Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime |
Categoria: Danno ambientale,
Inquinamento acustico
Numero: 11913 |
Data di udienza: 19 Maggio 2016
INQUINAMENTO ACUSTICO – RUMORE – Disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone – Esercizio di una attività o di un mestiere rumoroso (attività di lavanderia a gettone) – Presupposti per l’integrazione dell’illecito – RUMORE – Immissione acustiche – Articolo 659 cod. pen. e depenalizzazione – Fonte del danno risarcibile – Regolamento di Polizia urbana – RISARCIMENTO DEL DANNO – Risarcimento del danno nei confronti della costituite parti civili.
Provvedimento: Sentenza
Sezione: 3^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 13 Marzo 2017
Numero: 11913
Data di udienza: 19 Maggio 2016
Presidente: FIALE
Estensore: GENTILI
Premassima
INQUINAMENTO ACUSTICO – RUMORE – Disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone – Esercizio di una attività o di un mestiere rumoroso (attività di lavanderia a gettone) – Presupposti per l’integrazione dell’illecito – RUMORE – Immissione acustiche – Articolo 659 cod. pen. e depenalizzazione – Fonte del danno risarcibile – Regolamento di Polizia urbana – RISARCIMENTO DEL DANNO – Risarcimento del danno nei confronti della costituite parti civili.
Massima
CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^ 13/03/2017 (Ud. 19/05/2016) Sentenza n.11913
INQUINAMENTO ACUSTICO – RUMORE – Disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone – Esercizio di una attività o di un mestiere rumoroso (attività di lavanderia a gettone) – Presupposti per l’integrazione dell’illecito.
In tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, l’esercizio di una attività o di un mestiere rumoroso, (e tale non può non considerarsi l’attività di lavanderia a gettone, comportando essa l’utilizzo di macchinari, come delle lavatrici di tipo professionale, certamente produttrici in misura rilevante di onde sonore e di altre vibrazioni ad esse equiparabili), può integrare: a) l’illecito amministrativo di cui all’art. 10, comma secondo, della legge n. 447 del 1995, qualora si verifichi esclusivamente il mero superamento dei limiti di emissione del rumore fissati dalle disposizioni normative in materia; b) il reato di cui al comma primo dell’art. 659, cod. pen., qualora il mestiere o la attività vengano svolti eccedendo dalle normali modalità di esercizio, ponendo così in essere una condotta idonea a turbare la pubblica quiete; e) il reato di cui al comma secondo dell’art. 659 cod. pen., qualora siano violate specifiche disposizioni di legge o prescrizioni della Autorità che regolano l’esercizio del mestiere o della attività, diverse da quelle relativa ai valori limite di emissione sonore stabiliti in applicazione dei criteri di cui alla legge n. 447 del 1995 (Corte di cassazione, Sezione III penale, 18/8/2015, n. 34920; idem Sezione III penale, 9/02/2015, n. 5735).
RUMORE – Immissione acustiche – Articolo 659 cod. pen. e depenalizzazione – Fonte del danno risarcibile – Regolamento di Polizia urbana – RISARCIMENTO DEL DANNO – Risarcimento del danno nei confronti della costituite parti civili.
Il reato di cui all’art. 659 cod. pen. non è stato oggetto di depenalizzazione alcuna, neppure con riferimento alla ipotesi prevista dal capoverso dell’art. 659, sebbene essa preveda la sola sanzione pecuniaria. Inoltre, non vi è contraddizione fra la esclusione della violazione della disciplina specificamente afferente alla intensità delle immissione acustiche e la condanna del prevenuto al risarcimento del danno nei confronti della costituite parti civili; la fonte del danno risarcibile è, infatti, in questo caso costituita dall’avvenuta violazione delle disposizioni contenute nel Regolamento di Polizia urbana in tema di orario di svolgimento dei mestieri rumorosi; da siffatta violazione deriva la possibilità di connotare la attività svolta come esercitata non jure e pertanto da ciò deriva l’obbligo a carico di questo di risarcire, ovviamente laddove provato nella sua effettiva entità, il pregiudizio economico cagionato a terzi a seguito di tale illegittima condotta. Fattispecie: attività di lavanderia a gettone, avente sede operativa all’interno di un edificio condominiale che a causa dei rumori e delle vibrazioni derivanti dalle macchine operatrici, funzionanti anche in orario notturno disturbava il riposo e le occupazioni degli altri condomini.
(conferma sentenza n. 78 del TRIBUNALE DI PESARO del 27/01/2015) Pres. FIALE, Rel. GENTILI, Ric. Ratti
Allegato
Titolo Completo
CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^ 13/03/2017 (Ud. 19/05/2016) Sentenza n.11913
SENTENZA
CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^ 13/03/2017 (Ud. 19/05/2016) Sentenza n.11913
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
omissis
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
RATTI STEFANO, nato a Bergamo il 26 luglio 1972;
avverso la sentenza n. 78 del Tribunale di Pesaro del 27 gennaio 2015;
letti gli atti di causa, la sentenza impugnata e il ricorso introduttivo;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Andrea GENTILI;
sentito il PM, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.ssa Marilia DI NARDO, il quale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Il Tribunale di Pesaro, con sentenza del 27 gennaio 2015, ha dichiarato la penale responsabilità di Ratti Stefano in ordine al reato di cui all’art. 659, comma secondo, cod. pen. in quanto, quale titolare della ditta individuale Idro Style di Ratti Stefano, esercente la attività di lavanderia a gettone, avente sede operativa all’interno di un edificio condominiale in Fano, disturbava il riposo e le occupazioni degli altri condomini, a causa dei rumori e delle vibrazioni derivanti dalle macchine operatrici, funzionanti anche in orario notturno.
Con la citata sentenza è stata, altresì, irrogata a carico del Ratti la pena di euro 250,00 di ammenda, oltre alla condanna al risarcimento del danno, da liquidarsi in separato giudizio, in favore delle costituite parti civili, oltre al ristoro delle spese processuali.
Ha interposto ricorso in appello avverso la predetta sentenza il Ratti, assistito dal proprio difensore di fiducia, deducendo tre motivi di ricorso.
Col primo di essi il Ratti si è doluto del fatto che il Tribunale di Pesaro, a fronte di una contestazione che, a suo avviso, inquadrava il fatto contestato entro l’ambito del primo comma dell’art. 659 cod. pen. fattispecie in relazione alla quale egli aveva, peraltro, improntato la sua attività defensionale, aveva invece, pronunziato sentenza di condanna richiamando espressamente il comma secondo della detta disposizione di legge.
Sotto il descritto profilo il ricorrente, citati sia i precedenti della giurisprudenza formatasi in sede internazionale che gli orientamenti di questa Corte, ha, perciò, dedotto la violazione sia del diritto di difesa che dell’art. 516 cod. proc. pen.
Come secondo motivo di impugnazione il ricorrente ha censurato la sentenza del Tribunale pesarese nella parte in cui in essa, partendo dal presupposto erroneo che il Ratti, attraverso la sua impresa operasse, nell’ambito del commercio al dettaglio, ha ritenuto che lo stesso per operare dovesse essere munito di specifica autorizzazione, come prescritto dal regolamento di polizia urbana, essendo a tal fine insufficiente, invece, il fatto che egli si fosse limitato ad inoltrare una semplice comunicazione di inizio attività.
Infine il ricorrente si è lagnato del fatto che il giudice di primo grado abbia ritenuto di dovere disporre a carico dell’imputato la condanna al risarcimento del danno civile in favore dei soggetti danneggiati, sebbene non fossero emersi elementi a riprova della sua esistenza, stante la irrilevanza nei loro confronti della condotta contestata.
Con memoria del 7 aprile 2016 il ricorrente, assistito da un nuovo difensore di fiducia, avendo fatto presente che l’originario atto impugnatorio era stato trasmesso dalla sede di merito alla Corte di cassazione in quanto riferito a sentenza non appellabile, dopo avere prioritariamente richiamato i motivi di impugnazione precedentemente formulati, ne ha dedotto, altresì, uno aggiuntivo avente ad oggetto la ritenuta intervenuta depenalizzazione del reato a lui contestato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato.
Ritiene la Corte che, prima di esaminare i motivi, originari ed aggiuntivi, di impugnazione, debba procedersi alla formale conversione del ricorso proposto dal Ratti da impugnazione di fronte alla Corte di appello di Ancona in ricorso per cassazione; posto, infatti, che con la sentenza gravata è stata irrogata esclusivamente la pena pecuniaria della ammenda, la stessa sentenza, secondo la previsione di cui all’art. 593, ult. comma, cod. proc. pen., è inappellabile; tuttavia la impugnazione come proposta, secondo quanto stabilito dall’art. 568, comma 5, cod. proc. pen., è stata correttamente rimessa a questa Corte di legittimità per essere trattata, in ossequio al principio del favor impugnationis, secondo le forme del ricorso per cassazione.
Deve ancora osservarsi, per completezza, che non è di ostacolo alla conversione, o meglio, alla ammissibilità del ricorso convertito, il fatto che lo stesso sia stato a suo tempo sottoscritto dal precedente difensore dell’imputato, non munito all’epoca di abilitazione a patrocinare di fronte alla giurisdizioni superiori.
Come è, infatti, agevole verificare attraverso l’esame dell’originale dell’atto introduttivo del presente grado di giudizio, lo stesso reca in calce la sottoscrizione, personalmente apposta, oltre che del professionista non abilitato, anche della parte (cfr. per utili riferimenti: Corte di cassazione, Sezione III penale, 8 maggio 2015, n. 19173); a quest’ultima, pertanto, il contenuto del ricorso deve essere direttamente riferito, essendo pienamente legittima la autonoma redazione del ricorso per cassazione da parte dell’imputato.
Nell’esaminare, pertanto, i motivi di impugnazione proposti ritiene, questa Corte di dovere dare, stante la sua evidente logica priorità, prevalenza temporale al motivo aggiunto proposto nell’interesse del Ratti con la memoria difensiva depositata in data 11 aprile 2016 e con il quale è stata dedotta la intervenuta depenalizzazione della disposizione contestata all’imputato.
Sempre in via preliminare ritiene, comunque, questo Collegio di dovere preventivamente esaminare la ammissibilità di siffatto motivo nuovo.
Invero, in linea di principio, ai fini della loro ammissibilità i motivi di impugnazione formulati ai sensi dell’art. 585, comma 4, cod. proc. pen. oltre la scadenza del termine per la tempestiva proposizione della impugnazione stessa e sino al quindici giorni prima della udienza di discussione della impugnazione, debbono essere caratterizzati – affinché l’esercizio della facoltà processuale connessa alla loro presentazione non diventi un agevole espediente volto a superare la stretta perentorietà dei termini per la interposizione dell’impugnazione penale – da un rapporto di necessaria connessione funzionale con i motivi originariamente presentati, consistente nella inerenza fra i temi specificati nei capi e punti della decisione investiti dall’impugnazione principale già presentata e quelli introdotti con gli aggiunti motivi nuovi (Corte di cassazione, Sezione VI penale, 10 febbraio 2015, n. 6075; idem Sezione VI penale, 30 ottobre 2014, n. 45075), di tal che la loro novità va intesa in senso piuttosto formale che reale.
Costituisce tuttavia ineludibile eccezione a tale principio, confermata da quanto previsto in sede normativa dall’art. 609, comma 2, cod. proc. pen., in fine, il caso in cui la formulazione del motivo aggiunto di impugnazione derivi, come sostenuto anche nel caso in questione dal ricorrente, da un’intervenuta modificazione legislativa, della quale il ricorrente non aveva potuto tenere conto al momento della redazione dell’originario ricorso in quanto riferita, appunto, ad una legge non ancora vigente all’epoca in cui l’atto fu confezionato (a tale proposito si vedano i numerosi casi in cui è stata ritenuta astrattamente ammissibile la formulazione di un nuovo motivo di ricorso avente ad oggetto la applicabilità del novellato art. 131-bis cod. pen., per tutti: Corte di cassazione, Sezione III penale, 15 aprile 2015, n. 15449).
Il motivo, pur astrattamente ammissibile alla luce di quanto sopra osservato, è, tuttavia, destituito di ogni fondamento con riferimento al caso ora in esame; invero gli artt. 1 e 2 del dlgs n. 7 del 2016, i quali hanno
previsto, in attuazione della delega conferita al Governo con la legge n. 67 del 2014, fra l’altro una parziale depenalizzazione di talune fattispecie di reato previste dal codice penale, non menzionano affatto fra le disposizioni oggetto di intervento legislativo l’art. 659 cod. pen.
Analogamente, per ciò che concerne il successivo decreto legislativo n. 8 del 2016, anch’esso adottato in base alla delega legislativa conferita con la citata legge n. 67 del 2014, è da rilevare che la generale previsione di depenalizzazione contenuta nell’art. 1, comma 1, del dlgs in questione, avente ad oggetto tutti i reati puniti con la sola pena pecuniaria (ipotesi questa cui parrebbe avere fatto specifico riferimento il ricorrente in occasione della presentazione del motivo aggiunto), soffre, oltre alle eccezioni concernenti le numerose disposizioni legislative elencate nell’allegato al testo normativo, anche la deroga concernente tutte le ipotesi criminose contenute nel codice penale, eccettuate le sole disposizioni codicistiche cui si riferisce espressamente il successivo art. 2, comma 6, dello stesso dlgs n. 8 del 2016.
Poiché neppure fra queste è dato trovare traccia dell’art. 659 cod. pen., è giocoforza ritenere che l’illecito descritto da tale norma, non sia stato oggetto di depenalizzazione alcuna, neppure con riferimento alla ipotesi prevista dal capoverso dell’art. 659, sebbene essa preveda la sola sanzione pecuniaria.
E’ possibile, a questo punto procedere all’esame dei motivi di ricorso formulati dal Ratti in sede di originaria impugnazione.
Col primo di essi il ricorrente ha lamentato la violazione del diritto di difesa nonché dell’art. 516 cod. proc. pen., sostenendo la non corrispondenza fra quanto a lui contestato e quanto risultante essere stato addebitato a lui in sede di sentenza di condanna.
Anche questo motivo non è fondato.
Osserva la Corte che il ricorrente ha, in sostanza, eccepito sotto il corretto profilo della violazione delle disposizioni legislative poste a presidio del diritto di difesa, la nullità della sentenza impugnata ai sensi dell’art. 522 cod. proc. pen. per essere stata affermata la sua penale responsabilità in relazione ad un fatto diverso da quello a lui contestato.
La disposizione ultima citata, rileva il Collegio, deve essere intesa, secondo il consolidato indirizzo ermeneutico di questa Corte, nel senso che l’obbligo di correlazione tra accusa e sentenza è violato non da qualsiasi
modificazione rispetto all’accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui la modificazione dell’imputazione pregiudichi la possibilità di difesa dell’imputato: la nozione struttura le di “fatto” va coniugata con quella
funzionale, fondata sull’esigenza di reprimere solo le effettive lesioni del diritto di difesa, posto che il principio di necessaria correlazione tra accusa contestata (oggetto di un potere del pubblico ministero) e decisione giurisdizionale (oggetto del potere del giudice) risponde all’esigenza di evitare che l’imputato sia condannato per un fatto, inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale egli non abbia potuto difendersi (Corte di cassazione, Sezione I penale, 27 agosto 2013, n. 35574), dovendosi, pertanto, escludere la nullità della sentenza laddove non sia intervenuta una modifica negli elementi essenziali del fatto tale da incidere sull’originaria fisionomia dell’ipotesi accusatoria e da menomare il diritto di difesa dell’imputato (Corte di cassazione, Sezione II penale, 19 novembre 2013, n. 46256).
Nel caso in esame siffatta modificazione non è dato riscontrare, avendo il Tribunale di Pesaro esclusivamente, precisato – nel rispetto sostanziale della descrizione del fatto contestato, nel quale non sono stati inseriti elementi naturalistici nuovi rispetto a quelli già presenti nel capo di imputazione – che la fattispecie risultante dal libello elevato in danno del Ratti, fosse riconducibile all’ambito qualificatorio di cui al secondo comma dell’art. 659 cod. pen.
Al riguardo va, infatti, ribadito l’insegnamento di questa Corte secondo il quale in tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, l’esercizio di una attività o di un mestiere rumoroso, (e tale non può non considerarsi la attività svolta dal Ratti, comportando essa l’utilizzo di macchinari, come delle lavatrici di tipo professionale, certamente produttrici in misura rilevante di onde sonore e di altre vibrazioni ad esse equiparabili), possa integrare: a) l’illecito amministrativo di cui all’art. 10, comma secondo, della legge n. 447 del 1995, qualora si verifichi esclusivamente il mero superamento dei limiti di emissione del rumore fissati dalle disposizioni normative in materia; b) il reato di cui al comma primo dell’art. 659, cod. pen., qualora il mestiere o la attività vengano svolti eccedendo dalle normali modalità di esercizio, ponendo così in essere una condotta idonea a turbare la pubblica quiete; e) il reato di cui al comma secondo dell’art. 659 cod. pen., qualora siano violate specifiche disposizioni di legge o prescrizioni della Autorità che regolano l’esercizio del mestiere o della attività, diverse da quelle relativa ai valori limite di emissione sonore stabiliti in applicazione dei criteri di cui alla legge n. 447 del 1995 (Corte di cassazione, Sezione III penale, 18 agosto 2015, n. 34920; idem Sezione III penale, 9 febbraio 2015, n. 5735).
Nel caso in esame il Tribunale, precisando, come sopra detto, peraltro in termini favorevoli rispetto alla posizione del prevenuto, il contenuto della contestazione a questo mossa, ha chiarito che la stessa, concernendo lo svolgimento di un’attività di carattere oggettivamente rumoroso, era svolta, pur nel rispetto delle consentite emissioni sonore, al di là dei limiti temporali previsti dalle prescrizioni dettate dal Regolamento di Polizia urbana del Comune di Fano per lo svolgimento delle attività del tipo di quelle in questione.
Infatti, rilevato che il citato Regolamento impone la sospensione dello svolgimento delle attività de quibus fra le ore 19 o 20 della sera (in ragione della stagione) e le ore 7.30 o 8 del mattino seguente, il Tribunale ha correttamente ha sanzionato, ex secondo comma dell’art. 659 cod. pen., la condotta del Ratti, la cui attività aveva invece inizio, secondo quanto definitivamente accertato in sede di merito, alle ore 6 del mattino per protrarsi almeno sino alle ore 22, quindi ben oltre (e in violazione di) quanto previsto dal ricordato Regolamento di Polizia urbana.
Né è chiaro cosa volesse rivendicare il ricorrente, ove egli ha contestato la sentenza impugnata la quale, secondo la ricostruzione di essa datane dal Ratti medesimo, avrebbe collocato l’attività da questo svolta fra quelle relative al commercio al dettaglio invece che fra quelle concernenti l’offerta di un servizio alla collettività.
Rileva, infatti, il Collegio che – a prescindere dalla vaghezza della collocazione commerciale della attività di chi “offre un servizio alla collettività”, categoria entro la quale il ricorrente vorrebbe inserire la gestione da lui operata di una cosiddetta “lavanderia a gettone” – ciò che conta ai fini della presente decisione è che il Tribunale di Pesaro abbia ritenuto, con valutazione del tutto plausibile in quanto fondata su massime di esperienza ampiamente ragionevoli oltre che sulla molteplici dichiarazioni acquisite in dibattimento, per un verso che la attività svolta dal Ratti fosse ontologicamente produttrice di rumori e, per altro verso, che essa non era interrotta negli orari nei quali, per l’espresso divieto contenuto nel regolamento di Polizia urbana del Comune di Fano, la stessa doveva, viceversa, cessare.
Infine, con ciò esaminando l’ultimo motivo di impugnazione contenuto nell’originario ricorso, non vi è contraddizione fra la esclusione della violazione della disciplina specificamente afferente alla intensità delle immissione acustiche e la condanna del prevenuto al risarcimento del danno nei confronti della costituite parti civili; la fonte del danno risarcibile è, infatti, in questo caso costituita dall’avvenuta violazione delle disposizioni contenute nel Regolamento di Polizia urbana in tema di orario di svolgimento dei mestieri rumorosi; da siffatta violazione deriva la possibilità di connotare la attività svolta dal Ratti come esercitata non jure e pertanto da ciò deriva l’obbligo a carico di questo di risarcire, ovviamente laddove provato nella sua effettiva entità, il pregiudizio economico cagionato a terzi a seguito di tale illegittima condotta.
Al rigetto del ricorso proposto dall’imputato segue la condanna di quest’ultimo al pagamento delle spese processuali.
PQM
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 19 maggio 2016