CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^ 11/01/2018 (Ud. 25/05/2017) Sentenza n.791
CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^ 11/01/2018 (Ud. 25/05/2017) Sentenza n.791
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
omissis
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
Fasano Vito, nato a Ottaviano il 18/11/1930;
Romandini Luigi, nato a Taranto il 23/9/1952;
avverso la sentenza del 24/11/2016 della Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal Consigliere Giovanni Liberati;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Paola Filippi, che ha concluso chiedendo la dichiarazione di inammissibilità del ricorso proposto da Romandini Luigi e il rigetto del ricorso proposto da Fasano Vito;
udito per il ricorrente Romandini Luigi l’avv. Italia Mendicini, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso;
udito per il ricorrente Fasano Vito l’avv. Sonia D’Angiulli, in sostituzione dell’avv. Vincenzo Vozza, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 20 novembre 2014 il Tribunale di Taranto aveva condannato Vito Fasano, quale legale rappresentante della S.r.l. RARE, alla pena di anni tre di reclusione ed euro 1.500,00 di multa, in relazione ai reati di cui agli
artt. 256, comma 1, lett. a), d.lgs. 152/2006 (capo A della rubrica), 256, comma 3, d.lgs. 152/2006 (capo B della rubrica), 256, comma 4, d.lgs. 152/2006 (capo C della rubrica), 260, comma 1, d.lgs. 152/2006 (capo E della rubrica), e 640, commi 1 e 2, n. 1, cod. pen. (capo G della rubrica), disponendo la confisca dell’area in sequestro e la bonifica a cura e spese dell’imputato, nonché Luigi Romandini, quale dirigente del IX Settore Tecnico, Territorio e Ambiente, della Provincia di Taranto, alla pena di un anno di reclusione, in relazione al reato di cui all’art. 323 cod. pen. (capo I della rubrica).
La Corte d’appello di Lecce, pronunziando sulle impugnazioni degli imputati, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di Fasano in relazione ai reati di cui ai capi A), B), C), D) della rubrica, perché estinti per prescrizione, e anche nei confronti di Romandini, in relazione all’unico reato ascrittogli, di cui al capo I) della rubrica, per essere anch’esso estinto per prescrizione; ha assolto Fasano dal reato di cui al capo G) perché il fatto non sussiste; ha confermato la sentenza appellata per la residua imputazione ascritta a Fasano, di cui al capo E) della rubrica (ascrittogli per avere, al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l’allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, ricevuto e, comunque, gestito abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti speciali del tipo inerte, che anziché essere avviati al recupero, così come previsto nella iscrizione al registro provinciale, venivano di fatto stoccati all’interno della cava per la coltivazione di inerti calcarei gestita dalla S.r.l. RARE), rideterminando la pena inflittagli in relazione a tale reato in anni due di reclusione, sospesa subordinatamente alla eliminazione del danno o del pericolo per l’ambiente, e revocando la confisca dell’area in sequestro, di cui ha disposto la restituzione.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione Luigi Romandini, affidato a un unico motivo, mediante il quale ha lamentato violazione dell’art. 323 cod. pen. e insufficienza della motivazione, in relazione alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato, ritenuto configurabile ma estinto per decorso del tempo.
Ha sottolineato al riguardo il carattere meramente formale del controllo riservato al dirigente del Settore Tecnico, Ambiente e Territorio, della Provincia di Taranto, in quanto sarebbe il responsabile del procedimento a provvedere alla istruttoria della richiesta di autorizzazione allo scarico di acque meteoriche, affidando ad esperti la redazione di una2relazione tecnica e richiedendo il parere di un comitato tecnico, provvedendo alla successiva redazione della proposta e del dispositivo della determina dirigenziale, in relazione alla quale il dirigente del servizio si limiterebbe a un controllo esclusivamente formale.
Nella vicenda relativa alle autorizzazioni rilasciate alla S.r.l. RARE tale società aveva chiesto alla Provincia di Taranto l’autorizzazione allo scarico delle acque reflue mediante sub-irrigazione; tale richiesta era stata istruita dal Servizio Ecologia e Ambiente della Provincia, per essere poi trasmessa al comitato tecnico di cui alla I. Regione Puglia n. 30 del 1986, che aveva espresso parere favorevole, indicando una serie di prescrizioni e condizioni; sulla base di tale parere il dirigente del Servizio Ecologia e ambiente aveva autorizzato in via provvisoria tale scarico di acque meteoriche; successivamente, sulla base di altro parere del medesimo comitato tecnico, il medesimo dirigente, con determina n. 82 del 23/7/2002, aveva autorizzato per quattro anni la S.r.l. RARE allo scarico di acque meteoriche mediante sub-irrigazione, subordinando risolutivamente tale autorizzazione al rispetto delle disposizioni vigenti e delle prescrizioni contenute nella determina dirigenziale; alla scadenza di tale autorizzazione ne era stato richiesto il rinnovo, in ordine al quale era stato espresso parere favorevole, sulla base del quale il funzionario responsabile aveva predisposto la determina dirigenziale e il relativo dispositivo; tali atti erano quindi stati adottati dal ricorrente, con l’imposizione dell’obbligo di rispettare le prescrizioni dettate nelle precedenti autorizzazioni, al cui adempimento era stato subordinato il rinnovo della autorizzazione.
Tanto premesso, circa l’andamento del procedimento amministrativo che aveva condotto al rinnovo della autorizzazione, in relazione al cui rilascio era stata prospettata la sua responsabilità, ha lamentato il carattere congetturale della affermazione della Corte d’appello riguardo alla esistenza dell’elemento psicologico del reato contestatogli, per la cui sussistenza erano necessari, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità, l’evidenza della violazione di legge, la specifica competenza dell’agente, la motivazione del provvedimento e i rapporti personali tra agente e soggetto illegittimamente avvantaggiato dal provvedimento.
Ha sottolineato il carattere sospensivo della autorizzazione apposta alla autorizzazione, indice della sua buona fede, erroneamente ritenuta di diversa portata dalla Corte territoriale, e l’affidamento riposto nel rispetto delle prescrizioni indicate dal comitato tecnico, trattandosi di rinnovo di autorizzazione già rilasciata, con la conseguente presenza di ulteriori elementi idonei a escludere l’elemento soggettivo del reato, erroneamente ritenuto sussistente e dichiarato estinto solo a causa del decorso del tempo.
Ha lamentato anche la mancata considerazione da parte dei giudici di merito di altre proprie condotte, tra cui il dini:go di altra autorizzazione richiesta dallo stesso Fasano per la medesima società, che avrebbe dovuto indurre, se tali condotte fossero state adeguatamente considerate, a escludere la volontà di favorire la S.r.l. RARE.
Ha, infine, sottolineato la funzione svolta da Comitato tecnico istituito presso la Provincia, la cui relazione dava atto della esistenza dei presupposti per il rilascio della autorizzazione (peraltro; contrariamente a quanto risultante dal verbale di sopralluoqo, redatto dagli stessi funzionari che avevano redatto la relazione), e quella svolta dal Responsabile del procedimento, che aveva trasmesso al dirigente del servizio una proposta di provvedimento contenente il suddetto parere favorevole dell’organo collegiale tecnico consultivo della Provincia di Taranto.
3. Ha proposto ricorso per cassazione avverso la medesima sentenza anche Vito Fasano, affidato a tre motivi.
3.1. Con un primo motivo ha denunciato violazione dell’art. 2 d.lgs. 36/2003, in relazione agli
artt. 256, comma 3, e 260, comma 1, d.lgs. 152/2006, in ordine alla ritenuta sussistenza di una discarica abusiva rilevante ai fini del delitto di traffico illecito di rifiuti e alla affermata abusività dell’attività svolta dalla società amministrata dall’imputato.
Ha lamentato, in particolare, l’erroneità e l’illogicità della motivazione, nella parte in cui aveva ricavato, dalla sola gestione di una discarica abusiva, per la quale la società amministrata dall’imputato era priva di autorizzazione (in relazione alla quale era stato contestato il reato di cui all’art. 256, comma 3, d.lgs. 152/2006, capo B della rubrica, dichiarato estinto per prescrizione), la configurabilità del delitto di traffico illecito di rifiuti, di cui all’art. 260 d.lgs. 152/2006 (capo E della rubrica), in quanto sarebbero stati mancanti i necessari requisiti della ripetitività della condotta, dell’ingente quantitativo dei rifiuti e del dolo specifico di profitto ingiusto, di cui sarebbe erroneamente stata affermata la sussistenza, in quanto vi era la volontà di avviare al recupero i rifiuti. Ha sottolineato, al riguardo, che la situazione di accumulo di rifiuti (peraltro per la quasi totalità già sottoposti a fasi di recupero, mancando solo l’ultima fase di deferrizzazione), era dovuta alla nota crisi del mercato dell’edilizia, costituente il mercato di riferimento per la vendita dei prodotti riciclati derivanti dall’attività di recupero svolta nell’impianto gestito dalla S.r.l. RARE.
Ha aggiunto, al riguardo, che le carenze strutturali evidenziate nella motivazione della sentenza impugnata, a sostegno della affermazione della ravvisabilità di una discarica abusiva, in luogo della attività di recupero di rifiuti, per la quale la RARE era autorizzata, riguardavano non l’impianto di recupero dei rifiuti, bensì il sistema di smaltimento delle acque meteoriche e non delle acque di processo, con la conseguente illogicità del rilievo attribuitogli per affermare la configurabilità di una discarica abusiva; analoghe considerazioni ha svolto a proposito della mancanza di pavimentazione impermeabile, anch’essa posta in modo illogico a sostegno della affermazione della sussistenza di una discarica abusiva.
Ha, inoltre, sottolineato come non avrebbe comunque potuto essere configurata una discarica abusiva, versandosi nella diversa ipotesi di parziale difformità della attività svolta rispetto a quanto prescritto nella autorizzazione rilasciata alla società.
3.2. Con un secondo motivo ha prospettato ulteriore violazione dell’art. 260, comma 1, d.lgs. 152/2006 e vizio della motivazione, con riferimento alla affermazione della sussistenza del dolo specifico di profitto in capo al ricorrente, evidenziando che le condotte censurate, poste a fondamento della affermazione della sua responsabilità in relazione al reato di realizzazione di una discarica abusiva e con esso anche in relazione a quello di traffico illecito di rifiuti, non avevano determinato alcun risparmio sui costi d’impresa della società, con la conseguente illogicità della affermazione della sussistenza del dolo specifico di profitto.
Ha prospettato, al riguardo, l’illogicità della motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui, nell’affermare la configurabilità di un profitto ingiusto e la consapevolezza dell’imputato della strumentalità della attività svolta dalla società al conseguimento dello stesso, era stata sottolineata la rilevanza dei ricavi derivanti dalla attività di acquisizione dei rifiuti, omettendo di considerare quelli derivanti dalla attività autorizzata di recupero di rifiuti, aggiungendo che si era verificata una riduzione delle vendite degli inerti solo a causa della crisi economica che aveva investito il settore dell’edilizia. Ha ribadito al riguardo che la S.r.l. RARE era titolare di autorizzazioni per l’attività di recupero e trattamento dei rifiuti e che tale attività veniva realmente svolta, sebbene in misura quantitativamente ridotta, in quanto l’impianto di trasformazione dei rifiuti era operante e la società percepiva una remunerazione sia per l’acquisizione dei rifiuti in ingresso, sia per la vendita dei materiali trasformati. La scelta di ridurre l’attività di recupero era stata imposta dalla situazione di mercato e subita dal gestore dell’impianto.
3.3. Mediante un terzo motivo ha prospettato ulteriore violazione dell’art. 260, comma 4, d.lgs. 152/2006 e vizio della motivazione, relativamente alla subordinazione della sospensione condizionale della pena alla eliminazione del danno o del pericolo per l’ambiente, in quanto il giudizio di pericolosità delle condotte risultava apodittico, dovendo essere verificata in concreto l’effettiva verificazione di un danno ambientale, alla cui eliminazione subordinare il beneficio della sospensione condizionale della pena.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso proposto da Luigi Romandini non è fondato.
2. Va ricordato, avendo il ricorrente censurato la decisione della Corte d’appello nella parte in cui non ha pronunciato sentenza di assoluzione, ai sensi dell’art. 129, comma 2, cod. proc. pen., il principio, costantemente affermato da questa Corte, secondo cui "In presenza di una causa di estinzione del reato il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’art. 129 comma secondo, cod. proc. pen. soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell’imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di "constatazione", ossia di percezione "ictu oculi", che a quello di "apprezzamento" e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento" (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244274, menzionata anche dalla Corte d’appello; conf., Sez. 4, n. 23680 del 07/05/2013, Rizzo, Rv. 256202; Sez. 1, n. 43853 del 24/09/2013, Giuffrida, Rv. 258441; Sez. 6, n. 10284 del 22/01/2014, Culicchia, Rv. 259445; Sez. 3, n. 6027 del 18/11/2016, Mazzarol, Rv. 269236).
Ora, nel caso del ricorso proposto da Romandini, come emerge dallo stesso tenore delle censure formulate dal ricorrente, che ha prospettato plurimi elementi a sostegno della insussistenza dell’elemento soggettivo del reato contestatogli, dal complesso dei quali dovrebbe ricavarsi la prova della assenza di consapevolezza in capo al ricorrente della mancanza dei presupposti per il rinnovo della autorizzazione allo scarico delle acque meteoriche a favore della S.r.l. RARE, nonché, in ogni caso, l’assenza della volontà del Romandini di favorire indebitamente tale società, la verifica della fondatezza di tali doglianze è incompatibile, alla stregua dell’orientamento interpretativo ricordato, con la suddetta nozione di mera constatazione della sussistenza di una causa di proscioglimento.
L’indagine richiesta dalle censure sollevate dal Romandini implica, infatti, una analisi dell’andamento dei procedimenti amministrativi che avevano condotto al rilascio e al rinnovo di tali autorizzazioni, nonché del ruolo che al loro interno avevano svolto i vari soggetti che vi avevano preso parte, allo scopo di verificare se e in qual misura il ricorrente fosse in grado di comprendere il contenuto della autorizzazione che egli rilasciò alla S.r.l. RARE, nonché se vi siamo elementi a sostegno della intenzione di favorire tale società, proprio alla luce del contenuto degli atti endoprocedimentali adottati.
Tale verifica esula dal suddetto concetto di constatazione, intesa nel senso anzidetto di percezione ictu oculi, richiedendo l’analisi e l’apprezzamento degli atti del procedimento amministrativo e del ruolo al suo interno svolto dal Romandini, oltre che della sua consapevolezza del contenuto e della portata di alcuni di essi (tra cui il verbale di sopralluogo del 3/7/2006), che sono incompatibili con l’esistenza di una causa di estinzione del reato.
Al riguardo, infatti, sono stati evidenziati plurimi elementi a sostegno della illegittimità del rinnovo della autorizzazione allo scarico delle acque meteoriche con il metodo della subirrigazione a favore della S.r.l. RARE, tra cui l’inidoneità dell’impianto a captare l’intera massa delle eventuali precipitazioni piovose, la mancanza di idonea pavimentazione in tutta l’area aziendale, nonché di idoneo sistema di canalizzazione e raccolta delle acque meteoriche La Corte d’appello, nel disattendere l’impugnazione del Romandini, tra l’altro fondata su motivi analoghi a quelli posti a fondamento del ricorso per cassazione, volta a ottenere l’assoluzione in luogo della dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione, ha sottolineato la rilevanza del dato della inidoneità della pavimentazione dell’area e della mancanza di adeguato sistema di canalizzazione e raccolta delle acque meteoriche, evidenziando come tali aspetti determinassero la macroscopica illegittimità dell’atto, di cui l’imputato aveva mostrato di non essere all’oscuro (avendo affermato di aver sottoposto l’atto a condizione sospensiva, peraltro non di immediata e univoca percezione, proprio in considerazione della esistenza di possibili illegittimità dell’atto), ricavandone così la volontà di favorire intenzionalmente e consapevolmente la S.r.l. RARE.
Oltre alla manifesta abnormità dell’atto, derivante dalla inidoneità del sito, è stata sottolineata la consapevolezza della stessa da parte dell’imputato, derivante tra l’altro dal fatto che le medesime prescrizioni imposte con la nuova autorizzazione erano rimaste da tempo inattuate e in relazione a esse non erano stati disposti controlli adeguati.
Ora, a fronte di tali considerazioni, idonee a sorreggere la decisione di rigetto della richiesta di assoluzione avanzata dall’imputato con l’atto d’appello, con il ricorso sono stati, sostanzialmente, riproposti i medesimi rilievi, che non consentono, comunque, di ravvisare l’evidenza della causa di proscioglimento non dichiarata dalla Corte d’appello, il cui accertamento richiede, anche secondo la prospettazione dello stesso ricorrente, una completa rivisitazione dei vari procedimenti amministrativi e una nuova approfondita analisi delle condotte di tutti coloro che in essi intervennero e dell’imputato, incompatibili con la verificazione della suddetta causa di estinzione del reato, che correttamente è stata rilevata dalla Corte d’appello.
Ne consegue, in definitiva, il rigetto del ricorso proposto da Romandini.
3. Il ricorso proposto da Fasano è fondato limitatamente al terzo motivo.
4. Il primo motivo, mediante il quale sono state prospettate violazioni di legge e vizi della motivazione, sia in ordine alla configurabilità di una discarica abusiva, sia riguardo alla sussistenza di tutti gli elementi del delitto di traffico illecito di rifiuti, di cui al capo E) della rubrica, in relazione al quale è stata confermata la condanna dell’imputato, non è fondato.
4.1. Va ricordato che elementi costitutivi del delitto di traffico illecito di rifiuti di cui all’art. 260, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006 sono: a) la finalità di conseguire un ingiusto profitto; b) la pluralità delle operazioni e l’allestimento di mezzi e attività continuative e organizzate; e) la cessione, la ricezione, il trasporto, l’esportazione, l’importazione, o comunque la gestione di rifiuti; d) l’abusività di tali attività; e) l’ingente quantitativo di tali rifiuti.
La sussistenza di tali elementi costituisce il discrimine fra la fattispecie di cui all’art. 260, e quella di cui al precedente art. 256, comma 1, la quale non richiede ne’ il dolo specifico di profitto, ne’ la predisposizione di mezzi o la continuità della condotta, ne’ l’ingente quantitativo di rifiuti.
Non rientrano invece tra i presupposti del reato ne’ il danno ambientale, ne’ la minaccia grave di tale danno, perché la previsione di ripristino ambientale contenuta nell’art. 260, comma 4, si riferisce alla sola eventualità in cui il danno o il pericolo si siano effettivamente verificati e non muta, perciò, la natura del reato, da reato di pericolo presunto a reato di danno (Sez. 3, n. 19018 del 20/12/2012, Accarino, Rv. 255395; conf. Sez. 3, 16/12/2005, n. 4503, Rv.233294), sicché non assume specifico rilievo, ai fini della sussistenza del reato, il carattere pericoloso o non pericoloso dei rifiuti gestiti.
Quanto, poi, al requisito dell’abusività dell’attività, esso deve ritenersi integrato sia qualora non vi sia autorizzazione (Sez. 3, 13/7 /2004, n. 30373), sia quando vi sia una totale e palese difformità da quanto autorizzato (Sez. 3, 6/10/2005, n. 40828). L’ingente quantitativo di rifiuti gestiti può essere desunta, oltre che da misurazioni direttamente effettuate, anche da elementi indiziari quali i risultati di intercettazioni telefoniche, l’entità e le modalità di organizzazione dell’attività di gestione, il numero e le tipologie dei mezzi utilizzati, il numero dei soggetti che partecipano alla gestione stessa.
Per la configurabilità del reato non è richiesta una pluralità di soggetti agenti, trattandosi di fattispecie monosoggettiva, mentre è richiesta una pluralità di operazioni in continuità temporale, relative ad una o più delle diverse fasi in cui si concretizza ordinariamente la gestione dei rifiuti (Sez. 3, n. 4503 del 16/12/2005, Samarati, Rv. 233292, relativa al reato di cui all’art. 53 bis d.lgs. 22/97, ma estensibile, in ragione della continuità normativa, anche a quello di cui all’art. 260 d.lgs. 152/2006).
4.2. Ora, nella vicenda in esame, è stata ribadita dalla Corte d’appello l’affermazione di responsabilità di Vito Fasano, nella sua veste di amministratore della S.r.l. RARE., in relazione al residuo reato di cui all’art. 260, comma 1, d.lgs. 152 del 2006 (perché, al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l’allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, riceveva e, comunque, gestiva abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti speciali non pericolosi del tipo inerte, che, anziché essere avviati al recupero, così come previsto nella iscrizione al registro provinciale, venivano di fatto stoccati all’interno della cava gestita dalla S.r.l. RARE).
La Corte territoriale nel dichiarare l’estinzione per prescrizione dei reati di cui ai capi A) e B) della rubrica, e cioè quelli di cui agli artt. 256, commi 1 e 3, d.lgs. 152/2006, ha ribadito la sussistenza di elementi di responsabilità a carico dell’imputato, sia per lo svolgimento di attività di raccolta, recupero e smaltimento di rifiuti speciali non pericolosi (costituiti da materiale edile, da scavo, ferroso, sabbia e fresato stradale per un quantitativo superiore a 85.000 tonnellate), in mancanza della prescritta autorizzazione (essendo stata svolta al di fuori del perimetro entro il quale tale attività era autorizzata e non venendo asportati i rifiuti con cadenza trimestrale); sia per la realizzazione di una discarica non autorizzata di rifiuti speciali non pericolosi.
Al riguardo è stato evidenziato che nella cava destinata alla attività estrattiva della S.r.l. RARE (autorizzata al recupero dei rifiuti in procedura semplificata), oltre a tale attività veniva svolta anche quella di recupero di rifiuti speciali non pericolosi, prevalentemente provenienti da attività edilizia, essendo stati rinvenuti nell’impianto cumuli omogenei di materiale riciclato posizionati nei pressi dei macchinari dell’impianto di trasformazione (per un quantitativo complessivo di circa 500 tonnellate), ed essendo stata accertata l’esistenza di aree di stoccaggio, anche al di fuori del perimetro autorizzato, in cui venivano depositati in maniera promiscua cumuli di rifiuti e cumuli di materiale derivante da operazioni di recupero (terre e rocce da scavo frammiste ad altri materiali, materiale solo parzialmente lavorato con residui di calcestruzzo, sabbia riciclata, rifiuti misti da costruzione e demolizione, bitume, materiale ferroso, materiale misto, fanghi non provenienti da attività edilizia); in particolare era stata riscontrata la presenza nell’area di 102.171,89 tonnellate di rifiuti e di 12.759,13 tonnellate di materiale già lavorato.
Sia la fase di raccolta e smaltimento dei rifiuti, previa trasformazione parziale di quanto conferito, sia quella di stabile deposito dei rifiuti, entrambe compiute senza autorizzazione, sono, quindi, state ritenute idonee a configurare i reati di cui all’art. 256, commi 1 e 3, d.lgs. 152/2006, di cui ai capi A) e B) della rubrica.
La sistematicità e la abusività di tali attività, il carattere professionale dell’organizzazione (compiuta avvalendosi di società autorizzata e di un impianto destinato al trattamento dei rifiuti), l’ingente quantitativo dei rifiuti trattati in modo illecito e la finalità di profitto (in quanto i ricavi derivavano quasi esclusivamente dal conferimento dei rifiuti da parte dei terzi, essendo marginali quelli derivanti dalla vendita di materiali riciclati), hanno indotto la Corte a confermare la configurabilità del delitto di traffico illecito di rifiuti, di cui all’art. 260, comma 1, d.lgs. 152/2006.
4.3. Tali rilievi dei giudici di merito sfuggono alle censure di violazione di legge e vizio di motivazione formulati dal ricorrente, essendo fondati su una chiara ricostruzione della attività svolta nella cava esercitata dalla RARE, di cui è stata correttamente rilevata la abusività, per la radicale difformità dalle prescrizioni contenute nella autorizzazione, che ne determina la mancanza, e per la evidente realizzazione di una discarica non autorizzata, alla luce della chiara volontà di abbandono dei rifiuti, ammassati in modo indifferenziato e a tempo indeterminato all’interno di un’area di cava estesa circa 170.000 metri quadrati, con la tendenziale trasformazione dell’area.
Risulta, in particolare, corretta l’affermazione della abusività della attività svolta, in quanto la radicale difformità dalla autorizzazione è assimilabile alla sua mancanza, e consente, di conseguenza, di considerare abusiva l’attività (cfr. Sez. 3, n. 358 del 20/11/2007, Putrone, Rv. 238559, secondo cui "il carattere abusivo dell’attività organizzata di gestione dei rifiuti, idoneo ad integrare il delitto di cui all’art. 53-bis del D.Lgs. n. 22 del 1997, ora art. 260 del D.Lgs. n. 152 del 2006, si riferisce anche a quelle attività che, per le loro concrete modalità, risultino totalmente difformi da quanto autorizzato"; conf. Sez. 3, n. 46170 del 21/09/2016, Simonelli, Rv. 268060).
Anche le doglianze in ordine alla mancanza di ripetività delle condotte, oltre che volte a censurare un accertamento di fatto compiuto in modo coerente con le risultanze acquisite e di cui è stata data spiegazione con motivazione adeguata e immune da vizi logici, sono comunque infondate, avendo i giudici di merito sottolineato sia il dato della ingente quantità di rifiuti rinvenuti nell’area trasformata in discarica abusiva, sia, soprattutto, l’assoluta prevalenza della attività di ricezione e gestione abusiva rispetto a quella (autorizzata) di riciclo, con la conseguente logica deduzione della sistematicità della condotta.
In proposito la Corte d’appello ha sottolineato come sia emerso dalla consulenza tecnica del Pubblico Ministero che il materiale riciclato rintracciato nell’area di impianto (pari a 12. 759, 13 tonnellate), sommato a quello venduto dall’anno 2006 fino al momento del sequestro dell’impianto (pari a poco più di 7.000 tonnellate), comportava una produzione di sole 19.759,13 tonnellate nel triennio, equivalenti a 15.200 metri cubi, comportanti un impiego dell’impianto di lavorazione (che ha una capacità di produzione di 1.263 metri cubi al giorno) per soli 12 giorni dal 2006 al 2009, concludendo, in modo del tutto logico, per l’utilizzo pressoché esclusivo dell’impianto per lo stoccaggio dei rifiuti, e quindi per la configurabilità di una discarica abusiva, e, con essa, anche del delitto di traffico illecito di rifiuti, sia per la sistematicità della attività, alla quale era, sostanzialmente, stata dedicata tutta la struttura imprenditoriale della RARE, sia in considerazione del fine di profitto, sotto forma di risparmio dei costi di trattamento a scopo di riciclo.
Sono, dunque, compiutamente stati individuati tutti i predetti elementi costitutivi del delitto di traffico illecito di rifiuti, e cioè il fine di ingiusto profitto, la pluralità delle operazioni (protrattesi per tre anni) e l’allestimento di mezzi e attività continuative e organizzate (essendo stato utilizzato l’impianto della cava gestita professionalmente dalla RARE), la ricezione e la gestione di rifiuti (ricevuti dietro corrispettivo e stoccati nell’area dell’impianto), l’abusività di tali attività (in quanto compiuta in totale difformità o in assenza di autorizzazione), l’ingente quantitativo di tali rifiuti (quale accertato all’atto dei sopralluoghi e dal consulente tecnico del pubblico ministero).
La prospettata intenzione di avviare al recupero i rifiuti stoccati nell’area nella disponibilità della RARE, ivi accumulati solo a causa della crisi del mercato dell’edilizia, che costituiva il mercato di riferimento per la vendita dei prodotti riciclati derivanti dall’attività di recupero svolta nell’impianto gestito dalla S.r.l. RARE, non esclude l’antigiuridicità di tale condotta, protrattasi per oltre tre anni, dunque per un periodo di tempo di ampiezza tale da rendere irrilevante, o comunque, non decisiva, la suddetta situazione del mercato dei prodotti per l’edilizia, con la conseguente manifesta infondatezza di tale prospettazione difensiva, e, con essa, anche della censura di manifesta illogicità della motivazione.
Ne consegue, in definitiva, l’infondatezza di tutte le censure sollevate con il primo motivo di ricorso.
5. Il secondo motivo, mediante il quale è stata affermata l’erroneità della affermazione della sussistenza del dolo di profitto ingiusto, è anch’esso infondato.
Il dolo specifico richiesto dall’art. 260, comma 1, d.lgs. 152/2006, e, in precedenza, dall’art. 53 bis d.lgs. 22/1997, con il quale v’è continuità normativa, non consiste necessariamente nella volontà di conseguire maggiori ricavi, ma può essere configurabile anche nella intenzione di ridurre i costi della attività d’impresa (Sez. 4, n. 28158 del 02/07/2007, Costa, Rv. 236907; conf. Sez. 4, n. 29627 del 21/04/2016, Silva, Rv. 267845), in quanto attraverso la riduzione indebita dei costi l’agente consegue egualmente lo scopo di profitto prefissatosi.
Ciò discende dalla considerazione che alla formazione dell’utile d’impresa concorrono sia i ricavi sia i costi, sicché la riduzione dei costi può determinare un maggior utile e, con esso, un maggior profitto.
Ed è ciò che è avvenuto nel caso di specie, nel quale la RARE, pur avendo percepito corrispettivi per i rifiuti conferiti e che avrebbe dovuto riciclare, non ha svolto tale attività, evidentemente produttiva di costi per l’impresa, stoccando illecitamente tali rifiuti anziché avviarli al trattamento strumentale al loro riciclo, in tal modo riducendo i propri costi di impresa e conseguendo, così, un profitto illecito.
Ne consegue, pertanto, l’infondatezza delle doglianze formulate con il secondo motivo.
6. Il terzo motivo, relativo alla indebita subordinazione della sospensione condizionale della pena alla eliminazione del danno o del pericolo per l’ambiente, è fondato.
Come già ricordato a proposito del primo motivo, non rientrano tra i presupposti del reato di cui all’
art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006 né il danno ambientale né la minaccia grave dello stesso danno, atteso che la previsione di ripristino ambientale contenuta nel comma 4 dell’art. 260 cit., secondo cui il giudice ordina il ripristino dello stato dell’ambiente e può subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena all’eliminazione del danno o del pericolo per l’ambiente, si riferisce alla sola eventualità in cui il danno o il pericolo si siano effettivamente verificati e non muta la natura del reato da reato di pericolo presunto a reato di danno (Sez. 3, n. 26404 del 2/5/2013, Saturno, non massimata; Sez. 3, n. 19018 del 20/12/2012, Accarino, citata; e, con riferimento all’art. 53 bis d.lgs. n. 22 del 1997, Sez. 3, n. 4503 del 16/12/2005, Samarati, Rv. 233294).
Ne consegue che perché possa trovare applicazione la disposizione di cui al quarto comma dell’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006 occorre l’accertamento delle conseguenze dannose o pericolose della condotta, da eliminare onde beneficiare della sospensione condizionale della pena, ai sensi della disposizione citata, non potendo presumersi l’esistenza di danno o pericolo per l’ambiente solamente per effetto ed in conseguenza della consumazione del reato, tenendo anche conto della circostanza, sottolineata dal ricorrente, che i rifiuti accumulati erano costituiti da inerti provenienti da attività di costruzione e demolizione o da terre, come tali non comportanti necessariamente percolazione o rilascio di sostanze pericolose sul terreno.
Nel caso in esame la Corte d’appello ha subordinato il beneficio della sospensione condizionale della pena riconosciuto al Fasano alla eliminazione del danno e del pericolo per l’ambiente, sottolineando la "notevolissima pericolosità della condotta", senza, tuttavia, illustrare se e in qual modo la stessa abbia provocato un danno per l’ambiente o determinato un pericolo di danno, che non può essere neppure ricavato dalla descrizione delle condotte o dalla ricostruzione della vicenda, relativa alla realizzazione di una discarica abusiva di inerti per lo più provenienti da attività edile, alla cui pericolosità non sono stati fatti riferimenti di sorta, con la conseguenza che la motivazione sul punto della esistenza di un danno o di un pericolo di danno, da eliminare per poter beneficiare della sospensione condizionale della pena, risulta, come eccepito dal ricorrente, insufficiente.
7. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata, limitatamente al residuo reato contestato a Fasano, con rinvio alla Corte d’appello di Lecce, per una nuova valutazione della sussistenza dei presupposti per poter subordinare la sospensione condizionale della pena alla eliminazione del danno o del pericolo per l’ambiente.
Il ricorso proposto da Romandini deve invece, essere rigettato.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al residuo reato contestato a Fasano Vito, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Lecce.
Rigetta il ricorso proposto da Romandini Luigi.
Così deciso il 25/5/2017