RIFIUTI – Effluenti da allevamento zootecnico – Trattamento di materie fecali (letame e liquami) – Utilizzazione agronomica (o fertirrigazione) – Onere della prova – Accumulo e smaltimento di rifiuti non pericolosi – Mancata autorizzazione e impermeabilizzazione del suolo – Fattispecie – AGRICOLTURA E ZOOTECNIA – Artt. 112, 185, 256, d.lgs. n.152/2006 – Disciplina applicabile.
Provvedimento: SENTENZA
Sezione: 3^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 11 Maggio 2022
Numero: 18513
Data di udienza: 22 Dicembre 2021
Presidente: LAPALORCIA
Estensore: BERNAZZANI
Premassima
RIFIUTI – Effluenti da allevamento zootecnico – Trattamento di materie fecali (letame e liquami) – Utilizzazione agronomica (o fertirrigazione) – Onere della prova – Accumulo e smaltimento di rifiuti non pericolosi – Mancata autorizzazione e impermeabilizzazione del suolo – Fattispecie – AGRICOLTURA E ZOOTECNIA – Artt. 112, 185, 256, d.lgs. n.152/2006 – Disciplina applicabile.
Massima
CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez.3^, 11 maggio 2022 (Ud. 22/12/2021), Sentenza n.18513
RIFIUTI – Effluenti da allevamento zootecnico – Trattamento di materie fecali (letame e liquami) – Utilizzazione agronomica (o fertirrigazione) – Onere della prova – Accumulo e smaltimento di rifiuti non pericolosi – Mancata autorizzazione e impermeabilizzazione del suolo – AGRICOLTURA E ZOOTECNIA – Artt. 112, 185, 256, d.lgs. n.152/2006 – Disciplina applicabile.
I c.d. effluenti di allevamento costituiscono rifiuti salvo che non siano riconducibili al disposto dell’art. 185, comma 1, lett. f) d.lgs. n. 152/2006, che esclude dal novero dei rifiuti le materie fecali, se non contemplate dal comma 2, lett. b) dello stesso articolo (che richiama i sottoprodotti di origine animale), la paglia e altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso quali, a titolo esemplificativo e non esaustivo, gli sfalci e le potature effettuati nell’ambito delle buone pratiche colturali, utilizzati in agricoltura, nella silvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa, anche al di fuori del luogo di produzione ovvero con cessione a terzi, mediante processi o metodi che non danneggiano l’ambiente né mettono in pericolo la salute umana. Pertanto, l’esclusione dalla disciplina dei rifiuti opera a condizione che le materie fecali provengano da attività agricola e che siano riutilizzate nella stessa attività agricola, la predetta esclusione è applicabile solo al letame agricolo, poiché quello non agricolo è sicuramente un rifiuto e che l’effettiva riutilizzazione nell’attività agricola deve essere dimostrata dall’interessato. Nella specie, non esistendo ostacoli atti ad impedire l’assorbimento del materiale da parte del terreno (suolo non impermeabilizzato), lo stoccaggio in assenza delle prescritte autorizzazioni è inquadrabile nell’art. 256, comma 1, d.lgs. n. 152/2006, con riferimento, peraltro, alla lett. a), trattandosi di rifiuti non pericolosi.
(rigetta il ricorso avverso sentenza del 16/04/2021 del TRIBUNALE di LODI) Pres. LAPALORCIA, Rel. BERNAZZANI, Ric. Reccagni
Allegato
Titolo Completo
CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez.3^, 11/05/2022 (Ud. 22/12/2021), Sentenza n.18513SENTENZA
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
omissis
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da RECCAGNI FRANCESCO nato a LODI;
avverso la sentenza del 16/04/2021 del TRIBUNALE di LODI;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Paolo BERNAZZANI;
letta la requisitoria scritta del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Domenico SECCIA, che ha richiesto, in accoglimento del quarto motivo di ricorso, l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata;
lette le conclusioni scritte del difensore avv. Gianluigi BONIFATI, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
Ricorso trattato ex art. 23, comma 8 del D.L. n. 137/2020.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del Tribunale di Lodi in data 16.4.2021, Reccagni Francesco veniva condannato alla pena di euro 4000 di ammenda, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, in relazione al reato di cui all’art. 256, comma 1, lett. a) del d.lgs. 152/2006, così riqualificata l’originaria imputazione, che richiamava la lett. b) della predetta norma incriminatrice. La medesima decisione mandava assolto l’imputato dal reato di cui all’art. 137, comma 14, d.lgs. n. 152/2006 per insussistenza del fatto.
1.1. A sostegno dell’affermazione di responsabilità in ordine al reato di accumulazione e smaltimento di rifiuti non pericolosi in mancanza di autorizzazione, iscrizione o comunicazione, la decisione riteneva accertati l’accumulo e lo smaltimento, su suolo non impermeabilizzato, di affluenti da allevamento zootecnico di bovini da ingrasso per la produzione di carne (letame e liquami) per una massa complessiva di 20 mc e relativo percolato, qualificati come rifiuti.
In particolare, la sentenza, sulla base della testimonianza del commissario Capelli Francesco e del materiale fotografico scattato in occasione dell’accesso eseguito presso la Cascina Lovera in Brembio (LO), riteneva comprovato che il letame, di mole particolarmente voluminosa rispetto alla produzione della stalla (circostanza ritenuta rivelatrice del suo accumulo nel tempo), si trovava ammassato su superficie priva di impermeabilizzazione che ne potesse impedire l’assorbimento da parte del terreno, oltre ad essere circondato da evidenti tracce di liquame.
1.2. La decisione, quindi, premessa una sintetica ricostruzione del quadro normativo di fonte statale e regionale e della giurisprudenza di legittimità in materia, affermava la natura di rifiuto del letame così prodotto, in assenza di prova di utilizzo agricolo e di autorizzazione allo spargimento «ed in presenza di una palese stratificazione del letame ivi giacente da tempo», onde lo stoccaggio del materiale su suolo non impermeabilizzato in assenza delle prescritte autorizzazioni doveva ritenersi assoggettato alla disciplina di cui all’art. 256, comma 1, T.U. amb., con rifermento, peraltro, alla lett. a), trattandosi di rifiuti non pericolosi.
1.3. Diversamente, non risultando prova dello spargimento sui terreni delle deiezioni, il giudice monocratico mandava assolto il Reccagni dall’imputazione sopra descritta di cui al capo b) per insussistenza del fatto.
2. Avverso tale decisione, Reccagni Francesco, tramite il proprio difensore di fiducia, ha proposto ricorso, affidato a quattro motivi.
2.1. Con il primo di essi, viene dedotto vizio di mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla valutazione del compendio probatorio a fondamento della sentenza impugnata e, in particolar modo l’omessa valutazione delle prove testimoniali.
In tale prospettiva, si contestano due profili di carattere valutativo, ossia che:
a) non era emersa la prova della mancata impermeabilizzazione, alla luce della deposizione dibattimentale del teste Capelli, il quale aveva affermato che si trattava di un accumulo di soli 5 metri cubi di letame fresco (quindi non accumulato nel tempo) e destinato ad essere utilizzato come fertilizzante per terreni agricoli; acquisizione probatoria non più modificabile, essendo stata rigettata la richiesta difensiva di procedere a sopralluogo a fini di migliore accertamento dei fatti;
b) la sentenza non aveva minimamente considerato la deposizione del perito agrario Pellegri Simona, consulente dell’azienda agricola del Reccagni, secondo la quale l’area ove il letame era depositato era pavimentata regolarmente; la stessa aveva, inoltre, dichiarato che negli ultimi 10 anni, compreso l’anno oggetto di accertamento, detta azienda era stata ammessa all’utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento sulla base di un P.U.A. (piano di utilizzazione agronomica) dalla stessa redatto ed aveva anche stipulato una convenzione con un’azienda limitrofa per l’utilizzo di una vasca di stoccaggio; dato confermato anche dalla documentazione prodotta.
2.2. Con il secondo motivo si deduce, ex art. 606, comma 1, lett. b) c.p.p., violazione di legge in ordine alla erronea qualificazione come rifiuto del letame prodotto dall’azienda del ricorrente ed in ordine alla regolarità delle autorizzazioni, dovendo ritenersi, sulla base dei medesimi elementi probatori illustrati a proposito del primo motivo, del tutto lecita l’attività di fertirrigazione, con conseguente impossibilità di classificare l’accumulo “de quo” come rifiuto.
2.3. Con il terzo motivo si censura la sentenza di merito sotto il profilo del vizio di motivazione circa la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, sempre sulla base della mancata valorizzazione delle risultanze delle prove testimoniali ed, in particolare, della deposizione della teste Pellegri, secondo cui l’aia su cui il cumulo insisteva era pavimentata ed il Reccagni era in possesso delle autorizzazioni e della certificazione necessaria per l’attività di fertirrigazione, essendosi affidato ad un consulente proprio per garantire la regolarità della gestione, indice di particolare attenzione nello svolgimento della propria attività lavorativa.
2.4. Con il quarto motivo si deduce vizio di motivazione, ex art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p. in ordine alla quantificazione della pena ed alla mancata applicazione della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p.
Lamenta, in tal senso, la difesa del ricorrente che il giudice di primo grado non ha considerato l’istanza di assoluzione dell’imputati ai sensi dell’art. 131-bis c.p. senza addurre alcuna motivazione sul punto. Illogica e contraddittoria
sarebbe, altresì, la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui non giustifica il discostamento dalla pena minima prevista dall’art. 256, comma 1, lett. a) T.U. amb.
3. Il P.g., con requisitoria scritta, ha chiesto l’accoglimento del quarto motivo di ricorso con conseguente annullamento con rinvio della sentenza impugnata.
Il difensore, con note scritte, ha concluso insistendo per l’accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è, nel suo complesso, infondato.
2. I primi tre motivi si pongono, sotto diversi aspetti che di seguito si preciseranno, nell’area dell’inammissibilità, declinando censure su profili della decisione esaurientemente valutati dal Tribunale con motivazione congrua ed esente da fallacie logico-argomentative, alla quale il ricorrente contrappone una ricostruzione alternativa che sfocia in valutazioni fattuali ed in una non consentita sollecitazione alla rilettura delle risultanze istruttorie.
2.1. Come già affermato da questa Corte nell’analizzare la disciplina in esame (Sez. 3, n. 34874/16) i c.d. effluenti di allevamento costituiscono rifiuti salvo che non siano riconducibili al disposto dell’art. 185, comma 1, lett. f) d.lgs. n. 152/2006, che esclude dal novero dei rifiuti le materie fecali, se non contemplate dal comma 2, lett. b) dello stesso articolo (che richiama i sottoprodotti di origine animale), la paglia e altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso quali, a titolo esemplificativo e non esaustivo, gli sfalci e le potature effettuati nell’ambito delle buone pratiche colturali, utilizzati in agricoltura, nella silvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa, anche al di fuori del luogo di produzione ovvero con cessione a terzi, mediante processi o metodi che non danneggiano l’ambiente né mettono in pericolo la salute umana.
Rispetto a tali materie, dunque, la disposizione sostanzialmente pone l’accento sulla provenienza delle stesse da attività agricola e sulla loro successiva utilizzazione sempre con riguardo a detta attività.
2.2. In tale quadro ricostruttivo, l’ambito di applicazione della disposizione in esame è stato compiutamente delineato dalla giurisprudenza di questa Corte nel solco di una sostanziale linea di continuità rispetto all’interpretazione delle disposizioni previgenti – in particolare, l’art. 8, comma 1, lett. e) del d.lgs. n. 22/1997 – , ritenuta tuttora valida alla luce del preciso richiamo rivolto dalla attuale normativa alla provenienza, alle caratteristiche ed alla successiva utilizzazione delle materie di cui trattasi: si è, in particolare, sottolineato che l’esclusione dalla disciplina dei rifiuti opera a condizione che le materie fecali provengano da attività agricola e che siano riutilizzate nella stessa attività agricola (Sez. 3, n. 8890 del 10/02/2005 – dep. 08/03/2005, Gios, Rv. 230981; nello stesso senso ed anche con riferimento alla disciplina attualmente in vigore, v. Sez. 3, n. 37548 del 27/06/2013, Rattenuti, Rv. 257686; Sez. 3, n. 37405 del 24/06/2005, Burigotto ed altro, Rv. 232355; Sez. 3 n. 20458 del 25/05/2007, n.m.; Sez. 3 n. 37560 del 03/10/2008, n.m.), altresì chiarendo che la predetta esclusione è applicabile solo al letame agricolo, poiché quello non agricolo è sicuramente un rifiuto e che l’effettiva riutilizzazione nell’attività agricola deve essere dimostrata dall’interessato (Sez. 3, n. 45974 del 19/12/2005, n.m.).
2.3. Ciò posto, è altresì noto che una delle modalità di impiego che consente di sottrarre gli effluenti zootecnici dalla normativa sui rifiuti è la c.d. utilizzazione agronomica degli stessi (o fertirrigazione) sui terreni per migliorarne la fertilità: rispetto a tale pratica, si è precisato che essa, quale presupposto di sottrazione delle deiezioni animali alla disciplina sui rifiuti, richiede, in primo luogo, l’esistenza effettiva di colture in atto sulle aree interessate dallo spandinnento, nonché l’adeguatezza di quantità e qualità degli effluenti e dei tempi e delle modalità di distribuzione al tipo e fabbisogno delle colture e, in secondo luogo, l’assenza di dati sintomatici di una utilizzazione incompatibile con la fertirrigazione, quali, ad esempio, lo spandimento di liquami lasciati scorrere per caduta a fine ciclo vegetativo (Sez. 3, n. 5039 del 17/01/2012, Di Domenico, Rv. 251973; Sez. 3, n. 15043 del 22/01/2013, Goracci, Rv. 255248; Sez. 3, n. 40782 del 06/05/2015, Valigi, Rv. 264991). Ne consegue che, in difetto di tali requisiti, tale pratica resta sottoposta alla disciplina generale sui rifiuti (Sez. 3, n. 15043 del 2013, cit.; Sez. 3, n. 5039 del 2012, cit.).
2.4. Sul piano della disciplina positiva, l’utilizzazione agronomica degli affluenti di allevamento, nella specie attraverso la pratica della fertirrigazione, trova un’importante referente normativo nell’art. 112 del d.lgs. n. 152/2006, il quale (come già la previgente disciplina) consente «… l’utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento, delle acque di vegetazione dei frantoi oleari, sulla base di quanto previsto dalla legge 11 novembre 1996, n. 574, nonché dalle acque reflue provenienti dalle aziende di cui all’art. 101, comma 7, lett. a), b) e c), e da piccole aziende agroalimentari, così come individuate in base al decreto del Ministro delle politiche agricole e forestali di cui al comma 2», previa comunicazione all’autorità competente ai sensi all’art. 75 del medesimo decreto. Tale attività, in base a quanto disposto dal comma 2 della norma in esame, è disciplinata dalle Regioni sulla base dei criteri e delle norme tecniche generali adottate con decreto del Ministro delle politiche agricole e forestali, di concerto con i Ministri dell’ambiente e della tutela del territorio, delle attività produttive, della salute e delle infrastrutture e dei trasporti, d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano (cfr., sul tema, Sez. 3, n. 5044 del 17/01/2012, Moretto, n.m.).
Sulla base del richiamo così operato dall’art. 112, comma 2, d.lgs. n. 152/2006, dunque, un ruolo fondamentale nella disciplina della materia è svolto dal decreto interministeriale n. 5046 del 25 febbraio 2016, che detta criteri e norme tecniche generali, destinate ad essere integrate dalle disposizioni di dettaglio di matrice regionale, che possono anche modificare le regole generali in senso più restrittivo, adeguandole alle particolari esigenze locali.
Fra le disposizioni dettate dal citato decreto interministeriale che costituiscono espressione di principi e criteri di carattere generale in materia, rileva qui l’art. 2, secondo il quale l’utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento – definiti dall’art. 3, lett. c) del medesimo decreto come «le deiezioni del bestiame o una miscela di lettiera e di deiezione di bestiame, anche sotto forma di prodotto trasformato (…)» – è esclusa dall’ambito applicativo della normativa sui rifiuti dettata dalla Parte Quarta del d.lgs. n. 152/2006 non in via generale ed astratta, ma «solo qualora rispetti i criteri generali e le norme tecniche di utilizzazione agronomica disciplinate nel presente decreto».
Orbene, fra tali criteri generali e norme tecniche è ricompreso l’art. 11, che, al comma 1, prevede che «lo stoccaggio dei letami deve avvenire su platea impermeabilizzata, con portanza sufficiente a reggere, senza cedimenti o lesioni, il peso del materiale accumulato e dei mezzi utilizzati per la movimentazione. In considerazione della consistenza palabile dei materiali, la platea di stoccaggio deve essere munita di idoneo cordolo o di muro perimetrale (…)».
2.5. Nella specie, dunque, deve osservarsi che risulta esatta la qualificazione giuridica di rifiuto riconosciuta dall’impugnata sentenza al materiale di cui all’imputazione (con conseguente inapplicabilità dell’invocata esclusione della fattispecie in esame dalla disciplina del d.lgs. n. 152/2006), in quanto fondata sull’accertamento in fatto, motivato in modo congruo e non manifestamente illogico né contraddittorio – come tale, insindacabile in sede di legittimità -, circa l’assenza di impermeabilizzazione della superficie su cui giaceva il cumulo di letame, di mole particolarmente voluminosa rispetto alla produzione della stalla (indice, secondo la decisione di merito, che esso era stato ammassato nel tempo); di qui la corretta conclusione che, non esistendo ostacoli atti ad impedire l’assorbimento del materiale da parte del terreno, lo stoccaggio in assenza delle prescritte autorizzazioni era inquadrabile nell’art. 256, comma 1, d.lgs. n. 152/2006, con riferimento, peraltro, alla lett. a), trattandosi di rifiuti non pericolosi.
3. In tale prospettiva, i primi tre motivi di ricorso risultano complessivamente infondati, se non proprio inammissibili sotto vari aspetti, come di seguito precisato.
3.1. Quanto al primo, con esso si contestano due profili attinenti alla valutazione del materiale probatorio, ossia a) che la prova del fatto reato sarebbe stata tratta «sulla sola base di materiale fotografico, disattendendo le prove testimoniali» (in particolare la deposizione del p.u. accertatore, sotto il profilo delle dimensioni effettive dell’accumulo, che sarebbero state più ridotte di quanto ritenuto in sentenza, e della sua destinazione all’impiego come fertilizzante per terreni agricoli) e senza disporre alcun sopralluogo; b) che non sarebbe stata considerata la deposizione del consulente dell’azienda agricola del Reccagni, secondo cui l’area ove il letame era depositato era pavimentata regolarmente e l’azienda stessa era stata ammessa all’utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento sulla base di un piano (P.U.A. o Piano di utilizzazione agronomica, ovvero P.U.A.S., Piano di utilizzazione agronomica semplificato) dalla stessa predisposto, come asseverato anche dalla documentazione prodotta.
Orbene, è evidente che la prima di tali doglianze, sotto la formale prospettazione di vizi motivazionali, è, in realtà, diretta a contestare la ricostruzione del fatto non illogicamente né contraddittoriamente operata dal tessuto argomentativo della sentenza impugnata sulla base della testimonianza dell’agente accertatore (circa il fatto che il letame era adagiato sulla nuda terra in assenza di qualsivoglia manufatto impermeabilizzato ed era circondato da evidenti tracce di liquame), e, altresì, sulla base dell’acquisito accertamento tecnico con allegato materiale fotografico scattato in occasione dell’accesso eseguito presso l’azienda agricola del ricorrente (che, ad avviso del giudicante, consentiva non solo di confermare l’assenza di impermeabilizzazione, ma, altresì, di ritenere più attendibile la dimensione dell’accumulo pari a circa 20 mc di letame, rispetto a quanto ricordato dal teste a distanza di alcuni anni dall’accertamento).
3.2. In tale prospettiva, va ribadito che, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., al controllo di legittimità sulla motivazione non appartengono la rilettura degli elementi fattuali posti a fondamento della decisione impugnata, il giudizio sulla rilevanza e attendibilità delle fonti di prova e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, D’Ippedico e a., Rv. 271623; Sez. 2, n. 20806 del 05/05/2011, Tosto, Rv. 250362; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482), essendo invece tale controllo circoscritto alla verifica che il provvedimento impugnato contenga l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo sorreggono, che il discorso giustificativo sia effettivo e non meramente apparente (cioè idoneo a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata), che nella motivazione non siano riscontrabili contraddizioni, né illogicità manifeste, cioè di spessore tale da risultare percepibili ictu oculi, restando ininfluenti le minime incongruenze e dovendosi considerare disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, appaiano logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr. Sez. 2, n. 1405 del 10/12/2013, Cento e a., Rv. 259643). (cfr. Sez. 1, n. 41738 del 19/10/2011, Longo, Rv. 251516).
Pertanto, una volta riscontrata l’esistenza di un logico apparato argomentativo, del tutto esclusa dall’indagine di legittimità è la possibilità di verificare la rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali e la deducibilità nel giudizio di legittimità del travisamento del fatto (Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Minervini, Rv. 253099) così come precluse sono una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o dello spessore e della valenza probatoria del singolo elemento» (Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, 0., Rv. 262965. In senso analogo, cfr. anche Sez. 2, n. 41935 del 21/06/2017, De Marte).
3.3. Quanto alla lamentata mancata considerazione della deposizione della teste addotta dalla difesa circa l’esistenza di un piano di utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento, il motivo risulta infondato in parte qua.
Va premesso che l’obbligo di motivazione del giudice di merito non richiede necessariamente che egli fornisca specifica ed espressa risposta a ciascuna delle singole argomentazioni, osservazioni o rilievi difensivi, se il suo discorso giustificativo indica le ragioni poste a fondamento della decisione e dimostra di aver tenuto presenti i fatti decisivi ai fini del giudizio, sicché le altre argomentazioni contrastanti risultano, anche implicitamente, esaminate e disattese Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, Rv. 260841-01; Sez. 2, n. 1405 del 10/12/2013, Cento e a., Rv. 259643; Sez. VI, n. 49970 del 19/10/2012).
Ciò posto, va aggiunto che il c.d. travisamento della prova è configurabile soltanto nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o abbia omesso la valutazione di una prova decisiva, considerato che, in tal caso, non si tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione, ma di verificare se detti elementi sussistano o meno (Sez. 3, n. 39729 del 18/6/2009, Belluccia, Rv 244623; Sez. 2, n. 23419 del 23/5/2007, Vignaroli, 236893; cfr. anche Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, n.m. sul punto).
In tal senso, il dato non considerato deve avere natura decisiva, il che avviene soltanto se l’errore accertato sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo completamente illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale / probatorio (Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio, Rv. 258774; Sez. 2, n. 47035 del 03/10/2013, Giugliano, Rv. 257499).
3.4. Nel caso di specie, va registrata la carenza di decisività del dato che si afferma non considerato, per il motivo che anche l’esistenza di una autorizzazione allo svolgimento di attività di fertirrigazione presuppone ed implica, come sopra osservato, il rigoroso e costante rispetto dei criteri e delle norme tecniche disciplinanti la materia, onde la violazione di tali norme – nella specie insita nelle non consentite modalità di stoccaggio del letame, come accertate con motivazione esente da vizi di legittimità – comporta che venga meno la ratio della sottrazione al regime dei rifiuti.
Ne consegue che, anche a voler considerare il dato che si afferma non essere stato valutato, resterebbe immutato il fatto che l’accumulo del materiale è stato effettuato in spregio alle disposizioni sopra menzionate, onde la condotta risulta pur sempre riconducibile al paradigma della evocata norma incriminatrice.
3.5. Le medesime considerazioni sin qui elaborate valgono, altresì, a far ritenere inammissibile, in quanto manifestamente infondata e diretta ad una rivalutazione in chiave di merito, la doglianza di violazione di legge quanto alla qualificazione come rifiuto del letame prodotto dall’azienda del ricorrente ed alla mancata considerazione della regolarità delle autorizzazioni, oggetto del secondo motivo.
3.6. Non dissimili conclusioni valgono quanto alla censura di vizio motivazionale in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo in capo al ricorrente, atteso che il giudice di merito ha, con motivazione non apparente né manifestamente illogica o contraddittoria, desunto la piena coscienza e volontà della condotta di omessa attivazione delle prescritte procedure per lo smaltimento del letame e, soprattutto, di stoccaggio di tale materiale sulla nuda terra, in maniera palesemente contrastante con le prescrizioni afferenti all’utilizzazione agronomica di tale materiale.
4. Infine, analoga valutazione va riservata alla doglianza riguardante la mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p., oggetto del quarto motivo di ricorso.
4.1. Invero, a fronte di quanto riportato dal ricorrente, secondo cui la relativa richiesta sarebbe stata formulata in sede di conclusioni in esito al dibattimento celebrato di fronte al Tribunale, di tale circostanza non vi è traccia né nella sentenza impugnata né nel verbale dell’udienza del 16.4.2021, in cui è unicamente riportato che il difensore dell’imputato richiedeva, con formulazione tanto ampia quanto inevitabilmente aspecifica, l’assoluzione per entrambi i capi di imputazione «perché il fatto non sussiste o con la diversa formula che il giudice riterrà di adottare».
In tale prospettiva, va osservato che, affinché sia legittima la doglianza di omessa motivazione su di una istanza formulata al giudice procedente è necessario che siffatta richiesta sia stata sottoposta formalmente ed in maniera specifica e puntuale al giudicante; sarebbe stato, pertanto, onere del ricorrente allegare con la dovuta specificità quando ed in quali termini la richiesta di applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. era stata formulata.
4.2. Né tale omissione potrebbe essere sanata attraverso la formulazione del motivo di ricorso per cassazione con il quale si chiede che tale causa di non punibilità sia applicata, essendo condiviso principio di questa Corte che, quando la sentenza di merito è successiva alla vigenza della nuova causa di non punibilità, ove la richiesta poteva essere presentata di fronte alle istanze giudiziarie di merito e ciò non sia avvenuto ovvero non risulti essere avvenuto, siffatta richiesta non può essere formulata per la prima volta in sede di legittimità (così, fra le altre, Sez. 2, n. 21465 del 16/05/2019, Semmah Ayoub, Rv. 275782 – 01; Sez. 6, n. 20270 del 27/4/2016, Gravina, Rv. 266678 – 01).
Né, ancora, può affermarsi, in assenza di specifica richiesta, che nella fattispecie il giudice avesse l’obbligo di pronunciarsi comunque, non potendosi quindi rilevare alcun vizio di motivazione.
4.3. In ogni caso, ed è considerazione assorbente, il giudice del merito ha implicitamente ma non meno inequivocabilmente escluso la particolare tenuità del fatto laddove, nel quantificare la pena, ha negato che la stessa potesse attestarsi vicino al minimo edittale, così inequivocabilmente significando di non avere certamente ritenuto il fatto di «particolare tenuità».
4.4. Da ultimo, anche la mancata applicazione del minimo edittale della pena pecuniaria risulta congruamente motivata alla luce dell’esigenza di tener conto del concreto disvalore del fatto.
Occorre, in proposito, rilevare che il giudice, nel quantificare la pena, opera una valutazione complessiva sulla base dei criteri direttivi fissati dall’articolo 133 cod. pen. La determinazione della misura della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra nell’ampio potere discrezionale attribuito al giudice di merito che risulta legittimamente esercitato anche attraverso la globale considerazione degli elementi indicati nella richiamata disposizione (Sez. 4, n. 41702 del 20/9/2004, Nuciforo, Rv. 230278).
Quanto alla motivazione, si è osservato che una specifica e dettagliata giustificazione sulla quantità della pena irrogata è necessaria soltanto nel caso in cui essa sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale, ritenendosi negli altri casi adeguato il riferimento all’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. mediante il richiamo all’adeguatezza, alla congruità, alla non eccessività, all’equità e simili della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen., come pure il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere (Sez. 3, n. 29968 del 22/2/2019, Del Papa, Rv. 276288; Sez. 2, n., 36104 del 27/4/2017, Mastro e altro, Rv. 271243; Sez. 4, n. 46412 del 5/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283; Sez. 2, n. 28852 del 8/5/2013, Taurasi Rv. 256464; Sez. 4, n. 21294 del 20/3/2013, Serratore, Rv. 256197; Sez. 2, n. 36245 del 26/6/2009, Denaro, Rv. 245596).
5. Conclusivamente, il ricorso deve essere nel suo complesso rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 22/12/2021