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Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime | Categoria: Acqua - Inquinamento idrico, Associazioni e comitati, Diritto processuale penale, Diritto sanitario, Inquinamento del suolo, Legittimazione processuale, Pubblica amministrazione, Risarcimento del danno Numero: 44528 | Data di udienza: 25 Settembre 2018

ACQUA – INQUINAMENTO IDRICO – INQUINAMENTO DEL SUOLO – DANNO AMBIENTALE – Ecoreati (caso TAMOIL) – Avvelenamento delle acque – Inquinamento del suolo – Scelte gestionali della raffineria – Nesso causale – Disastro ambientale commesso mediante ripetute e gravi omissioni – Concorso nelle scelte di omessa manutenzione e vigilanza – Responsabilità – Amministratore delegato – Acqua contaminata – Ingestione (accidentale o volontaria) dell’acqua – Disastro ambientale doloso – Disastro innominato colposo di natura ambientale – Overruling (o mutamento improvviso della giurisprudenza) – Riqualificazione del reato – Salubrità delle matrici ambientali – Effetti dell’autodenuncia – Interventi di bonifica e ripristino ambientale – Linee-guida dell’OMS – Presenza di MTBE (Metil-T-Butil-Etere) – Analisi del rischio – Studio di impatto ambientale – Valori di CSC – Concentrazione Soglia Contaminazione – Studi tossicologici su gli agenti cancerogeni – Artt. 434, 439, 449 cod. pen. – Artt. 137, 256, 257, 300 d.lgs n.152/2006 – DIRITTO SANITARIO – Avvelenamento delle acque destinate all’alimentazione umana – Configurabilità del reato dell’art. 439 cod. pen. – Disastro innominato – Natura di delitto a consumazione anticipata – Realizzazione del mero pericolo concreto – Art. 434 cod. pen. – Giurisprudenza – PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Tutela della vita e dell’incolumità delle persone – Nozione di “offesa alla pubblica incolumità” – Potenzialità del nocumento di diffondersi – Nozione unitaria di “disastro” – Eventi non immediatamente percepibili di durata pluriennale – Compromissione imponente delle caratteristiche di sicurezza – Reato di disastro innominato colposo – Configurabilità – Elementi – Concreto pericolo per la pubblica incolumità – Prova con ogni strumento – Effetti della prova scientifica di carattere peritale – Compromissione dell’ambiente a seguito di disastro colposo – RISARCIMENTO DEL DANNO – Risarcibilità del danno non patrimoniale – Rilevanza costituzionale – Lesione grave dell’interesse – Superamento della soglia minima di tollerabilità – Danno non futile – Danno morale – ASSOCIAZIONI E COMITATI – Danno ambientale – Legittimazione a costituirsi parte civile del cittadino – Presupposti – Risarcimento del danno ambientale di natura pubblica – Legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per reati ambientali – Esclusività dello Stato – Altri soggetti, singoli o associati, Enti pubblici – Esercizio dell’azione civile in sede penale ex art. 2043 cod. civ. – Ente pubblico territoriale – Costituzione parte civile – Lesione di interessi locali specifici e differenziati – Danno all’immagine, al prestigio, alla reputazione – Persone giuridiche – Enti territoriali – Ente collettivo – LEGITTIMAZIONE PROCESSUALE – Risarcibilità della lesione del “diritto all’immagine” – Giurisprudenza – La normativa speciale del “danno ambientale” e disciplina generale del codice civile – Risarcimento dei danni diretti e specifici – Natura unitaria ed onnicomprensiva del danno non patrimoniale – Ingresso a tutti i mezzi di prova normativamente previsti – Duplicazioni risarcitorie – Esclusione – Nozioni di comune esperienza – Potere discrezionale riservato al giudice di merito – Prova del c.d. danno esistenziale – Canone di ragionevole probabilità – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Giudizio di appello avverso sentenza emessa con rito abbreviato – Rinnovazione istruttoria – Limiti – Prove sopravvenute – Valutazione della “necessità” dell’integrazione probatoria nel rito abbreviato – Art. 603, c.3, cod. proc. pen. – Concorso di circostanze di specie diversa – Attenuanti ex art. 62-bis cod. pen..


Provvedimento: SENTENZA
Sezione: 1^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 31 Ottobre 2019
Numero: 44528
Data di udienza: 25 Settembre 2018
Presidente: MAZZEI
Estensore: CASA


Premassima

ACQUA – INQUINAMENTO IDRICO – INQUINAMENTO DEL SUOLO – DANNO AMBIENTALE – Ecoreati (caso TAMOIL) – Avvelenamento delle acque – Inquinamento del suolo – Scelte gestionali della raffineria – Nesso causale – Disastro ambientale commesso mediante ripetute e gravi omissioni – Concorso nelle scelte di omessa manutenzione e vigilanza – Responsabilità – Amministratore delegato – Acqua contaminata – Ingestione (accidentale o volontaria) dell’acqua – Disastro ambientale doloso – Disastro innominato colposo di natura ambientale – Overruling (o mutamento improvviso della giurisprudenza) – Riqualificazione del reato – Salubrità delle matrici ambientali – Effetti dell’autodenuncia – Interventi di bonifica e ripristino ambientale – Linee-guida dell’OMS – Presenza di MTBE (Metil-T-Butil-Etere) – Analisi del rischio – Studio di impatto ambientale – Valori di CSC – Concentrazione Soglia Contaminazione – Studi tossicologici su gli agenti cancerogeni – Artt. 434, 439, 449 cod. pen. – Artt. 137, 256, 257, 300 d.lgs n.152/2006 – DIRITTO SANITARIO – Avvelenamento delle acque destinate all’alimentazione umana – Configurabilità del reato dell’art. 439 cod. pen. – Disastro innominato – Natura di delitto a consumazione anticipata – Realizzazione del mero pericolo concreto – Art. 434 cod. pen. – Giurisprudenza – PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Tutela della vita e dell’incolumità delle persone – Nozione di “offesa alla pubblica incolumità” – Potenzialità del nocumento di diffondersi – Nozione unitaria di “disastro” – Eventi non immediatamente percepibili di durata pluriennale – Compromissione imponente delle caratteristiche di sicurezza – Reato di disastro innominato colposo – Configurabilità – Elementi – Concreto pericolo per la pubblica incolumità – Prova con ogni strumento – Effetti della prova scientifica di carattere peritale – Compromissione dell’ambiente a seguito di disastro colposo – RISARCIMENTO DEL DANNO – Risarcibilità del danno non patrimoniale – Rilevanza costituzionale – Lesione grave dell’interesse – Superamento della soglia minima di tollerabilità – Danno non futile – Danno morale – ASSOCIAZIONI E COMITATI – Danno ambientale – Legittimazione a costituirsi parte civile del cittadino – Presupposti – Risarcimento del danno ambientale di natura pubblica – Legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per reati ambientali – Esclusività dello Stato – Altri soggetti, singoli o associati, Enti pubblici – Esercizio dell’azione civile in sede penale ex art. 2043 cod. civ. – Ente pubblico territoriale – Costituzione parte civile – Lesione di interessi locali specifici e differenziati – Danno all’immagine, al prestigio, alla reputazione – Persone giuridiche – Enti territoriali – Ente collettivo – LEGITTIMAZIONE PROCESSUALE – Risarcibilità della lesione del “diritto all’immagine” – Giurisprudenza – La normativa speciale del “danno ambientale” e disciplina generale del codice civile – Risarcimento dei danni diretti e specifici – Natura unitaria ed onnicomprensiva del danno non patrimoniale – Ingresso a tutti i mezzi di prova normativamente previsti – Duplicazioni risarcitorie – Esclusione – Nozioni di comune esperienza – Potere discrezionale riservato al giudice di merito – Prova del c.d. danno esistenziale – Canone di ragionevole probabilità – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Giudizio di appello avverso sentenza emessa con rito abbreviato – Rinnovazione istruttoria – Limiti – Prove sopravvenute – Valutazione della “necessità” dell’integrazione probatoria nel rito abbreviato – Art. 603, c.3, cod. proc. pen. – Concorso di circostanze di specie diversa – Attenuanti ex art. 62-bis cod. pen..



Massima

CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. 1^, 31/10/2019 (Ud. 25/09/2018), Sentenza n.44528

 

ACQUA – INQUINAMENTO IDRICO – INQUINAMENTO DEL SUOLO – DANNO AMBIENTALE – Ecoreati (caso TAMOIL) – Avvelenamento delle acque – Inquinamento del suolo – Scelte gestionali della raffineria – Nesso causale – Disastro ambientale commesso mediante ripetute e gravi omissioni – Concorso nelle scelte di omessa manutenzione e vigilanza – Responsabilità – Amministratore delegato – Acqua contaminata – Ingestione (accidentale o volontaria) dell’acqua – Disastro ambientale doloso – Disastro innominato colposo di natura ambientale – Overruling (o mutamento improvviso della giurisprudenza) -Riqualificazione del reato – Salubrità delle matrici ambientali – Effetti dell’autodenuncia – Interventi di bonifica e ripristino ambientale – Linee-guida dell’OMS – Presenza di MTBE (Metil-T-Butil-Etere) – Analisi del rischio -Studio di impatto ambientale – Valori di CSC – Concentrazione Soglia Contaminazione – Studi tossicologici su gli agenti cancerogeni – Artt. 434, 439, 449 cod. pen. – Artt. 137, 256, 257, 300 d.lgs n.152/2006

Il legislatore del 2015, introducendo la più dettagliata fattispecie di “disastro ambientale” prevista dall’art. 452-quater cod. pen., non ha inteso abrogare l’art. 434, in quanto, la nuova fattispecie individua ai nn. 1) (alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema) e 2) (alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali) ipotesi sanzionatorie del tutto estranee rispetto alla struttura del reato di disastro innominato e, dunque, con quest’ultimo non confliggenti al punto da determinarne l’abrogazione. Il confronto tra l’art. 434 cod. pen. e il n. 3) dell’art. 452-quater può essere pienamente risolto con il ricorso al principio di specialità, che già consente la delimitazione del confine tra la residuale area di operatività del disastro innominato e quella della più grave ipotesi novellata, connotata da una speciale offesa alla pubblica incolumità. Anche senza l’introduzione della clausola di riserva “fuori dai casi previsti dall’art. 434 cod. pen.”, quindi, il reato di disastro innominato ha comunque funzione residuale, configurandosi solo quando non sussistano gli elementi specializzanti previsti dall’art. 452- quater cod. pen..

DIRITTO SANITARIO – Ecoreati (caso TAMOIL) -Avvelenamento delle acque destinate all’alimentazione umana- Configurabilità del reato dell’art. 439 cod. pen..

Le acque considerate dall’art. 439 cod. pen. sono quelle destinate all’alimentazione umana, abbiano o non abbiano i caratteri biochimici della potabilità secondo la legge e la scienza. Con la conseguenza che è configurabile la fattispecie criminosa prevista dall’indicata norma anche se l’avvelenamento delle acque sia stato operato in acque batteriologicamente non pure dal punto di vista delle leggi sanitarie, ma comunque idonee e potenzialmente destinabili all’uso alimentare. Pertanto, deve escludersi la configurabilità del reato di cui all’art. 439 cod. pen. quando le acque attinte dall’inquinamento non siano destinate all’alimentazione.

DANNO AMBIENTALE – ACQUA – INQUINAMENTO IDRICO – INQUINAMENTO DEL SUOLO – Disastro innominato – Natura di delitto a consumazione anticipata – Realizzazione del mero pericolo concreto – Art. 434 cod. pen. – Giurisprudenza.

Il disastro innominato di cui all’art. 434 cod. pen. è un delitto a consumazione anticipata, in quanto la realizzazione del mero pericolo concreto del disastro è idonea a consumare il reato mentre il verificarsi dell’evento funge da circostanza aggravante (comma 2). Mentre, il dolo è intenzionale rispetto all’evento di disastro ed è eventuale rispetto al pericolo per la pubblica incolumità (Sez. 1, n. 41306 del 7/10/2009, Scola, in motivazione, in cui si afferma che, con riferimento all’evento-disastro, è «possibile ipotizzare la tipologia teoretica del dolo eventuale soltanto allorché la legge non richieda, espressamente, che il soggetto agente si sia determinato alla consumazione della condotta con un determinato fine»; Sez. 1, n. 1332 del 14/12/2010, dep. 19/1/2011, Zonta; Sez. 4, n. 36626 del 5/5/2011, Mazzei).

PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Tutela della vita e dell’incolumità delle persone – Nozione di “offesa alla pubblica incolumità” – Potenzialità del nocumento di diffondersi.

Per “offesa alla pubblica incolumità” si deve intendere la tutela della vita e dell’incolumità delle persone, “indeterminatamente considerate, dal momento che il pericolo da esso cagionato deve essere caratterizzato dalla potenzialità di diffondersi ampiamente nello spazio circostante la zona interessata dall’evento” e, conseguentemente, deve essere escluso che, ai fini della configurabilità del reato, si richieda che il fatto abbia direttamente prodotto la morte o la lesione delle persone, in quanto “è necessario e sufficiente che il nocumento abbia un carattere di prorompente diffusione che esponga a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone e che l’eccezionalità della dimensione dell’evento desti un esteso senso di allarme. Sicché, non è richiesto che il fatto abbia direttamente prodotto collettivamente la morte o lesioni alle persone, potendo pure colpire cose, purché dalla rovina di queste effettivamente insorga un pericolo grave per la salute collettiva; in tal senso si identificano danno ambientale e disastro qualora l’attività di contaminazione di siti destinati ad insediamenti abitativi o agricoli con sostanze pericolose per la salute umana assuma connotazioni di durata, ampiezza e intensità tale da risultare in concreto straordinariamente grave e complessa, mentre non è necessaria la prova di immediati effetti lesivi sull’uomo”

DANNO AMBIENTALE – Nozione unitaria di “disastro” – Eventi non immediatamente percepibili di durata pluriennale – Compromissione imponente delle caratteristiche di sicurezza.

Rientrano nella nozione unitaria di “disastro”, due tratti qualificanti e concorrenti, da un lato, sul piano dimensionale, si deve essere al cospetto di un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani, atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi, dall’altro lato, sul piano della proiezione offensiva, l’evento deve provocare un pericolo per la vita o per l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone; senza che peraltro sia richiesta anche l’effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti. Alla fattispecie prevista dall’art. 434 cod. pen. – cui viene pacificamente riconosciuta la funzione di norma di chiusura, laddove punisce il disastro innominato – possano essere ricondotti «non soltanto gli eventi disastrosi di grande immediata evidenza […] che si verificano magari in un arco di tempo ristretto, ma anche quegli eventi non immediatamente percepibili, che possono realizzarsi in un arco di tempo anche molto prolungato, che pure producano quella compromissione imponente delle caratteristiche di sicurezza, di tutela della salute e di altri valori della persona e della collettività che consentono di affermare l’esistenza di una lesione della pubblica incolumità. Da tanto discende che, è possibile escludere, che la riconducibilità dei fenomeni disastrosi a un macroevento di dirompente portata distruttiva costituisca un requisito essenziale per la configurazione del reato di cui all’art. 434 cod. pen., essendo, viceversa, individuabile un evento disastroso anche in un fenomeno persistente, ma impercettibile, di durata pluriennale con le caratteristiche sopra delineate.

DANNO AMBIENTALE – Reato di disastro innominato colposo – Configurabilità – Elementi – Concreto pericolo per la pubblica incolumità – Prova con ogni strumento – Effetti della prova scientifica di carattere peritale.

Per la configurabilità del reato di disastro innominato colposo di cui agli artt. 449 e 434 cod. pen., è necessaria una concreta situazione di pericolo per la pubblica incolumità, nel senso della ricorrenza di un giudizio di probabilità relativo all’attitudine di un fatto certo a ledere o a mettere in pericolo un numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti. Inoltre, la prova di tale delitto non deve avere esclusivamente un fondamento scientifico, potendo basarsi, fra le altre, anche sul ragionamento logico e su massime di esperienza. Pertanto, la fattispecie è suscettibile di essere provata con ogni strumento, purché nella specie il giudice chiamato alla verifica possa dare spiegazione convincente sulla sussistenza del fatto nella sua dimensione materiale e psicologica. Nel caso in cui venga assunta nel processo una prova scientifica di carattere peritale, il perito assume una posizione processuale diversa rispetto a quella del consulente di parte, chiamato a prestare la sua opera nel solo interesse di colui che lo ha nominato, senza assumere l’impegno di cui all’art. 226 cod. proc. pen., con la conseguenza che il giudice che ritenga di aderire alle conclusioni del perito, in difformità da quelle del consulente di parte, non è tenuto a fornire autonoma dimostrazione dell’esattezza scientifica delle prime e dell’erroneità delle seconde, dovendosi considerare sufficiente, al contrario, che egli dimostri di avere comunque valutato le conclusioni del perito, senza ignorare le argomentazioni del consulente; costituisce, dunque, giudizio di fatto, incensurabile in sede di legittimità, la scelta operata dal giudice, tra le diverse tesi prospettate dal perito e dai consulenti delle parti, di quella che ritiene maggiormente condivisibile, purché, come detto, la sentenza dia conto, con motivazione adeguata, delle ragioni di tale scelta, del contenuto dell’opinione disattesa e delle deduzioni contrarie delle parti (Sez. 3, n. 17368 del 31/01/2019, Giampaolo).

DANNO AMBIENTALE – Compromissione dell’ambiente a seguito di disastro colposo – RISARCIMENTO DEL DANNO – Risarcibilità del danno non patrimoniale – Rilevanza costituzionale – Lesione grave dell’interesse – Superamento della soglia minima di tollerabilità – Danno non futile – Danno morale.

In caso di compromissione dell’ambiente a seguito di disastro colposo (art. 449 cod. pen.), il danno morale soggettivo lamentato da coloro che, trovandosi in una particolare situazione con tale ambiente (nel senso che ivi abitano e/o svolgono attività lavorativa), provino in concreto di avere subito un turbamento psichico (sofferenze e patemi d’animo) di natura transitoria a causa dell’esposizione a sostanze inquinanti ed alle conseguenti limitazioni del normale svolgimento della loro vita, è risarcibile autonomamente anche in mancanza di una lesione dell’integrità psico-fisica (danno biologico) o di altro evento produttivo di danno patrimoniale, trattandosi di reato plurioffensivo che comporta, oltre all’offesa all’ambiente ed alla pubblica incolumità, anche l’offesa ai singoli, pregiudicati nella loro sfera individuale (Sez. U. civili, n. 2515 del 21/2/2002, ICMESA S.p.A. in liquidazione contro Pierotti). Precisando che la risarcibilità del danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona, anche quando non sussista un fatto-reato, né ricorre alcuna delle altre ipotesi in cui la legge consente espressamente il ristoro dei pregiudizi non patrimoniali, è subordinata – sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ. – a tre condizioni: a) che l’interesse leso – e non il pregiudizio sofferto – abbia rilevanza costituzionale (altrimenti si perverrebbe ad una abrogazione per via interpretativa dell’art. 2059 cit., giacché qualsiasi danno non patrimoniale, per il fatto stesso di essere tale, e cioè di toccare interessi della persona, sarebbe sempre risarcibile); b) che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità (in quanto il dovere di solidarietà, di cui all’art. 2 Cost., impone a ciascuno di tollerare le minime intrusioni nella propria sfera personale inevitabilmente scaturenti dalla convivenza); c) che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita od alla felicità (Sez. U. civili, n. 26972 dell’11/11/2008, A. contro S. ed altro).

ASSOCIAZIONI E COMITATI – Danno ambientale – Legittimazione a costituirsi parte civile del cittadino – Presupposti.

In tema di danno ambientale, è legittimato a costituirsi parte civile il cittadino che non si dolga del degrado dell’ambiente, ma faccia valere una specifica pretesa in relazione a determinati beni, quali cespiti, attività e diritti soggettivi individuali (come quello alla salute), messi in pericolo dal collegamento con un determinato habitat (dove risiedono o lavorano), in conformità alla regola generale posta dall’art. 2043 cod. civ. (Sez. 3, n. 34789 del 22/6/2011, Verna). Anche, le associazioni ambientaliste, dunque, sono legittimate a costituirsi parte civile quando perseguano un interesse non caratterizzato da un mero collegamento con quello pubblico, ma concretizzatosi in una realtà storica di cui il sodalizio ha fatto il proprio scopo: in tal caso l’interesse all’ambiente cessa di essere diffuso e diviene soggettivizzato e personificato. Nella specie, è stato considerato, un danno non patrimoniale patito dall’associazione, costituito dalla vanificazione delle intraprese iniziative, siccome frustrate dalla commissione del reato ambientale, nonché dal danno all’immagine e alla reputazione dell’ente, cioè di quei valori che attengono alla considerazione da parte dei consociati circa la capacità e credibilità dell’associazione in relazione al perseguimento della sua finalità istituzionale protesa alla tutela del territorio. Inoltre, il danno risarcibile secondo la disciplina civilistica può configurarsi anche sub specie del pregiudizio arrecato all’attività concretamente svolta dall’associazione ambientalista per la valorizzazione e la tutela del territorio sul quale incidono i beni oggetto del fatto lesivo. In tali ipotesi potrebbe identificarsi un nocumento suscettibile anche di valutazione economica in considerazione degli eventuali esborsi finanziari sostenuti dall’ente per l’espletamento dell’attività di tutela.

PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Risarcimento del danno ambientale di natura pubblica – Legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per reati ambientali – Spetta in via esclusiva allo Stato – Altri soggetti, singoli o associati, Enti pubblici – Esercizio dell’azione civile in sede penale ex art. 2043 cod. civ..

La legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per reati ambientali, a seguito dell’abrogazione dell’art. 18, comma 3, della L. n. 349/86, derivante dall’entrata in vigore dell’art. 318, comma 2, lett. a), del D.L.vo n. 152/2006, spetta, in via esclusiva, allo Stato per il risarcimento del danno ambientale di natura pubblica, inteso come lesione dell’interesse pubblico alla integrità e salubrità dell’ambiente, mentre tutti gli altri soggetti, singoli o associati, compresi le Regioni e gli altri enti pubblici territoriali, possono esercitare l’azione civile in sede penale ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. solo per ottenere il risarcimento di un danno patrimoniale e non patrimoniale, ulteriore e concreto, conseguente alla lesione di altri loro diritti particolari diversi dall’interesse pubblico alla tutela dell’ambiente, pur se derivante dalla stessa condotta lesiva.

PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Ente pubblico territoriale – Costituzione parte civile – Lesione di interessi locali specifici e differenziati – Danno all’immagine, al prestigio, alla reputazione – Risarcimento.

L’Ente pubblico territoriale può costituirsi parte civile quando, per effetto della condotta illecita, abbia subito un danno, patrimoniale e non, diverso da quelle ambientale di natura pubblica, derivante dalla lesione di interessi locali specifici e differenziati. Ad esempio l’immagine, il prestigio e la reputazione di un ente territoriale costituiscono beni essenziali ai fini della sua credibilità politica e che non può dubitarsi che la lesione di tali valori alla cui tutela la persona giuridica pubblica ha un diritto costituzionalmente garantito determini sicuramente, e di per sé, un danno non patrimoniale, costituito dalla diminuzione della considerazione dell’ente da parte dei consociati in genere o di settori o di categorie di essi con le quali di norma interagisca.

RISARCIMENTO DEL DANNO – Lesione di un bene non connotati da rilevanza economica, reputazione, immagine o morale – Associazioni ambientaliste costituitesi parti civili – Persone giuridiche – Enti territoriali – Ente collettivo

Il danno, necessariamente diverso da quello della lesione dell’ambiente come bene pubblico, risarcibile in favore delle associazioni ambientaliste costituitesi parti civili nei procedimenti per reati ambientali, può, quindi, avere natura, oltre che patrimoniale, anche morale, derivante dal pregiudizio arrecato all’attività da esse concretamente svolta per la valorizzazione e la tutela del territorio sul quale incidono i beni oggetto del fatto lesivo. Mentre, l’Ente pubblico territoriale, dal canto suo, può agire, nel medesimo contesto processuale, quando, per effetto della condotta illecita, abbia subito un danno, anche non patrimoniale, diverso da quelle ambientale di natura pubblica, derivante dalla lesione di interessi locali specifici e differenziati. Pertanto, la configurabilità di un danno non patrimoniale, nel più ampio significato di «danno determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica», anche in capo alle persone giuridiche, tra cui vanno ricompresi gli enti territoriali esponenziali, sub specie di pregiudizi derivanti dalla lesione di diritti della personalità compatibili con l’assenza di fisicità quali il diritto all’esistenza, all’identità, al nome, alla reputazione, all’immagine. Sicché, un danno non patrimoniale in capo all’ente collettivo, sub specie di danno all’immagine, può essere rappresentato dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica o dell’ente nel che si esprime la sua immagine, sia sotto il profilo della incidenza negativa che tale diminuzione comporta nell’agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi della persona giuridica o dell’ente e, quindi, nell’agire dell’ente; sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o di categorie di essi con le quali la persona giuridica o l’ente di norma interagisca (Cass. civ. Sez. 3, n. 4542 del 22/3/2012; Sez. 3, n. 12929 del 4/6/2007).

LEGITTIMAZIONE PROCESSUALE – Risarcibilità della lesione del “diritto all’immagine” – Giurisprudenza.

La risarcibilità della lesione del “diritto all’immagine”, lesione che non necessariamente deve essere arrecata da fatti di reato commessi da dipendenti dell’Ente si verifica, anche, nei seguenti casi: a) in materia di reati associativi, il Comune nel cui territorio l’associazione a delinquere si è insediata ed ha operato ha titolo alla costituzione di parte civile in relazione al danno che la presenza dell’associazione stessa ha arrecato all’immagine della città, allo sviluppo turistico ed alle attività produttive ad esso collegate (Sez. 2, Sentenza n. 150 del 18/10/2012, dep. 4/1/2013, Andreicik e altri); b) che la legittimazione alla costituzione di parte civile dell’ente territoriale che invoca un danno alla propria immagine è ammissibile anche in riferimento ad un reato commesso da privati in danno di privati, purché tale tipologia di danno sia in concreto configurabile (Sez. 2, n. 13244 del 7/3/2014, Lazzaro ed altri); c) che sono legittimati a costituirsi parte civile gli enti locali esponenziali dei territori nei quali sono stati commessi crimini di guerra, per il risarcimento dei danni non patrimoniali riferibili a questi delitti, anche quando gli stessi sono stati istituiti successivamente alla consumazione dei fatti di reato e vi è costituzione di parte civile dello Stato italiano nel processo (Sez. 1, n. 23288 del 19/3/2014, P.G. in proc. Winkler e altri); d) che, in tema di reati sessuali, il Comune nel cui territorio il reato è stato commesso è legittimato a costituirsi parte civile onde ottenere il risarcimento dei danni morali e materiali derivati dall’offesa, diretta ed immediata, dello scopo statutario (Sez. 3, n. 45963 del 27/06/2017, A. e altri; nella specie è stata ritenuta legittima la costituzione del Comune di Torino in quanto finanziatore e diretto erogatore di servizi specificamente rivolti alle vittime di violenza sessuale, e statutariamente e concretamente impegnato contro la violenza alle donne). Tuttavia, occorre ribadire che dallo stesso fatto lesivo può derivare, oltre che un danno ambientale nei termini descritti dall’art. 300 D.L.vo n. 152/2006, anche un danno all’immagine dell’ente territoriale in relazione alla lesione che lo stesso ne può indirettamente subire, sul piano del prestigio e della reputazione, nei confronti della collettività in quanto, all’evidenza, strettamente connessi – in senso positivo o negativo – anche all’efficacia dell’azione ad esso demandata di custodia e valorizzazione di beni ambientali di particolare rilievo (Sez. 4, n. 24619/14 cit.).

DANNO AMBIENTALE – La normativa speciale del “danno ambientale” e disciplina generale del codice civile – Risarcimento dei danni diretti e specifici.

La normativa speciale del “danno ambientale” (nozione derivata da quella posta, in ambito comunitario, dalla direttiva 2004/35/CE) adottata dal D.Lvo n. 152/2006,si affianca (non sussistendo alcuna antinomia reale) alla disciplina generale posta dal codice civile, sicché le associazioni ambientaliste – pure dopo l’abrogazione delle previsioni di legge che le autorizzavano a proporre, in caso di inerzia degli enti territoriali, le azioni risarcitorie per danno ambientale (art. 9, comma 3, D.Lgs. n. 267/2000) – devono ritenersi legittimate alla costituzione di parte civile “iure proprio”, nel processo per reati che abbiano cagionato pregiudizi all’ambiente, per il risarcimento non del danno all’ambiente come interesse pubblico, bensì (al pari di ogni persona singola od associata) dei danni direttamente subiti: danni diretti e specifici, ulteriori e diversi rispetto a quello, generico di natura pubblica, della lesione dell’ambiente come bene pubblico e diritto fondamentale di rilievo costituzionale. E’ stato, inoltre, precisato che la possibilità di risarcimento, in ogni caso, non deve ritenersi limitata all’ambito patrimoniale di cui all’art. 2043 cod. civ., poiché l’art. 185, comma 2, cod. pen. – che costituisce l’ipotesi più importante “determinata dalla legge” per la risarcibilità del danno non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ. – dispone che ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga il colpevole al risarcimento nei confronti non solo del soggetto passivo del reato stesso, ma di chiunque possa ritenersi “danneggiato” per aver riportato un pregiudizio eziologicannente riferibile all’azione od omissione del soggetto attivo (v. ancora Sez. 3, n. 19439/2012, cit.).

RISARCIMENTO DEL DANNO – Natura unitaria ed onnicomprensiva del danno non patrimoniale – Ingresso a tutti i mezzi di prova normativamente previsti – Duplicazioni risarcitorie – Esclusione – Nozioni di comune esperienza – Potere discrezionale riservato al giudice di merito.

La natura unitaria ed onnicomprensiva del danno non patrimoniale, deve essere interpretata nel senso di unitarietà rispetto a qualsiasi lesione di un interesse o valore costituzionalmente protetto non suscettibile di valutazione economica e come obbligo, per il giudice di merito, di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni risarcitorie, attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, e di non oltrepassare una soglia minima di apprezzabilità, procedendo ad un accertamento concreto e non astratto, dando ingresso a tutti i mezzi di prova normativamente previsti, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza, le presunzioni. Pertanto, il ricorso alle nozioni di comune esperienza attiene all’esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito, il cui giudizio circa la sussistenza di un fatto notorio può essere censurato in sede di legittimità solo se sia stata posta a base della decisione una inesatta nozione del notorio, da intendere come fatto conosciuto da un uomo di media cultura, in un dato tempo e luogo, e non anche per inesistenza o insufficienza di motivazione, non essendo il giudice tenuto ad indicare gli elementi sui quali la determinazione si fonda, laddove, del resto, allorché si assuma che il fatto considerato come notorio dal giudice non risponde al vero, l’inveridicità del preteso fatto notorio può formare esclusivamente oggetto di revocazione, ove ne ricorrano gli estremi, non di ricorso per cassazione

RISARCIMENTO DEL DANNO – Prova del c.d. danno esistenziale – Canone di ragionevole probabilità.

La prova del c.d. danno esistenziale può essere data anche con presunzioni semplici (od “hominis“), strumento di accertamento dei fatti di causa che può presentare anche qualche margine di opinabilità nell’operata riconduzione – in base a regole (elastiche) di esperienza – del fatto ignoto da quello noto, con il solo limite del principio di probabilità, in base al quale non occorre che i fatti su cui la presunzione si fonda siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignoto come l’unica conseguenza possibile dei fatti accertati secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva, ma è sufficiente che l’operata inferenza sia effettuata alla stregua di un canone di ragionevole probabilità con riferimento alla connessione degli accadimenti, la cui normale sequenza e ricorrenza può verificarsi secondo regole di esperienza, basate sull’id quod plerumque accidit, valutabile ex art. 116 cod. proc. civ. dal giudice, che con prudente apprezzamento può pertanto ravvisare la non necessità di ulteriore prova al riguardo.

DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Giudizio di appello avverso sentenza emessa con rito abbreviato – Rinnovazione istruttoria – Limiti – Prove sopravvenute – Valutazione della “necessità” dell’integrazione probatoria nel rito abbreviato – Art. 603, c.3, cod. proc. pen.

Nel giudizio di appello avverso la sentenza emessa all’esito di rito abbreviato è ammessa la rinnovazione istruttoria esclusivamente ai sensi dell’art. 603, comma 3, cod. proc. pen. e, quindi, solo nel caso in cui il giudice ritenga l’assunzione della prova assolutamente necessaria, perché potenzialmente idonea ad incidere sulla valutazione del complesso degli elementi acquisiti; tuttavia, in presenza di prova sopravvenuta o emersa dopo la decisione di primo grado, la valutazione giudiziale del parametro della assoluta necessità deve tener conto di tale “novità” del dato probatorio, per sua natura adatto a realizzare un effettivo ampliamento delle capacità cognitive nella chiave “prospettica” sopra indicata. Pertanto, nei casi in cui si proceda con giudizio abbreviato, la mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello per assumere d’ufficio, anche se su sollecitazione di parte, prove sopravvenute che non siano vietate dalla legge o non siano motivatamente ritenute manifestamente superflue o irrilevanti, può essere sindacata, in sede di legittimità, ex art. 603, comma 3, cod. proc. pen., soltanto qualora sussistano, nell’apparato motivazionale posto a base della conclusiva decisione impugnata, lacune, manifeste illogicità o contraddizioni, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza. Inoltre, la valutazione della “necessità” dell’integrazione probatoria nel rito abbreviato (sia d’ufficio che su richiesta dell’imputato) non è condizionata alla sua complessità od alla lunghezza dei tempi dell’accertamento probatorio, e non si identifica con l’assoluta impossibilità di decidere o con l’incertezza della prova, ma presuppone, da un lato, l’incompletezza di un’informazione probatoria in atti, dall’altro, una prognosi di positivo completamento del materiale a disposizione per il tramite dell’attività integrativa, valutazione insindacabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivata. Va aggiunto che, non sussistendo alcuna previsione in senso contrario, il potere di integrazione probatoria “ex officio” non è soggetto a limiti temporali, potendo intervenire in ogni momento e fase della procedura, anche nel corso della discussione o addirittura dopo il termine di essa, qualora il giudice ravvisi l’indispensabilità dell’approfondimento istruttorio dopo essersi ritirato in camera di consiglio

DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Concorso di circostanze di specie diversa – Attenuanti ex art. 62-bis cod. pen..

Le attenuanti previste dall’art. 62-bis cod. pen. sono state introdotte con la funzione di mitigare la rigidità dell’originario sistema di calcolo della pena nell’ipotesi di concorso di circostanze di specie diversa, e tale funzione, ridotta a seguito della modifica del giudizio di comparazione delle circostanze concorrenti, ha modo di esplicarsi efficacemente solo per rimuovere il limite posto al giudice con la fissazione del minimo edittale, allorché questi intenda determinare la pena al di sotto di tale limite, con la conseguenza che, ove questa situazione non ricorra, perché il giudice valuta la pena da applicare al di sopra del limite, il diniego della prevalenza delle generiche diviene solo elemento di calcolo e non costituisce mezzo di determinazione della sanzione e non può, quindi, dar luogo né a violazione di legge, né al corrispondente difetto di motivazione.

(conferma sentenza del 20/06/2016 – CORTE ASSISE APPELLO di BRESCIA) Pres. MAZZEI, Rel. CASA Ric. P.G. nel proc. Gilberti ed altri


Allegato


Titolo Completo

CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. 1^, 31/10/2019 (Ud. 25/09/2018), Sentenza n.44528

SENTENZA

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE

composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

omissis

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto dal PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI BRESCIA nel procedimento a carico di:

GILBERTI ENRICO nato a ROBECCO D’OGLIO (pure ricorrente);
ABULAIHA MOHAMED SALEH ;
YAMMINE NESS ;
BILLI GIULIANO GUERRINO nato a CREMONA ;
COLOMBO PIERLUIGI nato a ABBIATEGRASSO;

parti civili:
ASSOCIAZIONE DOPOLAVORO FERROVIARIO DI CREMONA;
SOCI DELLA CANOT.BISSOLATI: VILLA LAURA E ALTRI;
SOCI DELLA CANOT.BISSOLATI: MAURI ROSSANA E ALTRI;
SOCI DELLA CANOT.BISSOLATI: TRIVELLA MICHELA E ALTRI;
SOCI DELLA CANOT.FLORA: BOVERI CESARINA E ALTRI;
LEGA AMBIENTE LOMBARDIA;
RUGGERI GINO, COMUNE DI CREMONA;

avverso la sentenza del 20/06/2016 della CORTE ASSISE APPELLO di BRESCIA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere FILIPPO CASA;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Roberto Aniello che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso del Procuratore Generale e per il rigetto del ricorso di Gilberti Enrico.

uditi i difensori: l’avvocato Giuseppe Rossodivita difensore della parte civile comune di Cremona conclude per l’inammissibilità o per il rigetto del ricorso di Gilberti Enrico.

L’Avvocato Gennari Gian Pietro difensore della parte civile Soci della Canottieri Bissolati: Villa Laura e altri conclude per l’inammissibilità o per il rigetto del ricorso di Gilberti Enrico.

L’Avvocato Tampelli Claudio difensore della parte civile Soci della Canottieri Bissolati: Mauri Rossana e altri conclude per l’inammissibilità o per il rigetto del ricorso di Gilberti Enrico.

L’Avvocato Beretta Annalisa difensore della parte civile Associazione Dopolavoro Ferroviario di Cremona conclude per l’inammissibilità o per il rigetto del ricorso di Gilberti Enrico.

L’Avvocato Romanelli Alessio difensore della parte civile Lega Ambiente Lombardia e in qualità di sostituto processuale dell’Avv. Castelli Vito difensore della parte civile Soci della Canottieri Bissolati: Trivella Michela e altri e Soci della Canottieri Flora: Boveri Cesarina e altri conclude per l’inammissibilità o per il rigetto del ricorso di Gilberti Enrico.

L’Avvocato Lonati Simone, difensore di Abulaiha Mohamed Saleh, conclude per l’inammissibilità o in subordine per il rigetto del ricorso del PG.

L’Avvocato Lunghini Giacomo Umberto, difensore di Yammine Ness, conclude per l’inammissibilità o in subordine per il rigetto del ricorso del PG.

L’Avvocato Melzi D’Eril Carlo, difensore di Billi Giuliano Guerrino, Gilberti Enrico e Colombo Pierluigi, conclude per l’inammissibilità o in subordine per il rigetto del ricorso del PG e per l’accoglimento del ricorso di Gilberti Enrico.

L’Avvocato Villata Riccardo, difensore di Gilberti Enrico, conclude per l’inammissibilità o in subordine per il rigetto del ricorso del PG e per l’accoglimento del ricorso di Gilberti Enrico.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza resa in data 18.7.2014, il Giudice dell’Udienza Preliminare del Tribunale di Cremona dichiarava GILBERTI Enrico e BILLI Giuliano Guerrino colpevoli del reato di cui agli artt. 81 e 434, comma , secondo, cod. pen., disastro innonimato doloso di natura ambientale, così riqualificate le condotte di cui al capo B) della rubrica (in origine, avvelenamento di acque: art. 439 cod. pen.) e in esso assorbito l’evento di pericolo ambientale di cui al capo A), e GILBERTI Enrico colpevole anche della contravvenzione di cui all’art. 257, comma primo, secondo periodo, e comma secondo, D.L.vo n. 152/06 e, riconosciute ad entrambi le attenuanti generiche, per GILBERTI equivalenti all’aggravante di cui al comma secondo dell’art. 257 cit., e applicata la diminuente del rito abbreviato, condannava:

– GILBERTI Enrico, per il reato di cui agli artt. 81 e 434 cod. pen., alla pena di sei anni di reclusione e per quello di cui all’art. 257 D.L.vo n. 152/06 alla pena di sei mesi di arresto e 9.000,00 euro di ammenda;

– BILLI Giuliano Guerrino, per il reato di cui agli artt. 81 e 434 cod. pen., alla pena di tre anni dì reclusione.

Venivano applicate ai predetti le pene accessorie di legge.

Dichiarava ABULAIHA Mohanned Saleh e COLOMBO Pierluigi colpevoli del reato di cui all’art. 449, primo comma, cod. pen., disastro colposo innominato di natura ambientale, così modificata l’originaria qualificazione del fatto di cui al capo B), in esso assorbito l’evento di pericolo ambientale di cui al capo A), e altresì colpevoli entrambi della contravvenzione di cui all’art. 257, comma primo, secondo periodo, e comma secondo D.L.vo n. 152/06 e, riconosciute ad entrambi le attenuanti generiche, equivalenti all’aggravante di cui al comma secondo dell’art. 257 cit., e applicata la diminuente del rito, condannava:

ABULAIHA Mohamed Saleh e COLOMBO Pierluigi alla pena di un anno e otto mesi di reclusione ciascuno per il reato di cui all’art. 449 cod. pen. e alla pena di quattro mesi di arresto e 6.000,00 euro di ammenda ciascuno per il reato di cui all’art. 257 D.L.vo n. 152/06.

Ad entrambi gli imputati veniva concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena subordinato alla prosecuzione dei necessari interventi di bonifica e ripristino ambientale.

Assolveva YAMMINE Ness da tutti i reati a lui ascritti per non aver commesso i fatti. Assolveva BILLI Giuliano Guerrino dal reato di cui all’art. 257 D.L.vo n. 152/06 di cui al capo B) perché il fatto al momento della sua condotta non era previsto come reato.

Dichiarava non doversi procedere nei confronti degli imputati GILBERTI, BILLI, COLOMBO e ABULAIHA in relazione ai reati di cui agli artt. 137 e 256 D.L.vo n. 152/06 in quanto estinti per intervenuta prescrizione.

Condannava, inoltre, gli imputati GILBERTI, BILLI, COLOMBO e ABULAIHA al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali cagionati alle costituite parti civili, assegnando alle medesime una provvisionale immediatamente esecutiva, da corrispondersi per due terzi in solido dagli imputati GILBERTI e BILLI e per un terzo in solido dagli imputati ABULAIHA e COLOMBO.

Nelle medesime proporzioni i predetti imputati venivano condannati alla rifusione delle spese sostenute in giudizio dalle parti civili.

2. Con sentenza del 20.6.2016, la Corte di Assise di Appello di Brescia, in parziale riforma della decisione di primo grado, impugnata dal Procuratore Generale e dagli imputati ABULAIHA, BILLI, COLOMBO e GILBERTI:

– assolveva BILLI Giuliano Guerrino, ABULAIHA Mohamed Saleh e COLOMBO Pierluigi dai delitti di disastro loro rispettivamente ascritti, come ritenuti dal primo Giudice, perché il fatto non costituisce reato, nonché GILBERTI Enrico e i predetti ABULAIHA e COLOMBO dalle contravvenzioni di cui all’art. 257 D.L.vo n. 152/06 loro rispettivamente ascritte, perché il fatto non sussiste;

– riqualificato per GILBERTI Enrico il fatto-reato di disastro doloso a lui ascritto, come ritenuto in primo grado, in disastro innominato colposo di cui all’art. 449 cod. pen., e, ravvisata la circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 3), da porsi in comparazione alle già concesse attenuanti generiche con carattere di equivalenza, rideterminava la pena nei suoi confronti in tre anni di reclusione;

– revocava le pene accessorie dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici e dell’interdizione legale durante l’espiazione della pena, nonché quella di cui all’art. 36 cod. pen., inflitte al GILBERTI e riduceva nei suoi confronti la pena accessoria di cui all’art. 32-bis cod. pen. a una durata pari alla pena principale inflitta così come rideterminata.

Confermava, nel resto, l’appellata sentenza e condannava il GILBERTI a rifondere le spese sostenute in giudizio dalle parti civili costituite.

3. Il Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Brescia ha proposto ricorso nei confronti di tutti gli imputati.

3.1. Con il primo motivo, deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine all’esclusione della responsabilità degli imputati GILBERTI, BILLI, ABULAIHA, COLOMBO e YAMMINE per il delitto di avvelenamento di acque di cui all’art. 439 cod. pen., originariamente contestato.

Ad avviso del Procuratore ricorrente, doveva considerarsi errata, in quanto riduttiva e contrastante con la ratio legis, l’interpretazione dell’articolo citato nel senso della sua finalizzazione alla tutela delle acque direttamente destinate all’alimentazione umana, quanto meno in via mediata attraverso il loro impiego per la preparazione di alimenti.

Al contrario, la corretta interpretazione dell’art. 439 cod. pen. postulava che esso tutelasse efficacemente la salute umana comprendendo tra le acque considerate dalla norma quelle destinate, non solo direttamente, ma anche indirettamente, all’alimentazione umana, prima che fossero attinte o distribuite per il consumo.

Era pacifico che il reato si consumasse nel momento dell’avvelenamento delle acque, e cioè quando queste avessero assunto qualità tossiche tali da poter recare danno alle persone che, anche eventualmente o in maniera accidentale, le ingerissero, mentre non era necessario che avessero acquisito potere letale.

La motivazione peccava di contraddittorietà e manifesta illogicità laddove fondava la pronuncia assolutoria sul presupposto che l’utilizzo dell’acqua per le piscine e per l’irrigazione dei campi sportivi fosse un utilizzo non contemplato dall’art. 439 cod. pen., atteso il contrasto con la risultanza probatoria della possibilità di ingestione dell’acqua contaminata da parte degli utilizzatori delle strutture.

Era, infatti, emerso dal processo che l’acqua contaminata veniva utilizzata dalle società Canottieri Bissolati e Canottieri Flora, dal Dopolavoro Ferroviario e dal Cral Tamoil in più modi, ivi compreso un utilizzo indiretto a fini alimentari, essendovi un utilizzo che poteva comportare anche ingestione (accidentale o volontaria) dell’acqua medesima da parte delle persone che utilizzavano quei luoghi, dove vi erano strutture sportive, servizi igienici, bar e ristorante al servizio di dette strutture.

In relazione poi alle caratteristiche della falda superficiale posta idrogeologicamente all’interno dello stabilimento Tamoil – evidenzia il Procuratore ricorrente – i periti avevano accertato la contaminazione delle falde acquifere, con presenza di idrocarburi totali fino a centinaia di volte superiori ai valori soglia con conseguente pericolo per la salute delle persone.

3.2. Con il secondo motivo, si deducono violazione di legge e vizio di motivazione in ordine all’esclusione della responsabilità degli imputati GILBERTI, BILLI, ABULAIHA, COLOMBO e YAMMINE per il delitto di disastro ambientale di cui all’art. 434 cod. pen.

La sentenza impugnata aveva escluso la responsabilità degli imputati dal delitto di disastro ambientale doloso (art. 434, commi 1 e 2, cod. pen.) ritenendo, in primo luogo, che il dolo necessario per tale fattispecie fosse solo quello intenzionale, mentre nel caso in esame sarebbe stato dimostrato solo quello eventuale, fra l’altro riconosciuto unicamente a carico del GILBERTI; in secondo luogo, aveva escluso ogni responsabilità, sia dolosa che colposa, per gli altri imputati, affermando che essi avevano ricoperto posizioni tali da non rendersi conto di quanto stava accadendo, dato che il disastro ambientale era stato commesso mediante ripetute e gravi omissioni che ebbero a manifestarsi progressivamente per accumulo di una pluralità di microeventi verificatisi in un ampio arco di tempo (per BILLI, ABULAIHA e COLOMBO) ovvero perché “manager” privi di competenze da ingegneri (per YAMMINE).

Ad avviso del Procuratore ricorrente, l’impostazione seguita dalla Corte di merito non si conformava agli arresti della giurisprudenza di legittimità in materia di disastro ambientale ed era inficiata da motivazione contraddittoria e manifestamente illogica.

Osserva il ricorrente che, nel caso di specie, avrebbe dovuto ravvisarsi il concorso tra il reato di cui all’ad 439 cod. pen. e quello di cui all’ad 434, commi 1 e 2, cod. pen., tenuto conto della non sovrapponibilità delle condotte e degli eventi contestati e della diversa oggettività giuridica delle norme considerate.

Con riferimento al delitto di cui all’art. 434 cod. pen., il profilo del dolo non andava confuso con quello dell’intenzionalità del danno causato.

Essendo reato di pura condotta, ne derivava che, verificata la volontarietà e la consapevolezza dei comportamenti causativi della messa in pericolo del bene tutelato (ovvero della pubblica incolumità intesa come ambiente salubre), doveva ritenersi sussistente anche la prova del dolo del reato di disastro ambientale (e di avvelenamento delle acque, ipotesi non sovrapponibile).

Nel processo erano state ampiamente evidenziate la dolosa inerzia degli imputati nei ruoli ricoperti, le comunicazioni volutamente omissive, incomplete e reticenti, indirizzate agli organi della pubblica amministrazione, la mancanza di una effettiva bonifica e la permanenza della situazione di pericolo per la pubblica incolumità.

Erano, dunque, certamente ben rappresentate nella mente di tutti gli imputati con i ruoli di vertice e i poteri gestori descritti nelle imputazioni le condotte necessarie ad evitare gli eventi accaduti e sussisteva, in capo a ciascuno di loro, la consapevolezza dei rischi derivanti da tali omissioni in termini di salubrità delle matrici ambientali, comprese le acque.

Tale atteggiamento soggettivo assumeva, quindi, la fisionomia del dolo diretto e non del solo dolo eventuale, quest’ultimo, in ogni caso, dovendo considerarsi certamente provato e sufficiente per la condanna per il delitto di cui all’art. 434 cod. pen.

Sul punto, il Procuratore ricorrente osserva che, per giurisprudenza consolidata, l’espressione “fatto diretto a cagionare…”, contenuta nel primo comma della disposizione citata, non connota l’intensità dell’elemento soggettivo in termini di dolo intenzionale, ma assume una valenza essenzialmente oggettiva, quale idoneità o attitudine causale a cagionare il disastro; l’ambito di applicazione dell’art. 434 cod. pen. andava, dunque, esteso anche alle forme di dolo diretto ed eventuale, sicché doveva reputarsi errata la decisione della Corte bresciana di escludere la sussistenza del delitto in questione per mancanza di dolo intenzionale.

Al contrario, doveva concludersi per una declaratoria di responsabilità di tutti gli imputati per i delitti di cui agli artt. 439 e 434 cod. pen., per avere essi attuato scelte strategiche lesive dei beni giuridici protetti dalle norme contestate, oltre che concorso nelle scelte di omessa manutenzione e vigilanza.

Con particolare riferimento alla posizione di YAMMINE (amministratore delegato di TAMOIL RAFFINAZIONE s.p.a. dal 2006 in poi, nonché amministratore delegato dal 2006 e direttore generale di TAMOIL ITALIA s.p.a. dal gennaio 2004), doveva considerarsi errato e riduttivo da parte della Corte di merito, secondo il Procuratore ricorrente, escluderne la penale responsabilità in ragione del suo ruolo prettamente manageriale e non essendovi prova che avesse avuto puntuale e consapevole informazione dei dati tecnici concernenti l’inquinamento, tenuto conto della sua posizione di responsabilità gestionale in TAMOIL ITALIA e TAMOIL RAFFINAZIONE, che avrebbe dovuto indurlo, a partire dal gennaio 2004, a porre in essere le doverose operazioni:
a) volte a modificare le scelte gestionali della raffineria in relazione agli eventi accaduti e in corso di accadimento;
b) volte ad eliminare le pregresse omissioni rilevanti per la causazione dell’evento e, quindi, per non rimanere a sua volta in una situazione di dolosa omissione correlata al suo ruolo di garanzia;
c) volte, comunque, a realizzare le corrette operazioni di bonifica e intervento sulla contaminazione in corso ai suoi tempi.

Non avendo egli operato in tal modo, doveva rispondere, al pari degli altri imputati, dei delitti in contestazione, essendosi certamente rappresentato, sotto il profilo del dolo, le conseguenze delle scelte di quel periodo in cui egli aveva le leve del comando e poteva incidere efficacemente sui fatti posti in essere con scelte precedenti di TAMOIL.

4. Ha proposto ricorso GILBERTI Enrico per il tramite dei difensori prof. avv. Riccardo VILLALTA e avv. Carlo MELZI D’ERIL. Il ponderoso atto impugnatorio (309 pagg., indice escluso) è articolato in otto motivi (talvolta suddivisi in sottomotivi).

4.1. Il primo motivo si sviluppa in due sottomotivi: con il primo, si deduce violazione di legge in relazione all’elemento oggettivo del disastro ambientale colposo (art. 449 cod. pen.; art. 17 D.Lvo. n. 22/97; artt. 7, 9 e 10 D.M. n. 471/99; artt. 240 e 242 D.Lvo. n. 152/06); con il secondo, si denuncia l’inutilizzabilità dei verbali di s.i.t. rese da ABBIATI Giovanni il 30.10.2013 e da GHIDINI Luciano il 29.10.2013 in separato procedimento e mai acquisiti agli atti.

4.1.1. Il punto centrale, in diritto, del primo sottonnotivo attiene ai rilievi formulati in ordine alla qualificazione del fatto contestato come “disastro innominato”. La difesa del GILBERTI assume una posizione assai critica nei confronti dell’orientamento giurisprudenziale che si può sintetizzare con la formula del disastro “per accumulo”, comprensiva di plurimi e ripetuti microeventi produttivi di effetti permanenti nel tempo; posizione che l’ha indotta a sollevare, anche in questa sede, la questione di legittimità costituzionale – giudicata manifestamente infondata dalla Corte di Assise di Appello di Brescia – dell’art. 434 cod. pen.

Mancherebbero, ad avviso della difesa, nella fattispecie concreta, i seguenti elementi costitutivi, presenti in ogni altro disastro:

– un evento distruttivo di proporzioni straordinarie atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi;

– un unico evento distruttivo caratterizzato da (necessaria) concentrazione spaziale e temporale, essendo, viceversa, rilevabile una sommatoria e stratificazione di micro-eventi, frazionati nello spazio e diluiti nel tempo;

– la “proiezione offensiva”, cioè la capacità dell'(unico) evento di disastro di dar vita immediatamente – cioè al momento stesso del verificarsi dell’evento distruttivo – “ad un pericolo per la vita o per l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone”;

– il “pericolo per l’incolumità pubblica”, sostituito da un generico ed ineffabile rischio per la salute e da un inedito interesse dell’ambiente, sino ad un recentissimo passato estraneo alla sistematica del codice penale.

Il fondamento delle critiche all’applicabilità, nel caso in esame, della fattispecie di “disastro innominato” risiede su quella che la difesa ritiene una corretta lettura della sentenza n. 327/2008 C. Cost., come “autenticamente” interpretata dal suo estensore prof. FLICK in un noto parere pro ventate.

La Corte bresciana aveva aderito pedissequamente alla giurisprudenza tradizionale, senza farsi carico delle censure di carattere sistematico che la difesa aveva opposto a tale interpretazione.

Anche a voler aderire alla interpretazione seguita dalla Corte di merito, non si sarebbe potuto configurare, nel caso della TAMOIL, il contestato disastro, alla luce delle conclusioni che avevano contrassegnato il procedimento amministrativo:

1) nelle aree interne, approvazione del progetto di Messa in Sicurezza Operativa, soluzione pensata dal legislatore al fine di garantire tanto le esigenze di prosecuzione dell’attività quanto la primaria tutela dell’ambiente e della salute dei lavoratori;

2) nelle aree esterne, riconoscimento del sito come non giuridicamente contaminato (non essendo state superate le CSR in esito all’Analisi di Rischio sito specifica validata dagli Enti) e conseguente approvazione di un progetto di monitoraggio e ripristino ambientale.

Evidenzia, dunque, la difesa del GILBERTI che, per l’ordinamento amministrativo e per le Pubbliche autorità: – non sussisteva alcuna giuridica – e pericolosa per la popolazione di Cremona e, segnatamente, per i soci delle Canottieri – contaminazione delle aree esterne; – la situazione ambientale e sanitaria delle aree interne al sito risultava correttamente presidiata attraverso le misure che costituivano il progetto di messa in sicurezza operativa, forma legittima di conclusione del procedimento amministrativo in questione.

In conclusione, non sussisteva alcun disastro.

Del resto, la sentenza di primo grado l’aveva riconosciuto nel modificare la contestazione relativa al reato di omessa bonifica ex art. 257 D.Lvo. n. 152/2006 – insussistente in assenza di ordine di bonifica – in omessa comunicazione ex art. 257, co. 1, ultima parte.

La tendenza della Corte dell’appello era stata quella di non valutare le caratteristiche e la portata dell’evento materiale e fattuale,come realizzatosi in concreto, per concludere sulla sussistenza o meno del delitto di disastro, ma di puntare la sua attenzione, erroneamente, sulle caratteristiche intrinseche della condotta presupposta o, addirittura, successiva.

Quanto a queste ultime, la Corte di merito aveva fatto riferimento agli “interventi complessi e costosi” che la TAMOIL era stata “costretta” ad adottare, rilevanti non per l’evento, ma per la condotta inquinante eventualmente realizzata.

Il riferimento alle ordinanze comunali di divieto non spiegava quali conseguenze effettivamente si erano avute e di quale portata e intensità sulla vita dei soci delle Canottiere (anche alla luce della confortante conclusione dell’Analisi di rischio prima citata).

4.1.1.1. Quanto alla contestata sussistenza, in concreto, del pericolo per la pubblica incolumità, la difesa del ricorrente si duole che i Giudici dell’impugnazione non abbiano tenuto in alcuna considerazione i motivi di gravame, incorrendo nei vizi di violazione di legge, carenza, travisamento e contraddittorietà della motivazione.

Li ripercorre, richiamando, in primo luogo, la mancanza di rigore scientifico degli argomenti con i quali il primo Giudice – che si era improvvisato “scienziato” – aveva disatteso la consulenza del tossicologo Moretto.

Poi declina i singoli “errori” in cui era incorsa la motivazione di primo grado: – erronea attribuzione ai cd. “limiti-soglia” previsti dal D.Lvo. n. 152/2006 o dal D.Lvo. n. 31/2001 di valore scientifico e non meramente normativo, con conseguente erronea deduzione della sussistenza del pericolo per la pubblica incolumità dal superamento di detti parametri; – mancato ricorso da parte del Giudice al supporto tecnico di un perito tossicologo, con conseguente passivo recepimento delle opinioni dei periti, non esperti in quella materia, e dei Consulenti Tecnici delle Parti civili e del P.M. senza sottoporle ad un vaglio critico; – persistente lacuna probatoria sul punto, anche nel caso in cui fossero state disattese le conclusioni del prof. Moretto, non avendo né le Parti, né i Periti, né i CC.TT. dimostrato l’esistenza del pericolo per la pubblica incolumità.

La Corte di Assise di Appello non aveva colto l’essenza delle esposte censure, incorrendo, in motivazione, negli stessi errori commessi dal G.U.P. Andava criticato il rifiuto di cogliere la natura prettamente scientifica dell’accertamento probatorio relativa alla sussistenza del pericolo per la pubblica incolumità.

Posto che il “pericolo”, penalisticamente, corrisponde alla probabilità, al rischio di sviluppo di una lesione al bene giuridico al momento non verificatasi (e che potrebbe anche non verificarsi mai), nella vicenda in esame il Giudice avrebbe dovuto fare appello alla scienza medico-tossicologica per determinare se un pericolo effettivo per la salute si fosse eventualmente verificato.

La Corte di merito, incurante dei motivi di gravame sulla necessaria scientificità dell’accertamento, si era appiattita sull’impostazione della sentenza appellata, banalizzando l’unicità del contributo fornito dal prof. Moretto di cui coglieva scarni e pretestuosi indici di inattendibilità.

Nella rappresentata (e ignorata dalla Corte) prospettiva tossicologica, in cui il “rischio sanitario” è rapportato – secondo le linee guida OMS – all’entità dell’esposizione, ossia alla dose cui un soggetto o popolazione sono esposti (valutate le modalità di esposizione e definiti i limiti di concentrazione nella specifica fonte di esposizione), appariva chiara l’inadeguatezza e insufficienza di limitati parametri “lineari”, esclusivamente normativi e ispirati al cd. principio di precauzione.

Di tutta la complessità della sintetizzata impostazione, non vi era traccia nella sentenza di appello.

Dalla motivazione emergeva che, per la Corte, la sussistenza del pericolo per la pubblica incolumità sarebbe stato, di per sé, desumibile dalle caratteristiche stesse del fenomeno disastroso (in termini di estensione e diffusione), nonché dalla dimensione esclusivamente qualitativa e numerica della concentrazione delle sostanze inquinanti rilevate nelle aree interne, ma, soprattutto, esterne alla raffineria.

Si adducevano generici e approssimativi riferimenti alle sostanze cancerogene e all’inalazione.

Una impostazione, dunque, assolutamente non scientifica, attesa l’applicabilità, anche alla fattispecie di disastro, dei principi di evidenza scientifica fissati dalla giurisprudenza per il delitto di avvelenamento di cui all’art. 439 cod. pen.

La Corte lombarda aveva errato nella equiparazione tra superamento dei limiti tabellari (meri indicatori di “contaminazione”) e pericolo per la salute umana (limiti cd. health-based, basati sugli effetti sulla salute), posto che la giurisprudenza imponeva che il pericolo per la pubblica incolumità fosse “scientificamente accertato, nel senso che dev’essere riferito a dose di sostanza contaminante alla quale le indagini scientifiche hanno associato effetti avversi per la salute”.

Andava, poi, criticato il passaggio della motivazione laddove si afferma, in sintesi, che, con riferimento al reato di disastro ambientale, diversamente dal reato di avvelenamento, si possa prescindere dalla necessità della prova scientifica, dato che il pericolo per la pubblica incolumità è elemento costitutivo sia del disastro ex art. 434 cod. pen. che dell’avvelenamento ex art. 439 cod. pen.: ciò che cambia, in quest’ultimo, è solo la fonte da cui promana il pericolo (le acque).

Alle pagg. 191 ss. del ricorso la difesa esprime le sue censure sulle ragioni per le quali la Corte distrettuale aveva ritenuto inattendibile la consulenza del prof. Moretto (infondate, frutto di travisamento, inconferenti ma significative del modo di argomentare della Corte di Assise di Appello), appuntando, contraddittoriamente, le sue critiche su questioni marginali e palesemente infondate dopo aver riconosciuto la pregnanza delle tesi difensive.

In particolare, quanto alle obiezioni mosse dal consulente di Parte civile BALESTRIERI, rispetto alle quali la Corte imputava al prof. MORETTO di non aver controdedotto, la difesa deduce quanto segue.

Sull’obiezione di non avere il consulente tenuto conto delle assunzioni di benzene da parte dei soci delle canottiere in periodo antecedente al 2007, si evidenzia che il prof. MORETTO aveva utilizzato solo i dati del 2007 perché erano gli unici disponibili, in quanto solo in quell’anno erano stati disposti campionamenti sulle acque delle piscine e dei rubinetti delle Canottiere (prima di allora vi erano solo dati di campioni prelevati in falda, ma questi non erano utilizzabili per valutare la sussistenza dell’avvelenamento e del correlativo pericolo per la pubblica incolumità, dovendo essere verificati “al punto di distribuzione”).

Al rilievo di non aver considerato altre forme di assunzione del benzene oltre a quella di ingestione (inalazione, via cutanea), si risponde che la contestazione originaria era quella di avvelenamento di acque, quindi l’indagine era stata calibrata su quella forma di assunzione.

Sul tema delle soglie di “non-effetto” per le sostanze cancerogene (come il benzene), prendendo spunto dalle osservazioni di altro consulente di Parte civile (dott. ISERNIA), la difesa del GILBERTI obietta che i Giudici abbiano confuso l’ipotesi dell’assenza di soglie precauzionali con un’evidenza scientifica, in realtà inesistente, dell’assenza di soglie di “non-effetto”.

L’assenza di soglie di “non-effetto” non era dimostrabile sul piano scientifico: proprio perché non era disponibile la prova scientifica che, rispetto ad un composto cancerogeno, esistesse o meno una “dose innocua”, gli organismi nazionali e internazionali ipotizzavano, per i medesimi composti, l’assenza di una soglia di non-effetto; ma si trattava, appunto, di una scelta convenzionale assunta in un’ottica di mera prudenza, per finalità di prevenzione.

Alla critica formulata dalla Corte di merito rispetto all’utilizzo delle linee-guida dell’OMS (meno restrittive di quelle adottate dal legislatore italiano e dall’Istituto Superiore di Sanità) da parte del consulente MORETTO, si oppone che questi si era rifatto alle linee-guida dell’OMS, perché, diversamente dai parametri del legislatore nazionale, integrati dai pareri dell’ISS, indicatori di mera allerta di contaminazione, attenevano ai dati tossicologici, indicatori di un effettivo rischio per la salute.

La difesa del GILBERTI svolge, poi, censure sulla valutazione (o meglio, “svalutazione”) da parte della Corte di merito della cd. “analisi del rischio”, ponendo in luce, anzitutto, una contraddizione tra la rilevazione dell’assenza di qualsiasi effetto per la salute dalla contaminazione delle aree esterne e l’affermazione di responsabilità per averle contaminate.

La Corte di Brescia aveva contestato la rilevanza del documento in esame, ai fini dell’accertamento di una situazione di pericolo per la salute, in quanto i dati utilizzati sarebbero stati successivi all’esaurirsi del reato ovvero alla predisposizione della barriera idraulica.

L’argomento, secondo la difesa, era suggestivo, ma non significativo per le seguenti ragioni:

a) la prima campagna di indagine sui SOIL GAS e sulla qualità dell’aria-ambiente nelle aree delle Canottieri era stata effettuata nel marzo e aprile 2008 ed era stata descritta nell’Analisi di rischio del 2009: se erano stati utilizzati i dati dei SOIL GAS relativi alla campagna del luglio 2009 per calcolare il rischio associato ai percorsi di inalazione vapori era perché, prudenzialmente, risultavano concentrazioni più elevate che nella precedente campagna; in ogni caso, i risultati dei monitoraggi della qualità dell’aria in ambiente outdoor e indoor, condotti da TAMOIL in contraddittorio con ARPA, avevano dimostrato che la qualità dell’aria nelle aree Canottieri era “confrontabile” con la qualità dell’aria della città di Cremona, già nel 2008;

b) per quanto riguarda i dati relativi alla falda superficiale – l’unica risultata effettivamente inquinata – nella revisione dell’Analisi di rischio del luglio 2010 erano stati valutati e messi a confronto i risultati delle campagne di monitoraggio del dicembre 2005, del dicembre 2007 e del gennaio 2009. A fronte di queste indicazioni, secondo la difesa, la valutazionte del giudice sulla validità dell’analisi relativamente ai dati utilizzati appariva molto approssimativa, anche solo per il breve intervallo decorso tra l’entrata in funzione effettiva della barriera idraulica e la realizzazione di alcuni dei campionamenti poi considerati. L’Analisi di rischio 2010, approvata dalla Conferenza dei Servizi del 19.9.2011, aveva, del resto, accertato esclusivamente temporanei e limitati superamenti in pochi punti di terreno superficiale, tanto che per la società non è scaturito, ai sensi della normativa di settore, alcun obbligo di bonifica e sono stati esclusi pericoli per la salute pubblica.

4.1.1.2. Alle pagg. 208-210 del ricorso, la difesa del GILBERTI riepiloga, in sintesi, gli argomenti in base ai quali non potrebbe ritenersi sussistente l’elemento oggettivo del reato (in realtà, si affrontano anche profili attinenti all’elemento soggettivo), affermando che:

1) l’accertamento delle cause dell’inquinamento non poteva prescindere dalla indubbia presenza nelle aree del sito industriale e di quelle circostanti di un inquinamento stratificato nel tempo, circostanza, quest’ultima, che impediva di stabilire con precisione assoluta in quali tempi si era generato l’inquinamento, come era pervenuto nelle aree esterne e quando esso era cessato (il fenomeno andava considerato a partire dagli anni ’40, quando sul sito vi era un deposito di materiale petrolifero, ed era proseguito nei decenni, attesa la presenza sul luogo, a partire dal 1960, dell’impresa AMOCO, cui subentrò la TAMOIL nel 1983, senza peraltro potersi parlare al riguardo di “continuità aziendale”);

2) TAMOIL agì correttamente quale soggetto “interessato” ex art. 9 D.M. n. 471/99, in quanto giuridicamente “non responsabile” al momento dell’autodenuncia, alla luce del carattere storico e al momento stabile dell’inquinamento denunciato;

3) quanto presentato dalla Società con l’autodenuncia del 2001 non fu altro che un primo approccio a un sito storicamente inquinato, da segnalarsi agli Enti affinché i medesimi potessero avviare il procedimento descritto dalla legge;

4) non era possibile determinare né le modalità né la tempistica con cui le dispersioni di materiale inquinante erano avvenute in passato, sicché non era possibile neppure stabilire se il fenomeno fosse avvenuto prima o dopo il 2001, anno dell’autodenuncia da parte di TAMOIL (più probabile che fosse più antico);

5) in particolare, la presenza di MTBE (Metil-T-Butil-Etere) nelle aree esterne non era in grado di dimostrare che la propagazione all’esterno del sito fosse avvenuta senz’altro dopo il 2001, poiché il predetto additivo aveva cominciato a essere usato intorno alla metà degli anni 80; le tracce di MTBE rilevate nelle aree esterne non apparivano riconducibili ad una paventata inefficienza della barriera idraulica, bensì ad una residua presenza di surnatante nel terreno che rilasciava progressivamente MTBE nelle acque della falda;

6) non vi era stato alcun colpevole ritardo nel controllo sullo stato di conservazione nell’impianto delle fognature: quest’ultimo doveva senz’altro essere oggetto – nell’ambito di una più generale e completa investigazione sul sito – di un serio approfondimento (come la stessa Società ipotizzava nel Piano di caratterizzazione del 2001); era altrettanto certo, però, che esso non fosse l’unico tema di indagine, né tanto meno – nei primi anni in cui si sviluppò il rapporto con gli Enti – appariva a tutti i soggetti coinvolti il più urgente;

7) nessun obbligo di messa in sicurezza d’emergenza sussisteva in capo alla Società, pur nell’ipotesi di comunicazione presentata ai sensi dell’art. 7 (e non dell’art. 9) del D.M. n. 471/99;

8) a valle dell’impulso dell’interessata, gli Enti avviarono formalmente il procedimento solo nel 2005, dovendosi – da quel momento in poi – concertare ogni azione/proposta e risultando viceversa precluso attribuire alcun significato impositivo alle note del 2002 e del 2003;

9) nessun ritardo era rimproverabile al ricorrente nella verifica di una eventuale migrazione della contaminazione nelle aree esterne: la convinzione dei dirigenti TAMOIL che il cd. “taglione” (barriera sotterranea edificata al di sotto del margine maestro del fiume Po – situato tra la Raffineria e l’area occupata dai Circoli delle società Canottiere – all’inizio degli anni ’60 per arginare le piene del fiume) servisse davvero ad ostacolare il deflusso dell’inquinamento era fondata sul fatto che la parte più contaminata, quella più in alto, sarebbe senz’altro stata arrestata dal diaframma;

10) la realizzazione della barriera idraulica nel 2007 (attivata in tempi congrui a fronte della complessità del sito e della necessità di ottenere l’avallo delle Amministrazioni in ordine alle caratteristiche della medesima) rappresentò misura idonea a consentire l’effetto di contenimento dell’inquinamento prescritto dal legislatore per i siti produttivi, nell’ambito degli interventi di messa in sicurezza operativa, legittima e corretta soluzione finale del procedimento di bonifica relativo alle aree inquinate in attività;

11) la validazione dell’Analisi di rischio e l’accertata assenza di superamenti delle CSR tali da comportare il sorgere di un obbligo di bonifica delle aree esterne, condusse all’approvazione di un Progetto operativo di ripristino ambientale della zona circostante l’ex raffineria, progetto validato dagli Enti e costituito da misure di alleggerimento della contaminazione tutt’oggi in funzione.

4.1.2. Con il secondo sottomotivo del primo motivo di ricorso, come detto, si contesta l’utilizzabilità delle dichiarazioni rese a s.i.t. da GHIDINI Luciano e ABBIATI Giovanni, essendo stati essi sentiti dal Pubblico Ministero nell’ambito di un altro procedimento, all’epoca in fase di indagine, e non avendo i difensori prestato il consenso all’acquisizione dei verbali delle loro dichiarazioni, valorizzate a pag. 173 della sentenza impugnata.

4.2. Con il secondo motivo di ricorso, si ripropone la questione di legittimità costituzionale dell’art. 434 cod. pen., già giudicata manifestamente infondata dalla Corte bresciana. La difesa del GILBERTI ribadisce, anche in questa sede di legittimità:
– che si è consolidato, almeno sino all’intervento del legislatore del 2015, un diritto “vivente” basato su premesse ermeneutiche che contraddicono i canoni sulla cui base la Corte Costituzionale (vedi sentenza n. 327/2008) ha ritenuto infondata la censura di costituzionalità dell’art. 434 cod. pen.;
– che tale diritto vivente è frutto di una elaborazione interpretativa giurisprudenziale che oltrepassa i limiti della formulazione normativa e si risolve nella creazione di una nuova e diversa norma, con evidente vulnus degli artt. 25, comma 2, 27, comma 1, e 70 Cost.;
– che il riconoscimento della punibilità ex art. 434 cod. pen. dei fatti di disastro ambientale mediante immissioni a dinamica progressiva e seriale costituisce quello che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo definisce un “overruling” con effetti in malam partem, alla luce della sua portata incriminatrice e innovativa rispetto al passato, finendo per sanzionare comportamenti che all’epoca della loro commissione non erano previsti come reato o comunque per introdurre nell’ordinamento una norma incriminatrice non conoscibile al momento di realizzazione della condotta.

4.3. Il terzo motivo si articola in due sottomotivi:

con il primo, si deduce violazione di legge con riferimento all’elemento soggettivo del delitto di disastro ambientale (artt. 43, 61 n. 3, 449 cod. pen.);

con il secondo, si contesta l’utilizzazione in motivazione delle s.i.t. rese in separato procedimento – non acquisite agli atti – da AMBROSIO Lucio e SAVARESI Pierg i useppe.

4.3.1. Assume la difesa del ricorrente che, nel caso di specie, non poteva ravvisarsi una responsabilità colpevole, né sotto il profilo del dolo, né sotto quello della colpa.

Invero, con l’autodenuncia del 2001, gli imputati avevano volontariamente avviato la procedura di ripristino ambientale con cui avrebbero inevitabilmente posto il sito della raffineria sotto il faro degli enti di controllo e, non appena si ebbe maggiore consapevolezza circa l’entità dell’inquinamento, i dirigenti della società avevano immediatamente avviato, nel 2005, una decisa attività di ripristino integrale degli impianti, senza badare a spese, in modo inconciliabile con la volontà di provocare un disastro ambientale, nemmeno come conseguenza meramente eventuale.

Di qui la certezza che l’imputato non solo non avesse mai voluto un disastro ambientale, né ponderatamente aderito al medesimo, ma che ne avesse addirittura contrastato il verificarsi, in quanto esso avrebbe determinato perdite economiche di rilevantissima entità e avrebbe avuto effetti catastrofici in capo a tutti coloro che erano stati imputati nel presente giudizio.

Peraltro i dirigenti frequentavano essi stessi una delle società canottiere investita dalla contaminazione, il Cral Tamoil.

Da nulla era desumibile che il ricorrente si fosse rappresentato o potesse rappresentarsi, già dal 2001, la possibilità di contaminare le matrici ambientali in misura tale da provocare pericolo per la salute della collettività.

La consapevolezza dello stato di contaminazione delle aree esterne era stata acquisita solo con le prime analisi effettuate nel 2005, quando gli enti ebbero effettivamente dato impulso al procedimento amministrativo.

Non sussistevano, dunque, gli estremi per procedere alla messa in sicurezza di emergenza, trattandosi di procedura esperibile a fronte di eventi di contaminazione repentini e suscettibili di essere immediatamente arginati.

La TAMOIL aveva correttamente adempiuto agli obblighi di legge, procedendo alla autodenuncia.

Del resto, il GILBERTI dal 2004 non era più nemmeno amministratore delegato, ma semplice preposto alla gestione, privo, almeno fino al 2007, di un’autonomia di spesa.

4.3.2. Con il secondo sottomotivo del terzo motivo di ricorso, come detto, si contesta l’utilizzabilità delle dichiarazioni rese a s.i.t. da AMBROSIO Lucio e SAVARESI Piergiuseppe, essendo stati essi sentiti dal Pubblico Ministero nell’ambito di un altro procedimento, all’epoca in fase di indagine, e non avendo i difensori prestato il consenso all’acquisizione dei verbali delle loro dichiarazioni.

Precisa, peraltro, la difesa del ricorrente che AMBROSIO e SAVARESI sono stati esaminati, nel corso del giudizio di primo grado nel contraddittorio delle parti, all’udienza del 20.1.2014.

4.4. Con il quarto motivo, si denunciano la violazione dell’art. 603 cod. proc. pen. e vizio di motivazione in ordine ai presupposti della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale.

All’udienza del 29.4.2016, il Procuratore generale aveva depositato una lunga serie di documenti, tra cui uno studio di impatto ambientale che nel 2007 TAMOIL presentò al Ministero dell’Ambiente.

La Corte di Assise di Appello, in presenza di opposizione della difesa, nulla aveva disposto in ordine alla richiesta di acquisizione, ma nella sentenza impugnata si faceva riferimento ad uno di questi documenti.

Alla medesima udienza del 29.4.2016, ingiustificatamente la Corte di merito aveva respinto la richiesta difensiva di acquisizione di un elaborato tecnico dal titolo “Status ambientale delle acque sotterranee sottostanti le aree interne ed esterne del sito della ex raffineria di Cremona”, prova che sarebbe stata senz’altro rilevante.

4.5. Con il quinto motivo, si deducono la violazione dell’art. 441, comma 5, cod. proc. pen. e vizio di motivazione, con riferimento all’avvenuta acquisizione, da parte del Giudice di primo grado, dell’integrazione probatoria richiesta dal Pubblico Ministero in data 12.12.2013.

Nel corso del giudizio di primo grado, all’udienza del 12.12.2013, il Pubblico Ministero, quando ormai il giudizio abbreviato si avviava alla conclusione, aveva chiesto l’acquisizione di circa 1500 pagine di documentazione relativa alla rete fognaria di TAMOIL, nonché l’acquisizione di numerosi verbali di sommarie informazioni testimoniali. Illegittimamente il giudice, ai sensi dell’art 441, comma 5, cod. proc. pen., aveva ammesso i documenti e disposto l’audizione di alcuni tra i soggetti indicati dalla pubblica accusa, travalicando i limiti imposti dalla norma, che subordina l’integrazione probatoria all’impossibilità di definire il processo allo stato degli atti, ponendo un divieto per il giudicante di esplorare itinerari probatori estranei alla piattaforma probatoria già acquisita.

4.6. Con il sesto motivo, si contestano la violazione dell’art. 178, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. e vizio di motivazione sotto il profilo della mancata assunzione di una prova decisiva, costituita dall’elaborato del consulente di parte ALESINA.

Ingiustificatamente, con ordinanza emessa dal G.U.P. il 5.5.2014, era stata rigettata la richiesta avanzata dalla difesa di audizione del consulente di parte, Pierangelo ALESINA, cui era stato richiesto di accertare l’effettiva sussistenza di un nesso causale tra le anomalie del sistema fognario della raffineria e i livelli di contaminazione riscontrati nei terreni e nelle aree limitrofe.

4.7. Con il settimo motivo, ci si duole, sotto il duplice profilo della violazione di legge (artt. 133, 61 n. 3, 69, 31 e 32-bis cod. pen.) e del vizio di motivazione, della eccessiva severità del trattamento sanzionatorio.

La pena base, ad avviso della difesa del ricorrente, era stata fissata in una misura ingíustificatamente vicina al massimo edittale previsto dall’art 449 cod. pen., valorizzando il “grado di consapevolezza del rischio” e “la volontà di agire a costo di provocare l’evento”, che caratterizzano l’aggravante della colpa cosciente, pure inflitta, così duplicando l’incidenza in malam partem dei medesimi elementi.

Ingiustificatamente era stato negato un giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche rispetto all’aggravante della colpa cosciente, nonostante gli sforzi prodotti dalla società, a partire dal 2004, per contrastare l’inquinamento. Illegittimamente era stata inflitta la sanzione accessoria dell’interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese per una durata pari alla pena principale, nonostante l’ad 32-bis cod. pen. riservi la predetta pena accessoria ai reati commessi con abuso di poteri o con violazione dei doveri inerenti all’ufficio, connotazione estranea alla fattispecie incriminatrice di cui all’art 434 cod. pen.

Né la qualità di amministratore delegato preposto poteva essere assimilata ad una professione, trattandosi di un’attività di lavoro subordinato e non di una prestazione specialistica soggetta a peculiari abilitazioni.

4.8. Con l’ottavo ed ultimo motivo sono state censurate, sotto il duplice profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione, le statuizioni civili adottate. Erroneamente erano state ritenute ammissibili le richieste risarcitorie dei soci delle Canottieri uti singuli, nonostante i reati oggetto del presente processo offendessero un bene giuridico di natura collettiva, e cioè, la incolumità pubblica. Né i presunti danneggiati avevano dimostrato di aver subito un qualche reale ed effettivo nocumento dal fatto di reato contestato. Erroneamente era stato riconosciuto il presunto danno non patrimoniale, e cioè il danno alla vita di relazione, nonostante quest’ultimo sia risarcibile unicamente in presenza di una rilevanza costituzionale dell’interesse, di una gravità del medesimo, con esclusione delle ipotesi qualificabili alla stregua di disagi o fastidi, come quello di non aver potuto usufruire degli spazi delle Canottieri per un periodo di circa 20 giorni e ciò, peraltro, in assenza di qualunque concreta dimostrazione.

Infondato era anche l’asserto relativo alla paura di essere stati contaminati, giacché l’esito del procedimento amministrativo aveva posto in luce l’insussistenza di rischio per i soggetti nelle aree esterne allo stabilimento.

Inammissibile era pure la costituzione di parte civile del cittadino RUGGERI Gino, poiché l’azione popolare prevista dall’art. 9 T.U. enti locali era consentita solamente nell’ipotesi di inerzia del Comune e non quando l’ente aveva provveduto esprimendo la sua volontà: era, di conseguenza, inammissibile, per tardività, la costituzione del Comune in appello, da considerarsi autonoma e non connessa a quella del predetto cittadino.

Non erano risarcibili le voci incluse nel cosiddetto danno ambientale, non riconoscibile in favore di enti territoriali diversi dal Ministero dell’Ambiente. E comunque, non sussisteva alcun nesso logico tra i reati asseritamente commessi dall’imputato e l’attività svolta dal Comune di Cremona, che era in ogni caso tenuto ad effettuare tutte le campagne di monitoraggio, analisi controllo necessarie,

Neppure risarcibile era la voce relativa al danno da turbamento psichico, che presuppone la dimensione individuale della lesione, che non può ricollegarsi alla posizione collettiva di cui è esponente l’ente territoriale.

Quanto al danno all’immagine, esso era risarcibile solo qualora il reato fosse stato commesso da un soggetto appartenente alla pubblica amministrazione. Erroneamente era stata ammessa la costituzione di parte civile di Legambiente, Lombardia Onlus, poiché le voci di danno riconosciute costituivano sfaccettature del danno ambientale, il cui risarcimento le associazioni ambientali non erano legittimate a chiedere.

5. E’ stata depositata memoria nell’interesse delle Parti civili costituite: singoli soci delle società Canottieri; Dopolavoro Ferroviario di Cremona; Lega Ambiente Lombardia Onlus; Comune di Cremona. Sintetizzati lo svolgimento del processo e i temi del ricorso GILBERTI con una prima confutazione delle tesi sostenute dalla difesa del ricorrente, i difensori di parte civile analizzano, in particolare, i primi tre e l’ottavo motivo di quel ricorso.

Si deduce l’inammissibilità del primo motivo, sia per difetto del requisito dell’autosufficienza, non enucleando detto motivo specifici profili di doglianza avverso la motivazione, sia perché essenzialmente finalizzato, in relazione alle preliminari questioni risolte dal Giudice dell’appello per ricostruire sul piano probatorio le diverse componenti dell’elemento oggettivo del reato, a prospettare una tesi interpretativa diversa rispetto a quella rappresentata nella sentenza impugnata.

Sempre con riferimento al primo motivo di ricorso, ad avviso delle parti civili deve considerarsi inammissibile anche la doglianza sulla utilizzazione, da parte del Giudice dell’appello, delle s.i.t. rese da ABBIATI Giovanni e GHIDINI Luciano, mai formalmente acquisite al fascicolo del procedimento. Invero, tale profilo di doglianza non sarebbe idoneo a superare la cd. prova di resistenza, sia perché non è stata specificamente dedotta in ricorso la loro rilevanza probatoria nel contesto degli altri elementi di prova, sia perché, comunque, all’esito del procedimento di verifica, il vizio denunciato risulterebbe ininfluente sulla motivazione, che si fonda, invece, sulla decisiva deposizione dell’ing. AMBROGIO Lucio, dipendente di TAMOIL con l’incarico di seguire il settore sicurezza e ambiente dal 1990 al 2009.

Le specifiche censure illustrate dalla difesa GILBERTI al punto 5 del primo motivo di ricorso con riguardo al metodo seguito dal giudice dell’appello per.individuare il requisito del pericolo, così come richiesto dagli artt. 434 e 449 cod. pen., si risolvono, ancora una volta, nella prospettazione di una diversa tesi interpretativa sulla ricostruzione della concreta fattispecie, finalizzata a sovrapporre una nuova valutazione delle risultanze processuali e delle conclusioni alle quali erano pervenuti i consulenti tecnici delle parti rispetto a quella già effettuata dalla Corte di Assise di Appello di Brescia.

Una lunga digressione, poi, viene svolta in memoria per esaminare le circostanze di fatto già oggetto di accertamento nei due gradi di giudizio (in particolare: la datazione dell’inquinamento; la ricostruzione storica delle aree contaminate dall’inquinamento; la storia del sito industriale dove sorge la raffineria di Cremona) e, in relazione ai singoli sottomotivi del primo motivo di ricorso, vengono sviluppati argomenti a confutazione delle critiche mosse dalla difesa del ricorrente sulla ricostruzione storica operata dalla difesa della parte civile ritenuta valida dalla Corte di Assise di Appello.

In ordine al secondo motivo del ricorso GILBERTI, la parte civile reputa infondata l’eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 434 cod. pen. in riferimento agli artt. 25, comma 2, 27, comma 1, e 70 Cost., in quanto essenzialmente finalizzata a ottenere un improprio avallo interpretativo alla tesi difensiva secondo cui la progressiva contaminazione di risorse ambientali, seppur particolarmente grave e intensa, non sarebbe riconducibile alla norma incriminatrice di cui all’art. 434 cit.

Invero, né prima della sentenza n. 327/2008 della C. Cost., né dopo, la giurisprudenza di legittimità, nell’individuare la figura di disastro ambientale innominato, era incorsa nella violazione della nozione unitaria di “disastro” che caratterizza i delitti compresi nel capo I del titolo VI del codice penale.

Tale nozione, infatti, come rilevato dal Giudice delle Leggi nella citata pronuncia, “corrisponde sostanzialmente” a quella “accolta dalla giurisprudenza di legittimità, con un indirizzo…apprezzabile…in termini di diritto vivente”.

La clausola di riserva “al di fuori dei casi di cui all’art. 434 cod. pen.”, posta in capo all’art. 452-quater c.p., nuova figura di disastro ambientale introdotta dalla L. 22.5.2015 n. 68, aveva, poi, attribuito definitiva e vincolante approvazione alla interpretazione giurisprudenziale antecedentemente consolidatasi e consentiva ora, in forza di legge, l’applicazione della figura generale del disastro innominato tutte le volte in cui il disastro verificatosi in ambito ambientale non integrasse i requisiti specializzanti previsti dall’art. 452-quater cod. pen..

Nel dedicarsi al terzo motivo del ricorso GILBERTI, le Parti civili oppongono le loro controdeduzioni alle singole censure mosse dall’imputato in ordine alla ricostruzione dell’elemento soggettivo del reato operata dalla Corte di merito.

Quanto, poi, all’eccepito uso di prove dichiarative inutilizzabili (s.i.t. Savaresi Piergiorgio e Ambrosio Lucio), si rimarca nella memoria che le stesse nulla aggiungevano sui temi d’indagine specifici (l’essere l’impianto fognario della raffineria TAMOIL una delle possibili cause dell’inquinamento, da subito individuata come tale e come tale da investigarsi; l’avere l’imputato GILBERTI ritardato, malgrado i richiami degli Enti pubblici, le ispezioni e le riparazioni), che risultavano accertati dalla Corte d’Assise d’Appello dopo approfondita disamina ed espresso vaglio critico in via documentale, testimoniale e peritale. Nell’ultima parte della memoria vengono sviluppati argomenti confutativi dei rilievi critici esposti nell’ottavo motivo del ricorso GILBERTI, concernente le statuizioni civili, con particolare riguardo: alle voci di danno riconosciute ai singoli soci delle Canottieri; alla legittimazione e al diritto del Comune di Cremona al risarcimento dei danni subiti; alla legittimazione originaria del cittadino elettore RUGGERI Gino; ai danni patrimoniali e non patrimoniali subiti dal Comune di Cremona; alla legittimazione e al diritto di Legambiente Lombardia Onlus al risarcimento dei danni patiti; alla parte civile Dopolavoro Ferroviario e ai danni riconosciuti in via provvisionale.

6. E’ stata depositata memoria nell’interesse degli imputati ABULAIHA Mohamed Saleh, BILLI Giuliano Guerrino, COLOMBO Pierluigi e GILBERTI Enrico in replica al ricorso presentato dal Procuratore Generale di Brescia.

Le difese dei suddetti imputati chiedono dichiararsi l’inammissibilità del ricorso del P.G. per difetto del requisito di specificità o, comunque, per manifesta infondatezza.

La Procura Generale si era limitata a riprodurre le medesime doglianze sollevate in appello, ampiamente esaminate e disattese dalla Corte territoriale.

Il difetto di correlazione tra impugnazione e sentenza emergeva, tra l’altro, dall’avere il ricorrente trattato temi e questioni non attinenti all’imputazione e di cui non vi era traccia nelle sentenze di merito. Il “vizio di motivazione” veniva solo genericamente contestato, posto che da parte del ricorrente non si individuavano gli specifici passaggi dove la motivazione sarebbe stata carente, o contraddittoria o manifestamente illogica.

Vengono, poi, partitamente analizzati e confutati i singoli motivi di ricorso: sulla ritenuta sussistenza del reato di avvelenamento ex art. 439 cod. pen.; sul mancato riconoscimento del dolo del reato di disastro in capo a tutti gli imputati.

Si evidenzia, inoltre, l’assenza di prove sulla responsabilità degli imputati per dolo o colpa; si censura, infine, la mancata considerazione delle singole posizioni individuali degli imputati.

7. E’ stata depositata memoria nell’interesse dell’imputato YAMMINE Ness in replica al ricorso presentato dal Procuratore Generale di Brescia. Sviluppa argomenti a sostegno della richiesta di inammissibilità sovrapponibili a quelli dedotti nella memoria presentata nell’interesse dei coimputati.

Illustra, poi, la rilevanza, trascurata dal P.G., della normativa di settore e del sistema delle procure e riporta in sintesi le argomentazioni spese dalla Corte di Assise di Appello a sostegno dell’assoluzione dell’imputato, il quale non aveva mai assunto, nemmeno su un piano formale, posizioni di garanzia, avendo, viceversa, svolto funzioni prettamente manageriali (economiche-finanziarie).

8. All’udienza del 13.7.2018, questa Corte, visto e applicato l’art. 615, comma 1, cod. proc. pen., rilevato che la molteplicità e l’importanza delle questioni da decidere imponeva il differimento della deliberazione ad altra udienza prossima, indicava e fissava a tal fine l’udienza del 25.9.2018.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso proposto dal Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Brescia va dichiarato inammissibile, mentre quello promosso da GILBERTI Enrico va rigettato.

1. Questioni di carattere generale.

Prima di passare ad affrontare specificamente le tematiche sviluppate nei ricorsi, si reputa opportuno fornire delle precisazioni in diritto di carattere generale, alla stregua delle quali questa Corte ha analizzato i motivi dedotti dalle parti.

1.1. In primo luogo sono state ritenute inammissibili le doglianze che reiterano in maniera pedissequa quelle già proposte con gli atti di appello e sulle quali la Corte territoriale ha reso motivazione esaustiva ed esente da vizi logici e di metodo.

Va ricordato, in proposito, che la riproduzione, totale o parziale, del motivo d’appello può essere presente nel motivo di ricorso solo quando ciò serva a “documentare” il vizio enunciato e dedotto con autonoma, specifica ed esaustiva argomentazione, che si riferisca al provvedimento impugnato con il ricorso e che si confronti con la sua integrale motivazione (Sez. 5, n. 46689 del 30/6/2016, P.M. in proc. Coatti e altri, non massimata sul punto; Sez. 3, n. 44882 del 18/7/2014, Cariolo e altri, Rv. 260608; Sez. 6, n. 34521 del 27/6/2013, Ninivaggi, Rv. 256133).

Il motivo di ricorso in cassazione è, infatti, caratterizzato da una duplice specificità.

Deve essere senz’altro conforme all’art. 581, lett. c), cod. proc. pen. ovvero contenere l’indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta presentata al giudice dell’impugnazione; ma, quando censura le ragioni che sorreggono la decisione, deve, altresì, enucleare in modo specifico il vizio denunciato, in modo che sia chiaramente sussumibile fra i tre soli vizi previsti dall’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., deducendo poi, altrettanto specificamente, le ragioni della sua decisività rispetto al percorso logico seguito dal giudice del merito per giungere alla deliberazione impugnata, sì da condurre a decisione differente (Sez. 6, n. 8700 del 21/1/2013, Leonardo ed altri, Rv. 254584).

Risulta, pertanto, di chiara evidenza che se i motivi di ricorso si limitano – come in molte delle censure in esame – a riprodurre i motivi d’appello, viene meno in radice l’unica funzione per la quale è previsto e ammesso (la critica argomentata al provvedimento), posto che con siffatta mera riproduzione il provvedimento impugnato, invece di essere destinatario di specifica critica argomentata, è di fatto del tutto ignorato (tra le tante, Sez. 5 n. 25559 del 15/6/2012, Pierantoni, n.m.; Sez. 6 n. 22445 dell’8/5/2009, P.M. in proc. Candita, Rv. 244181; Sez. 5 n. 11933 del 27/1/2005, Giagnorio, Rv. 231708).

1.2. Va ulteriormente precisato, sempre in via generale e con riferimento alle deduzioni in fatto svolte dai ricorrenti, che a questa Corte non possono essere sottoposti giudizi di merito, non consentiti neppure alla luce del nuovo testo dell’art. 606, lettera e), cod. proc. pen.; la modifica normativa di cui alla legge 20 febbraio 2006 n. 46 lascia, infatti, inalterata la natura del controllo demandato alla Corte di cassazione, che può essere solo di legittimità e non può estendersi ad una valutazione di merito.

Il nuovo vizio introdotto è quello che attiene alla motivazione, la cui mancanza, illogicità o contraddittorietà può essere desunta non solo dal testo del provvedimento impugnato, ma anche da altri atti del processo specificamente indicati; è, perciò, possibile ora valutare il cosiddetto travisamento della prova, che si realizza allorché si introduce nella motivazione un’informazione rilevante che non esiste nel processo oppure quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronunzia.

Solo attraverso l’indicazione specifica di atti contenenti la prova travisata od omessa si consente nel giudizio di cassazione di verificare la correttezza della motivazione (Sez. 3, n. 44901 del 17/10/2012, F., Rv. 253567).

Giova, peraltro, ricordare che il travisamento della prova, se ritenuto commesso dal giudice di primo grado, deve essere dedotto dinanzi al giudice dell’appello, pena la sua preclusione nel giudizio di legittimità, non potendo essere denunziato con ricorso per cassazione il vizio di motivazione in cui sarebbe incorso il giudice di secondo grado se il travisamento non gli era stato rappresentato (Sez. 5, n. 48703 del 24/9/2014, Biondetti, Rv. 261438).

2. Il ricorso del Pubblico Ministero.

Come detto, il ricorso va dichiarato inammissibile.

Giova ribadire, per una migliore comprensione dei motivi di impugnazione dedotti dall’Organo della Pubblica accusa, che, al termine del giudizio di secondo grado, tutti gli imputati, tranne il GILBERTI, sono stati assolti dai delitti di disastro loro rispettivamente ascritti perché il fatto non costituisce reato, mentre, quanto al GILBERTI, il fatto di disastro doloso ex art 434 cod. pen. a lui ascritto è stato riqualificato in disastro innominato colposo aggravato di cui agli artt. 449 – 61 n. 3 cod. pen.

L’imputazione, contestata originariamente a YAMMINE Ness, ABULAIHA Mohamed Saleh, GILBERTI Enrico, BILLI Giuliano Guerrino e COLOMBO Pierluigi, nelle rispettive qualità – rivestite nei periodi meglio dettagliati in sentenza – di amministratore delegato, di direttore generale e di preposto alla gestione della raffineria di Cremona della TAMOIL ITALIA s.p.a. e della TAMOIL RAFFINAZIONE s.p.a., concerneva, viceversa, l’avvelenamento delle acque della falda superficiale e intermedia, contaminate da idrocarburi e metalli pesanti anche nelle aree circostanti poste al di fuori del perimetro della raffineria, provocato da reiterate condotte di sversamento di sostanze inquinanti,dovuto a forme abituali di gestione illecita dei rifiuti, ad incidenti, a perdite dai serbatoi e/o dalla rete di raccolta delle acque, a fronte dei quali gli imputati non avevano adottato idonei interventi di messa in sicurezza, non avevano proceduto ad effettuare tempestive analisi geologiche e avevano dichiarato anche ai competenti organi della pubblica amministrazione che non sussistevano i presupposti per i predetti interventi, con conseguente grave e consapevole ritardo nell’adozione di soluzioni tecniche atte a limitare l’avvelenamento delle acque e l’inquinamento del suolo (in Cremona dal 2001 al 23 luglio 2007).

2.1. Il primo motivo, teso a far rivivere, nei confronti di tutti gli imputati, la originaria incolpazione di avvelenamento doloso di acque, è manifestamente infondato in diritto.

La Suprema Corte ha, invero, da tempo chiarito – e di recente ribadito – che le acque considerate dall’art. 439 cod. pen. sono quelle destinate all’alimentazione umana, abbiano o non abbiano i caratteri biochimici della potabilità secondo la legge e la scienza. Con la conseguenza che è configurabile la fattispecie criminosa prevista dall’indicata norma anche se l’avvelenamento delle acque sia stato operato in acque batteriologicamente non pure dal punto di vista delle leggi sanitarie, ma comunque idonee e potenzialmente destinabili all’uso alimentare (Sez. 4, n. 6651 dell’8/3/1985, Bossi, Rv. 169989, in riferimento allo sversamento nel terreno di sostanze inquinanti di origine industriale, penetranti in falde acquifere, con conseguente avvelenamento dell’acqua di vari pozzi della zona; più di recente, Sez. 4, n. 25547 del 10/5/2018, PC Comune di Carisio, PC Saltarelli E. in procedimento c. Cordioli C. e altro, Rv. 272965 – 01). In coerenza con l’enunciato principio, che il Collegio condivide, la Corte di Brescia ha escluso, nel caso sottoposto al suo esame, la configurabilità del reato di cui all’art. 439 cod. pen. a ragione del fatto che le acque attinte dall’inquinamento ascrivibile alla raffineria TAMOIL non erano destinate all’alimentazione. A tale conclusione i Giudici lombardi sono pervenuti essendo pacificamente emerso dal processo come, da un lato, l’acquifero profondo, notoriamente attingibile per il fabbisogno idrico della popolazione, non fosse risultato inquinato e, dall’altro, le acque in concreto contaminate venissero utilizzate dalle società Canottiere per le piscine e i servizi annessi, nonché per l’irrigazione dei giardini e dei campi sportivi, vale a dire per aree e finalità che nulla avevano a che fare con lo sfruttamento alimentare, anche indiretto (pag. 200 della sentenza impugnata).

Secondo il Procuratore ricorrente, la decisione della Corte di Assise di Appello non teneva conto della circostanza che l’acqua contaminata fosse utilizzata dalle società canottiere in più modi, “ivi compreso un utilizzo indiretto a fini alimentari, essendovi un utilizzo che poteva comportare anche ingestione (accidentale o volontaria) dell’acqua medesima da parte delle persone che utilizzavano quei luoghi, ove vi erano strutture sportive, servizi igienici, bar e ristorante al servizio di tali strutture”.

Sul punto non può che condividersi la posizione della Corte di merito, secondo la quale il dato testuale della norma (“Chiunque avvelena acque o sostanze destinate all’alimentazione”), del tutto conforme all’epigrafe (“Avvelenamento di acque o di sostanze alimentari”), induce a ritenere che il legislatore, con la previsione di tale reato, abbia inteso tutelare le acque che siano destinate “direttamente” all’alimentazione umana, quanto meno in via mediata (attraverso il loro impiego per la preparazione di alimenti) e a prescindere dalla presenza, in esse, dei caratteri biochimici della potabilità.

Trattasi, invero, di posizione avallata da una giurisprudenza ormai ultratrentennale, che, facendo leva sulla chiarezza e tassatività del tenore letterale della disposizione, non consente “fughe” ermeneutiche nella direzione caldeggiata dal P.M. ricorrente, in quanto ricadrebbero nel divieto di analogia in malam partem previsto dall’art. 14 delle preleggi.

2.2. Il secondo motivo di ricorso è, per un verso, manifestamente infondato in diritto, e, per l’altro, non consentito in sede di legittimità.

2.2.1. Si sostiene, da parte del Procuratore bresciano, che dal processo sia emersa la prova della sussistenza, in capo agli imputati, quanto meno del dolo eventuale del reato di cui all’art. 434 cod. pen.

Tale forma di dolo sarebbe sufficiente per la condanna in ordine al suddetto reato, in quanto, per giurisprudenza consolidata, l’espressione “fatto diretto a cagionare” contenuta nel primo comma della disposizione in esame non connoterebbe l’intensità dell’elemento soggettivo in termini di dolo intenzionale, ma assumerebbe una valenza oggettiva, quale “idoneità o attitudine causale a cagionare il disastro”; l’ambito di applicazione dell’art. 434 cod. pen. andrebbe, dunque, esteso alle forme del dolo diretto ed eventuale, anche perché, in presenza di un corrispondente delitto colposo (art. 449 cod. pen.), l’opposta opinione lascerebbe un irragionevole vuoto di tutela con riferimento al medesimo evento disastroso, e non già per le forme intermedie di dolo diretto e dolo eventuale.

Doveva, quindi, considerarsi “concettualmente errata” la decisione, assunta dai Giudici dell’appello, di escludere la sussistenza del delitto di cui all’art. 434 cod. pen. ritenendo necessario ad integrarlo il dolo intenzionale. Trattasi di tesi che non può essere condivisa. Invero, l’assunto della Parte pubblica ricorrente esprime l’adesione a orientamenti giurisprudenziali di merito da tempo superati da questa Corte di legittimità, la quale ha, sul tema, ripetutamente statuito:
a) che il disastro innominato di cui all’art. 434 cod. pen. è un delitto a consumazione anticipata, in quanto la realizzazione del mero pericolo concreto del disastro è idonea a consumare il reato mentre il verificarsi dell’evento funge da circostanza aggravante (comma 2);
b) che il dolo è intenzionale rispetto all’evento di disastro ed è eventuale rispetto al pericolo per la pubblica incolumità (Sez. 1, n. 41306 del 7/10/2009, Scola, in motivazione, in cui si afferma che, con riferimento all’evento-disastro, è «possibile ipotizzare la tipologia teoretica del dolo eventuale soltanto allorché la legge non richieda, espressamente, che il soggetto agente si sia determinato alla consumazione della condotta con un determinato fine»; Sez. 1, n. 1332 del 14/12/2010, dep. 19/1/2011, Zonta, Rv. 249283 – 01; Sez. 4, n. 36626 del 5/5/2011, Mazzei, Rv. 251428 – 01).

I Giudici del gravame, facendo puntuale applicazione dei principi ora enunciati, hanno osservato, in base alle emergenze processuali, che nel “caso TAMOIL” non si è trattato di smaltimento illecito di rifiuti appositamente sotterrati (come nel caso giudicato con la sentenza Sez. 3, n. 46189 del 14/7/2011, Passariello ed altri, Rv. 251592 – 01, avente ad oggetto l’interramento di rifiuti prodotti dall’azienda Italmetalli Sud di S. Vitaliano) o, comunque, di intenzionale e occulto sversamento di sostanze contaminanti nelle aree esterne allo stabilimento, ma, soprattutto, di inerzia nel non ostacolare e impedire tempestivamente che la contaminazione accertata e denunciata nel 2001 da TAMOIL si disperdesse e si propagasse pericolosamente oltre l’area della raffineria.

In difformità da quanto ritenuto dal primo Giudice, la Corte dell’appello ha evidenziato come la peculiarità della condotta causativa del disastro risiedesse nell’essere la stessa essenzialmente connotata da “ritardi” nell’esecuzione delle doverose opere di risanamento del sistema fognario e delle misure di sicurezza, ritardi verificatisi nell’accettazione del “rischio” del disastro e, ciò nonostante, perpetratisi a costo di determinare l’evento. In coerenza con tali premesse, la Corte distrettuale ha concluso affermando come l’elemento psicologico ravvisabile nella condotta censurata non superasse la soglia del “dolo eventuale”, atteso che il procedimento amministrativo si era dipanato attraverso ripetute violazioni di regole cautelari, non già con lo scopo primario o finale di provocare il disastro, ma nella piena consapevolezza dell’elevato rischio che tale disastro potesse verificarsi a causa dei ritardi nel risanamento della rete fognaria e nell’adozione della misura di sicurezza d’emergenza. Da tali conclusioni la Corte lombarda ha tratto la necessitata conseguenza di non ritenere riconducibile la condotta del responsabile alla fattispecie di cui all’art. 434, comma 2, cod. pen., non coincidendo la forma di dolo concretamente ravvisata nel caso in esame quanto all’evento-disastro (dolo eventuale) con quella prevista dalla norma (dolo intenzionale) e, quindi, di stimare detta condotta rinnproverabile a norma degli artt. 449 e 61, n. 3), cod. pen., considerato come la colpa aggravata dalla previsione dell’evento fosse a fortiori individuabile all’interno della più intensa partecipazione psicologica costituita dal dolo eventuale (pagg. 212- 215 della sentenza impugnata).

Nel confermare la soluzione dogmatico-sistematica adottata dai Giudici dell’appello quanto alla fisionomia dell’elemento psicologico del reato di cui all’art. 434 cod. pen. e, dunque, la palese infondatezza in diritto della prospettazione del Pubblico Ministero ricorrente, fondata su retaggi ermeneutici ormai superati, il Collegio deve parimenti dichiarare inammissibile la seconda parte del secondo motivo di ricorso dell’Organo dell’accusa, afferente alle responsabilità degli imputati.

2.2.2. Nel passare in rassegna le singole posizioni, la Corte territoriale ha distinto nettamente quella del GILBERTI, in quanto presente nella gestione della TAMOIL per tutto il principale periodo interessato dal procedimento amministrativo e dall’avvenuta migrazione delle contaminazioni verso l’area occupata dalle società Canottiere, da quelle dei coimputati.

Rispetto a questi ultimi, dei quali è stata analizzata la specifica attività svolta, la Corte di merito ha ritenuto di escludere qualsivoglia forma di compartecipazione nel reato alla fine ascritto al solo GILBERTI osservando:
a) quanto a BILLI Giuliano Guerrino, che la breve durata in cui egli ebbe a rimanere nell’amministrazione della TAMOIL Italia s.p.a. (ne fu amministratore delegato dal 23.9.1999 al 21.12.2003) induceva ad escludere la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, posto che questo non era pervenuto a consumazione “a seguito di un macro-evento istantaneo”, ma si era verificato “progressivamente per accumulo di una pluralità di micro-eventi verificatisi in un ampio arco di tempo” e tenuto conto della circostanza che l’imputato si trovava fisicamente a Milano e non sul luogo dei fatti;
b) quanto ad ABULAIHA Mohamed Saleh, direttore generale della TAMOIL Raffinazione solo a far tempo dall’1.2.2007, che egli aveva assunto quel ruolo direttivo quando ormai l’evento-disastro era quasi giunto a consumazione e TAMOIL era in procinto di adottare la messa in sicurezza d’emergenza, decisa appena un mese dopo l’assunzione del ruolo di direttore generale da parte dell’imputato; considerato, inoltre, che il reato era stato contestato come permanente sino al 23.7.2007, doveva rilevarsi come il breve periodo di operatività di ABULAIHA non fosse stato contrassegnato da palesi omissioni sintomatiche della prova del dolo eventuale o della colpa rispetto al disastro;
c) quanto a COLOMBO Pierluigi, direttore generale di TAMOIL Raffinazione s.p.a. dal 22.5.2006 all’1.2.2007, che, in ragione del breve periodo di operatività per TAMOIL, difettava la pluralità di consapevoli omissioni suscettibili di illustrare l’atteggiamento psicologico (doloso o colposo) dell’imputato in relazione all’evento-disastro, tenuto conto che tale evento, come già detto, si era verificato progressivamente nel tempo;
d) quanto, infine, a YAMMINE Ness, amministratore delegato dal 28.7.2006 in poi di TAMAIL Raffinazione s.p.a., direttore generale di TAMOIL Italia s.p.a. dal 15.1.2004 al 28.4.2005 e, poi, amministratore delegato di detta società dal 28.4.2005, che, diversamente dagli altri imputati, non era dato rinvenire “alcun atto o firma” capaci di ricondurre al predetto una qualsiasi attività afferente alla materia ambientale; ed invero, doveva segnalarsi come lo YAMMINE fosse rimasto estraneo non soltanto alla fase relativa all’autodenuncia, alle varie conferenze di servizi e tavoli di lavoro relativi al periodo anteriore a quello in cui ebbe ad assumere la carica di amministratore delegato di TAMOIL Raffinazione s.p.a., ma, più in generale, a tutte le fasi in cui si era dispiegato il contraddittorio con gli Enti; e ciò, essenzialmente, in ragione del fatto che egli svolgeva funzioni prettamente manageriali (economiche-finanziarie), non essendo laureato né in ingegneria, né in chimica, laddove tali titoli di studio erano richiesti dal D.M. 31 luglio 1994 proprio per coloro che avrebbero diretto gli stabilimenti dediti alla lavorazione di oli minerali e dei loro derivati.

A fronte della sinteticamente illustrata ricostruzione e valutazione della Corte di Brescia (per il dettaglio della esposizione, si rimanda alle pagg. 219-229 della sentenza impugnata), argomentata in modo congruo e sempre contenuto nei limiti della plausibile opinabilità di apprezzamento, il Pubblico Ministero ricorrente ha opposto rilievi aspecifici per difetto di compiuta correlazione con la ratio decidendi ovvero formulati con approccio atomistico e, per lo più, rivalutativo delle emergenze processuali in senso favorevole alle tesi d’accusa, senza, tuttavia, che l’atto impugnatorio abbia colto singoli punti critici di passaggi motivazionali capaci di scardinare il ragionevole argomentare dei Giudici di merito nei termini sopra evidenziati. In conclusione, il ricorso del Procuratore Generale di Brescia va dichiarato inammissibile.

3. Il ricorso proposto nell’interesse di GILBERTI Enrico va, nel complesso, rigettato perché infondato.

3.1. Occorre, in primo luogo, prendere in esame le eccezioni di natura processuale.

3.1.1. Inutilizzabilità delle s.i.t. rese da GHIDINI Luciano in data 29.10.2013 e da ABBIATI Giovanni in data 29.10.2013 (sulla necessità di verificare tempestivamente le condizioni della rete fognaria). Con la censura formulata a pag. 103 del ricorso (nell’ambito del primo motivo), si lamenta che i verbali delle s.i.t. citate, assunti nell’ambito di diverso procedimento, prodotti dal P.M. davanti al G.U.P. all’udienza del 12.12.2013 con manifestazione di dissenso delle difese alla loro acquisizione, ed ai quali la sentenza impugnata fa riferimento a pag. 173, siano stati utilizzati nonostante non fossero mai stati formalmente acquisiti dalla Corte di Assise di Appello.

La doglianza è inammissibile per aspecificità. Ed invero, nell’ipotesi in cui con il ricorso per cassazione si lamenti l’inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l’incidenza dell’eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta “prova di resistenza”, in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento (Sez. 2, n. 30271 dell’11/5/2017, De Matteis, Rv. 270303 – 01; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 20/2/2017, La Gumina e altro, Rv. 269218 – 01; Sez. 6, n. 18764 del 5/2/2014, Barilari, Rv. 259452 – 01).

Tale operazione non è stata svolta nell’atto impugnatorio e, del resto, emerge dallo stesso impianto motivazionale della sentenza censurata la superfluità delle informazioni fornite dai due dipendenti TAMOIL prima nominati, i quali, quando vennero escussi nel 2013, non fecero altro che ribadire il contenuto di dati già emersi addirittura dal Piano di caratterizzazione presentato dalla società il 29.4.2001 e, poi, accertati dai periti in giudizio (v. nota n. 90 a pag. 173 che riporta un breve brano della deposizione resa dal perito SANNA all’udienza del 22.10.2013, in data, quindi, antecedente a quella delle due deposizioni in questione).

3.1.2. Inutilizzabilità delle s.i.t. rese da SAVARESI Piergiuseppe e AMBROSIO Lucio (terzo motivo di ricorso, secondo sottomotivo).

La doglianza è manifestamente infondata, in quanto, come riconosciuto dalla stessa difesa, sia il SAVARESI che l’AMBROSIO sono stati, in seguito, sentiti dal G.U.P. nel contraddittorio delle parti (udienza del 20.1.2014), sicché nella sentenza impugnata a queste deposizioni – e non alle precedenti s.i.t. – si fa riferimento quale mezzo di prova utilizzato.

3.1.3. Violazione dell’art. 603 cod. proc. pen. in merito ai presupposti della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale con riferimento all’avvenuta acquisizione, senza formale motivazione, della documentazione prodotta dal RG. di Brescia all’udienza del 29.4.2016 (quarto motivo di ricorso, prima parte).

Deduce la difesa del GILBERTI che, all’udienza del 29.4.2016 davanti alla Corte di secondo grado, il Procuratore Generale, in allegato a memoria ex art. 121 cod. proc. pen., aveva depositato, perché fossero acquisiti, numerosi documenti, fra i quali quelli relativi ad uno studio di impatto ambientale che nel 2007 TAMOIL ebbe a presentare al Ministero dell’Ambiente per chiedere la valutazione di compatibilità (ambientale, appunto) di un progetto finalizzato alla produzione di carburanti a basso tenore di zolfo (doc. n. 7).

La difesa si era opposta all’acquisizione, non ravvisando la sussistenza dei requisiti di cui all’art. 603 cod. proc. pen., nonché all’utilizzazione di detti documenti, tutti per lo più preesistenti alla pendenza del processo, in sede di discussione, in assenza di un formale e motivato provvedimento di ammissione.

La Corte di Assise di Appello nulla aveva disposto in ordine alla richiesta di acquisizione, né all’udienza del 29.4.2016, né successivamente; tuttavia, aveva, poi, utilizzato, in motivazione, una parte del documento – in cui si attestava la perfetta efficienza del sistema fognario TAMOIL – per dimostrare, ancora una volta, l’atteggiamento reticente palesato dalla società con gli enti pubblici sulle reali condizioni della rete fognaria.

La doglianza è inammissibile.

Occorre ricordare che, nel giudizio di appello avverso la sentenza emessa all’esito di rito abbreviato è ammessa la rinnovazione istruttoria esclusivamente ai sensi dell’art. 603, comma 3, cod. proc. pen. e, quindi, solo nel caso in cui il giudice ritenga l’assunzione della prova assolutamente necessaria, perché potenzialmente idonea ad incidere sulla valutazione del complesso degli elementi acquisiti; tuttavia, in presenza di prova sopravvenuta o emersa dopo la decisione di primo grado, la valutazione giudiziale del parametro della assoluta necessità deve tener conto di tale “novità” del dato probatorio, per sua natura adatto a realizzare un effettivo ampliamento delle capacità cognitive nella chiave “prospettica” sopra indicata (Sez. 1, n. 12928 del 7/11/2018, dep. 25/3/2019, P.G. in proc. M. e altro, Rv. 276318 – 02; Sez. 1, n. 8316 del 14/1/2016, P.G. in proc. Di Salvo e altri, Rv. 266145 – 01). Ciò posto, deve rilevarsi come il motivo di ricorso manchi di autosufficienza, in quanto stigmatizza, nella sostanza, la carenza di una motivazione che giustifichi l’acquisizione di un atto, senza, tuttavia, che il ricorrente si curi di offrire in produzione, anche per estratto, il verbale di udienza del 29.4.2016, onde consentire a questa Corte di valutare la fondatezza della censura proposta, sia sulla effettiva opposizione difensiva all’acquisizione sia sulla effettiva mancanza di un provvedimento acquisitivo (su supporto informatico sono allegati, infatti, al ricorso solo l’elenco dei documenti prodotti dal P.M. sub n. 39 e lo studio d’impatto ambientale TAMOIL Progetto Autoil 2 sub n. 40).

D’altro canto, a pag. 150 della sentenza impugnata si dà atto che la discussione si è sviluppata nelle udienze del 29.4.2016, 6.5.2016, 13.5.2016, 27.5.2016, 8.6.2016 e 20.6.2016, nel corso delle quali “sono state pure acquisite documentazioni e memorie”.

Ciò implica, secondo il significato letterale dell’espressione, ancorché di carattere generico, che sia esistito un provvedimento di acquisizione formale anche dell’atto menzionato dalla difesa del ricorrente e che detta acquisizione sia avvenuta, fino a prova contraria, in conformità ai principi giurisprudenziali sopra richiamati, ovvero al fine di ampliare gli orizzonti cognitivi dei Giudici di appello.

Quanto al profilo dell’inutilizzabilità dell’atto, precisato che quello evocato a pag. 181 dalla Corte di merito non è lo “Studio d’impatto ambientale”, ma la risposta fornita da TAMOIL in data 26.7.2007 alle richieste formulate dal Ministero dell’Ambiente il 9.7.2007, devono ripetersi le considerazioni svolte a proposito della censura esaminata sub 3.1.1., atteso il carattere meramente confermativo attribuito dalla Corte bresciana a quel documento rispetto ai plurimi elementi, documentali e testimoniali, dimostrativi della reticenza della TAMOIL sulle reali condizioni del sistema fognario descritti alle pagg. 179 e 180 della sentenza oggetto di ricorso.

3.1.4. Violazione dell’art. 603 cod. proc. pen. per la mancata acquisizione della relazione tecnica ARLOTTI-DONINI sullo stato delle acque della falda nelle aree interne ed esterne alla raffineria dopo le azioni intraprese da TAMOIL fra il 2007 e il 2015 (a integrazione dell’elaborato relativo al periodo 2007-2009). Illogicità della motivazione (quarto motivo di ricorso, seconda parte). La Corte di Assise di Appello, nell’ordinanza reiettiva del 29.4.2016, aveva evidenziato il carattere di “consulenza” della relazione ARLOTTI-DONINI per escluderne l’acquisizione, non ritenendo di qualificarla alla stregua di un “documento” e non reputandola assolutamente necessaria ai fini del decidere.

La difesa di GILBERTI deduce, da un lato, che l’art. 603 cod. proc. pen. non circoscrive affatto le prove suscettibili di giustificare una rinnovazione istruttoria alle prove documentali; dall’altro, che la prova richiesta poteva davvero risultare decisiva con riferimento alla valutazione dell’entità del disastro ambientale per cui era intervenuta condanna.

Ciò posto, deve, in primo luogo, rammentarsi che, nel giudizio di appello conseguente allo svolgimento del giudizio di primo grado nelle forme del rito abbreviato, le parti non possono far valere un diritto alla rinnovazione dell’istruzione per l’assunzione di prove nuove sopravvenute o scoperte successivamente, spettando in ogni caso al giudice la valutazione se sia assolutamente necessaria la loro acquisizione (fra molte, Sez. 1, n. 35846 del 23/5/2012, P.G. in proc. Andali, Rv. 253729 – 01).

Va, poi, evidenziato che, nei casi in cui si proceda con giudizio abbreviato, la mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello per assumere d’ufficio, anche se su sollecitazione di parte, prove sopravvenute che non siano vietate dalla legge o non siano motivatamente ritenute manifestamente superflue o irrilevanti, può essere sindacata, in sede di legittimità, ex art. 603, comma 3, cod. proc. pen., soltanto qualora sussistano, nell’apparato motivazionale posto a base della conclusiva decisione impugnata, lacune, manifeste illogicità o contraddizioni, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza (Sez. 2, n. 40855 del 19/4/2017, P.G. in proc. Giampà e altri, Rv. 271163 – 01; Sez. 6, n. 1400 del 22/10/2014, dep. 14/1/2015, PR, Rv. 261799 – 01).

Orbene, anche in questo caso, il ricorrente non ha rispettato appieno il dovere di autosufficienza del ricorso, in quanto ha riprodotto solo in modo parziale, a pag. 265 dell’atto impugnatorio, il contenuto dell’ordinanza emessa dai Giudici dell’appello in data 29.4.2016, come si evince dalla presenza di puntini sospensivi tracciati al quinto rigo del provvedimento, sicché non è dato sapere se la parte omessa dell’ordinanza contenesse o meno ulteriori argomentazioni.

Ma anche a voler prescindere da ciò, e anche a voler accedere alla qualificazione della relazione di consulenza tecnica di parte quale “documento” ai sensi dell’art. 234 cod. proc. pen., quanto meno nella parte eventualmente rappresentativa di elementi fattuali di natura oggettiva (Sez. 5, n. 5795 del 5/12/2012, dep. 5/2/2013, Grosso, Rv. 254646 – 01; diversamente, la consulenza andrebbe qualificata come “uno strumento di approfondimento investigativo ai pari delle prove dichiarative e documentali” e, comunque, “un contributo tecnico a sostegno della parte e non un mezzo di prova che il giudice deve necessariamente prendere in esame in modo autonomo”: Sez. 2, n. 19493 del 20/4/2016, P.O. in proc. Alibrando ed altro, Rv. 266719 – 01; Sez. 5, n. 42821 del 19/6/2014, Ganci e altri, Rv. 262111 – 01), la questione essenziale è che la difesa ha prospettato solo in modo apodittico la decisiva rilevanza del “documento” da acquisire (intitolato “Status ambientale delle acque sotterranee sottostanti le aree interne ed esterne del sito della ex raffineria di Cremona”, che “si proponeva di riassumere l’andamento nel tempo dello stato di qualità delle acque di falsa, così come riscontrato a valle delle azioni intraprese da TAMOIL, dal 2007 al 2015, per le aree interne – ex raffineria.. .ed esterne al Deposito, aree Canottieri”: pag. 264 ricorso), tenuto presente che il termine finale di consumazione del disastro colposo, come già accennato, non oltrepassa il 23.7.2007 – mentre lo “studio” in questione attiene a un periodo successivo alla consumazione del reato de quo – e, come riconosciuto dalla stessa difesa, era stato già rappresentato in giudizio, dai propri consulenti tecnici, lo stato ambientale di quelle aree in esito alle attività di caratterizzazione svolte nel periodo 2007-2009 (dunque, almeno in parte coincidente con quello di consumazione del reato).

Alla stregua di tale prospettazione, e sulla base del complessivo apparato argomentativo evincibile dalla sentenza quanto agli esiti dei plurimi accertamenti tecnici già svolti, non è censurabile la decisione, sintetica, ma non illogica, cui è pervenuta la Corte di merito nel ritenere detta consulenza “non necessaria ai fini del decidere”.

La doglianza difensiva si rivela, quindi, quanto meno infondata.

3.1.5. Violazione dell’art. 441, comma 5, cod. proc. pen. con riferimento all’avvenuta acquisizione, in primo qrado, dell’integrazione probatoria richiesta dal P.M. in data 12.12.2013 (1.500 pagg. di documenti su rete focinaria TAMOIL + numerosi verbali di s.i.t.).

Illogicità e contraddittorietà della motivazione (quinto motivo di ricorso).

Premette il ricorrente che il G.U.P. di Cremona si era riservato sulla richiesta di integrazione probatoria avanzata dal P.M. all’udienza del 12.12.2013 quale esercizio del diritto alla prova contraria rispetto ai risultati delle consulenze e produzioni di parte.

All’udienza successiva del 19.12.2013 il Giudice aveva disposto l’acquisizione della documentazione prodotta dal P.M., nonché l’audizione di alcuni tra i soggetti indicati dalla Pubblica accusa, negando l’acquisizione dei verbali di s.i.t.

L’ordinanza era stata impugnata con l’atto di appello. La Corte di Assise di Appello aveva respinto il motivo a pag. 168.

Dopo aver premesso che l’integrazione probatoria disposta ai sensi dell’art. 441, comma 5, c.p.p. incontra i soli limiti della necessità ai fini della decisione e del divieto di esplorare nuovi temi di prova, la Corte bresciana osservava: “…che l’integrazione probatoria disposta dal primo Giudice, a prescindere dalle espressioni da questi adoperate a fondamento del provvedimento (“…potenzialmente necessario…”) s’inserisce nel solco di quella complessa istruzione inerente un tema probatorio nient’affatto nuovo (quello delle fonti della contaminazione), la cui rilevanza era peraltro già ampiamente emersa nel giudizio abbreviato, non foss’altro in ragione delle contestazioni formulate dai difensori”.

Secondo la difesa del ricorrente, rispetto ai temi coinvolti dalle indagini non si profilava alcuna incompletezza probatoria suscettibile di rendere impossibile una pronuncia nel merito.

Al contrario, sino al dicembre 2013 non vi era alcun atto d’indagine relativo alla tematica del sistema fognario: la stessa aveva indubbiamente costituito un percorso investigativo del tutto nuovo.

La doglianza è infondata.

Va premesso che la valutazione della “necessità” dell’integrazione probatoria nel rito abbreviato (sia d’ufficio che su richiesta dell’imputato) non è condizionata alla sua complessità od alla lunghezza dei tempi dell’accertamento probatorio, e non si identifica con l’assoluta impossibilità di decidere o con l’incertezza della prova, ma presuppone, da un lato, l’incompletezza di un’informazione probatoria in atti, dall’altro, una prognosi di positivo completamento del materiale a disposizione per il tramite dell’attività integrativa, valutazione insindacabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivata (Sez. 2, n. 5229 del 14/1/2009, Massaroni Gabrieli, Rv. 243282 – 01; Sez. 2, n. 43329 del 18/10/2007, Mirizzi, Rv. 238833 – 01).

Va aggiunto che, non sussistendo alcuna previsione in senso contrario, il potere di integrazione probatoria “ex officio” non è soggetto a limiti temporali, potendo intervenire in ogni momento e fase della procedura, anche nel corso della discussione o addirittura dopo il termine di essa, qualora il giudice ravvisi l’indispensabilità dell’approfondimento istruttorio dopo essersi ritirato in camera di consiglio (Sez. 2, n. 24995 del 14/05/2015 P.G., Rechichi e altri, Rv. 264379 – 01; Sez. 1, n. 47710 del 18/6/2015, Bostiog, Rv. 265422 – 01; Sez. 5, n. 47074 del 20/6/2014 P.C. e altro Rv. 261279 – 01).

La Corte di Assise di Appello, nel confutare il motivo di gravame articolato sul punto, ha deciso attenendosi puntualmente ai principi giurisprudenziali su enunciati, osservando, con motivazione del tutto congrua, che l’integrazione disposta dal primo Giudice si inseriva – evidentemente completandolo – nel filone probatorio attinente al tema delle fonti della contaminazione, la cui rilevanza era già emersa nel giudizio abbreviato anche attraverso le contestazioni formulate dai difensori.

Del tutto assertivo, oltre che manifestamente infondato, è il rilievo difensivo secondo cui il tema probatorio sarebbe stato completamente nuovo, rilievo che non si confronta con le plurime risultanze di cui la Corte di merito dà conto nel capitolo 3. della seconda parte della motivazione, dedicato, appunto, alla “riconducibilità dell’inquinamento al sistema fognario della Tamoil” (pagg. 166 ss.) (dichiarazioni rese dal teste BASTONI Marco; esame di DINI Stefano; dichiarazioni rese dal teste BEATI, direttore dell’ARPA; servizio di video-ispezione eseguito da Tamoil tra la fine del 2004 e l’inizio del 2005). 3.1.6. Violazione dell’art. 178, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. per mancata acquisizione dell’elaborato del Consulente Tecnico ALESINA Pierangelo; vizio di motivazione (sesto motivo di ricorso).

Con l’appello era stata impugnata l’ordinanza 5.5.2014, con la quale il G.U.P. di Cremona aveva rigettato la richiesta difensiva di una “prova contraria” rispetto alla ponderosa documentazione depositata dal P.M. nel dicembre 2013 (vedi censura precedente), costituita dalla relazione del C.T. Alesina, avente ad oggetto l’effettiva sussistenza di un nesso causale tra le anomalie del sistema fognario della raffineria e i livelli di contaminazione riscontrati nei terreni e nelle falde limitrofe.

La Corte di secondo grado, alle pagg. 168-169 della sentenza, aveva confutato il motivo di appello osservando che la finalità sottesa a tale integrazione sarebbe stata quella non già di contestare l’assenza di correlazione tra lo stato di ammaloramento e la contaminazione circostante, ma soltanto quella di dimostrare “quanto e come la scarsa tenuta di alcuni tratti delle fogne avesse contribuito alla contaminazione”; una dimostrazione che non rivestiva particolare incidenza nel processo (e che tanto meno avrebbe potuto ritenersi “assolutamente necessaria” per giustificare l’assunzione della prova in quel grado di giudizio a norma dell’art. 603 cod. proc. pen.), avuto riguardo a quanto già evidenziato in ordine all’obbligo comunque gravante sui dirigenti TAMOIL di eliminare e contrastare l’inquinamento.

A prescindere dall’entità delle contaminazioni, tale obbligo gravava sui dirigenti a norma dell’art. 2051 cod. civ. Deduce la difesa del GILBERTI che il richiamo all’art. 2051 cod. civ. sarebbe fuorviante, come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa, atteso che la disciplina pubblicistica in tema di procedimenti di bonifica andava tenuta distinta dal regime ordinario di responsabilità aquiliana.

La motivazione doveva considerarsi inadeguata, tenuto conto della decisività dell’accertamento al fine di confutare l’assunto accusatorio sull’ascrivibilità della contaminazione al sistema fognario.

La doglianza è infondata.

Premesso che non è dato comprendere in che misura sarebbe “fuorviante” il richiamo all’art. 2051 cod. civ., visto che il regime ordinario di responsabilità aquiliana resta fermo a prescindere dalla disciplina pubblicistica in tema di procedimenti di bonifica, va detto che la risposta della Corte distrettuale al motivo di gravame deve reputarsi adeguata e non illogica, avendo essa preso spunto dalle parole usate dalla stessa difesa nell’atto di appello, laddove si è precisato essere l’accertamento richiesto teso a dimostrare “quanto e come la scarsa tenuta di alcuni tratti delle fogne avesse contribuito alla contaminazione”, dandosi, quindi, per implicito presupposto che il sistema fognario avesse, comunque, contribuito alla contaminazione medesima.

Allora corretta è stata la conclusione cui è pervenuta la Corte bresciana nell’escludere l’assoluta necessità dell’accertamento, anche in base alle considerazioni, logicamente collegate, svolte nelle pagine immediatamente precedenti (166-167), sulla riconducibilità dell’inquinamento al sistema fognario della TAMOIL, con le quali la difesa del GILBERTI non si è confrontata.

L’eccepita violazione del principio del contraddittorio deve considerarsi assorbita.

3.2. Questione di legittimità costituzionale dell’art. 434 cod. pen., in riferimento agli artt. 25, comma 2, 27, comma 1, e 70 Cost.

Con il secondo motivo di ricorso, la difesa di GILBERTI ripropone la questione di legittimità costituzionale già giudicata manifestamente infondata dalla Corte bresciana, ribadendo, anche in questa sede di legittimità:

– che il “diritto vivente” consolidatosi, almeno sino all’intervento del legislatore del 2015 (che ha introdotto, tra i “delitti contro l’ambiente” di cui al titolo sesto-bis del libro secondo del codice penale, quello di “disastro ambientale” previsto dall’art. 452-quater), si fonda su premesse ermeneutiche che contraddicono i canoni alla stregua dei quali la Corte Costituzionale (vedi sentenza n. 327/2008) aveva ritenuto infondata la censura di costituzionalità dell’art. 434 cod. pen. e costituisce il frutto di una elaborazione interpretativa giurisprudenziale che oltrepassa i limiti della formulazione normativa e si risolve nella creazione di una nuova e diversa norma;

– che il riconoscimento della punibilità ex art. 434 cod. pen. dei fatti di disastro ambientale mediante immissioni a dinamica progressiva e seriale realizza un “overruling” con effetti in malam partem, alla luce della sua portata incriminatrice e innovativa rispetto al passato, finendo per sanzionare comportamenti che all’epoca della loro commissione non erano previsti come reato o comunque per introdurre nell’ordinamento una norma incriminatrice non conoscibile al momento di realizzazione della condotta.
Ciò posto, va ricordato che, con la sentenza 30 luglio 2008 n. 327, la Corte Costituzionale, dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale della norma per insussistenza del vulnus al principio di determinatezza – denunciato proprio in alcune fattispecie in cui veniva in evidenza la figura del c.d. disastro ambientale – riconobbe che il concetto di disastro «si presenta, di per sé, scarsamente definito: traducendosi in una espressione sommaria capace di assumere, nel linguaggio comune, una gamma di significati ampiamente diversificati», ma ritenne che, «a precisare la valenza del vocabolo – riconducendo la previsione punitiva nei limiti di compatibilità con il precetto costituzionale evocato – concorrono la finalità dell’incriminazione e la sua collocazione nel sistema dei delitti contro la pubblica incolumità», per cui, pur auspicando l’intervento del legislatore con l’introduzione di specifiche fattispecie criminose, affermò la compatibilità costituzionale del reato, sia pure condizionandola ad una interpretazione sistematica coerente con i tratti fondamentali delle singole figure dei delitti compresi nel capo I del titolo VI (inondazione, frana, valanga, disastro aviatorio, disastro ferroviario ecc.), in modo da individuare una nozione unitaria di disastro «sotto un duplice e concorrente profilo. Da un lato, sul piano dimensionale, si deve essere al cospetto di un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani, atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi. Dall’altro lato, sul piano della proiezione offensiva, l’evento deve provocare – in accordo con l’oggettività giuridica delle fattispecie in questione (la «pubblica incolumità») – un pericolo per la vita o per l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone; senza che peraltro sia richiesta anche l’effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti». Alle critiche dottrinarie di incompatibilità tra una fattispecie di disastro ambientale costruita dalla giurisprudenza, in modo che si assume “creativo” (nonché elusivo dei dettami del Giudice delle leggi), come il risultato di più condotte rischiose che, cumulandosi nel tempo, producono danni ecologici anche di ampie dimensioni, e la natura necessariamente violenta delle azioni che causano il disastro, questa Corte di legittimità ha, peraltro, risposto affermando: – che la distinzione, accolta nel codice, tra i delitti commessi mediante violenza e quelli commessi mediante frode risponde più ad esigenze di ordine classificatorio che di natura definitoria, ed è espressione di criteri criminologici improntati alla prevalenza del disvalore di certi aspetti modali, piuttosto che di altri pure richiesti per l’integrazione della fattispecie, ma, soprattutto, che tale osservazione erroneamente identifica la nozione di “violenza”, assunta a criterio classificatorio, con la violenza reale cosiddetta propria, o materialmente inferta dall’agente;

– che è, al contrario, assunto consolidato e condiviso che nelle definizioni delle classi di reati che si articolano in base a siffatte distinzioni, il riferimento della commissione “mediante violenza” in contrapposizione a “mediante frode”, sta per lo più semplicemente a indicare che il fatto postula l’impiego di una qualsivoglia energia o un qualsivoglia mezzo – diretto o indiretto, materiale o immateriale – idoneo a superare l’opposizione della potenziale vittima e a produrre l’effetto offensivo senza la “cooperazione” di quella; – che, quindi, non è seriamente dubitabile che anche l’energia impiegata nell’ambito di un processo produttivo che libera sostanze tossiche e l’inarrestabile fenomeno, così innescato, di meccanica diffusione delle stesse, alla cui posizione non è possibile resistere, rappresenta, nell’accezione considerata, violenza (Sez. 1, n. 7941 del 19/11/2014, dep. 23/2/2015, P.C., R.C. e Schmidheiny, Rv. 262791 – 01).

Né sembrano eluse le indicazioni della Corte Costituzionale per quanto riguarda l’offesa alla pubblica incolumità.

Infatti, la giurisprudenza di questa Corte, in linea con le affermazioni del Giudice delle leggi, ha individuato tale bene nella tutela della vita e dell’incolumità delle persone, “indeterminatamente considerate, dal momento che il pericolo da esso (disastro, n.d.e.) cagionato deve essere caratterizzato dalla potenzialità di diffondersi ampiamente nello spazio circostante la zona interessata dall’evento” (Sez. 1, n. 1332 del 14/12/2010, dep. 19/1/2011, Zonta, in motivazione) e, conseguentemente, ha escluso che, ai fini della configurabilità del reato, si richieda che il fatto abbia direttamente prodotto la morte o la lesione delle persone, in quanto “è necessario e sufficiente che il nocumento abbia un carattere di prorompente diffusione che esponga a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone e che l’eccezionalità della dimensione dell’evento desti un esteso senso di allarme, sicché non è richiesto che il fatto abbia direttamente prodotto collettivamente la morte o lesioni alle persone, potendo pure colpire cose, purché dalla rovina di queste effettivamente insorga un pericolo grave per la salute collettiva; in tal senso si identificano danno ambientale e disastro qualora l’attività di contaminazione di siti destinati ad insediamenti abitativi o agricoli con sostanze pericolose per la salute umana assuma connotazioni di durata, ampiezza e intensità tale da risultare in concreto straordinariamente grave e complessa, mentre non è necessaria la prova di immediati effetti lesivi sull’uomo” (Sez. 3, n. 46189 del 14/7/2011, Passariello ed altri, Rv. 251592 – 01; Sez. 3, n. 9418 del 16/1/2008, Agizza, Rv. 239160 – 01; Sez. 5, n. 40330 dell’11/10/2006, Pellini, Rv. 236295 – 01; Sez. 4, n. 4675 del 17/5/2006, dep. 6/2/2007, P.G. in proc. Bartalini e altri, Rv. 235669 – 01; Sez. 1, n. 30216 del 25/6/2003, Barillà, Rv. 225504 – 01). Per le esposte considerazioni, che il Collegio fa integralmente proprie, deve ritenersi ineccepibile l’approdo cui è pervenuta la Corte territoriale nel giudicare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 434 cod. pen.

Né può parlarsi, come opina la difesa del GILBERTI, di un caso di overruling, concetto che, di per sé, è logicamente incompatibile con quello, richiamato dalla Corte Costituzionale, di “diritto vivente”, che tutto esprime fuorché un cambiamento repentino di giurisprudenza.

3.3. Nel primo e nel terzo motivo di ricorso la difesa del GILBERTI ha contestato la ravvisata sussistenza degli elementi oggettivo e soggettivo del reato ritenuto in sentenza.

3.3.1. Con riferimento al primo motivo, assai articolato e suddiviso in cinque capitoli, va osservato, richiamando le considerazioni generali in diritto svolte in via preliminare, che il ricorrente sviluppa censure già costituenti oggetto dei motivi di gravame dedotti in appello e già adeguatamente confutati, con ampia e congrua motivazione e dopo accurata analisi, dalla Corte territoriale.

Per dar conto delle une (censure difensive) e dell’altra (motivazione della Corte di merito), è, quindi, sufficiente, operare un rinvio alle parti della sentenza impugnata che hanno affrontato, e superato, con logico argomentare, i rilievi critici mossi dalla difesa del ricorrente.

3.3.1.1. E così, con riguardo al tema della “datazione dell’inquinamento” e alla tesi della “contaminazione storica” del sito sostenuta dalla difesa e confutata dai Giudici dell’appello, deve rinviarsi alle pagg. 158 ss. della sentenza, in cui si dà motivatamente conto:

a) della rilevazione dell’inquinamento a valle dell’insediamento della società, senza averlo riscontrato nelle acque sotterranee campionate nei piezometri posti a monte (pag. 324 della perizia);

b) della acclarata riconducibilità delle concentrazioni di idrocarburi rilevate nella falda alle lavorazioni petrolchimiche eseguite nella raffineria posta a monte (pagg. 318 ss. perizia; esame BORDI Francesco ud. 2.4.2012);

c) della accertata presenza di MTBE (composto chimico ossigenato antidetonante, meno tossico rispetto al piombotetraetile) in alcuni piezometri, sintomatica – stante la grande mobilità di detto contaminante in ambiente freatico – di sversamenti avvenuti a partire dalla metà degli anni ’80 (epoca in cui si iniziava a far uso di tale composto chimico, in significativa coincidenza con l’epoca in cui TAMOIL subentrò all’AMOCO, ossia nel 1983: perizia pagg. 33 ss. e 329; relazione consulente tecnico del P.M. BONAMIN del 30.2.2009);

d) della non sostenibilità probatoria dell’ipotesi di rilasci e depositi di diversa origine, risalenti agli anni ’40-’60 (in particolare, quanto alla presunta contaminazione delle lanche, v. pag. 161, note 40-41 e pag. 162);

e) della sostanziale continuità aziendale tra AMOCO (occupante il sito dal 1960) e TAMOIL ravvisata, del tutto logicamente, in base alla coincidenza di sede sociale, sede operativa, codice fiscale, struttura aziendale, tipologia produttiva, amministratore delegato, con la conseguente disponibilità, da parte dei responsabili della TAMOIL, degli elementi e strumenti idonei a consentire loro una diretta conoscenza della situazione del sito industriale.

Evidenziate le criticità sul piano probatorio della tesi difensiva della “contaminazione storica” del sito, la Corte bresciana ha ulteriormente e correttamente precisato come siffatta tesi si rivelasse infondata in diritto, osservando che, essendo la condotta delittuosa contestata agli imputati circoscritta al periodo marzo 2001 – luglio 2007, doveva considerarsi irrilevante che, prima del 2001, gli imputati o altri soggetti avessero dolosamente o colposamente immesso o consentito di immettere nella falda acquifera sostanze contaminanti e avessero omesso o ritardato l’eliminazione di esse, dal momento che essi, comunque, a far tempo dal 2001, avevano l’obbligo di non provocare dolosamente o colposamente quelle contaminazioni, ovvero di eliminarle tempestivamente, in ragione della loro posizione di garanzia derivante dal fatto che la società continuava a sversare la sostanza inquinante proveniente dai suoi stessi impianti (pag. 164).

3.3.1.2. Con riguardo al tema della “cause della contaminazione” e della “riconducibilità dell’inquinamento al sistema fognario”, deve rinviarsi alle pagg. 166 ss. della sentenza, in cui si dà motivatamente conto:

a) delle dichiarazioni rese dal teste BASTONI Marco (ingegnere idraulico alle dipendenze della ditta SONCINI nel 2006), sulla vetustà e l’ammaloramento della rete fognaria;

b) degli esiti del servizio di videoispezione effettuato dalla ditta IDROAMBIENTE nell’interesse della TAMOIL fra la fine del 2004 e l’inizio del 2005, che accertò come i danni alle tubazioni delle fogne fossero costituiti da giunti che non si allineavano perfettamente e da danni da erosione che avevano provocato addirittura alcuni “buchi” (in un caso la “disintegrazione” di un tratto di tubo: esame di DINI Stefano Carlo Giorgio, amministratore e direttore tecnico di IDROAMBIENTE, pag. 166 nota 58), dai quali usciva all’esterno il liquido (esame TOMASELLI Pierluigi, responsabile commerciale IDROAMBIENTE e SAVARESI Piergiuseppe, pag. 166 nota 57);

c) della documentazione acquisita presso IDROAMBIENTE attestante tali anomalie;

d) delle considerazioni tecniche dei periti, i quali, in ragione delle caratteristiche dello sversannento (quello di una dispersione diffusa nel tempo), avevano attribuito la causa primaria dell’inquinamento proprio alla rete fognaria (esami periti SANNA e MONGUZZI all’udienza del 22.10.2013, rif. pag. 167, nota 65).

3.3.1.3. Quanto al tema dell’ “omesso o ritardato controllo e risanamento della rete fognaria”, si rinvia alle pagg. 173 e seguenti, in cui si dà motivatamente conto, a confutazione della tesi degli appellanti secondo la quale prima del maggio 2004 – quando venne rilevata la presenza anomala di idrocarburi nel pozzo 7 – non sarebbero emersi segnali in grado di allertare TAMOIL sullo stato delle condutture fognarie, delle seguenti significative circostanze:

a) che la tesi difensiva non teneva conto di quanto accertato dai periti in ordine alle condizioni della rete fognaria (v. sopra) e agli interrogativi che i responsabili della TAMOIL avrebbero dovuto porsi a fronte delle rilevate contaminazioni (v. pag. 173, nota 90, esame perito SANNA: “La prima azione che si doveva fare nel 2001, quando si è fatta la famosa comunicazione, era di andare a vedere.. .

Questo materiale, questo prodotto che troviamo nel terreno.. .da dove viene?”);

b) che il teste ABBIATI, dipendente della TAMOIL dal 1972, aveva riferito come l’attività di manutenzione della rete fognaria iniziata dalla società nel 2004 costituisse la prima verifica dell’impianto fognario da quando era stato assunto;

c) che l’obbligo di ispezionare le fogne per verificare la loro tenuta nasceva quanto meno dal 2001, proprio a causa del fatto che nei “Piani di caratterizzazione” presentati dalla stessa società a fine aprile 2001 era stato indicato il sistema fognario quale possibile causa delle perdite e dispersioni provenienti dai “collettori fognari bianchi e oleosi”, nonché, come riferito dal teste GHIDINI Luciano, “dalla rete fognaria principale o dalle tubazioni interrate” (il quale teste aveva, pure, aggiunto che “I’input di eseguire tali verifiche sulle reti fognarie proveniva dalla famosa autodenuncia di cui tutti sapevano e quindi si rendeva necessario approfondire in tal senso”: pag. 173); d) che dall’autodenuncia dell’aprile 2001, in cui TAMOIL mostrava di essere edotta del rischio di provenienza dell’inquinamento dalla rete fognaria, erano trascorsi più di tre anni prima che la società, nell’ottobre 2004, decidesse di eseguire le necessarie videoispezioni, nonostante, in questo lasso di tempo, fossero continuati gli sversamenti inquinanti e gli Enti preposti avessero richiesto a TAMOIL di eseguire le relative verifiche:
d1) sia in occasione del sopralluogo del 3.5.2002, in cui, presenti i rappresentanti di ARPA, Comune, Provincia e TAMOIL, il funzionario dell’ARPA aveva chiesto di verificare le reti fognarie come possibili sorgenti di contaminazione;
d2) sia con lettera inviata a TAMOIL il 17.6.2003, in cui il Comune di Cremona aveva sollecitato le risposte già chieste nell’occasione precedente, tra le quali quella relativa alla effettuazione di “ispezioni fognarie” (pagg. 174-175).

Sempre sullo stesso tema, corretta è stata la risposta confutativa offerta dalla Corte territoriale all’obiezione difensiva, secondo la quale, a seguito dell’autodenuncia del 2001, la responsabilità di provvedere sarebbe passata agli Enti, atteso che, secondo quanto disposto prima dal D.M. n. 471/1999 e poi dal D.L.vo n. 152/2006, l’attività demandata a Regione, Provincia e Comune, non era catalogabile come attività di impulso, ma di controllo degli atti proposti dal soggetto interessato agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale, come, tra l’altro, ribadito a TAMOIL dal rappresentante della Regione, dott. DI NUZZO, in sede di Conferenza dei Servizi del 7.10.2009 (il quale aveva precisato che la progettazione di azioni integrative e di miglioramento dovesse partire dalla stessa ditta, mentre agli Enti spettava il compito primario di verificare e approvare i documenti: pag. 175).

Parimenti corretto è il rilievo, aggiunto dalla Corte di merito, circa la non pertinenza della prospettazione difensiva alla luce dei solleciti – di cui si è detto – rivolti a TAMOIL il 3.5.2002 e il 17.6.2003, significativi della messa in mora dei responsabili di TAMOIL da parte degli Enti preposti (e non del contrario) e, al contempo, della infondatezza della ulteriore tesi difensiva volta ad accreditare una sorta di “battuta di arresto” che gli Enti avrebbero accusato dal 2001 al 2003 per la necessità di approfondire le proprie conoscenze in materia.

3.3.1.4. Venendo al tema dell’ “omesso o ritardato controllo circa la possibile migrazione dell’inquinamento” verso le aree esterne alla Raffineria, deve rinviarsi alle pagg. 182 ss. dell’impugnata sentenza, in cui la Corte distrettuale dà convenientemente conto delle omissioni e ritardi in cui incorse la dirigenza TAMOIL esponendo la seguente cronologia di eventi:
a) con missiva del 12.1.2005 TAMOIL comunicava agli Enti la propria intenzione di verificare quanto sollecitato dal Comune nel giugno 2003, informandoli:
a1) che sarebbe stata verificata l’eventuale migrazione della contaminazione verso l’esterno e l’effetto di contenimento del “taglione” (barriera idraulica costruita per arginare le piene del Po);
a2) che sarebbe stato verificato lo stato della falda superficiale;
a3) che sarebbero stati eseguiti il monitoraggio e la verifica dei pozzi di approvvigionamento idrico, attivi e dismessi;

b) in sede di riunione tecnica del 12.5.2005, TAMOIL avvisava di non aver ancora eseguito indagini sulle aree esterne;

c) eseguite dette indagini tra agosto 2005 e gennaio 2006, soltanto nel febbraio 2006 TAMOIL trasmetteva i risultati delle verifiche, confermando come le aree esterne fossero contaminate da inquinamento, sia della falda superficiale, sia di quella intermedia, e informando dell’esistenza effettiva del “taglione” avente profondità massima di 10 metri;
d) solo nel corso della Conferenza dei Servizi del 2.3.2007 si provvide alla “messa in sicurezza di emergenza” del sito, approvando il progetto di barriera idraulica;

e) nella successiva Conferenza dei Servizi del 2.7.2007 ARPA aveva rappresentato che la barriera idraulica doveva essere riprogettata, tenuto conto delle contaminazioni rilevate nella falda a profondità superiore al previsto;

f) il 27.7.2007 la Provincia aveva diffidato TAMOIL ad attuare le misura di prevenzione e messa in sicurezza d’emergenza, nonché ad effettuare la bonifica.

Non illogica è la conclusione cui sono approdati i Giudici dell’appello nel reputare intempestiva anche la messa in sicurezza d’emergenza, considerato:

1) che già con lettera dell’8.4.2003 la Regione Lombardia aveva chiesto all’ARPA di voler relazionare in merito alle opere di messa in sicurezza adottate dalla società ed agli accertamenti effettuati al fine di verificarne l’efficacia e l’efficienza così come previsto dal secondo comma dell’art. 9 D.M. n. 471/1999;

2) che la situazione emergenziale e urgente poteva rappresentarsi ai dirigenti di TAMOIL almeno in occasione delle analisi eseguite tra agosto 2005 e gennaio 2006, che, come detto, avevano accertato, da un lato, la contaminazione delle aree esterne, occupate dalle società sportive e, dall’altro, la contaminazione della falda intermedia;

3) che nel corso della Conferenza dei Servizi del 2.3.2007 il rappresentante della Regione dott. NUZZO aveva contestato che TAMOIL, dalla data della Conferenza precedente (11.4.2006), non aveva fatto nulla per limitare la migrazione dell’inquinamento alle aree esterne.

Evidenziati i dubbi dei periti sulla effettiva idoneità della installata barriera idraulica a contenere l’inquinamento (essendo, a detta del perito MONGUZZI, misura distinta dalla bonifica, che porta, essa sola, alla rimozione biologica degli idrocarburi, mentre la messa in sicurezza fa in modo che la situazione non- peggiori, è un “tamponamento”: pag. 184, nota 134), la Corte di Assise di Appello ha, con argomentazioni adeguate, escluso che i dirigenti della TAMOIL, sin da quando, nel 2001, ebbero a predisporre la cd. autodenuncia, potessero considerarsi in buona fede sul presupposto che essi avrebbero fatto affidamento sul “taglione” quale barriera idraulica in grado di contenere le migrazioni delle sostanze inquinanti, posto che a quell’epoca vi erano evidenze tali da indurre ad affermare con certezza che tali sostanze potessero passare al di sotto del manufatto, avuto riguardo alla conosciuta misura del diaframma che, come tra l’altro ammesso nello stesso Piano di caratterizzazione del Deposito Tamoil, inviato agli Enti il 27.4.2001, si approfondiva soltanto di circa 9-10 metri rispetto al piano di campagna, sicché non avrebbe mai potuto contenere il passaggio delle sostanze contaminanti nell’area esterna attraverso la falda intermedia, notoriamente profonda sino a 20 metri.

3.3.1.5. Contenuto entro i limiti della plausibile opinabilità di apprezzamento è l’iter argomentativo seguito dalla Corte lombarda, attraverso il vaglio critico delle testimonianze BORDI e BEATI e della consulenza BONAMIN, valorizzate dalla difesa del GILBERTI, per ricollegare eziologicamente alle condotte omissive ricostruite e descritte “l’aggravamento dell’inquinamento”, sia con riferimento all’innalzamento dei dati relativi alle concentrazioni delle sostanze contaminanti, sia con riferimento alla migrazione delle stesse all’esterno dell’area TAMOIL.

Sul punto, si fa integrale rinvio al capitolo 9. della seconda parte della motivazione, pagg. 189 ss. In conclusione, le censure sviluppate dalla difesa del ricorrente nei primi quattro capitoli o sottomotivi del primo motivo di ricorso, in quanto costituenti, per lo più, mera reiterazione dei motivi dedotti in appello, già adeguatamente confutati dalla Corte di merito secondo la sintetica ricostruzione più sopra operata, nonché tendenti a una rivalutazione in fatto delle risultanze probatorie in senso favorevole all’imputato, devono dichiararsi inammissibili.

3.3.2. Venendo ad esaminare il quinto sottomotivo del primo motivo di ricorso, deve, in primo luogo, ritenersi infondata in diritto la censura sulla inapplicabilità al caso concreto della fattispecie prevista dagli artt. 434 e 449 cod. pen.

E’ necessario, brevemente, premettere che il legislatore del 2015, introducendo la più dettagliata fattispecie di “disastro ambientale” prevista dall’art. 452-quater cod. pen., non ha inteso abrogare l’art. 434, in quanto:

1) la nuova fattispecie individua ai nn. 1) (alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema) e 2) (alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali) ipotesi sanzionatorie del tutto estranee rispetto alla struttura del reato di disastro innominato e, dunque, con quest’ultimo non confliggenti al punto da determinarne l’abrogazione;

2) il confronto tra l’art. 434 cod. pen. e il n. 3) dell’art. 452-quater poteva essere pienamente risolto con il ricorso al principio di specialità, che già consente la delimitazione del confine tra la residuale area di operatività del disastro innominato e quella della più grave ipotesi novellata, connotata da una speciale offesa alla pubblica incolumità.

Anche senza l’introduzione della clausola di riserva “Fuori dai casi previsti dall’art. 434 cod. pen.”, quindi, il reato di disastro innominato avrebbe comunque funzione residuale, configurandosi solo quando non sussistano gli elementi specializzanti previsti dall’art. 452- quater cod. pen.

Nel caso, come quello di specie, in cui la condotta si è interamente esaurita prima dell’entrata in vigore della legge 22 maggio 2015, n. 68, qualora i Giudici di appello avessero voluto affrontare la questione di successione nel tempo fra i reati, eventualmente ritenendo che detta condotta contenesse in sé sia gli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 434 cod. pen., sia quelli connotanti la figura di disastro ambientale prevista dal n. 3) dell’art. 452-quater cod. pen., avrebbero, in ogni caso, dovuto applicare l’art. 434 quale norma più favorevole, per sanzioni e termini di prescrizione.

3.3.2.1. Ciò premesso e tornando all’inquadramento della fattispecie di cui all’art. 434 cod. pen., nel richiamare tutto quanto già esposto al precedente paragrafo 3.2., occorre ribadire, ancora una volta, il condiviso orientamento formatosi nella giurisprudenza di legittimità che ha ricostruito l’ipotesi delittuosa in esame sulla scorta delle indicazioni ermeneutiche fornite dalla sentenza della Corte costituzionale 30 luglio 2008, n. 327.

In una delle più recenti e significative decisioni, intervenuta a conclusione del procedimento “Eternit” (Sez. 1, n. 7941 del 19/11/2014, dep. 23/2/2015, PC, RC e Schmidheiny, Rv. 262790 – 01, citata nella successiva, conforme, Sez. 1, n. 2209 del 10/1/2018, P.G. in proc. Conti e altri, Rv. 272366 – 01), si è, in particolare, evidenziato, che, sulla base delle indicazioni fornite dalla citata pronuncia del Giudice delle leggi, era possibile «delineare una nozione unitaria di “disastro”, i cui tratti qualificanti si apprezzano sotto un duplice e concorrente profilo.

Da un lato, sul piano dimensionale, si deve essere al cospetto di un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani, atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi. Dall’altro lato, sul piano della proiezione offensiva, l’evento deve provocare un pericolo per la vita o per l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone; senza che peraltro sia richiesta anche l’effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti […]». E’ stata, in questo modo, definitivamente chiarita, sul piano ermeneutico, una nozione unitaria di disastro, che trae il proprio fondamento sistematico dalla decisione della Corte costituzionale richiamata e dalla giurisprudenza di legittimità consolidata (Sez. 3, n. 9418 del 16/1/2008, Agizza, Rv. 239160; Sez. 4, n. 19342 del 20/2/2007, Rubiero, Rv. 236140; Sez. 1, n. 30216 del 25/6/2003, Barillà, Rv. 225504; Sez. 4, n. 1171 del 09/10/1997, Posfortunato, Rv. 210152; Sez. 1, n. 17549 del 21/12/1988, dep. 1989, Sequestro, Rv. 182862), da ultimo ribadita nel caso “Eternit”.

Si è precisato che tale nozione unitaria, proprio perché connotata da “omogeneità strutturale” rispetto ai “disastri” contemplati negli altri articoli compresi nel capo dei delitti di comune pericolo “mediante violenza” (ancora Sez. 1, n. 7941/2015, Schmidheiny, necessariamente, che alla fattispecie prevista dall’art. 434 cod. pen. – cui viene pacificamente riconosciuta la funzione di norma di chiusura, laddove punisce il disastro innominato – possano essere ricondotti «non soltanto gli eventi disastrosi di grande immediata evidenza […] che si verificano magari in un arco di tempo ristretto, ma anche quegli eventi non immediatamente percepibili, che possono realizzarsi in un arco di tempo anche molto prolungato, che pure producano quella compromissione imponente delle caratteristiche di sicurezza, di tutela della salute e di altri valori della persona e della collettività che consentono di affermare l’esistenza di una lesione della pubblica incolumità […]» (Sez. 4, n. 4675 del 17/05/2006, dep. 2007, Bartalini, Rv. 235669).

Da tanto discende che, nonostante l’inclusione della fattispecie di cui all’art. 434 cod. pen. nell’ambito normativo che tratta specificamente del crollo, non si richiede che di tale fenomeno il disastro replichi le caratteristiche fenomeniche e naturalistiche, essendo evidente che può farsi concretamente riferimento a un evento di natura eterogenea rispetto a quelli presi in considerazioni dalle altre fattispecie del capo in cui la disposizione in esame è inserita; è, quindi, possibile escludere, in sintonia con la giurisprudenza richiamata, che la riconducibilità dei fenomeni disastrosi a un macroevento di dirompente portata distruttiva costituisca un requisito essenziale per la configurazione del reato di cui all’art. 434 cod. pen., come opinato dalla difesa del GILBERTI, essendo, viceversa, individuabile un evento disastroso anche in un fenomeno persistente, ma impercettibile, di durata pluriennale con le caratteristiche sopra delineate.

3.3.2.2. Ciò detto sul piano dei principi, ritiene il Collegio che correttamente la Corte di merito abbia concluso nel senso di ravvisare queste connotazioni fenomeniche dell’evento disastroso nella vicenda in esame, avendo dato conto, con congruo argomentare:
a) dell’avvenuto inquinamento, con sostanze altamente pericolose per la salute, nonché addirittura per l’incolumità umana, di due piscine e due pozzi della Canottieri Bissolati, di un pozzo e di una piscina della Canottieri Flora, di una piscina della Baldesio e di una piscina del Dopolavoro ferroviario;
b) di un inquinamento grave per ampiezza, intensità e durata: b1) riguardo all’ampiezza, per avere esso interessato, oltre alla grande area della Raffineria, quella, particolarmente estesa, occupata dalle società Canottieri, con migliaia di persone potenzialmente esposte al rischio di contrarre malattie cancerogene, quanto meno da inalazione; b2) riguardo all’intensità, per aver esso fatto registrare l’innalzamento dei valori delle sostanze contaminanti (in specie, il benzene) per concentrazioni superiori di due o tre ordini di grandezza, ovvero a 100 o 1000 volte i limiti stabiliti dalla legge e che ha persino indotto gli Enti a disporre con urgenza alcuni divieti, sia relativi all’utilizzo di acqua, sia addirittura riguardanti l’accesso alle società Canottieri; b3) riguardo alla durata, per essersi esso protratto per ben sei anni, sino a quando finalmente nel 2007 è stata installata la barriera idraulica;
c) di un grave inquinamento non irreversibile, ma, secondo quanto ritenuto dai periti, certamente non riparabile con normali opere di bonifica.

A fronte della coerente valutazione di tali plurimi e convergenti elementi probanti, le censure difensive vengono sviluppate su un piano essenzialmente assertivo-confutativo, sicché vanno dichiarate inammissibili.

3.3.2.3. Anche in ordine alla ritenuta sussistenza del pericolo concreto di effetti-tossico nocivi per la pubblica salute, la motivazione non presta il fianco a censure di manifesta illogicità o contraddittorietà.

E’ stato condivisibilmente affermato che, per la configurabilità del reato di disastro innominato colposo di cui agli artt. 449 e 434 cod. pen., è necessaria una concreta situazione di pericolo per la pubblica incolumità, nel senso della ricorrenza di un giudizio di probabilità relativo all’attitudine di un fatto certo a ledere o a mettere in pericolo un numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti (Sez. 4, n. 19342 del 20/2/2007, Rubiero e altri, Rv. 236410 – 01; Sez. 4, n. 14859 del 13/3/2015, P.G. in proc. Gianca, Rv. 263146; Sez. 4, n. 45836 del 20/7/2017, Tagliabue e altri, Rv. 271025). Si è, inoltre, detto che la prova di tale delitto non deve avere esclusivamente un fondamento scientifico, potendo basarsi, fra le altre, anche sul ragionamento logico e su massime di esperienza (Sez. 1, n. 58023 del 17/5/2017, Pellini, Rv. 271841 – 01). A tale proposito, si è osservato: «In realtà, la norma nella sua formulazione non richiede elemento siffatto, né pone l’indicata verifica come base dimostrativa necessaria del delitto nella sua descrizione tipica.

Se così fosse, invero, si introdurrebbe un elemento processuale-probatorio necessario – a carattere costitutivo della fattispecie – a fronte di un testo descrittivo che non lo prevede. Contrariamente la fattispecie è suscettibile di essere provata con ogni strumento, purché nella specie il giudice chiamato alla verifica possa dare spiegazione convincente sulla sussistenza del fatto nella sua dimensione materiale e psicologica» (Sez. 1, n. 58023/17, cit.). Nel caso in cui venga assunta nel processo una prova scientifica di carattere peritale, va rammentato che il perito assume una posizione processuale diversa rispetto a quella del consulente di parte, chiamato a prestare la sua opera nel solo interesse di colui che lo ha nominato, senza assumere l’impegno di cui all’art. 226 cod. proc. pen., con la conseguenza che il giudice che ritenga di aderire alle conclusioni del perito, in difformità da quelle del consulente di parte, non è tenuto a fornire autonoma dimostrazione dell’esattezza scientifica delle prime e dell’erroneità delle seconde, dovendosi considerare sufficiente, al contrario, che egli dimostri di avere comunque valutato le conclusioni del perito, senza ignorare le argomentazioni del consulente; costituisce, dunque, giudizio di fatto, incensurabile in sede di legittimità, la scelta operata dal giudice, tra le diverse tesi prospettate dal perito e dai consulenti delle parti, di quella che ritiene maggiormente condivisibile, purché, come detto, la sentenza dia conto, con motivazione adeguata, delle ragioni di tale scelta, del contenuto dell’opinione disattesa e delle deduzioni contrarie delle parti (Sez. 3, n. 17368 del 31/01/2019, Giampaolo, Rv. 275945 – 01 Sez. 4, n. 45126 del 6/11/2008, Ghisellini, Rv. 241907 – 01).

Ciò posto, i Giudici di merito, con motivazione accurata e scevra da vizi logici (sentenza di primo grado: pagg. 323-333; sentenza impugnata: pagg. 195-199 e 206-208), hanno ravvisato, sulla base delle concordi valutazioni dei periti (i chimici SANNA e MONGUZZI e il geologo GRECO) e dei consulenti tecnici delle parti civili (il chimico ISERNIA e i medici BAI e BALESTRERI) e con riferimento ai contaminanti Benzene, Toluene, Etilbenzene e MTBE rilevati dai campionamenti effettuati, il superamento – dalle 100 alle 1000 volte – dei valori massimi stabiliti quale soglia limite per definire un potenziale pericolo per la salute delle persone (CSR, acronimo di “Concentrazione Soglia Rischio”, parametri introdotti dal D.Lgs. n. 152/2006 in sostituzione dei parametri inferiori costituiti dai valori di CSC – Concentrazione Soglia Contaminazione previsti dal D.M. n. 471/1999); e, per le elevate concentrazioni di detti inquinanti (nella nota 197 di pag. 199 la Corte fa riferimento alle pagg. 129 ss. della perizia, in cui si ricorda che con il Piano di caratterizzazione del 2001 il valore del benzene era giunto addirittura a 9.723 e 39.904, mentre gli idrocarburi pesanti a 8490 mg/kg nel terreno; dai piezometri esterni allo stabilimento il 9.12.2005 era stato possibile rilevare per il PE 3 benzene pari anche a 2080 microgrammi per litro e per il PE 1 benzene pari a 356 microgrammi per litro), la presenza di una situazione di rischio igienico-sanitario”.

In particolare, è stato evidenziato che alcune componenti delle miscele di idrocarburi sversate, il Benzene in primo luogo – facilmente assorbito dall’organismo in seguito ad inalazione, contatto dermico o ingestione – e in misura minore il Toluene, si presentano come sostanze indiscutibilmente correlate a gravi rischi di sviluppo di tumori e che, secondo i migliori studi tossicologici, per gli agenti cancerogeni non è possibile stabilire una soglia minima di azione, in quanto anche la più piccola dose può portare a danni non recuperabili (conclusioni dei consulenti delle parti civili BALESTRERI e ISERNIA, riportate a pag. 327 della sentenza di primo grado; posizione assunta dalla Unione Europea e dalla Commissione Consultiva Tossicologica Nazionale).

Le opposte conclusioni cui è pervenuto il consulente della difesa MORETTO sono state compiutamente analizzate e adeguatamente confutate dai Giudici lombardi, che hanno rimarcato, non irragionevolmente, diversi aspetti di criticità dei suoi elaborati (aver fatto richiamo alle direttive dell’O.M.S., meno restrittive di quelle adottate dalla legislazione italiana e dall’I.S.S. cui fare necessariamente riferimento; aver valorizzato il risultato dell’Analisi di rischio elaborata nel 2011, quindi a distanza di dieci anni dalla data dell’autodenuncia e di quattro dalla messa in funzione della barriera idraulica; aver omesso di considerare, in base a sue “personali linee guida”, tra le frazioni alifatiche, l’n-esano; aver calcolato, da solo, l’n-eptano; essersi affidato, per le frazioni aromatiche, ad uno studio non pubblicato; aver fatto richiamo agli studi del “Total Petroleum Hydrocarbons Criteria Working Group”, nonostante l’inapplicabilità degli stessi ai casi, quali quello di specie, connotati anche da rischio di lisciviazione e percolamento di idrocarburi del petrolio alle acque di falda sotterranee; aver erroneamente affermato la cancerogenicità del benzene con la specificazione della esposizione lavorativa, mentre il dato scientifico attesta la cancerogenicità tout court del benzene; aver erroneamente espunto il benzene dal campione analizzato; avere sostituito al limite di concentrazione degli idrocarburi totali normativamente fissato dal T.U. Ambiente valori del tutto arbitrari).

Tanto consente di escludere deduzioni, quali quelle del ricorrente, che si propongano come diversamente interpretative delle risultanze oggetto di esame, ovvero prospettino la qualità, assunta come preferibile, della contrapposta consulenza di parte sulla base di una soggettiva, quanto apodittica (e comunque insondabile), primazia culturale della qualità del proprio specialista.

E ciò corrisponde a buona logica processuale, posto che il contributo delle consulenze di parte, pur anche fisiologicamente (ma non necessariamente) contrappositivo, può apportare elementi critici, su cui confrontarsi, ed anche ampliativi od innovativi, su cui pure approfondire l’esame, ma non può pretendere di sovrapporsi ex se, quasi a prescindere dalle altre risultanze, alle evidenze illustrate e ragionate dal perito. Il motivo va, quindi, giudicato infondato.

3.3.3. Quanto meno infondato, se non inammissibile perché sviluppato sul piano del merito, reiterativo di censure già dedotte in appello e rivalutativo, è il motivo attinente alla responsabilità del GILBERTI.

La Corte di Brescia dedica a questo tema il primo paragrafo del capitolo IV della seconda parte della motivazione (pagg. 219 ss.) con richiami a passaggi argomentativi contenuti in capitoli precedenti, dedicati all’analisi dell’elemento oggettivo del reato. In primo luogo, si sottolinea, convenientemente, la posizione cruciale di responsabilità/garanzia rivestita dal ricorrente – amministratore delegato dal 1999 al 2004 di TAMOIL RAFFINAZIONE s.p.a. e “preposto” di tale società dal 1999 al 2006 – proprio durante il periodo in cui si è articolato il procedimento amministrativo che avrebbe dovuto essere destinato alla bonifica del sito, nonché a contrastare il rischio della migrazione dell’inquinamento verso l’area golenale; ovvero, il periodo caratterizzato dai ritardi e dalle omissioni di cui si è detto nei paragrafi precedenti, a fronte delle accertate e conosciute contaminazioni in atto e del concreto pericolo di espansione delle stesse fino ad aggredire le falde dei confinanti terreni occupati dalle società sportive.
Con riguardo alla procedura amministrativa prevista dal D.M. 25 ottobre 1999 n. 471, i Giudici dell’appello hanno correttamente confutato la tesi difensiva volta a giustificarne l’attivazione a norma dell’art. 9 del decreto citato (relativo al “terzo interessato”), anziché a norma dell’art. 7, commi 1 e 2 (relativo al “responsabile” o “corresponsabile” della contaminazione, il quale, nel caso in cui avesse cagionato “anche in maniera accidentale il superamento dei valori di concentrazione limite accettabili” – come avvenuto nel caso in esame – era tenuto a darne comunicazione entro 48 ore agli Enti territoriali e ai competenti organi di controllo, nonché, entro le 48 ore successive, a comunicare “gli interventi di messa in sicurezza d’emergenza adottati e in fase di esecuzione”).

Ha ragionevolmente osservato la Corte territoriale che i responsabili della TAMOIL, mostrando con l’autodenuncia del 2001 di aver scoperto la perdita degli idrocarburi dall’area della raffineria, erano giocoforza consapevoli della circostanza che tale perdita continuava a prodursi e non potesse ritenersi “stabilizzata”, posto che l’attività della suddetta raffineria non era stata sospesa e che le cause della perdita non erano state rimosse.

Dunque, nel momento stesso in cui, nel 2001, TAMOIL autodenunciava l’inquinamento, ammetteva di esserne “responsabile”, atteso che “le possibili fonti di rilascio di inquinanti organici industriali”, indicate dalla società nel Piano di caratterizzazione presentato a fine aprile 2091,erano tutte significativamente connesse a quello stabilimento e alla sua raffineria. Doveva, allora, considerarsi inappropriato – rileva condivisibilmente la Corte lombarda – il richiamo difensivo al principio di irretroattività della legge (in particolare, il D.Lvo n. 22/1997), poiché l’obbligo di attivarsi con interventi di messa in sicurezza, essendo previsto a far data dall’entrata in vigore del D.M. n. 471/99 (16.12.1999), gravava sicuramente su TAMOIL, quanto meno al momento dell’autodenuncia del 2001, in conformità all’orientamento giurisprudenziale secondo il quale «l’area di applicazione della norma incriminatrice (il più volte citato art. 51 bis del D.Lvo del 1997) si estendeva all’inquinamento (o al pericolo di inquinamento) cagionato dopo l’entrata in vigore della norma stessa, con conseguente inapplicabilità ad episodi di inquinamento antecedenti a tale data» (Cass. n. 9711/2013).

Né valeva invocare – conclude la Corte di Brescia – la natura “eccezionale” della messa in sicurezza d’emergenza, dal momento che la natura di straordinaria urgenza era stata prevista soltanto con il D.L.vo n. 152/2006, sia definendo tipologia e condizioni, sia anteponendo all’obbligo di tale intervento quello di adottare “misure di prevenzione”, nonché “un’indagine preliminare sui parametri oggetto dell’inquinamento” (pag. 171 sentenza impugnata).

Tornando al tema della responsabilità del GILBERTI, va detto che i Giudici dell’appello hanno correttamente messo in risalto come alle cariche formalmente rivestite si sia accompagnata una coerente condotta fattuale, tradottasi in un’assidua e costante presenza del ricorrente in tutte le significative fasi in cui si sviluppò il contraddittorio con gli Enti (in sentenza si fa riferimento:
a) alla firma in data 29.2.2001 dello Studio di caratterizzazione della Raffineria Tamoil realizzato da URS s.r.l. e inviato agli Enti il 29.3.2001 ai sensi dell’art. 9 D.M. n. 471/99;
b) alla trasmissione agli Enti, in data 27.4.2001, della ‘Caratterizzazione del sottosuolo e della falda acquifera della Raffineria”, ai sensi dell’art. 10 decreto cit.;
c) all’invio all’ARPA, in data 19.11.2001, della documentazione relativa allo Studio e Piano di caratterizzazione del sottosuolo e della falda acquifera della Raffineria;
d) alla risposta fornita il 18.12.2003 alla missiva inviata dal Comune di Cremona il 17.6.2003;
e) alla presenza, insieme a COLOMBO Pierluigi, alla Conferenza dei Servizi del 2.3.2007;
f) alla presenza alla Conferenza dei Servizi del 2.7.2007;
g) alla firma della risposta inviata il 6.8.2007 alla diffida emessa dalla Provincia in data 27.7.2007).

Al di là e a prescindere dall’apporto della prova testimoniale (con plausibili argomentazioni la Corte di Assise di Appello, a proposito della condotta omissiva-elusiva tenuta dal GILBERTI, ha valorizzato le dichiarazioni rese da AMBROSIO Lucio a discapito di quelle, interessate a difendere l’operato dell’Agenzia, rese dai dipendenti dell’ARPA,BORDI Francesco e BEATI Giampaolo: pag. 222), i Giudici del gravame hanno efficacemente e coerentemente sottolineato come proprio la obiettiva sequenza degli accadimenti che hanno scandito il procedimento amministrativo svoltosi in contraddittorio con gli Enti abbia, piuttosto, illustrato la condotta dell’imputato anche sotto il profilo dell’elemento psicologico del dolo eventuale in essa ravvisabile.

Condotta connotata dalla persistente volontà di differire nel tempo e ritardare per anni sia le iniziative volte a video-ispezionare la rete fognaria, sia a verificare le possibili ulteriori compromissioni delle matrici ambientali, sia a monitorare le potenziali migrazioni degli inquinanti verso le aree esterne, sia ad adottare la messa in sicurezza d’emergenza, di fatto decisa ben sei anni dopo la cd. “autodenuncia” del 2001.

Condotta che, dunque, denota, per durata e ripetizione degli atti, come il GILBERTI abbia avuto l’esatta comprensione dei fatti, nonché la previsione e l’accettazione delle relative conseguenze dannose o pericolose, se si considera che la società gestita dall’imputato ritardò le video-ispezioni del sistema fognario per ben tre anni da quando la stessa TAMOIL, nel Piano di caratterizzazione del 2001, ebbe ad ammettere che detto sistema avrebbe potuto costituire fonte dell’inquinamento e nonostante gli Enti avessero sollecitato la verifica sia nel maggio 2002 sia nel giugno 2003.

Quanto alla piena accettazione del rischio della migrazione delle contaminazioni, in termini di “disastro”, verso le aree occupate dalle società Canottieri e alla volontà, ciò nonostante, di persistere nella scelta di preferire il risparmio delle spese di bonifica a costo di determinare tale disastro, la Corte bresciana ha ben argomentato, valorizzando, da un lato, la circostanza per cui, soltanto nell’agosto 2005, TAMOIL iniziò la verifica delle potenziali migrazioni all’esterno del sito dopo che erano trascorsi oltre quattro anni dall’autodenuncia e più di tre anni dal primo sollecito degli Enti (maggio 2002), e, dall’altro, l’attesa di oltre un anno dall’avvenuta constatazione della contaminazione dell’area esterna (gennaio 2006) perché TAMOIL procedesse ad adottare la messa in sicurezza d’emergenza (marzo 2007).

Che detto comportamento fosse correlato a un elevato livello di rappresentazione dell’evento lo spiegavano, non solo la durata e la reiterazione delle condotte omissive, ma pure lo specifico bagaglio professionale e di esperienza accreditato all’imputato, ingegnere, ben consapevole, anche per questo, del prevedibile evento disastroso che sarebbe potuto derivare da tali condotte.

Corretto, alla luce della coerente trama argomentativa che precede, è l’approdo cui è conclusivamente pervenuta la Corte bresciana nel ravvisare il legame eziologico tra le condotte omissive tenute dal GILBERTI e il disastro ambientale di cui si tratta, nonché il dolo eventuale dell’evento-disastro; parimenti corretta la qualificazione dell’addebito nei suoi confronti in quello di cui agli artt. 449 e 61, n. 3, cod. pen., non potendosi ascrivere all’imputato – per quanto più sopra esposto – la fattispecie di cui all’art. 434 cod. pen., implicante per il suo perfezionamento il più intenso dolo intenzionale.

Come già detto, a fronte di un iter motivazionale accurato, coerente con le risultanze processuali e mai manifestamente illogico, le deduzioni difensive non forniscono elementi capaci di scardinare l’impianto della sentenza, reiterando, nella sostanza, censure già adeguatamente confutate in sede di appello e proponendo, per lo più, rivalutazioni alternative del materiale probatorio non consentite in questa sede.

3.3.4. Manifestamente infondato è il settimo motivo, concernente il trattamento sanzionatorio.

3.3.4.1. Quanto alla pena principale, la difesa del ricorrente imputa alla Corte di merito di aver erroneamente valutato il fatto integrante la specifica circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 3 cod. pen. sia ai fini della quantificazione della pena base che ai fini del suo successivo aggravamento, atteso che, ai sensi dell’art. 63, comma primo,cod. pen., l’aumento o la diminuzione della pena previsti da circostanze tipizzate presuppongono una base di calcolo che esclude dai suoi elementi di valutazione lo stesso fatto integrante la circostanza (Sez. 3, n. 40765 del 30/4/2015, Brutto, Rv. 264905 – 01).

La censura omette di considerare che le argomentazioni dei Giudici dell’appello non possono non saldarsi con quelle sviluppate sul punto dal Giudice di primo grado, che, nell’attingere ai parametri stabiliti dall’art. 133 cod. pen. per giustificare l’individuazione di una pena base pari al massimo edittale della originaria ipotesi di cui all’art. 434, comma 2, cod. pen., poi declinata nella sua versione colposa dalla Corte bresciana, ha valorizzato, in coerenza con il complessivo ordito motivazionale, non solo il profilo psicologico, ma, prima di tutto, quello obiettivo della gravità e della continuità dei fatti ascritti all’imputato, risultato il vero dominus della gestione e dell’occultamento del pericolo ambientale causato dalla raffineria, nonché il dirigente presente in tutte le decisioni più importanti assunte dalla società.

Peraltro, proprio l’avere individuato i Giudici di merito una pena base al di sopra del limite edittale determina l’infondatezza del motivo con cui si critica il diniego della concessione con carattere di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche.

Va, infatti, al riguardo, ricordato che, le attenuanti previste dall’art. 62-bis cod. pen. sono state introdotte con la funzione di mitigare la rigidità dell’originario sistema di calcolo della pena nell’ipotesi di concorso di circostanze di specie diversa, e tale funzione, ridotta a seguito della modifica del giudizio di comparazione delle circostanze concorrenti, ha modo di esplicarsi efficacemente solo per rimuovere il limite posto al giudice con la fissazione del minimo edittale, allorché questi intenda determinare la pena al di sotto di tale limite, con la conseguenza che, ove questa situazione – come nel caso di specie – non ricorra, perché il giudice valuta la pena da applicare al di sopra del limite, il diniego della prevalenza delle generiche diviene solo elemento di calcolo e non costituisce mezzo di determinazione della sanzione e non può, quindi, dar luogo né a violazione di legge, né al corrispondente difetto di motivazione (Sez. 3, n. 44883 del 18/7/2014, Cavicchi, Rv. 260627 – 01).

3.3.4.2. Il motivo con cui si contesta l’applicazione della pena accessoria dell’interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese (art. 32-bis cod. pen.) è meramente reiterativo di quello già dedotto in appello e adeguatamente confutato dalla Corte territoriale sulla base del tenore letterale delle disposizioni di cui agli artt. 31 e 32-bis cod. pen., per cui è sufficiente che l’abuso o la violazione dei doveri inerenti all’ufficio sia stato in concreto “commesso” ancorché non espressamente descritto nella condotta delittuosa tipica.

3.4. Va, infine, affrontato l’ottavo ed ultimo motivo di ricorso, afferente alle statuizioni civili.

3.4.1. Giova premettere, sui vari temi d’interesse, una breve ricognizione degli orientamenti seguiti da questa Corte e condivisi dal Collegio.

Va, anzitutto, ricordato l’insegnamento impartito dalle Sezioni Unite, a mente del quale, in caso di compromissione dell’ambiente a seguito di disastro colposo (art. 449 cod. pen.), il danno morale soggettivo lamentato da coloro che, trovandosi in una particolare situazione con tale ambiente (nel senso che ivi abitano e/o svolgono attività lavorativa), provino in concreto di avere subito un turbamento psichico (sofferenze e paterni d’animo) di natura transitoria a causa dell’esposizione a sostanze inquinanti ed alle conseguenti limitazioni del normale svolgimento della loro vita, è risarcibile autonomamente anche in mancanza di una lesione dell’integrità psico-fisica (danno biologico) o di altro evento produttivo di danno patrimoniale, trattandosi di reato plurioffensivo che comporta, oltre all’offesa all’ambiente ed alla pubblica incolumità, anche l’offesa ai singoli, pregiudicati nella loro sfera individuale (Sez. U. civili, n. 2515 del 21/2/2002, ICMESA S.p.A. in liquidazione contro Pierotti, Rv. 552406 – 01).

E’ stato successivamente precisato, sempre dal Supremo Consesso, che la risarcibilità del danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona, anche quando non sussista un fatto-reato, né ricorre alcuna delle altre ipotesi in cui la legge consente espressamente il ristoro dei pregiudizi non patrimoniali, è subordinata – sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ. – a tre condizioni: a) che l’interesse leso – e non il pregiudizio sofferto – abbia rilevanza costituzionale (altrimenti si perverrebbe ad una abrogazione per via interpretativa dell’art. 2059 cit., giacché qualsiasi danno non patrimoniale, per il fatto stesso di essere tale, e cioè di toccare interessi della persona, sarebbe sempre risarcibile); b) che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità (in quanto il dovere di solidarietà, di cui all’art. 2 Cost., impone a ciascuno di tollerare le minime intrusioni nella propria sfera personale inevitabilmente scaturenti dalla convivenza); c) che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita od alla felicità (Sez. U. civili, n. 26972 dell’11/11/2008, A. contro S. ed altro, Rv. 605493 – 01).

E’ stato, inoltre, affermato, in tema di danno ambientale, che è legittimato a costituirsi parte civile il cittadino che non si dolga del degrado dell’ambiente, ma faccia valere una specifica pretesa in relazione a determinati beni, quali cespiti, attività e diritti soggettivi individuali (come quello alla salute), in conformità alla regola generale posta dall’art. 2043 cod. civ. (Sez. 3, n. 34789 del 22/6/2011, Verna, Rv. 250864 – 01).

A proposito delle iniziative processuali intraprese dagli Enti locali in sede penale a tutela degli interessi civili, è stata condivisibilmente ritenuta legittima e non tardiva la costituzione di parte civile del Comune nel giudizio di appello, in adesione all’azione popolare esercitata nel primo grado di giudizio da un elettore, giacché l’ente locale, nell’assumere la veste di parte civile, si sostituisce al privato che l’aveva in precedenza surrogato nell’esercizio della pretesa risarcitoria ai sensi dell’art. 9 del D.L.vo 18 agosto 2000 n. 267 (Sez. 6, n. 31565 del 9/7/2009, Forte, Rv. 244701 – 01).

E’ stato, inoltre, chiarito che la legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per reati ambientali aventi ad oggetto fatti compiuti successivamente al 29.4.2006 a seguito dell’abrogazione dell’art. 18, comma 3, della L. n. 349/86, derivante dall’entrata in vigore dell’art. 318, comma 2, lett. a), del D.L.vo n. 152/2006, spetta, in via esclusiva, allo Stato per il risarcimento del danno ambientale di natura pubblica, inteso come lesione dell’interesse pubblico alla integrità e salubrità dell’ambiente, mentre tutti gli altri soggetti, singoli o associati, compresi le Regioni e gli altri enti pubblici territoriali, possono esercitare l’azione civile in sede penale ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. solo per ottenere il risarcimento di un danno patrimoniale e non patrimoniale, ulteriore e concreto, conseguente alla lesione di altri loro diritti particolari diversi dall’interesse pubblico alla tutela dell’ambiente, pur se derivante dalla stessa condotta lesiva (Sez. 3, n. 24677 del 9/7/2014, dep. 11/6/2015, Busolin e altri, P.C., Rv. 264114 – 01; Sez. 3, n. 633 del 29/11/2011, dep. 12/1/2012, Stigliani, Rv. 251906; Sez. 3, n. 41015 del 21/10/2010, Gravina, Rv. 248707 – 01; Sez. 3, n. 14828 dell’11/2/2010, De Flammineis e altro, Rv. 246812 – 01).

Il danno, necessariamente diverso da quello della lesione dell’ambiente come bene pubblico, risarcibile in favore delle associazioni ambientaliste costituitesi parti civili nei procedimenti per reati ambientali, può, quindi, avere natura, oltre che patrimoniale, anche morale, derivante dal pregiudizio arrecato all’attività da esse concretamente svolta per la valorizzazione e la tutela del territorio sul quale incidono i beni oggetto del fatto lesivo (Sez. 3, n. 19439 del 17/1/2012, Miotti, Rv. 252909 – 01); l’Ente pubblico territoriale, dal canto suo, può agire, nel medesimo contesto processuale, quando, per effetto della condotta illecita, abbia subito un danno, anche non patrimoniale, diverso da quelle ambientale di natura pubblica, derivante dalla lesione di interessi locali specifici e differenziati (Sez. 4, n. 24619 del 27/5/2014, Salute, Rv. 259153 – 01; Sez. 3, n. 19437 del 17/1/2012, Fundarò e altri, Rv. 252907 – 01). A quest’ultimo proposito, è utile rammentare che costituisce ormai pacifica acquisizione nella giurisprudenza civile di questa Corte la configurabilità di un danno non patrimoniale, nel più ampio significato di «danno determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica», anche in capo alle persone giuridiche, tra cui vanno ricompresi gli enti territoriali esponenziali, sub specie di pregiudizi derivanti dalla lesione di diritti della personalità compatibili con l’assenza di fisicità quali il diritto all’esistenza, all’identità, al nome, alla reputazione, all’immagine (cfr. Cass. civ., Sez. 1, n. 7642 del 10/7/1991, Rv. 473053 – 01; Sez. 1, n. 12951 del 5/12/1992, Rv. 479918 – 01; Sez. 3, n. 2367 del 3/3/2000, Rv. 534529 – 01; Sez. 1, n. 11600 del 2/8/2002, Rv. 558165 – 01; Sez. 1, n. 15233 del 29/10/2002, Rv. 558861 – 01; Sez. 1, n. 2130 del 13/2/2003, n.m. sul punto; Sez. 1, n. 5664 del 10/4/2003, Rv. 563513 – 01; Sez. 1, n. 6022 del 16/4/2003, n.m. sul punto; Sez. 1, n. 2570 dell’11/2/2004, n.m. sul punto; Sez. 3, n. 14766 del 26/6/2007, Rv. 597850 – 01).

E’ stato, in particolare, evidenziato che un danno non patrimoniale in capo all’ente collettivo, sub specie di danno all’immagine, può essere rappresentato dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica o dell’ente nel che si esprime la sua immagine, sia sotto il profilo della incidenza negativa che tale diminuzione comporta nell’agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi della persona giuridica o dell’ente e, quindi, nell’agire dell’ente; sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o di categorie di essi con le quali la persona giuridica o l’ente di norma interagisca (Cass. civ. Sez. 3, n. 4542 del 22/3/2012, Rv. 621596 – 01; Sez. 3, n. 12929 del 4/6/2007, Rv. 597309 – 01).

Ciò posto sul piano dei principi, deve ritenersi che la Corte di merito si sia, nella sostanza, ad essi attenuta, sempre correttamente confutando i rilievi critici mossi nell’interesse del GILBERTI, con le precisazioni di cui si dirà.

3.4.2. Esattamente è stata, in primo luogo, affermata la legittimità della ammissione, quale parte civile, in primo grado, del cittadino elettore RUGGERI Gino, non essendo la sua costituzione avvenuta in contrasto con la volontà del Comune di Cremona, come sostenuto dalla difesa del GILBERTI.

Ed invero, è stato, sul punto, ragionevolmente evidenziato che, con la dichiarazione resa in data 25.2.2012, l’assessore comunale alle Politiche ambientali BORDI non ebbe ad esprimere una preventiva e irrevocabile rinuncia formale a costituirsi parte civile, ma intese semplicemente dimostrare di voler rimanere, per il momento, inerte, manifestando, cioè, la volontà di non effettuare, “al momento” e “allo stato”, tale costituzione.

Non trattandosi di un atto collegiale ufficialmente espressivo della volontà dell’Ente – come una delibera del Consiglio o della Giunta Comunale – ma della risposta individuale di un esponente della Giunta ad una interrogazione, devono considerarsi legittimi, da un lato, l’esercizio dell’azione popolare da parte dell’elettore RUGGERI ai sensi dell’art. 9 D.L.vo n. 267 del 18.8.2000 (T.U.E.L.) fintanto che si è protratta l’inerzia dell’ente locale (giudizio di primo grado); dall’altro, la successiva costituzione in appello del Comune di Cremona, il quale resta, comunque, il titolare dell’interesse tutelato dall’azione esercitata.

Non può, invero, considerarsi detta costituzione invalida per tardività, posto che con essa è stata attuata, dal Comune, la spendita nel processo della propria qualità di parte offesa, fino a quel momento sostenuta, in via di supplenza, dal solerte elettore RUGGERI.

Né è ravvisabile alcun difetto di legittimazione, atteso che, in concreto, l’assunzione della veste formale di parte civile realizza – e ha realizzato, nel caso in esame – non già una “addizione” a quella già esistente, ma una “sostituzione” della stessa, che fino a quel momento aveva agito in utiliter gestio in nome e per conto dell’Ente rimasto temporaneamente inerte (Sez. 6, n. 31565/2009 cit.).

3.4.2.1. Infondata è la censura con la quale si è contestata, in quanto riconducibile al danno ambientale invocabile solo dal Ministero dell’Ambiente, la risarcibilità dei danni patrimoniali patiti dal Comune di Cremona (in primo grado “sostituito” dal cittadino elettore RUGGERI) in relazione alle attività operative svolte durante il procedimento amministrativo.

Si è già detto che l’Ente pubblico territoriale può costituirsi parte civile quando, per effetto della condotta illecita, abbia subito un danno, patrimoniale e non, diverso da quelle ambientale di natura pubblica, derivante dalla lesione di interessi locali specifici e differenziati (Sez. 4, n. 24619 del 27/5/2014, Salute, Rv. 259153 – 01; Sez. 3, n. 19437 del 17/1/2012, Fundarò e altri, Rv. 252907 – 01). In conformità a tale principio, i Giudici di merito (vedi pagg. 237-239 della sentenza impugnata; pagg. 396-397 della decisione di primo grado, con richiamo alle pagg. 10-15 della memoria dell’avv. Romanelli) hanno ritenuto, correttamente, legittima la risarcibilità dei “costi amministrativi sopportati dall’Ente locale per le numerose incombenze connesse al procedimento amministrativo e, più in generale, all’attività organizzativa che esso Ente ha dovuto compiere”, rimarcando, implicitamente, il carattere straordinario e imprevedibile dello sforzo economico sostenuto a fronte di una emergenza coinvolgente il territorio ed in coerenza con le finalità indicate nello Statuto adottato con deliberazione del Consiglio Comunale n. 260/35686 del 13.6.1991, entrato in vigore l’11.12.1991 (v. pagg. 215-216 della memoria depositata dalle parti civili costituite, dove, tra l’altro, si fa riferimento:
a) nell’art. 2, comma 2, lett. a), alla finalità di valorizzazione delle risorse del proprio territorio, umane, ambientali, naturali, storico-artistiche ed economiche verso un modello di sviluppo sostenibile;
b) nell’art. 2, comma 2, lett. i), alla finalità di realizzare un sistema globale e integrato di sicurezza sociale e di promozione della salute;
c) nell’art. 3, comma 1, al fine di rappresentare la propria comunità, curandone gli interessi e promuovendone lo sviluppo civile, sociale ed economico ambientalmente sostenibile).

Convenientemente correlate a siffatta voce di danno patrimoniale risultano, pertanto, le spese sostenute dal Comune di Cremona:
a) per organizzare le Conferenze dei Servizi che si sono succedute dal 2001 in avanti al fine di monitorare e governare la situazione determinatasi per effetto dell’inquinamento provocato dalla TAMOIL;
b) per compiere i sopralluoghi sui siti oggetto della contaminazione, pianificare interventi operativi e tavoli di lavoro;
c) per costituire I’ “Osservatorio TAMOIL”, promosso per iniziativa del Sindaco con decreto del 17.1.2013 al fine di controllare e approfondire la situazione in atto ed esaminare gli studi presentati dai competenti Organismi Tecnici;
d) per lo svolgimento della complessa attività amministrativa funzionale alla emissione, da parte del Sindaco, quale ufficiale del Governo, ai sensi dell’art. 54, comma 4, D.L.vo n. 267/2000 e successive modifiche, di ordinanze contigibili e urgenti, sia con riferimento al fenomeno dei gas esplosivi che con riguardo all’inquinamento delle falde acquifere; e) per la valorizzazione e la salvaguardia del territorio attraverso l’attività svolta dall’Azienda di Promozione Turistica e dall’organismo denominato “Ufficio Agenda 21”, creato al fine specifico di rilevare e comunicare i dati ambientali sul territorio (v. pag. 238 della sentenza impugnata; pag. 396 della sentenza di primo grado; pagg. 217-218 della memoria delle parti civili). Priva di ancoraggio a elementi specifici e manifestamente contraddittoria rispetto alla affermata risarcibilità dei costi sostenuti dal Comune per affrontare, sul piano amministrativo, l’emergenza inquinamento in coerenza con le finalità statutarie, è, viceversa, la considerazione della tutela del cd. danno da “sviamento di funzione”, atteso che, proprio per quanto appena esposto, è erroneo, oltre che generico, affermare che il drenaggio di risorse patrimoniali utilizzate per il “caso TAMOIL” abbia significato sottrazione alla cura degli interessi della comunità dei cittadini.

3.4.2.2. Fondata è la censura difensiva in ordine alla ritenuta risarcibilità, a beneficio del Comune di Cremona, del “danno da turbamento psichico”, sia perché non in linea con la richiamata giurisprudenza sulla risarcibilità, a favore degli enti territoriali esponenziali, dei pregiudizi di natura “morale” derivanti dalla lesione di diritti della personalità compatibili con l’assenza di fisicità quali il diritto all’esistenza, all’identità, al nome, alla reputazione e all’immagine, sia perché l’argomentare della Corte di merito sul punto si esprime in modo generico, perplesso e basato esclusivamente sul carattere allarmante di alcuni titoli di stampa.

3.4.2.2.1. Di contro, radicalmente infondata è l’eccezione sulla non risarcibilità della lesione del “diritto all’immagine”, lesione che, diversamente da quanto opinato dalla difesa del GILBERTI, non necessariamente deve essere arrecata da fatti di reato commessi da dipendenti dell’Ente.

Ed invero, sul punto, questa Corte ha costantemente affermato il contrario, statuendo, in particolare: a) che, in materia di reati associativi, il Comune nel cui territorio l’associazione a delinquere si è insediata ed ha operato ha titolo alla costituzione di parte civile in relazione al danno che la presenza dell’associazione stessa ha arrecato all’immagine della città, allo sviluppo turistico ed alle attività produttive ad esso collegate (Sez. 2, Sentenza n. 150 del 18/10/2012, dep. 4/1/2013, Andreicik e altri, Rv. 254675 – 01); b) che la legittimazione alla costituzione di parte civile dell’ente territoriale che invoca un danno alla propria immagine è ammissibile anche in riferimento ad un reato commesso da privati in danno di privati, purché tale tipologia di danno sia in concreto configurabile (Sez. 2, n. 13244 del 7/3/2014, Lazzaro ed altri, Rv. 259560 – 01); c) che sono legittimati a costituirsi parte civile gli enti locali esponenziali dei territori nei quali sono stati commessi crimini di guerra, per il risarcimento dei danni non patrimoniali riferibili a questi delitti, anche quando gli stessi sono stati istituiti successivamente alla consumazione dei fatti di reato e vi è costituzione di parte civile dello Stato italiano nel processo (Sez. 1, n. 23288 del 19/3/2014, P.G. in proc. Winkler e altri, Rv. 261876 – 01); d) che, in tema di reati sessuali, il Comune nel cui territorio il reato è stato commesso è legittimato a costituirsi parte civile onde ottenere il risarcimento dei danni morali e materiali derivati dall’offesa, diretta ed immediata, dello scopo statutario (Sez. 3, n. 45963 del 27/06/2017, A. e altri, Rv. 271796 – 01; nella specie è stata ritenuta legittima la costituzione del Comune di Torino in quanto finanziatore e diretto erogatore di servizi specificamente rivolti alle vittime di violenza sessuale, e statutariamente e concretamente impegnato contro la violenza alle donne). Ciò detto, occorre ribadire che dallo stesso fatto lesivo può derivare, oltre che un danno ambientale nei termini descritti dall’art. 300 D.L.vo n. 152/2006, anche un danno all’immagine dell’ente territoriale in relazione alla lesione che lo stesso ne può indirettamente subire, sul piano del prestigio e della reputazione, nei confronti della collettività in quanto, all’evidenza, strettamente connessi – in senso positivo o negativo – anche all’efficacia dell’azione ad esso demandata di custodia e valorizzazione di beni ambientali di particolare rilievo (Sez. 4, n. 24619/14 cit.).

Si trova, in tal senso, espressamente riconosciuto nella giurisprudenza civile di questa Corte che «l’immagine, il prestigio e la reputazione di un ente territoriale costituiscono beni essenziali ai fini della sua credibilità politica» e che «non può dubitarsi che la lesione di tali valori alla cui tutela la persona giuridica pubblica ha un diritto costituzionalmente garantito determini sicuramente, e di per sé, un danno non patrimoniale, costituito dalla diminuzione della considerazione dell’ente da parte dei consociati in genere o di settori o di categorie di essi con le quali di norma interagisca» (v. Cass. civ., Sez. 3, n. 4542 del 22/3/2012, cit.).

In modo coerente con tali i principi, i Giudici di merito, in modo sintetico ma sufficientemente adeguato (dato che valgono, a fini probatori, anche presunzioni, massime di esperienza e fatto notorio), hanno dato conto della configurabilità, nella specie, di un danno non patrimoniale siffatto, ragionevolmente attribuendo rilievo al fatto che i luoghi interessati dall’inquinamento provocato dalla TAMOIL fossero ricompresi nel territorio del Comune di Cremona e che tale evento lesivo avesse arrecato una lesione al diritto all’immagine e all’identità storica e culturale della città, salita, per un lungo periodo, alla ribalta delle cronache non più come una città “ben conservata”, ma come una città, sulle sponde del fiume non lontane dal centro, seriamente “inquinata” (v. sentenza di primo grado, pag. 397).

Implicitamente, dal complessivo ordito motivazionale, si evince come tale evento lesivo abbia determinato una ricaduta negativa sull’immagine dell’Ente territoriale anche sotto il profilo della scarsa efficacia con cui detto Ente ha saputo perseguire le finalità statutarie come sopra richiamate.

Ciò detto, i vizi rilevati a proposito della motivazione sul cd. danno da sviamento di funzione e da turbamento psichico non determinano una decisione di annullamento parziale della sentenza impugnata, in quanto non infirmano la giustificazione della risarcibilità dei danni patrimoniali e da lesione del diritto all’immagine nei termini sopra esposti, né la concessione della provvisionale.

Posto che, come noto, non è impugnabile con ricorso per cassazione la statuizione pronunciata in sede penale e relativa alla concessione e quantificazione di una provvisionale, trattandosi di decisione di natura discrezionale, meramente delibativa e non necessariamente motivata (Sez. 3, n. 18663 del 27/01/2015, D. G., Rv. 263486 – 01); sarà il Giudice civile ad apprezzare la valutazione in ordine alle due voci di danno oggetto di rilievi critici e a determinarsi circa la loro incidenza su una eventuale riduzione della provvisionale concessa.

3.4.3. E’ infondata l’eccezione, dedotta dalla difesa del GILBERTI, in riferimento alla legittimazione a costituirsi parte civile dell’associazione “LEGAMBIENTE ONLUS”.

E’ vero, come già accennato, che la legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per reati ambientali aventi ad oggetto fatti compiuti successivamente al 29 aprile 2006 a seguito dell’abrogazione dell’art. 18, comma 3, della L. n. 349/86, derivante dall’entrata in vigore dell’art. 318, comma 2, lett. a), del D.Lgs. n. 152/2006, spetta, in via esclusiva, allo Stato per il risarcimento del danno ambientale di natura pubblica, inteso come lesione dell’interesse pubblico alla integrità e salubrità dell’ambiente (Sez. 3, n. 24677 del 9/7/2014, cit.).

Ma è altrettanto vero che la normativa speciale del “danno ambientale” (nozione derivata da quella posta, in ambito comunitario, dalla direttiva 2004/35/CE) adottata dal D.Lvo n. 152/2006,si affianca (non sussistendo alcuna antinomia reale) alla disciplina generale posta dal codice civile, sicché le associazioni ambientaliste – pure dopo l’abrogazione delle previsioni di legge che le autorizzavano a proporre, in caso di inerzia degli enti territoriali, le azioni risarcitorie per danno ambientale (art. 9, comma 3, D.Lgs. n. 267/2000) – devono ritenersi legittimate alla costituzione di parte civile “iure proprio”, nel processo per reati che abbiano cagionato pregiudizi all’ambiente, per il risarcimento non del danno all’ambiente come interesse pubblico, bensì (al pari di ogni persona singola od associata) dei danni direttamente subiti: danni diretti e specifici, ulteriori e diversi rispetto a quello, generico di natura pubblica, della lesione dell’ambiente come bene pubblico e diritto fondamentale di rilievo costituzionale. Le associazioni ambientaliste, dunque, sono legittimate a costituirsi parte civile quando perseguano un interesse non caratterizzato da un mero collegamento con quello pubblico, ma concretizzatosi in una realtà storica di cui il sodalizio ha fatto il proprio scopo: in tal caso l’interesse all’ambiente cessa di essere diffuso e diviene soggettivizzato e personificato (Sez. 3, n. 19439 del 17/1/2012, Miotti, cit.).

Nell’arresto da ultimo richiamato è stato condivisibilmente affermato che il danno risarcibile secondo la disciplina civilistica può configurarsi anche sub specie del pregiudizio arrecato all’attività concretamente svolta dall’associazione ambientalista per la valorizzazione e la tutela del territorio sul quale incidono i beni oggetto del fatto lesivo. In tali ipotesi potrebbe identificarsi un nocumento suscettibile anche di valutazione economica in considerazione degli eventuali esborsi finanziari sostenuti dall’ente per l’espletamento dell’attività di tutela. E’ stato, inoltre, precisato che la possibilità di risarcimento, in ogni caso, non deve ritenersi limitata all’ambito patrimoniale di cui all’art. 2043 cod. civ., poiché l’art. 185, comma 2, cod. pen. – che costituisce l’ipotesi più importante “determinata dalla legge” per la risarcibilità del danno non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ. – dispone che ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga il colpevole al risarcimento nei confronti non solo del soggetto passivo del reato stesso, ma di chiunque possa ritenersi “danneggiato” per aver riportato un pregiudizio eziologicannente riferibile all’azione od omissione del soggetto attivo (v. ancora Sez. 3, n. 19439/2012, cit.).

Tanto premesso, va rilevato che la Corte di merito ha correttamente disatteso l’eccepita carenza di prova sul punto, osservando che “LEGAMBIENTE Lombardia Onlus” ha svolto durante il procedimento penale un ruolo di informazione dei cittadini e di tutela del territorio (ad es., formulando, nel 2009, richieste finalizzate a rendere pubblici i risultati delle video-ispezioni effettuate sulla rete fognaria TAMOIL o a sollecitare studi e indagini di carattere epidemiologico, nonché a organizzare appuntamenti di confronto e informazione rivolti alla cittadinanza di Cremona, anche con la collaborazione del proprio circolo locale, dando vita, dal 2008, al “Comitato contro l’inquinamento TAMOIL” e partecipando ai lavori dell’Osservatorio TAMOIL istituito dal Comune: v. pagg. 397-398 della sentenza di primo grado e la nota 323 a pag. 240 della sentenza impugnata, che rinvia agli allegati nn. 17 e 19 alla costituzione di parte civile), nello svilupparsi del quale (ruolo) era ravvisabile un nocumento suscettibile anche di valutazione di natura economica, in considerazione degli esborsi finanziari sostenuti dall’ente per l’espletamento della cennata “funzione informativa”.

D’altro canto, altrettanto correttamente i Giudici di merito hanno dato conto, in conformità ai principi giurisprudenziali enunciati, del danno non patrimoniale patito dall’associazione, costituito dalla vanificazione delle intraprese iniziative, siccome frustrate dalla commissione del reato ambientale, nonché dal danno all’immagine e alla reputazione dell’ente, cioè di quei valori che attengono alla considerazione da parte dei consociati circa la capacità e credibilità di Legambiente Lombardia Onlus in relazione al perseguimento della sua finalità istituzionale protesa alla tutela del territorio (in termini, Sez. 6, n. 3606 del 20/10/2016, dep. 2017, Bonanno e altri).

3.4.4. Venendo ai danni subiti dai singoli soci delle società Canottieri “Bissolati” e “Flora”, va, in primo luogo, giudicata ineccepibile la reiezione della prospettazione difensiva secondo la quale, essendo il reato ambientale di natura “indeterminata”, il singolo individuo non potrebbe essere considerato “persona offesa”.

Ed invero, occorre qui ribadire il condiviso principio per cui, in tema di danno ambientale, è legittimato a costituirsi parte civile il cittadino che non si dolga del degrado dell’ambiente, ma faccia valere una specifica pretesa in relazione a determinati beni, quali cespiti, attività e diritti soggettivi individuali (come quello alla salute), messi in pericolo dal collegamento con un determinato habitat (dove risiedono o lavorano), in conformità alla regola generale posta dall’art. 2043 cod. civ. (Sez. 3, n. 34789 del 22/6/2011, Verna, cit.; Sez. U civili, n. 2515 del 21/2/2002, cit.).

In secondo luogo, va detto che altrettanto correttamente è stata respinta, dai Giudici di merito, l’eccezione difensiva sul difetto di prova dei danni non patrimoniali subiti dai singoli soci delle Canottieri circa la sussistenza dei requisiti fissati dalle Sezioni Unite civili con la sentenza „ n. 26972 dell’11/11/2008, Rv. 605493 – 01: a) rilevanza costituzionale dell’interesse leso; b) gravità della lesione dell’interesse; c) non futilità del danno, che non deve consistere in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita od alla felicità.

Il motivo di ricorso proposto dalla difesa del GILBERTI contesta, letteralmente, le “voci di danno erroneamente riconosciute ai singoli soci della Canottieri Bissolati e Flora e al Dopolavoro Ferroviario” e, conseguentemente, l’ammontare delle provvisionali (pag. 291).

Nello sviluppo del motivo, la difesa del ricorrente, oltre a stigmatizzare, in generale, il difetto di prova circa la sussistenza di effettivi danni patrimoniali e non patrimoniali, si sofferma principalmente sui danni non patrimoniali patiti dai soci delle Canottieri “Bissolati” e “Flora”, in CS,” relazione ai quali deduce violazione dei principi giurisprudenziali enunciati con la citata sentenza delle Sezioni Unite civili n. 26972/2008, difetto di prova e improprio utilizzo, al riguardo, del concetto di “fatto notorio”.

Occorre rammentare, sul punto, che la natura unitaria ed onnicomprensiva del danno non patrimoniale, come predicata dalle Sezioni unite civili di questa Corte, deve essere interpretata, rispettivamente, nel senso di unitarietà rispetto a qualsiasi lesione di un interesse o valore costituzionalmente protetto non suscettibile di valutazione economica e come obbligo, per il giudice di merito, di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni risarcitorie, attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, e di non oltrepassare una soglia minima di apprezzabilità, procedendo ad un accertamento concreto e non astratto, dando ingresso a tutti i mezzi di prova normativamente previsti, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza, le presunzioni (Sez. 3 – , Sentenza n. 901 del 17/01/2018, M. contro C., Rv. 647125 – 01; quanto alla correttezza dell’uso di presunzioni per dimostrare il danno non patrimoniale subito, cfr. Sez. U. civili, n. 2611 dell’1/2/2017, F. contro R., Rv. 642418 – 01, in materia di immissioni illecite, in cui si afferma la risarcibilità della lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione e del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, quali diritti costituzionalmente garantiti, nonché tutelati dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo).

Va, inoltre, ricordato che il ricorso alle nozioni di comune esperienza attiene all’esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito, il cui giudizio circa la sussistenza di un fatto notorio può essere censurato in sede di legittimità solo se sia stata posta a base della decisione una inesatta nozione del notorio, da intendere come fatto conosciuto da un uomo di media cultura, in un dato tempo e luogo, e non anche per inesistenza o insufficienza di motivazione, non essendo il giudice tenuto ad indicare gli elementi sui quali la determinazione si fonda, laddove, del resto, allorché si assuma che il fatto considerato come notorio dal giudice non risponde al vero, l’inveridicità del preteso fatto notorio può formare esclusivamente oggetto di revocazione, ove ne ricorrano gli estremi, non di ricorso per cassazione (Cass. civ., Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 13715 del 22/5/2019, M. contro A., Rv. 654219 – 01).

Ciò detto, pare evidente, da un’analisi complessiva della motivazione resa sul tema specifico dai Giudici di merito, che costoro, nel riferirsi nominalmente al fatto notorio (che non si attaglia, in effetti, al caso di specie), in realtà abbiano inteso riferirsi, piuttosto, al diverso mezzo di prova della presunzione, sufficiente a giustificare le voci di danno non patrimoniale riconosciute.

Ed invero, è stato, a tal proposito, affermato che la prova del c.d. danno esistenziale può essere data anche con presunzioni semplici (od “hominis”), strumento di accertamento dei fatti di causa che può presentare anche qualche margine di opinabilità nell’operata riconduzione – in base a regole (elastiche) di esperienza – del fatto ignoto da quello noto, con il solo limite del principio di probabilità, in base al quale non occorre che i fatti su cui la presunzione si fonda siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignoto come l’unica conseguenza possibile dei fatti accertati secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva, ma è sufficiente che l’operata inferenza sia effettuata alla stregua di un canone di ragionevole probabilità con riferimento alla connessione degli accadimenti, la cui normale sequenza e ricorrenza può verificarsi secondo regole di esperienza, basate sull'”id quod plerumque accidit”, valutabile ex art. 116 cod. proc. civ. dal giudice, che con prudente apprezzamento può pertanto ravvisare la non necessità di ulteriore prova al riguardo (Cass. civ., Sez. 3, n. 13546 del 12/6/2006, Liquidazione Coatta Amministrativa contro Brumana ed altri, Rv. 593005 – 01).

Va, anche, ricordato che, in tema di “danno esistenziale”, è stata riconosciuta come incidente sulla normale vita di relazione la mancata possibilità di praticare attività sportiva e altre analoghe attività (Cass. Sez. L., n. 777 del 13/1/2015, Cacici contro Abdelbaky Aly Abdelbaky ed altri, Rv. 634051 – 01). E così, sotto il profilo del danno esistenziale sub specie di danno alla vita di relazione, corretto è l’approdo cui è pervenuta la Corte di merito sulla risarcibilità dello stesso, risalendo, da un fatto noto, ossia la chiusura delle piscine dei circoli Canottieri già menzionati per un apprezzabile periodo di tempo (quasi un mese nell’estate 2007), al fatto ignoto, consistito nel danno alla vita di relazione subito dai singoli soci per la necessitata impossibilità, seppur temporanea, di praticare, in conseguenza di quella chiusura, attività sportiva, in tal modo rinunciando anche al collegato momento sociale e comunicativo che la ordinaria frequentazione di un circolo implica e, in definitiva, a un non secondario segmento della normale vita di relazione in ambiti che favoriscono lo sviluppo della personalità di ogni cittadino (art. 2 Cost.).

Altrettanto corretta, e in linea con la giurisprudenza civile di legittimità (Sez. U, n. 794 del 15/1/2009, British American Tobacco Bat Italia contro Sisillo Spa, Rv. 606223 – 01; Sez. U, n. 2515 del 21/2/2002, ICMESA SpA in liquid. contro Pierotti, Rv. 552406 – 01), è la soluzione cui è pervenuta la Corte bresciana per la risarcibilità del danno alla salute o danno “esistenziale” dovuto al peggioramento della qualità della vita dei singoli soci delle società canottieri conseguente allo “stress” ed al turbamento per il rischio del verificarsi di gravi malattie, ritenuto dimostrato, anch’esso in via presuntiva (come prima chiarito), sulla base di una serie di elementi obiettivi, concordanti e pacificamente non contestati: utilizzazione di strutture sportive implicanti esposizione a contatto, assunzione o inalazione con e di acque emunte dalla falda contaminata; chiusura per circa un mese dei circoli sportivi nell’estate del 2007 al fine di evitare tali tipologie di contatto con le acque; notizie di stampa, iniziative e incontri susseguitisi, nel corso degli anni, presso il Comune e gi altri Enti istituzionali competenti aventi ad oggetto il “caso TAMOIL”; le iniziative dell’Autorità giudiziaria, recepite dagli organi d’informazione; l’annuncio di controlli di approfondimento e l’avvio di iniziative di prelievo e di bonifica; tutti fattori, quelli elencati, che, essendosi protratti per anni e per anni avendo occupato la vita pubblica della città, hanno inevitabilmente indotto i soci frequentatori dei Circoli Canottieri a patire la “paura di ammalarsi” per essere stati esposti, a lungo, a sostanze nocive, tossiche o cancerogene.

Tale costrutto argomentativo non viene scalfito dai rilievi critici opposti dalla difesa, che, riconducendo alla categoria dei “disagi o fastidi” la situazione vissuta dai soci costituitisi parti civili, esprime valutazioni in punto di fatto e aspecifiche per mancata correlazione con il complessivo ordito motivazionale, da interpretarsi secondo i chiarimenti forniti da questa Corte a proposito dei mezzi di prova utilizzati per giustificare la risarcibilità delle voci di danno descritte (presunzioni e non fatto notorio).

Quanto al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, riconosciuti all’Associazione Dopolavoro Ferroviario del Comune di Cremona, le censure sviluppate dalla difesa devono ritenersi inammissibili per genericità.

Va ribadita, infine, l’inammissibilità del motivo con cui si contesta l’entità delle provvisionali concesse dai Giudici di merito (Sez. 3, n. 18663 del 27/01/2015, D. G., Rv. 263486 – 01).

4. In conclusione, richiamate tutte le ragioni esposte, il ricorso proposto da GILBERTI Enrico deve essere rigettato, dal che deriva la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese del presente grado del giudizio a favore delle parti civili costituite che, tenuto conto della ponderosità e qualità dell’opera complessivamente prestata, vanno liquidate come segue:
1) al Comune di Cremona nella misura complessiva di euro cinquemila, oltre rimborso forfetario delle spese generali, IVA e CPA come per legge;
2) all’Associazione Dopolavoro Ferroviario di Cremona nella misura complessiva di euro cinquemila, oltre rimborso forfetario delle spese generali, IVA e CPA come per legge;
3) a Legambiente Lombardia Onlus nella misura complessiva di euro cinquemila, oltre rimborso forfetario delle spese generali, IVA e CPA come per legge;
4) a CHIROLI Massimo, MARASCHI Alessio, MARASCHI Mattia, POLI Laura, TONARELLI Laura, TALAMAZZI Tiziano, FRANZINI Valeria, DINI Andrea, GRIMOZZI Francesca, SUDATI Ferdinando Virginio, RAVELLI Sergio Pasquale, MAESTRONI Rosanna, COMPIAN Giovanna, VILLA Laura e DE ROSA Ermanno nella misura complessiva di euro diecimilazerottanta, oltre rimborso forfetario delle spese generali, IVA e CPA come per legge;
5) a TRIVELLA Michela, BAZZI Roberto Renato, BAZZI Davide, BAZZI Antonio Benvenuto, SPEDINI Pierangelo, BOVERI Cesarina, PONZONI Elena e PONZONI Annibale, nella misura complessiva di euro settemilacinquecentosessanta, oltre rimborso forfetario delle spese generali, IVA e CPA come per legge;
6) a MAURI Rossana, MARNI Anna Maria, MADINI Lorenzo, MADINI Gianfranco, TORRESANI Alessandro Andrea, BONANOMI Camillo, RIZZINI Giulio e BRUGNOLI Giorgio, nella misura complessiva di euro settemilacinquecentosessanta, oltre rimborso forfetario delle spese generali, IVA e CPA come per legge.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso del Procuratore Generale.

Rigetta il ricorso di GILBERTI Enrico, che condanna al pagamento delle spese processuali.

Condanna, altresì, GILBERTI Enrico alla rifusione delle spese del presente grado del giudizio a favore delle seguenti parti civili:
Comune di Cremona nella misura complessiva di euro cinquemila, oltre rimborso forfetario delle spese generali, IVA e CPA come per legge;
Associazione Dopolavoro Ferroviario di Cremona nella misura complessiva di euro cinquemila, oltre rimborso forfetario delle spese generali, IVA e CPA come per legge;
Legambiente Lombardia Onlus nella misura complessiva di euro cinquemila, oltre rimborso forfetario delle spese generali, IVA e CPA come per legge;
CHIROLI Massimo, MARASCHI Alessio, MARASCHI Mattia, POLI Laura, TONARELLI Laura, TALAMAZZI Tiziano, FRANZINI Valeria, DINI Andrea, GRIMOZZI Francesca, SUDATI Ferdinando Virginio, RAVELLI Sergio Pasquale, MAESTRONI Rosanna, COMPIAN Giovanna, VILLA Laura e DE ROSA Ermanno nella misura complessiva di euro diecimilazerottanta, oltre rimborso forfetario delle spese generali, IVA e CPA come per legge;
TRIVELLA Michela, BAZZI Roberto Renato, BAZZI Davide, BAZZI Antonio Benvenuto, SPEDINI Pierangelo, BOVERI Cesarina, PONZONI Elena e PONZONI Annibale, nella misura complessiva di euro settemilacinquecentosessanta, oltre rimborso forfetario delle spese generali, IVA e CPA come per legge;
MAURI Rossana, MARNI Anna Maria, MADINI Lorenzo, MADINI Gianfranco, TORRESANI Alessandro Andrea, BONANOMI Camillo, RIZZINI Giulio e BRUGNOLI Giorgio, nella misura complessiva di euro settemilacinquecentosessanta, oltre rimborso forfetario delle spese generali, IVA e CPA come per legge.

Così deciso in Roma, il 25 settembre 2018

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