necessario arieggiamento degli appartamenti stante il penetrare in essi di polveri; accumulo – decisamente pur esso “notorio” – delle stesse su balconi, davanzali ed oggetti, circostanze tutte costituenti indubbio evento lesivo del diritto di proprietà, in quanto tale determinante la fondatezza di domanda risarcitoria”.

Ha poi soggiunto che “le deduzioni dell’appellante in ordine a nullità ed inutilizzabilità della c.t.u. per quanto attiene (al) metodo seguito dall’ausiliare nella valutazione della composizione chimica delle polveri prelevate e nel sistema stesso di relativo campionamento – pur non tradottesi in formale motivo d’appello – si mostrano tardive e comunque infondate, in quanto ogni operazione dell’ausiliare appare avvenuta nel pieno contraddittorio delle parti e con la presenza dei relativi consulenti”.

3.2. La ricorrente lamenta (v. ricorso pag. 31, p. 7) che, con tale argomentare, la Corte ha violato: l’art. 2697 c.c. (avendo riconosciuto un danno che non è mai stato accertato in corso di causa); l’art. 2729 c.c., in tema di prova per presunzioni, e i principi in materia di prove civili atipiche, quali sono le dichiarazioni testimoniali rese in altro giudizio, non avendo la Corte posto tali dichiarazioni in relazione con tutti gli altri elementi acquisiti al giudizio.

A tale quadro censorio sono ricondotti i seguenti rilievi critici (v. ricorso pagg. 24-31, §§ 4 – 6):

a) gli accertamenti penali sono inidonei a fornire la prova degli specifici pregiudizi che sarebbero derivati agli attori, dal momento che il giudice penale, nel pronunciare condanna generica al risarcimento del danno, non è tenuto a rispettare alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza del danno risarcibile;

b) erroneamente la Corte di merito ha ritenuto dimostrate le allegazioni degli attori sulla base di semplici presunzioni fondate su testimonianze rese in altro procedimento penale, cui nessuna delle parti ha partecipato, relative ad altre situazioni, comunque risalenti ad oltre dieci anni prima;

c) nel far riferimento alla nozione di fatto notorio la Corte ha violato i relativi limiti di applicazione;

d) non sono stati considerati i seguenti fatti (in tesi, decisivi) di segno contrario:

– come accertato dal giudice di primo grado, il fenomeno dello spolverio non è stato a tal punto eccezionale da determinare un maggior degrado delle parti comuni dello stabile condominiale o da richiedere una più intensa attività di manutenzione;

– quando gli attori hanno acquistato gli immobili, ILVA produceva già da vent’anni e la condizione dei luoghi era, all’epoca, molto peggiore;

– come accertato dal c.t.u., gli immobili non hanno patito alcun deprezzamento e, anzi, le quotazioni del quartiere Tamburi hanno persino superato quelle delle altre zone in comparazione;

– nell’area industriale in cui insistono gli immobili sono presenti altri importanti stabilimenti industriali (Cementir e raffineria Agip), più prossimi all’edificio condominiale di quanto non lo sia lo stabilimento ILVA;

e) la c.t.u. nulla ha accertato in relazione alle immissioni avvenute dopo gli accertamenti risalenti al 2002;

f) la c.t.u. è affetta da tali e tante imprecisioni ed errate valutazioni da determinarne la nullità ed inutilizzabilità ed erroneamente ed immotivatamente la Corte d’appello ha ritenuto tale contestazione tardiva e comunque infondata.

4. I motivi suesposti si riferiscono a punti distinti ma contigui dell’accertamento contenuto in sentenza (rispettivamente, da un lato, l’essere le immissioni di entità eccedente la normale tollerabilità e, dall’altro, la sussistenza di conseguenti limitazioni pregiudizievoli al diritto di proprietà).

Le censure al riguardo proposte sono di egual tenore, appuntandosi sostanzialmente, alla stregua di analoghi rilievi critici, sul ragionamento probatorio che sorregge in sentenza l’uno e l’altro convincimento.

Il congiunto esame, che tale comune essenza giustifica, le espone ad identici rilievi di inammissibilità, la cui ragione di fondo sta nel porre esse, tutte, fondamentalmente, questioni di merito legate alla valutazione degli elementi istruttori, come tali sottratte al sindacato di questa Corte di legittimità.

Al di là del formale richiamo, contenuto nell’epigrafe dei motivi d’impugnazione in esame, al vizio di violazione e falsa applicazione di legge, l’ubi consistam delle censure deve, infatti, piuttosto individuarsi nella negata congruità dell’interpretazione fornita dalla Corte territoriale del contenuto rappresentativo degli elementi di prova complessivamente acquisiti e dei fatti di causa.

Si tratta, come appare manifesto, di argomentazioni critiche dirette a censurare la ricognizione della fattispecie concreta, di necessità mediata dalla contestata valutazione delle risultanze probatorie di causa; e pertanto di una tipica censura diretta a denunciare il vizio di motivazione in cui sarebbe incorso il provvedimento impugnato.

4.1. Più in particolare, la censura di violazione della regola sull’onere della prova non è dedotta nei termini in cui può esserlo secondo Cass. Sez. U. 05/08/2016, n. 16598 (principio affermato in motivazione, pag. 33, § 14, secondo cui “la violazione dell’art. 2697 c.c., si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni”; v. anche Cass. 09/10/2017, n. 23594; Cass. 17/06/2013, n. 15107).

La contestazione, com’è evidente, attiene piuttosto al merito della valutazione operata circa l’assolvimento di tale onere e come tale impinge nel diverso piano della sufficienza e della intrinseca coerenza della motivazione adottata, non certo in quello del rispetto delle regole di riparto dell’onere probatorio.

4.2. Fuori segno è certamente il rilievo che le sentenze penali richiamate non possono spiegare nel giudizio civile vincolo di giudicato, non essendo questa la ragione per cui le stesse sono evocate in sentenza, bensì quella di trarne meri elementi di giudizio suscettibili di autonoma valutazione.

4.3. Generico e inconferente si appalesa poi l’argomento legato alla rilevanza di mera prova atipica attribuibile agli accertamenti contenuti in dette sentenze.

E’ consolidato nella giurisprudenza della Suprema Corte l’orientamento secondo cui la mancanza, nell’ordinamento processuale vigente, di una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova comporta che il giudice possa legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove c.d. atipiche, purché idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico – riservato al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato – con le altre risultanze del processo (v. ex multis Cass. 26/06/2015, n. 13229; 25/03/2004, n. 5965; 26/09/2000, n. 12763) e senza che ne derivi la violazione del principio di cui all’art. 101 c.p.c., atteso che, sebbene raccolte al di fuori del processo, il contraddittorio si instaura con la produzione in giudizio (Cass. 01/09/2015, n. 17392).

Per tal motivo è stato in particolare precisato che il giudice civile, in assenza di divieti di legge, può formare il proprio convincimento anche in base a prove atipiche come quelle raccolte in un altro giudizio tra le stesse o tra altre parti, delle quali la sentenza ivi pronunciata costituisce documentazione, fornendo adeguata motivazione della relativa utilizzazione, senza che rilevi la divergenza delle regole, proprie di quel procedimento, relative all’ammissione e all’assunzione della prova (Cass. 20/01/2015, n. 840; v. anche, in tal senso, da ultimo, Cass. 13/08/2018, n. 20719; 25/06/2019, n. 16916).

Né è ricavabile dall’ordinamento una regola che vieti di fondare il convincimento del giudice esclusivamente su una prova atipica o che, per converso, come sembra postulare la ricorrente, attribuisca a questa una efficacia probatoria per così dire dimidiata o condizionata dall’esistenza di altre convergenti prove tipiche.

Il richiamo all’art. 116 c.p.c., comma 2, da taluni effettuato per attribuire un minor valore probatorio alle prove atipiche, non appare del tutto illuminante.

Invero, non è affatto detto che, con tale disposizione (cui rimanda l’art. 310 c.p.c., comma 3, per la valutazione delle prove raccolte in altro giudizio), il legislatore abbia codificato un’ipotesi di diverso ed inferiore valore probatorio rispetto a quello normalmente riconosciuto agli indizi.

Dire che il giudice trae argomenti di prova da un fatto significa inequivocabilmente che quel fatto è utilizzabile a fini probatori.

Se, dunque, il comportamento processuale delle parti (ossia il fatto specificamente considerato dall’art. 116 c.p.c., comma 2) normalmente per sé solo si rivela non sufficiente a fondare il convincimento non dipende da una aprioristica classificazione ma soltanto dal fatto che non è in grado di fondare un’inferenza presuntiva che abbia i crismi previsti dall’art. 2729 c.c. (gravità, precisione e concordanza degli indizi).

In realtà il giudizio di validità del ragionamento probatorio fondato su prove atipiche non soggiace a regole diverse da quelle che devono applicarsi ove quel ragionamento sia fondato su prove tipiche.

L’atipicità a ben vedere riguarda la fonte dell’elemento di prova; ma una volta che si superino i diversi eventuali profili che attengono alla possibilità di dare ingresso alla fonte di prova nel processo civile (es. autenticità della scrittura; divieto di scienza privata del giudice; prova illecita; prova sottratta al contraddittorio delle parti), la valutazione del suo contenuto obbedisce alle medesime regole.

L’ordinamento consente, infatti, che l’accertamento dei fatti possa fondarsi su presunzioni semplici (sempre che si rivelino gravi, precise e concordanti: art. 2729 c.c.); in tal modo, dunque, la legge si preoccupa soltanto di prevedere le modalità del ragionamento inferenziale idoneo a fondare l’accertamento dei fatti, mentre non tipizza le fonti (vale a dire, gli indizi) dell’inferenza presuntiva.

Ne deriva, da un lato, che proprio l’atipicità delle fonti dell’inferenza presuntiva diventa un solido riscontro positivo a favore dell’ammissibilità del ricorso alle c.d. prove atipiche nel processo civile, dall’altro, che la valutazione sulla correttezza del ragionamento inferenziale fondato su prove atipiche non potrà essere condotta sulla base di inesistenti aprioristici impedimenti al loro utilizzo, quanto piuttosto in ragione dell’osservanza o meno delle regole che, ai sensi dell’art. 2729 c.c., debbono guidarlo.

4.4. Le censure che su tale ultimo piano vengono pure proposte in ricorso sono però parimenti inammissibili.

La critica al ragionamento presuntivo seguito dalla Corte di merito, sotto il profilo della dedotta violazione dell’art. 2729 c.c., non rispetta i criteri e i requisiti al riguardo indicati di recente, sulla falsariga di giurisprudenza precedente, da Cass. Sez. U. 24/01/2018, n. 1785 nei termini seguenti “la denuncia di violazione o di falsa applicazione della norma di diritto di cui all’art. 2729 c.c., si può prospettare (come altrove venne sostenuto: Cass. n. 17457 del 2007; successivamente. Cass. n. 17535 del 2008; di recente: Cass. n. 19485 del 2017) sotto i seguenti aspetti:

-aa) il giudice di merito (ma è caso scolastico) contraddice il disposto dell’art. 2729 c.c., comma 1, affermando (e, quindi, facendone poi concreta applicazione) che un ragionamento presuntivo può basarsi anche su presunzioni (rectius: fatti), che non siano gravi, precise e concordanti: questo è un errore di diretta violazione della norma;

-bb) il giudice di merito fonda la presunzione su un fatto storico privo di gravità o di precisione o di concordanza ai fini della inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota, così sussumendo sotto la norma dell’art. 2729 c.c., fatti privi di quelle caratteristiche e, quindi, incorrendo in una sua falsa applicazione, giacché dichiara di applicarla assumendola esattamente nel suo contenuto astratto, ma lo fa con riguardo ad una fattispecie concreta che non si presta ad essere ricondotta sotto tale contenuto, cioè sotto la specie della gravità, precisione e concordanza.

«Con riferimento a tale secondo profilo, si rileva che, com’è noto, la gravità allude ad un concetto logico, generale o speciale (cioè rispondente a principi di logica in genere oppure a principi di una qualche logica particolare, per esempio di natura scientifica o propria di una qualche lex artis), che esprime nient’altro – almeno secondo l’opinione preferibile – che la presunzione si deve fondare su un ragionamento probabilistico, per cui dato un fatto A noto è probabile che si sia verificato il fatto B (non è condivisibile, invece, l’idea che vorrebbe sotteso alla “gravità” che l’inferenza presuntiva sia “certa”).

«La precisione esprime l’idea che l’inferenza probabilistica conduca alla conoscenza del fatto ignoto con un grado di probabilità che si indirizzi solo verso il fatto B e non lasci spazio, sempre al livello della probabilità, ad un indirizzarsi in senso diverso, cioè anche verso un altro o altri fatti.

«La concordanza esprime – almeno secondo l’opinione preferibile – un requisito del ragionamento presuntivo (cioè di una applicazione “non falsa” dell’art. 2729 c.c.), che non lo concerne in modo assoluto, cioè di per sé considerato, come invece gli altri due elementi, bensì in modo relativo, cioè nel quadro della possibile sussistenza di altri elementi probatori considerati, volendo esprimere l’idea che, in tanto la presunzione è ammissibile, in quanto indirizzi alla conoscenza del fatto in modo concordante con altri elementi probatori, che, peraltro, possono essere o meno anche altri ragionamenti presuntivi.

«Ebbene, quando il giudice di merito sussume erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione fatti concreti accertati che non sono invece rispondenti a quei caratteri, si deve senz’altro ritenere che il suo ragionamento sia censurabile alla stregua dell’art. 360 c.p.c., n. 3 e compete, dunque, alla Corte di cassazione controllare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di proclamazione astratta dal giudice di merito, lo sia stata anche a livello di applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta.

«Essa può, pertanto, essere investita ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, dell’errore in cui il giudice di merito sia incorso nel considerare grave una presunzione (cioè un’inferenza) che non lo sia o sotto un profilo logico generale o sotto il particolare profilo logico (interno ad una certa disciplina) entro il quale essa si collochi. La stessa cosa dicasi per il controllo della precisione e per quello della concordanza.

«In base alle considerazioni svolte la deduzione del vizio di falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1, suppone allora un’attività argomentativa che si deve estrinsecare nella puntuale indicazione, enunciazione e spiegazione che il ragionamento presuntivo compiuto dal giudice di merito – assunto, però, come tale e, quindi, in facto per come è stato enunciato – risulti irrispettoso del paradigma della gravità, o di quello della precisione o di quello della concordanza.

«Occorre, dunque, una preliminare attività di individuazione del ragionamento asseritamente irrispettoso di uno o di tutti tali paradigmi compiuto dal giudice di merito e, quindi, è su di esso che la critica di c.d. falsa applicazione si deve innestare ed essa postula l’evidenziare in modo chiaro che quel ragionamento è stato erroneamente sussunto sotto uno o sotto tutti quei paradigmi.

«Di contro la critica al ragionamento presuntivo svolto da giudice di merito sfugge al concetto di falsa applicazione quando invece si concreta o in un’attività diretta ad evidenziare soltanto che le circostanze fattuali in relazione alle quali il ragionamento presuntivo è stato enunciato dal giudice di merito, avrebbero dovuto essere ricostruite in altro modo (sicché il giudice di merito è partito in definitiva da un presupposto fattuale erroneo nell’applicare il ragionamento presuntivo), o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica semplicemente diversa da quella che si dice applicata dal giudice di merito, senza spiegare e dimostrare perché quella da costui applicata abbia esorbitato dai paradigmi dell’art. 2729, comma 1 (e ciò tanto se questa prospettazione sia basata sulle stesse circostanze fattuali su cui si è basato il giudice di merito, quanto se basata altresì su altre circostanze fattuali).

«In questi casi la critica si risolve in realtà in un diverso apprezzamento della ricostruzione della quaestio facti e, in definitiva, nella prospettazione di una diversa ricostruzione della stessa quaestio e ci si pone su un terreno che non è quello dell’art. 360 c.p.c., n. 3 (falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1), ma è quello che sollecita un controllo sulla motivazione del giudice relativa alla ricostruzione della quaestio facti.

«Terreno che, come le Sezioni Unite (Cass. Sez. U. nn. 8053 e 8054 del 2014) hanno avuto modo di precisare, vigente dell’art. 360 c.p.c., nuovo n. 5, è percorribile solo qualora si denunci che il giudice di merito ha omesso l’esame di un fatto principale o secondario, che avrebbe avuto carattere decisivo per una diversa individuazione del modo di essere della detta quaestio ai fini della decisione, occorrendo, peraltro, che tale fatto venga indicato in modo chiaro e non potendo esso individuarsi solo nell’omessa valutazione di una risultanza istruttoria».

Ebbene, nella specie, l’illustrazione del motivo non prospetta la falsa applicazione dell’art. 2729, comma 1, nei termini suindicati, ma si risolve talora solo nella prospettazione di pretese inferenze probabilistiche diverse sulla base della evocazione di emergenze istruttorie e talora nella prospettazione di una diversa ricostruzione delle quaestiones facti ripercorse in relazione ad altri elementi istruttori che non sarebbero stati adeguatamente considerati. Ne segue che il motivo non presenta le caratteristiche della denuncia di un vizio di falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1 e nemmeno, pur riconvertito alla stregua di Cass., Sez. Un., n. 17931 del 2013, quelle di un motivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

4.5. Risulta invero altrettanto palese la lontananza delle critiche dal paradigma censorio, pure formalmente evocato, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Varrà in proposito rammentare che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella vigente formulazione (introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012), applicabile ratione temporis, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. U. 07/04/204, nn. 8053 e 8054).

Nella specie, le censure mancano di evidenziare un “fatto storico” e decisivo, il cui esame sia stato omesso, risolvendosi piuttosto nella evocazione di meri elementi istruttori o argomenti difensivi o comunque di fatti secondari il cui carattere decisivo è del tutto apoditticamente postulato e non è comunque immediatamente apprezzabile.

4.6. Tali limiti al sindacato sulla motivazione impediscono a maggior ragione di dare ingresso, nella specie, alle doglianze svolte con riferimento alla c.t.u..

Mette conto peraltro al riguardo rimarcare che, come rilevato dalla stessa ricorrente, la valutazione della Corte recepisce sul punto una valutazione del c.t.u. (il che, com’è noto, esaurisce i compiti motivazionali del giudice del merito, salvo che non siano contro la stessa proposte tempestive e specifiche critiche, non meramente oppositive, nella specie nemmeno dedotte: v. ex multis Cass. 19/06/2015, n. 12703; 02/02/2015, n. 1815); a fronte di tale dato la ricorrente si limita a richiamare il diverso opinamento del c.t.p., omettendo però di indicare se lo stesso sia stato effettivamente e immotivatamente negletto dal c.t.u. per il che avrebbe dovuto essere trascritta almeno la parte della relazione di consulenza tecnica d’ufficio a tale aspetto dedicata.

Anche, dunque, con riferimento al previgente testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non avrebbe potuto configurarsi un vizio di motivazione sindacabile in cassazione.

Secondo incontrastato indirizzo, infatti, il giudice di merito, quando aderisce alle conclusioni del consulente tecnico che nella relazione abbia tenuto conto, replicandovi, dei rilievi dei consulenti di parte, esaurisce l’obbligo della motivazione con l’indicazione delle fonti del suo convincimento, e non deve necessariamente soffermarsi anche sulle contrarie allegazioni dei consulenti tecnici di parte, che, sebbene non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perché incompatibili, senza che possa configurarsi vizio di motivazione, in quanto le critiche di parte, che tendono al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico, si risolvono in mere argomentazioni difensive (v. ex multis Cass. 19/06/2015, n. 12703; 02/02/2015, n. 1815).

5. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia «violazione dell’art. 2043 c.c. e dei principi in materia di risarcimento del danno extracontrattuale (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) in relazione al riconoscimento di una “compressione del diritto di proprietà come diritto a godere in modo pieno ed esclusivo di un bene” risarcibile autonomamente a prescindere dalla sussistenza di un danno patrimoniale (materiale e/o da deprezzamento commerciale) o non patrimoniale (alla salute e/o morale e/o esistenziale); nullità della sentenza per motivazione contraddittoria e illogica con conseguente violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4)».

5.1. Il passaggio argomentativo attinto dal motivo è quello stesso già sopra ricordato al § 2.1. della parte motiva della presente sentenza: l’affermazione, cioè, espressa a conferma della decisione di primo grado, della provata sussistenza di una «limitazione nel godimento delle proprie abitazioni da parte degli appellati, concretata da indubbia – e peraltro assolutamente “notoria” – limitazione alla possibilità del necessario arieggiamento degli appartamenti stante il penetrare in essi di polveri…” tale da costituire “indubbio evento lesivo del diritto di proprietà, in quanto tale determinante la fondatezza di domanda risarcitoria».

5.2. Lamenta la ricorrente che, così decidendo, i giudici di merito «hanno dunque riconosciuto la risarcibilità tout court, ex art. 2043 c.c., di una asserita compressione del diritto dominicale degli attori a prescindere dalla sussistenza (la quale è stata, anzi, esclusa) sia di danni materiali agli edifici, sia di danni da deprezzamento commerciale, sia di danni alla salute o morali e esistenziali, così finendo, in buona sostanza, per riconoscere la risarcibilità di meri fastidi o disagi non degni di assurgere ad un vero danno patrimoniale o non patrimoniale».

Con ciò, secondo la ricorrente, la Corte d’appello sarebbe incorsa in «una grave violazione dei principi in materia di responsabilità extracontrattuale, in quanto, come costantemente sostenuto dalla giurisprudenza anche di legittimità, ai fini del risarcimento del danno da immissioni intollerabili è necessaria la prova della sussistenza di un effettivo danno alla salute (o quantomeno, di un effettivo danno morale o esistenziale, che deve essere ovviamente specificamente allegato e provato), di un danno materiale o da deprezzamento commerciale».

Osserva che, di «compressione» o «limitazione» del diritto di proprietà, parlano, invero, le pronunce giurisprudenziali in materia di riconoscibilità di un indennizzo: materia che però – rimarca – esula dall’oggetto del presente giudizio, avendo gli attori avanzato pretesa risarcitoria ex art. 2043 c.c. e non indennitaria.

Il riconoscimento di detto danno esporrebbe infine la sentenza, secondo la ricorrente, a rilievo di nullità per violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, in quanto basato su di un mero e supposto «fatto notorio» e a prescindere dalle risultanze processuali e dai limiti di legge.

6. Il motivo è infondato.

La Corte d’appello, come s’è detto, ha riconosciuto, conformemente al primo giudice, l’esistenza di un danno da compressione del diritto dominicale, concretato dalla limitazione delle possibilità di godimento degli immobili, in ragione, segnatamente, della limitazione delle possibilità di arieggiamento degli appartamenti stante il penetrare in essi di polveri…».

Appare chiaro, anche considerato il parametro utilizzato per la liquidazione di tale danno (una percentuale del valore degli immobili), che quello considerato sia un pregiudizio di carattere patrimoniale, rappresentato per l’appunto dalla parziale ma significativa perdita (danno emergente) di facoltà di godimento dell’immobile, ossia di uno dei contenuti tipici del diritto dominicale.

Sul piano concettuale nulla esclude che un tale pregiudizio possa determinarsi ed essere apprezzato a fini risarcitori quale conseguenza di immissioni intollerabili.

Il sistema di responsabilità civile – giova rammentare – è fondato sulla distinzione, ex artt. 1223 e 2056 c.c., tra fatto illecito, contrattuale o extracontrattuale, produttivo del danno e il danno stesso, da identificare nelle conseguenze pregiudizievoli di quel fatto, nella loro duplice possibile fenomenologia di «danno emergente» (danno «interno», che incide sul patrimonio già esistente del soggetto) e di «lucro cessante» (che, di quel patrimonio, è proiezione dinamica ed esterna), come tale apprezzabile sia in ambito patrimoniale che non patrimoniale (v. Cass. 17/01/2018, n. 901, in motivazione, pag. 27): perdita-danno emergente-sofferenza interiore, da un lato, e, dall’altro, mancato guadagno-lucro cessante-danno alla persona nei suoi aspetti esteriori/relazionali.

In ambito di responsabilità aquiliana ciò è definitivamente chiarito dalle note sentenze di Cass. Sez. U. 11/11/2008, nn. 26972-5, che, con riferimento al danno non patrimoniale, ma alla stregua di considerazioni che prescindono da tale natura del danno e dalle ragioni di antigiuridicità del fatto che lo ha prodotto, evidenziano come il sistema fornisce una struttura dell’illecito «articolata negli elementi costituiti dalla condotta, dal nesso causale tra questa e l’evento dannoso, e dal danno che da quello consegue (danno-conseguenza)», essendo l’evento dannoso rappresentato dalla «lesione dell’interesse protetto». Pertanto, quel che rileva ai fini risarcitori è il danno-conseguenza, «che deve essere allegato e provato»; non è accettabile la tesi che identifica il danno con l’evento dannoso, ovvero come danno-evento, e parimenti da disattendere è la tesi che colloca il danno appunto in re ipsa, perché così «snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo».

Può peraltro al riguardo rammentarsi che già Cass. Sez. U. 11/01/2008, n. 576, di poco anteriore, in materia di responsabilità da trasfusione di sangue infetto, avvertiva che «il danno rileva… sotto due profili diversi: come evento lesivo e come insieme di conseguenze risarcibili, retto il primo dalla causalità materiale ed il secondo da quella giuridica. Il danno oggetto dell’obbligazione risarcitoria aquiliana è… esclusivamente il danno conseguenza del fatto lesivo (di cui è un elemento l’evento lesivo). Se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è un danno-conseguenza, non vi è l’obbligazione risarcitoria».

Nella specie, l’accertamento di un danno risarcibile, rappresentato nei termini sopra esposti, rispetta perfettamente tale schema concettuale.

Non può in particolare obiettarsi che, attraverso l’identificazione di un pregiudizio discendente dalla limitazione delle facoltà di godimento dell’immobile, si finisca con il postulare un danno in re ipsa e confondere il danno evento o evento lesivo (ossia la lesione dell’interesse giuridicamente rilevante – Cass. n. 500 del 1999 – che definisce a monte l’illiceità del fatto determinativo del danno in quanto non iure e contra ius) con il danno conseguenza, distinto presupposto del credito risarcitorio, che definisce, a valle, la perdita o il mancato guadagno conseguente a quella lesione.

L’accertata limitazione delle facoltà di godimento è, infatti, indubitabilmente esso stesso un danno conseguenza, comportando una grave compromissione dei poteri (e correlativamente delle situazioni di vantaggio) che concretano il contenuto del diritto di proprietà.

E si tratta poi, indubbiamente, di un pregiudizio di natura patrimoniale, in quanto suscettibile di valutazione economica.

In tal senso la giurisprudenza di questa Corte ha già più volte riconosciuto che la compressione o la limitazione del diritto di proprietà o altro diritto reale, che siano causate dall’altrui fatto dannoso, sono suscettibili di valutazione economica non soltanto se ne derivi la necessità di una spesa ripristinatoria (cosiddetto danno emergente) o di perdite dei frutti della cosa (lucro cessante), ma anche se la compressione e la limitazione del godimento siano sopportate dal titolare con suo personale disagio o sacrificio (v., da ultimo, Cass. 17/12/2019, n. 33439; v. anche Cass. 26/09/2018, n. 22824; sulla risarcibilità dei danni conseguenti al ridotto godimento dell’immobile, v. già Cass. 27/07/1988, n. 4779; Cass. 29/11/2005, n. 25921, nella quale, diversamente da quanto argomentato dalla ricorrente in memoria, non si fa solo riferimento ai danni, derivanti in quel caso da vizi dell’opera appaltata, “riconducibili alla necessità di procedere ad interventi finalizzati alla eliminazione dei vizi dell’opera appaltata”, ma anche a quelli conseguenti alla “ridotta utilizzazione dell’appartamento a seguito della ingiustificata protrazione dei lavori da eseguire all’interno dell’immobile rispetto ai termini contrattualmente previsti”).

Nella specie, invece, non viene in rilievo, nella valutazione dei giudici di merito, l’aspetto soggettivo delle sofferenze (o disagi) interiormente vissute dai proprietari degli immobili in ragione delle limitazioni descritte, quanto piuttosto proprio la perdita delle oggettive potenzialità di godimento che, in mancanze delle immissioni illecite, gli immobili stessi per loro stessa destinazione sarebbero in grado di offrire.

Esula dunque dal tema di lite, alla stregua dei fatti accertati e delle ragioni della decisione impugnata, il profilo della configurabilità di un danno non patrimoniale conseguente all’illecito per lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione ed al diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, quali diritti costituzionalmente garantiti, nonché tutelati dall’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (cfr. Cass. Sez. U., 01/02/2017, n. 2611).

Per tali ragioni, in definitiva, non coglie nel segno la critica della ricorrente secondo cui la decisione, sul punto, violerebbe i principi in materia di responsabilità extracontrattuale avendo riconosciuto il diritto al risarcimento in mancanza di prova della sussistenza di un effettivo danno alla salute (o quantomeno, di un effettivo danno morale o esistenziale) di un danno materiale o da deprezzamento commerciale: danni questi, anzi, espressamente esclusi.

Ed infatti, da un lato, la mancanza di un danno non patrimoniale conseguente alle immissioni intollerabili non esclude la configurabilità di un danno risarcibile di natura patrimoniale come conseguenza dell’illecito costituito dalle immissioni medesime; dall’altro, l’esclusa esistenza di danni materiali da deterioramento di strutture dell’edificio o di un danno da deprezzamento commerciale dell’immobile non comporta anche l’esclusione della possibilità di apprezzare un danno patrimoniale della diversa specie predetta (ossia da perdita di talune significative facoltà di godimento), economicamente valutabile, se non nel loro valore di scambio, quanto meno sul piano del valore d’uso.

Quanto, poi, alla doglianza secondo cui la sentenza sul punto sarebbe carente di motivazione per aver fondato il convincimento circa la sussistenza di un tale pregiudizio su di un mero e supposto “fatto notorio” e a prescindere dalle risultanze processuali e dai limiti di legge, si rimanda alle considerazioni già svolte con riferimento ai primi due motivi, trattandosi di censura già in essi compresa.

7. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia “violazione dell’art. 844 c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) nonché omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) in relazione al mancato riconoscimento della priorità d’uso e alla mancata applicazione del criterio che prevede il contemperamento tra le esigenze della produzione e le ragioni della proprietà”.

5.1. Il motivo investe l’affermazione (resa in sentenza con riferimento al quinto motivo d’appello, v. pag. 11) secondo la quale “ove sussista, come nel caso di specie, l’illiceità del fatto generatore del danno arrecato a terzi – cioè lo spandimento di polveri minerali che superino la normale tollerabilità – il criterio del preuso, cui fa riferimento l’art. 844 c.c., comma 2, ha carattere assolutamente sussidiario e facoltativo ed il giudice non è, evidentemente, tenuto a farvi ricorso (Cass. 9865/2005; Cass. 161/1996), essendosi anche opportunamente evidenziato che, nell’ipotesi di superamento della normale tollerabilità di immissioni, l’azione è inquadrabile semplicemente nello schema generale dell’illecito aquiliano, ex art. 2043 c.c. e non trova ragione di applicazione, in radice, il criterio della priorità di un certo uso (Cass. 17820/2005)”.

5.2. Secondo la ricorrente la Corte avrebbe errato nel ritenere che l’affermato superamento della normale tollerabilità delle immissioni escludesse l’applicazione del criterio del preuso, dal momento che, al contrario, la priorità di un determinato uso costituiva elemento decisivo ai fini dell’esclusione del superamento, nel caso concreto, della soglia della normale tollerabilità: “ciò che può essere considerato “tollerabile” – afferma – in una zona a piena vocazione industriale potrebbe non esserlo (e verosimilmente non lo sarà) in una zona residenziale”.

Sostiene che “le polveri asseritamene presenti oggi (o al tempo della domanda) sono le stesse che si depositavano sui balconi trent’anni fa”, quando gli immobili furono acquistati dagli attori e che, pertanto, “ciò che è stato considerato “tollerabile” per decenni, in considerazione delle caratteristiche dell’area, non può divenire all’improvviso “intollerabile”, specie se si tiene conto – aggiunge -del fatto che “la maggior parte delle emissioni/immissioni è avvenuta prima del 1995, quando ILVA era in mano pubblica e che gli attori non si sono mai lamentati per oltre vent’anni dei loro acquisti”.

Segnala al riguardo due fatti, asseritamente decisivi, dei quali la Corte non avrebbe in tale valutazione tenuto conto:

– ILVA produceva già da vent’anni quando gli attori acquistarono gli appartamenti;

– il fenomeno dello spandimento delle polveri minerali era noto, in tutta la sua intensità, già dagli anni ‘70 e ‘80.

Lamenta ancora violazione dell’art. 844 c.c., per non avere la Corte d’appello considerato il dovere, ivi dettato, di contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà, alla luce in particolare della detta priorità d’uso, sul punto male interpretando la giurisprudenza che della priorità d’uso consente non tenersi conto solo allorché l’opposto interesse in gioco sia di rango primario e, come tale, prevalente, sulle esigenze della produzione industriale.

8. Anche tale motivo è infondato.

La Corte d’appello si è sul punto conformata al principio di diritto, più volte affermato da questa Corte, secondo il quale l’art. 844 c.c., impone, nei limiti della normale tollerabilità e dell’eventuale contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà, l’obbligo di sopportazione delle propagazioni inevitabili determinate dall’uso delle proprietà attuato nell’ambito delle norme generali e speciali che ne disciplinano l’esercizio. Al di fuori di tale ambito, si è in presenza di un’attività illegittima di fronte alla quale non ha ragion d’essere l’imposizione di un sacrificio, ancorché minimo, all’altrui diritto di proprietà o di godimento, e non sono quindi applicabili i criteri dettati dall’art. 844 c.c., in tema di normale tollerabilità, di contemperamento di interessi contrastanti e di priorità dell’uso, ma, venendo in considerazione, in tale ipotesi, unicamente l’illiceità del fatto generatore del danno arrecato a terzi, si rientra nello schema dell’azione generale di risarcimento danni di cui all’art. 2043 c.c. (in tali sensi, Cass. 03/09/2018, n. 21554; 13/03/2007, n. 5844; 17281/2005; 1156/1995; 7411/1992).

Le doglianze svolte al fine di contrastare la pertinenza del principio non fanno che riproporre le stesse censure di merito già svolte nei primi due motivi (in particolare in punto di accertato superamento della normale tollerabilità), al cui esame può pertanto ancora rimandarsi.

L’ampiezza e la portata del principio richiamato rendono poi inconferente il rilievo che nella specie non sia stato dedotto, né accertato, anche un danno alle lesione o esistenziale.

9. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia, infine, “violazione dell’art. 2697 c.c. sull’onere della prova, violazione dei limiti di legge all’esercizio del potere equitativo di cui all’art. 1226 c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), nonché omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in relazione alla quantificazione del supposto “danno da compressione del diritto di proprietà” (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5); nullità della sentenza per motivazione illogica e contraddittoria, con conseguente violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4)”.

9.1. La censura investe la sentenza nella parte in cui, nel rigettare il sesto motivo di gravame, relativo alla quantificazione del danno (censurata perché operata senza differenziare le posizioni degli appellati), ha ritenuto che, essendo tutti gli immobili adibiti ad uso abitativo e di tipo economico, ed essendo stati utilizzati “per periodo omogeneo anteriore alla proposizione della domanda”, le cennate limitazioni al diritto di proprietà non potessero consentire “valutazioni risarcitorie differenti a seconda dell’età degli attori in mancanza di deduzioni che conducano a reputare necessario l’eventuale esame di tale circostanza”, soggiungendo poi, quanto alla percentuale del valore degli immobili utilizzata quale parametro per la liquidazione equitativa del danno, che: “a) tale percentuale (20%) viene ritenuta errata solo in quanto avrebbe dovuto ricollegarsi all’esistenza di posizioni “differenziate” degli attori, circostanza invece già esclusa; b) non esiste contestazione circa la “oggettiva” congruità di siffatto parametro”.

9.2. Lamenta la ricorrente che, così decidendo, la Corte d’appello ha operato una illegittima inversione dell’onere della prova, ritenendo che fosse onere di ILVA dedurre elementi atti a dimostrare la necessità di una differenziazione fra le posizioni degli attori, quando invece ciò costituiva l’oggetto essenziale della prova del diritto degli attori sotto il profilo del quantum.

Soggiunge che, essendo stato il danno riconosciuto in relazione ad una asserita limitazione delle facoltà di godimento degli immobili, lungi dal potersi considerare sufficiente il riferimento all’uso abitativo degli immobili, sarebbe stato necessario appurare l’effettivo uso che ciascuno degli attori fa del proprio appartamento, considerando altresì la data di acquisto.

Contesta che il Tribunale avesse accertato che tutti gli appartamenti sono stati utilizzati per periodo omogeneo anteriore alla proposizione della domanda, essendosi il primo giudice limitato ad osservare che “i proprietari degli appartamenti hanno acquistato tutti, eccezion fatta per i coniugi Peluso-Valentini, diversi anni prima della proposizione della domanda”.

Contesta altresì l’affermazione secondo cui, sul parametro utilizzato per la liquidazione equitativa del danno, non sussistesse contestazione, rilevando che, con l’atto d’appello, erano state dedotte “molteplici ragioni di irragionevolezza” del criterio, poiché astratto dalla considerazione delle peculiarità di ogni singola posizione soggettiva degli attori.

Lamenta infine l’omessa considerazione di fatto, in tesi decisivo, rappresentato dalla sensibile diminuzione, nel corso degli anni, della polverosità dei parchi.

Tutto ciò, secondo la ricorrente, renderebbe la motivazione, anche sul punto, meramente apparente ovvero illogica e contraddittoria.

10. Il motivo è in parte inammissibile, in altra parte infondato.

10.1. E’ inammissibile là dove prospetta la violazione dell’art. 2697 c.c.: ciò per le medesime ragioni già in precedenza esposte (ciò che si censura, nella sostanza, non è l’applicazione di un criterio di riparto errato ma l’esito della valutazione probatoria).

Lo è, altresì, là dove deduce vizio di motivazione secondo paradigma (motivazione illogica o contraddittoria) non più attuale o, comunque, con inosservanza dei requisiti dettati dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5; non può poi certamente nemmeno predicarsi un difetto di motivazione così radicale da tradursi in inosservanza del dovere decisorio.

Lo è ancora nella parte in cui censura l’affermazione, costituente sul punto autonoma ratio decidendi di rilievo assorbente, secondo cui l’appellante non aveva svolto specifica contestazione circa la oggettiva congruità del parametro utilizzato per la liquidazione equitativa. La critica sul punto è generica e comunque inosservante dell’onere di specifica indicazione dell’atto richiamato, in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, non avendo la ricorrente indicato quali fossero e dove fossero leggibili le “molteplici ragioni di irragionevolezza” che afferma di avere sul punto dedotto in appello.

10.2. Il motivo è poi infondato nella parte in cui, al contempo, prospetta anche violazione dell’art. 1226 c.c., in ordine ai requisiti ed ai limiti dell’esercizio del potere di liquidazione del danno secondo equità.

Giova al riguardo rammentare che, secondo pacifico insegnamento, l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c., dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa, che, pertanto, presuppone che sia provata l’esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare (v. e pluribus Cass. 30/04/2010, n. 10607; 12/10/2011 n. 20990; 23/09/2015, n. 18804; 22/02/2018, n. 4310).

Nel caso di specie l’affermazione, da parte dei giudici a quibus, dell’esistenza dei presupposti necessari perché potesse accedersi all’esercizio del potere di liquidazione equitativa è, per quanto detto, giustificata dai dati fattuali, pure in sentenza rimarcati, che attestano l’esistenza di un grave e persistente fenomeno di spandimento di polveri minerali tali da compromettere significativamente le potenzialità d’uso degli immobili.

Una tale condizione costituisce, di per sé, un pregiudizio di indubbio rilievo economico, apprezzabile nei termini sopra detti (limitazione delle facoltà di godimento che costituiscono uno dei principali contenuti del diritto dominicale), ma in concreto di assai difficile dimostrazione nel suo preciso ammontare, di guisa che alla sua quantificazione non può che pervenirsi secondo valutazione equitativa, da riservarsi ovviamente al giudice del merito.

La sentenza offre adeguata giustificazione dell’esercizio del potere equitativo e resiste pertanto alle censure svolte le quali, per il resto, si risolvono, ancora una volta, nella sollecitazione di una nuova e diversa valutazione di merito ovvero di un rinnovato esercizio dello stesso potere di valutazione equitativa del danno, ovviamente non consentita in questa sede.

11. Per le considerazioni che precedono il ricorso deve essere in definitiva rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento liquidate come da dispositivo e da distrarsi in favore del procuratore antistatario, che ne ha fatto rituale richiesta.

Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

P.Q.M.

rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 8.200 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge, da distrarsi in favore dell’Avv. Massimo Moretti.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 28 gennaio 2021.

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