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Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime | Categoria: Diritto processuale penale, Diritto urbanistico - edilizia Numero: 42243 | Data di udienza: 14 Settembre 2023

DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Interventi di edilizia libera – Regime giuridico delle barriere new jersey (blocchi ostruttivi l’accesso nelle strade) – Giurisprudenza – Art. 6, lett. e-bis, D.P.R. n. 380/2001 – Bene privato gravato da una servitù di uso pubblico (c.d. strada vicinale) – Caratteristiche e presupposti di questo diritto – Costituzione di una servitù di uso pubblico su un bene privato – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Ricorso per cassazione – Mancanza di specificità del motivo – Art. 591, c.1, lett. c) c.p.p..


Provvedimento: SENTENZA
Sezione: 3^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 17 Ottobre 2023
Numero: 42243
Data di udienza: 14 Settembre 2023
Presidente: RAMACCI
Estensore: SCARCELLA


Premassima

DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Interventi di edilizia libera – Regime giuridico delle barriere new jersey (blocchi ostruttivi l’accesso nelle strade) – Giurisprudenza – Art. 6, lett. e-bis, D.P.R. n. 380/2001 – Bene privato gravato da una servitù di uso pubblico (c.d. strada vicinale) – Caratteristiche e presupposti di questo diritto – Costituzione di una servitù di uso pubblico su un bene privato – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Ricorso per cassazione – Mancanza di specificità del motivo – Art. 591, c.1, lett. c) c.p.p..



Massima

CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^, 17 ottobre 2023, (Ud. 14/09/2023) Sentenza n. 42243

 

DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Interventi di edilizia libera – Regime giuridico delle barriere new jersey (blocchi ostruttivi l’accesso nelle strade) – Giurisprudenza – Art. 6, lett. e-bis, D.P.R. n. 380/2001.

L’art. 6, comma 1, lett. e-quinquies, D.P.R. n. 380 del 2001, qualifica come interventi di edilizia libera “le aree ludiche senza fini di lucro e gli elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici”, pertanto, non rientrano le barriere denominate new jersey. Dette barriere, essendo attrezzature di sicurezza modulare realizzate, come nella specie, in cemento armato, sono impiegate per ostruire od incanalare il flusso stradale, o per circoscrivere momentaneamente un’area di cantiere oppure utilizzate anche in situazioni di emergenza, e non certamente quali elementi di arredo. Anche la giurisprudenza amministrativa ha chiarito che possono qualificarsi come “elementi di arredo”, con riferimento in particolare ai manufatti accessori di limitate dimensioni e non stabilmente infissi al suolo, anche le installazioni esterne fisse, in muratura o prefabbricate (quali fioriere, fontane ornamentali, forni esterni in muratura o prefabbricati, gazebo), ma non quelle – come le barriere new jersey di cui si discute – non qualificabili come elementi di arredo urbano, ma come semplici blocchi ostruttivi dell’accesso della strada, per di più destinate a permanere su quell’area sine die. Infatti, dette installazioni, non rispondono al requisito, richiesto per la sottrazione al regime di controllo edilizio, di precarietà strutturale e funzionale, così da trasformarsi, di fatto, in beni immobili necessitanti di permesso di costruire. In conclusione dette opere sono realizzabili in regime di edilizia libera, senza necessità del preventivo rilascio del permesso di costruire, solo quando sono funzionali a soddisfare esigenze contingenti e temporanee e destinate ad essere immediatamente rimosse entro un termine non superiore ai centottanta giorni.

 

DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Bene privato gravato da una servitù di uso pubblico (c.d. strada vicinale) – Caratteristiche di questo diritto – Costituzione di una servitù di uso pubblico su un bene privato.

In generale, un bene privato – gravato da una servitù di uso pubblico – è sottratto alla disponibilità del proprietario che non può disporne l’interdizione, né limitarne l’uso. Pertanto, una strada privata – gravata da uso pubblico (c.d. strada vicinale) – si caratterizza per la sua destinazione al servizio di una collettività indeterminata di soggetti considerati uti cives, ossia quali titolari di un pubblico interesse di carattere generale, e non uti singuli, ossia quali soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato: un uso (ovvero, utilizzazione, cd. passaggio) da parte di una collettività indeterminata di persone sul bene privato. Caratteristiche indispensabili di questo diritto, sono: a) il passaggio esercitato iure servitutis pubblicae, da una collettività di persone qualificate dall’appartenenza ad un gruppo territoriale; b) la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, anche per il collegamento con la pubblica via; c) un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione dell’uso da tempo immemorabile. Si tratta della dicatio ad patriam, quale modo di costituzione di una servitù di uso pubblico su un bene privato, consistente nel comportamento del proprietario che, se pur non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, metta volontariamente, con carattere di continuità (non di precarietà e tolleranza), un proprio bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al correlativo uso, che ne perfeziona l’esistenza, senza che occorra un congruo periodo di tempo o un atto negoziale o ablatorio, al fine di soddisfare un’esigenza comune ai membri di tale collettività uti cives, indipendentemente dai motivi per i quali detto comportamento venga tenuto, dalla sua spontaneità o meno e dallo spirito che lo anima.

 

DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Ricorso per cassazione – Mancanza di specificità del motivo – Art. 591, c.1, lett. c) c.p.p..

È inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che ripropongono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, invero, deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, ai sensi dell’art. 591, comma 1, lett. c), all’inammissibilità.

(dichiara inammissibili i ricorsi avverso sentenza del 13/02/2023 della CORTE APPELLO di BARI) Pres. RAMACCI, Rel. SCARCELLA, Ric. Carenza ed altri


Allegato


Titolo Completo

CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^, 17 ottobre 2023, (Ud. 14/09/2023), Sentenza n. 42243

SENTENZA

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE

composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

omissis

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sui ricorsi proposti da:
CARENZA — nato a TURI il –/–/—-;
NETTI — nata a PUTIGNANO il –/–/—-;
DAMIANI — nata a BARI il 1–/–/—-;
PUGLIESE — nato a PUTIGNANO il –/–/—-;
MARINELLI — nata a ACQUAVIVA DELLE FONTI il –/–/—-;
FIORELLI — nata a OSTUNI il –/–/—-;

avverso la sentenza del 13/02/2023 della CORTE APPELLO di BARI

visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;

udita la relazione svolta dal Consigliere ALESSIO SCARCELLA;

letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale STEFANO TOCCI, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità dei ricorsi;

lette, per la difesa della parte civile, le conclusioni scritte dell’Avv. Alessio Carlucci con cui ha chiesto il rigetto dei ricorsi e, per la difesa dei ricorrenti, le conclusioni scritte del difensore, Avv. Angelo Loizzi, con cui ha insistito per l’accoglimento dei ricorsi, trattati ai sensi dell’art. 23, comma 8 D.L. n.137/20 e successive modifiche ed integrazioni.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 13 febbraio 2023, la Corte d’appello di Bari confermava la sentenza del tribunale di Bari in data 11 maggio 2022, appellata nell’interesse di CARENZA —, NETTI —, DAMIANI —, PUGLIESE —, MARINELLI — e FIORELLI —, condannando gli stessi al pagamento delle spese di costituzione e difesa della parte civile costituita A. M., in quanto ritenuti colpevoli del reato di cui all’art. 44, lett. b), TU Edilizia, ascritto in concorso al capo 1) della rubrica, irrogando nei confronti degli stessi, con il concorso di circostanze attenuanti generiche e ridotta la pena per il rito abbreviato richiesto, la pena di gg. 2 di arresto ed euro 1.721,33 di ammenda, subordinando il beneficio della sospensione condizionale della pena agli stessi riconosciuto alla demolizione delle opere abusive realizzate ed al ripristino dello stato dei luoghi, entro 90 gg. dalla data di irrevocabilità della sentenza, unitamente al beneficio della non menzione, disponendo la demolizione dei manufatti abusivi se non altrimenti eseguita e la trasmissione degli atti al PM/sede per la valutazione della responsabilità di Colaprico e Vigilio in relazione al medesimo reato sub 1) della rubrica, consistente nella realizzazione abusiva di tre barriere in cemento armato sormontate da una recinzione in orsogrill con carattere permanente, nelle qualità di comproprietari di immobili ubicati lungo la via Giuseppe Conversi del comune di Turi. Gli stessi imputati, infine, venivano assolti dal reato di cui al capo 2), ossia il reato di invasione di terreni ed edifici, consistente nell’aver abusivamente occupato il suolo stradale pubblico su cui tali opere erano state erette, per insussistenza del fatto.

2. Avverso la sentenza impugnata nel presente procedimento, i predetti propongono congiunto ricorso per cassazione tramite il difensore di fiducia, deducendo complessivamente tre motivi, di seguito sommariamente indicati.

2.1. Deducono, con il primo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione agli artt. 44, lett. b) e 6, TU Edilizia, e correlato vizio di motivazione.

In sintesi, la difesa dei ricorrenti sintetizza la motivazione della sentenza impugnata in relazione alle argomentazioni svolte in punto di responsabilità. In particolare, i giudici di appello avevano evidenziato come due fossero le argomentazioni su cui si sviluppava l’impugnazione: da un lato, il fatto che la sentenza di primo grado avrebbe errato non considerando come dagli atti fossero emersi elementi da cui desumersi che le installazioni contestate, cosiddetti New Jersey, non avessero o comunque non fossero destinate ad avere carattere permanente ma obbedissero ad esigenze contingenti; dall’altro, il fatto che il primo giudice avesse acriticamente aderito alla consulenza tecnica del pubblico ministero trascurando le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza amministrativa laddove, in considerazione della tipologia costruttiva, delle modeste dimensioni del basamento in cemento e della natura pertinenziale delle installazioni, si tratterebbe di opere non necessitanti del rilascio di un permesso di costruire. I giudici di appello avevano altresì puntualizzato che l’assunto difensivo secondo cui si sarebbe trattato di opere di edilizia libera ai sensi dell’articolo 6, lettera e-bis), del testo unico dell’edilizia, non poteva ritenersi fondato riferendosi tale disposizione, oltre che alle opere stagionali, anche a quelle dirette ad soddisfare delle obiettive esigenze contingenti e temporanee purché destinate ad essere immediatamente rimosse al cessare della temporanea necessità e comunque entro un termine non superiore a 180 giorni comprensivo dei tempi di allestimento e di smontaggio del manufatto, previa comunicazione di avvio dei lavori all’amministrazione comunale. Nella specie, come rilevato dal giudice d’appello, non soltanto nessuna comunicazione dell’avvio lavori era stata effettuata all’amministrazione comunale, ma le opere in questione pacificamente insistettero sul posto per oltre 5 anni, né allo stato risultavano rimosse, laddove la giurisprudenza ha sempre restrittivamente interpretato tale disposizione. essendo determinante il contenimento della durata dell’opera nel termine indicato dal legislatore. A tal proposito, i giudici di appello richiamavano la giurisprudenza di questa sezione da cui emerge che la sottrazione al preventivo rilascio del permesso richiede sempre che il manufatto sia destinato ad assolvere ad obiettive esigenze temporanee e deve essere immediatamente rimossa al termine di tali esigenze. Secondo i giudici d’appello, poi, la difesa avrebbe errato nel censurare quanto argomentato dal primo giudice laddove riguardo allo scopo perseguito, che era quello di limitare il traffico non già per esigenze contingenti ma per tutelare la propria responsabilità in presenza di accessi indiscriminati di terzi, con la considerazione pertanto che nessuna esigenza contingente venne posta in rilievo, laddove l’installazione dei predetti manufatti fu utilizzata per ostruire l’accesso alla via Giuseppe Conversi, accesso che venne sistematicamente interdetto su uno degli accessi della strada in questione in forza della collocazione duratura ed ininterrotta nel tempo di tre barriere in cemento armato.

I giudici di appello avevano poi criticato il richiamo in quanto incomprensibile all’art. 6, lett. e-quinquies), TU Edilizia, aggiungendo infine, allo scopo di escludere la natura precaria, che la stessa non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all’opera, essendo collegata alla natura oggettiva dell’opera, che deve essere precaria e temporanea per soddisfare fini specifici e contingenti limitati nel tempo, con conseguente possibilità di successiva e sollecita eliminazione, non risultando sufficiente la sua rimovibilità o il mancato ancoraggio al suolo.

Tanto premesso, la difesa dei ricorrenti si duole di tale motivazione in quanto i giudici avrebbero disatteso la normativa afferente l’edilizia libera con una motivazione viziata in diritto e illogica, atteso che le argomentazioni non sarebbero fondate su rilievi di carattere urbanistico-edilizio che attengono la tipologia e la natura delle opere in questione bensì dalla considerazione ex post afferente il permanere dell’opera sul posto dopo 5 anni dalla installazione, riconoscendo pertanto valore assoluto e dirimente al dato riguardante il tempo trascorso dall’installazione dei manufatti, a totale scapito di numerosi atti che attesterebbero il carattere temporaneo dell’opera e che sarebbero stati o ignorati o solo parzialmente valutati. Il riferimento anzitutto è al verbale assembleare richiamato nella motivazione che non riguarderebbe la installazione delle barriere New Jersey ma riguarderebbe la chiusura della strada mediante l’apposizione di fioriere da entrambi i lati della strada visibili con apposite segnaletiche catarifrangenti, verbale che era stato depositato dalla difesa per dimostrare come l’apposizione delle fioriere, al pari della apposizione della barra automatizzata, era stata una delle soluzioni che i condomini avevano pensato di adottare in via definitiva, dovendo però attendersi lo scadere del vincolo di esproprio sicché in via temporanea si erano installati i tre New Jersey.

Richiamata sul punto, la natura dei tre manufatti e la loro agevole rinnovibilità, la difesa evidenzia come gli stessi vennero collocati dai proprietari della strada condominiale al fine di inibire il transito veicolare sulla stessa con collocazione di una rete metallica di altezza pari ad 1 ml. che non avrebbe determinato alcun impatto visivo, soluzione apparsa ai condomini come quella maggiormente idonea, nelle more della realizzazione di una sbarra automatizzata che potesse regolamentare in via definitiva l’accesso al condominio. Sarebbe pertanto del tutto evidente come le barriere Jersey sarebbero state liberamente installate in quanto non necessitanti di alcun permesso di costruire sotto un duplice profilo: da un lato, perché in questo senso si sarebbe pronunciata la giurisprudenza amministrativa che per la loro collocazione non richiede un idoneo titolo edilizio, dall’altro, per la riconducibilità dei manufatti alla fattispecie di cui alla lettera e quinquies) dell’articolo 6 del testo unico dell’edilizia, trattandosi di opere collocate in area condominiale e non ancorate al suolo, come del resto emerge dalla tabella A allegata al cosiddetto decreto SCIA 2, il decreto legislativo n. 222 del 2016, alla voce 2.29 edilizia libera nonché all’ulteriore specificazione, quanto alla individuazione delle principali opere di tale tipologia non infisse al suolo, nei glossario edilizia libera, approvato con il decreto ministeriale 2 marzo 2018 alle voci 48 e 49.

La motivazione sarebbe in particolare censurabile in quanto in sentenza non vi sarebbe alcun vaglio dell’applicabilità a tali manufatti di questo regime edilizio, essendosi semplicemente limitati i giudici a qualificare come incomprensibile tale richiamo normativo, inoltre errando i giudici di appello nel considerare l’area su cui tali barriere erano state collocate come un’area pubblica, trattandosi invece di un’area pertinenziale del condominio, avendo i condomini acquistato la proprietà della particella in esame come pertinenza del loro immobile, non rilevando la circostanza che su tale particella insista una strada, trattandosi di strada privata non aperta a terzi e nella piena ed esclusiva disponibilità dei condomini e non sarebbe del resto provato l’incontrastato utilizzo pubblico della strada.

2.2. Deducono, con il secondo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione all’art. 192, cod. proc. pen. e correlato vizio di mancanza della motivazione con riferimento al medesimo profilo.

In sintesi, si deduce ulteriormente il vizio di motivazione per la totale omissione della valutazione della prova documentale costituita, da un lato, da una nota 24 settembre 2014 sottoscritta dall’amministratore del condominio con cui veniva presentata al comune una richiesta di messa in sicurezza della strada, anticipando, nelle more di un fattivo riscontro del comune, l’adozione di una soluzione temporanea in attesa dell’approvazione del PUG; dall’altro una nota del 22 aprile 2022 afferente la comunicazione della inefficacia della CILA in sanatoria, nella quale il comune aveva dato atto che le barriere Jersey erano state temporaneamente apposte in regime di edilizia libera. Si tratterebbe di elementi documentali che, ove correttamente valutati, avrebbero condotto all’assoluzione dei ricorrenti dimostrando il presupposto per la realizzabilità delle opere in regime di edilizia libera, in considerazione del carattere temporaneo e contingente delle stesse, donde non era necessario alcun titolo abilitativo.

2.3. Deducono, con il terzo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione all’art. 131-bis, cod. pen. e correlato vizio di illogicità della motivazione con riferimento al medesimo profilo.

In sintesi, si censura la sentenza sotto il profilo della violazione di legge e della illogicità della motivazione laddove gli stessi hanno escluso l’applicazione della speciale causa di non punibilità di cui all’articolo 131-bis del codice penale laddove, anzitutto, avrebbero errato nel ritenere travisato quanto argomentato dal primo giudice circa l’elemento ostativo all’applicabilità di tale causa speciale di non punibilità, ossia il fatto di aver con tale condotta gli imputati chiuso l’ingresso ad una intera strada, fatto che il primo giudice non aveva considerato come di particolare tenuità. I giudici a tal proposito avevano evidenziato come la condotta era stata inequivocabilmente e continuativamente improntata alla conservazione dello status quo nonostante l’amministrazione, a fronte di una CILA in sanatoria, avesse comunicato ogni riserva di azione in merito. I giudici d’appello inoltre avevano ritenuto non congruente ai fini dell’applicazione della speciale causa di non punibilità il richiamo da parte della difesa ad una sentenza di questa sezione, la n. 47039/2015, osservando come le opere contestate fossero in contrasto con gli strumenti urbanistici, fossero state realizzate in totale assenza del titolo autorizzativo e non in difformità, avessero perpetuamente interdetto la viabilità da uno degli accessi di una strada comunque di uso pubblico e servita anche da mezzi del comune e, infine, allo stato attuale non fossero suscettibili di sanatoria.

I giudici avrebbero altresì escluso la qualificazione della colpa degli imputati in termini di colpa lievissima, considerando invece le modalità di una condotta non soltanto sorretta dal dolo, ma che aveva evidenziato una ferma determinazione nel raggiungimento del risultato di limitare gli accessi alla strada, sebbene la destinazione al traffico ordinario della strada fosse stata ribadita dal PUG approvato ben prima della predisposizione delle barriere di Jersey.

Tanto premesso la motivazione della sentenza sarebbe censurabile laddove, anzitutto, si sarebbe ritenuto travisato il significato delle argomentazioni svolte nel primo giudice che invece aveva escluso l’applicazione dell’articolo 131-bis a causa della mancata rimozione delle barriere a distanza di anni dall’abuso.

Censurabili sarebbero poi gli ulteriori rilievi che sarebbero incentrati esclusivamente sull’effetto prodotto dai manufatti, cioè la chiusura della strada. A tal proposito sarebbe del tutto erroneo l’assunto della sentenza secondo cui il fatto di aver limitato i ricorrenti l’accesso di una strada destinata al traffico ordinario come previsto dal PUG fosse ostativo, ciò in quanto non si trattava di una strada pubblica ma di una strada privata ad uso esclusivo dei condomini i quali, pertanto, avevano originariamente interdetto il traffico ordinario con la apposizione di una segnaletica stradale. Tuttavia, considerato il continuo transito di soggetti non titolati all’accesso a tale proprietà privata, i condomini avevano ritenuto di dover temporaneamente apporre le barriere. Sarebbe poi fuorviante il richiamo al PUG, strumento urbanistico approvato dal comune con delibera n. 26 del 19 luglio 2013 che aveva individuato quest’area come strada di livello urbano da riqualificare previo esercizio nel quinquennio di un potere di esproprio, peraltro mai esercitato, anzi essendosi dimostrato titubante il comune proprio per l’assunzione dei costi da sostenere.

Nella vigenza del quinquennio, dunque, il comune non avrebbe assunto alcuna iniziativa. Erroneamente, pertanto, sarebbe stata esclusa la buona fede dei condomini che avrebbero invece agito con l’assenso del comune, come si legge nel provvedimento di diniego della CILA. Ancora incoerente sarebbe la critica svolta al richiamo da parte della difesa alla decisione di questa Corte in materia di applicazione della causa di non punibilità della tenuità del fatto ai reati edilizi. Innanzitutto perché ad esempio, la condotta non sarebbe contraria agli strumenti urbanistici, tenuto conto della natura privata della strada; in secondo luogo, non si potrebbe parlare di intervento in totale assenza di titolo, trattandosi di questione contestata dalla difesa che qualifica tale intervento come di edilizia libera; in terzo luogo, in considerazione dell’erroneità dell’affermazione secondo la quale con tale intervento i condomini avrebbero perpetuamente interdetto la viabilità da uno degli eccessi di una strada ad uso pubblico e servita a mezzi comunali, in quanto la previsione del PUG che la destinava ad uso pubblico, previa riqualificazione, non sarebbe mai stata attuata né si comprenderebbe il riferimento al fatto che la stessa sia servita da mezzi del comune, emergendo dagli atti che la stessa sarebbe anche sprovvista di illuminazione; infine, sarebbe erroneo il riferimento alla circostanza che le opere non siano suscettibili di sanatoria, emergendo dal provvedimento di inefficacia della CILA da parte del comune la possibilità di una sanatoria degli stessi mediante un permesso di costruire anziché mediante la comunicazione di inizio lavori. I giudici avrebbero altresì trascurato la inesistenza di qualsiasi carico urbanistico dell’opera, tenuto conto della modestissima dimensione degli stessi manufatti.

3. Il Procuratore Generale presso questa Corte ha depositato in data 21 luglio 2023 la propria requisitoria scritta, chiedendo l’inammissibilità dei ricorsi.

Quanto al primo motivo di ricorso, rileva che devono considerarsi generici i motivi di ricorso per Cassazione consistenti – come nel caso in esame – nella ripetizione delle doglianze esposte in sede di appello; e ciò sia in quanto il carattere autonomo di ogni atto di impugnazione postula che esso abbia in sé tutti i requisiti voluti dalla legge per provocare e consentire il controllo devoluto al giudice superiore, sia in quanto, in quel caso, i motivi di gravame non assolvono la loro tipica funzione di critica, ma si risolvono in una mera apparenza. Ed invero, reiterando una mera e del tutto generica lettura alternativa e rivalutazione del compendio probatorio, i motivi di censura tendono ad una reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione senza nemmeno confrontarsi col percorso argomentativo della conforme decisione dei giudici del merito.

La Corte territoriale ha in particolare correttamente escluso il carattere temporaneo delle opere in contestazione anche alla luce della constatata loro permanenza negli anni, facendo così buon governo dell’insegnamento giurisprudenziale secondo cui, per definirsi precario un’opera edile, tanto da non richiedere il rilascio di un titolo abilitativo, è necessario ravvisare l’obiettiva ed intrinseca destinazione ad un uso temporaneo per specifiche esigenze contingenti, non rilevando che esso sia realizzato con materiali non abitualmente utilizzati per costruzioni stabili (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 5821 del 15/01/2019 Ud. -dep. 06/02/2019- Rv. 275697 – 01, citata in sentenza). L’uso pubblico della strada poi si evince chiaramente dalla ricostruzione storica operata dal giudice di prime cure ed espressamente fatta propria dalla Corte territoriale a pag. 7 dell’impugnata sentenza.

In riferimento al secondo motivo di ricorso, assolutamente priva di rilievo appare per il PG in questa sede la valutazione circa il carattere precario e removibile del manufatto in questione operata dall’amministrazione comunale nella nota del 22.05.2022, atteso che ad essa va decisamente sovrapponendosi la costante giurisprudenza della Suprema Corte secondo cui l’intervento precario deve necessariamente possedere alcune specifiche caratteristiche: la sua precarietà non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all’opera dall’utilizzatore; sono irrilevanti le caratteristiche costruttive i materiali impiegati e l’agevole amovibilità; deve avere una intrinseca destinazione materiale ad un uso realmente precario per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo; deve essere destinata ad una sollecita eliminazione alla cessazione dell’uso (cfr. ex pluribus Sez. 3, n. 36107 del 30/6/2016, Arrigoni e altro, Rv. 267759; Sez. 3, n.6125 del 21/1/2016, Arcese, non massimata; Sez. 3, n. 16316 del 15/1/2015, Curti, non massimata; Sez. 3, n. 966 del 26/11/2014 (dep. 2015), Manfredini, Rv.261636; Sez. 3, n. 25965 del 22/06/2009, Bisulca, non massimata); trattasi tutti di requisiti che per il caso in esame sono stati correttamente esclusi dai giudici del merito.

Infondata appare altresì la censura proposta in riferimento alla mancata applicazione della causa di esclusione della punibilità ex art. 131-bis cod. pen., alla luce del motivato esercizio del potere discrezionale dei giudici, avendo peraltro la Corte territoriale operato una valutazione congiunta degli indicatori afferenti alla condotta, al danno (provocato anche in danno di terzi privati) e alla colpevolezza.

Si rileva che la sentenza di appello, nella sua struttura argonnentativa, si salda con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest’ultima sia adottando gli stessi criteri utilizzati nella valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale (“doppia conforme”).

Da ultimo, non rileva, infine, la circostanza che il termine di prescrizione del reato sia maturato – tenuto conto della sospensione di gg. 281 verificatasi nei gradi di merito – alla data del 20.02.2023, successiva alla sentenza d’appello (13.02.2023). Trova infatti applicazione il consolidato principio secondo cui l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen. (Nella specie la prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso: Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, D.L., Rv. 217266 — 01).

4. La difesa della parte civile, nel depositare nuova nomina fiduciaria in favore dell’Avv. Alessio Carlucci con contestuale revoca del mandato all’Avv. Vito Nicassio, ha depositato conclusioni scritte in data 26.07.2023 con cui ha chiesto il rigetto dei ricorsi.

5. Infine, l’Avv. Angelo Loizzi, in difesa dei ricorrenti, ha depositato in data 7.08.2023 memoria difensiva di replica alle conclusioni del PG con cui ha insistito per l’accoglimento del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi sono inammissibili.

2. Alfine di meglio lumeggiare le ragioni che hanno condotto questa Corte a tale approdo è necessario premettere una breve sintesi dei fatti acclarati nel giudizio di merito, soprattutto a fronte delle doglianze di vizio motivazionale svolte con i ricorsi, ciò al fine di evidenziarne l’assoluta infondatezza.

3. In data 11.05.2022, il Tribunale di Bari, in composizione monocratica, a seguito di giudizio abbreviato, riconosceva la penale responsabilità degli imputati PUGLIESE —, CARENZA —, NETTI —, MARINELLI —, DAMIANI —, FIORELLI — per il reato ascritto loro al capo 1) dell’imputazione, altresì, assolvendoli dal reato ascritto al capo 2) della rubrica, perché il fatto non sussiste. A tale decisione perveniva il giudice di prime cure sulla base degli atti contenuti nel fascicolo delle indagini preliminari, in virtù del rito prescelto. In particolare, venivano valutati il verbale redatto dagli agenti della Polizia Locale del Comune di Turi, in seguito a sopralluogo eseguito in data 15.5.2017; il verbale della seduta consiliare del Comune di Turi del 29.11.2017; i verbali delle assemblee del 4.12.2013 e del 13.5.2015 dei residenti nel tratto di strada interessato; la relazione di consulenza tecnica a firma dell’Ing. Michele Colella; la CILA presentata al Comune di Turi in data 2.7.2021. Dall’esame comparato di tali mezzi di prova, il Tribunale rilevava che a distanza di più di quattro anni dalla sua realizzazione il manufatto contestato risultava ancora insistere sul posto, tanto vero che fu presentata una CILA in sanatoria e che lo scopo perseguito era quello di limitare il traffico, non già per esigenze contingenti, ma per tutelare la responsabilità degli odierni imputati sulla proprietà privata. Alla luce di tali risultanze, richiamando la giurisprudenza amministrativa, secondo la quale i manufatti funzionali a soddisfare esigenze permanenti, aventi dimensioni non trascurabili, necessitano del titolo abilitativo edilizio, in quanto idonei ad alterare lo stato dei luoghi, ha ritenuto sussistente in capo agli odierni imputati il reato di cui al capo 1) della rubrica.

3.1. Con atto depositato il 25.5.2022, avverso la predetta sentenza veniva proposto appello da parte dei difensori degli imputati, chiedendo l’assoluzione di ciascuno dal reato contestato al capo 1) dell’imputazione perché il fatto non sussiste e, in via gradata, l’applicazione dell’art. 131-bis cod. pen.

Con il primo motivo di appello, le difese sostenevano che la strada denominata Via Giuseppe Conversi, sulla quale erano state realizzate le tre barriere new jersey, avesse natura privata e che la stessa fu interdetta al traffico, mediante i citati manufatti, unicamente per fronteggiare esigenze temporanee e contingenti afferenti ai pericoli che la viabilità lungo la predetta strada poteva determinare. Si trattava, dunque, di una soluzione provvisoria cui i condomini fecero ricorso nelle more dell’adozione di una soluzione stabile.

Con il secondo motivo di appello, le difese invocavano l’applicazione dell’istituto di cui all’art. 131-bis c.p., in ragione della modestissima dimensione dell’opera. Rilevavano, inoltre, sotto il profilo soggettivo che la condotta posta in essere dagli imputati fosse sorretta da colpa lievissima.

In data 13.02.2023, la Corte d’appello di Bari, confermava integralmente la sentenza impugnata.

4. Può quindi procedersi ad esaminare i motivi di ricorso che, come detto, prestano il fianco al giudizio di inammissibilità.

In via preliminare, giova evidenziare che i ricorrenti hanno sostanzialmente riproposto le tesi difensive già sostenute in sede di merito e puntualmente disattese dalla Corte d’appello. Al riguardo preme ricordare che nella giurisprudenza di questa Corte è stato enunciato, e più volte ribadito, il condivisibile principio di diritto secondo cui “è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che ripropongono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, invero, deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, ai sensi dell’art. 591, comma 1, lett. c), all’inammissibilità” (Sez. 4, n. 44139 del 27/10/2015, Dattis; sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012, Pezzo, Rv. 253849; sez.4, n.5191 del 2000, Barone, Rv. 216473; Sez. 4, n. 256 del 18/09/1997, Ahmetovic, Rv. 210157). E va altresì rilevato che il primo giudice aveva affrontato e risolto le questioni sollevate dalla difesa, seguendo un percorso motivazionale caratterizzato da completezza argomentativa e dalla puntualità dei riferimenti agli elementi probatori acquisiti e rilevanti ai fini dell’esame della posizione degli imputati. Di conseguenza, trattandosi di conferma della sentenza di primo grado, i giudici di seconde cure, hanno legittimamente richiamato anche la motivazione addotta dal Tribunale, senza peraltro mancare di fornire autonome valutazioni a fronte delle censure difensive. Invero, è principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui, nel caso di doppia conforme, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un unico organico risultato al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione.

Nella concreta fattispecie, la sentenza impugnata si presenta, dunque, formalmente e sostanzialmente legittima ed i suoi contenuti motivazionali forniscono, con argomentazioni basate su una corretta valutazione delle risultanze processuali, esauriente e persuasiva risposta ai quesiti posti dalla difesa. In particolare, la Corte territoriale ha puntualmente ragguagliato il giudizio di fondatezza dell’accusa al compendio probatorio acquisito, a fronte del quale non possono trovare spazio le deduzioni difensive, per lo più finalizzate a sollecitare una rilettura del materiale probatorio, preclusa in questa sede.

5. Tanto premesso, venendo all’analisi delle singole questioni proposte dai ricorrenti, muovendo dal primo motivo, privo di pregio è l’assunto difensivo secondo il quale i tre manufatti contestati sarebbero sussumibili nell’ambito di applicazione dell’art. 6, comma 1, lett. e quinquies, D.P.R. n. 380 del 2001, il quale qualifica come interventi di edilizia libera “le aree ludiche senza fini di lucro e gli elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici”.

Orbene, quand’anche si ritenesse di trovarsi in presenza di un’area pertinenziale, come ritenuto dalla difesa, discutibile sarebbe la sussunzione delle barriere in questione, denominate new jersey, tra gli elementi di arredo. Invero, dette barriere, essendo attrezzature di sicurezza modulare realizzate, come nella specie, in cemento armato, sono impiegate per ostruire od incanalare il flusso stradale, o per circoscrivere momentaneamente un’area di cantiere oppure utilizzate anche in situazioni di emergenza, e non certamente quali elementi di arredo.

La difesa, a tal proposito, ha ritenuto che le opere contestate trovino espressa collocazione nella Tabella A, allegata al D.Lgs. n. 222 del 2016, alla voce 11.29 “Edilizia libera” ed ulteriore specificazione nel Glossario dell’edilizia libera, approvato con D.M. del 2.3.2018, che, ai sensi dell’art. 1, comma 2 del D.Lgs. 25 novembre 2016, n.222, contiene un elenco non esaustivo delle principali opere eseguibili in detto regime. In particolare, in corrispondenza della categoria di interventi individuati all’art. 6, lett. e-quinquies, D.Lgs. n. 380 del 2001, le voci richiamate dai ricorrenti sono la n. 48 “Ripostiglio per attrezzi, manufatto accessorio di limitate dimensioni e non stabilmente infisso al suolo” e la n. 49 “Sbarra, separatore, dissuasore e simili, stallo biciclette”.

Tuttavia, appare chiaro che le barriere new jersey, impiegate nel caso di specie, non rientrano in nessuna delle voci indicate, difettando il presupposto normativo che avrebbe giustificato la loro sussunzione nella categoria degli interventi di edilizia libera ex art. 6, lett. e-quinquies, D.Lgs. n. 380 del 2001, ossia la loro qualificazione di “elementi di arredo”.

5.1. Del resto, i manufatti contestati, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa, non sono assimilabili alle fioriere, in quanto non dotate di vasi. Al contrario, essi sono esclusivamente finalizzati ad ostruire l’accesso alla strada. Invero, la giurisprudenza amministrativa ha chiarito che possono qualificarsi come “elementi di arredo”, con riferimento in particolare ai manufatti accessori di limitate dimensioni e non stabilmente infissi al suolo (voce 48), anche le installazioni esterne fisse, in muratura o prefabbricate (quali fioriere, fontane ornamentali, forni esterni in muratura o prefabbricati, gazebo), ma non quelle – come le barriere new jersey di cui si discute – non qualificabili come elementi di arredo urbano, ma come semplici blocchi ostruttivi dell’accesso della strada, perdi più destinate a permanere su quell’area sine die, come del resto dimostra la presentazione della CILA in sanatoria. Infatti, dette installazioni, non rispondono al requisito, richiesto per la sottrazione al regime di controllo edilizio, di precarietà strutturale e funzionale, così da trasformarsi, di fatto, in beni immobili necessitanti di permesso di costruire (T.A.R. Napoli, Campania, sez. VIII, 15 febbraio 2018, n.1041).

5.2. Peraltro, occorre chiarire che il D.M. Ministero Infrastrutture 2 marzo 2018, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 7 aprile 2018, riporta il «glossario» relativo alle opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera «in fase di prima attuazione dell’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 25 novembre 2016, n. 222», il quale aveva previsto la formazione di un «glossario unico, che contiene
l’elenco delle principali opere edilizie, con l’individuazione della categoria di intervento a cui le stesse appartengono e del conseguente regime giuridico a cui sono sottoposte». In particolare, per quanto di specifico interesse in questa sede, il «glossario» prevede sì le voci «manufatto accessorio di limitate dimensioni e non stabilmente infisso al suolo» e «sbarra, separatore, dissuasore e simili» come opere edilizie realizzabili in regime di attività di edilizia libera, ma in riferimento alla categoria di intervento di cui alla lett. e-bis) dell’art. 6 D.P.R. n. 380 del 2001, la quale, ha riguardo alle «opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a centottanta giorni, previa comunicazione di avvio lavori all’amministrazione comunale». Sembra quindi corretto concludere che dette opere sono realizzabili in regime di edilizia libera, senza necessità del preventivo rilascio del permesso di costruire, solo quando sono funzionali a soddisfare esigenze contingenti e temporanee e destinate ad essere immediatamente rimosse entro un termine non superiore ai centottanta giorni.

5.3. Tanto premesso, proprio il richiamo da parte dei ricorrenti all’art. 6, comma 1, lett. e-bis, D.P.R. n. 380 del 2001, porta a ritenere destituito di fondamento l’argomento difensivo teso ad affermare il carattere precario e temporaneo delle installazioni contestate, le quali sarebbero state preordinate a soddisfare un’esigenza contingente. Orbene, l’assoluta impossibilità di sussumere l’intervento edilizio in questione nella c.d. attività edilizia libera ex art. 6, lett. e-bis, D.P.R. n. 380 del 2001, è stata correttamente rilevata da parte dei giudici di appello che hanno, infatti, richiamato la costante e consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale l’intervento precario deve necessariamente possedere alcune specifiche caratteristiche: la sua precarietà non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all’opera dall’utilizzatore; sono irrilevanti le caratteristiche costruttive i materiali impiegati e l’agevole amovibilità deve avere una intrinseca destinazione materiale ad un uso realmente precario per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo; deve essere destinata ad una sollecita eliminazione alla cessazione dell’uso (Sez. 3, n.38473 del 31/05/2019, Rv. 277837 – 01).

Tali principi, pienamente condivisi dal Collegio, sono stati correttamente applicati nella sentenza impugnata. Invero, la Corte territoriale ha riscontrato l’assenza delle condizioni richieste dalla giurisprudenza di legittimità ai fini dell’applicazione dell’istituto in commento, rilevando al contrario, che le installazioni contestate avevano connotati di stabilità e non certo di temporaneità o di transitorietà, in considerazione delle caratteristiche tipologiche e funzionali.

Infatti, è pacifico che le opere de quibus insistettero sul posto per oltre cinque anni, né, allo stato, risultano rimosse. Ancora, ha escluso la possibilità di ravvisare alla base dell’intervento effettuato alcuna esigenza contingente, atteso che i manufatti contestati sono stati realizzati al fine di ostruire l’accesso alla Via Giuseppe Conversi; “accesso che, ad onta delle allegate modeste dimensioni dei manufatti stessi, fu sistematicamente interdetto su uno degli accessi alla strada in questione, comunque di incontestato utilizzo pubblico, in forza della collocazione, duratura ed ininterrotta nel tempo, di tre barriere in cemento armato con le modalità oggettivamente evincibili dalle riproduzioni fotografiche rifuse in atti” (pagg. 19 e 20 sentenza di appello).

Infine, ulteriore conferma della correttezza dell’assunto accusatorio si rinviene nella circostanza che, in data 20.07.2021, è stata presentata una CILA in sanatoria, cui è seguito il provvedimento del Comune di inefficacia della stessa, essendo stata richiesta, invece, la presentazione di una richiesta di permesso di costruire in sanatoria.

5.4. Appare chiaro, pertanto, che non si tratta di opere installabili in regime di attività edilizia libera, ma necessitanti, proprio per la loro tendenziale stabilità e finalizzazione al soddisfacimento di esigenze di carattere non temporaneo ma definitivo, di un permesso di costruire, in quanto stabilmente destinate ad alterare l’assetto urbanistico dell’area in questione. A fronte di tali coerenti ed inequivocabili considerazioni, il ricorrente ribadisce le medesime censure formulate con l’atto di appello ed efficacemente confutate dai giudici di seconde cure, riproponendo la inverosimile giustificazione della temporanea destinazione dell’opera abusivamente realizzata attraverso una personale lettura delle emergenze processuali, non proponibile in questa sede di legittimità ed una ancor più personale interpretazione della richiamata giurisprudenza.

5.5. Parimenti destituito di fondamento risulta l’ulteriore assunto difensivo teso ad affermare la natura privata della strada.

Che si tratti di strada ad uso pubblico, infatti, risulta pacificamente dal certificato di destinazione urbanistica n. 159B-B PUG, che classifica la stessa come strada urbana di tipologia 3 d’uso pubblico, come individuata dal PUG, c.d. piano urbanistico generale, nonché dalla delibera della Giunta Comunale n.81 del 17.12.2014, che ha denominato la strada come “Via Giuseppe Conversi”. Risultano poi dagli atti ulteriori elementi a sostegno dell’assunto accusatorio, quali il fatto che la strada è stata ininterrottamente nella piena disponibilità di fatto del Comune, atteso che attraverso la stessa passano le condutture asservite ai complessi edilizi retrostanti; che sin dalla data di realizzazione della stessa il Comune ha assicurato il servizio di pulizia urbana, nonché a partire dal dicembre 2016, il servizio di raccolta rifiuti delle singole utenze domestiche con metodo porta a porta; infine, la circostanza che la stessa sia di uso generalizzato e continuativo da parte della collettività, che la percorre per raggiungere le aree urbane ed il parco retrostante.

In tal senso, la più recente giurisprudenza amministrativa ha rilevato che un bene privato – gravato da una servitù di uso pubblico – è sottratto alla disponibilità del proprietario che non può disporne l’interdizione, né limitarne l’uso (Tar Lombardia, Brescia, sentenza 25 luglio 2022 n. 734). È infatti noto che una strada privata – gravata da uso pubblico (c.d. strada vicinale) – si caratterizza per la sua destinazione al servizio di una collettività indeterminata di soggetti considerati uti cives, ossia quali titolari di un pubblico interesse di carattere generale, e non uti singuli, ossia quali soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato: un uso (ovvero, utilizzazione, cd. passaggio) da parte di una collettività indeterminata di persone sul bene privato (TAR Lombardia, Milano, sez. III, 11 marzo 2016, n. 507).

In particolare, l’art. 3, comma 1, n. 52 del D.Lgs. n. 285 del 1992, fa sì che queste debbano essere necessariamente interessate da un transito generalizzato, tale per cui, a fronte della proprietà privata del sedime stradale e dei relativi accessori e pertinenze, spettante ai proprietari dei fondi latistanti, l’Ente pubblico comunale possa vantare su di essa, ai sensi dell’art. 825 cod. civ., un diritto reale di transito, con correlativo dovere di concorrere alle spese di manutenzione della stessa (pro quota rispetto al consorzio privato di gestione, ai sensi dell’art. 3 del D.Lgs. n. 1446/1918, «Facoltà agli utenti delle strade vicinali di costituirsi in Consorzio per la manutenzione e la ricostruzione di esse»), onde garantire la sicurezza della circolazione che su di essa si realizza (TAR Friuli-Venezia Giulia, 24 luglio 1989, n. 277).

Caratteristiche indispensabili di questo diritto, ravvisabili senza dubbio nella vicenda esaminata nel presente giudizio, sono: a) il passaggio esercitato iure servitutis pubblicae, da una collettività di persone qualificate dall’appartenenza ad un gruppo territoriale; b) la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, anche per il collegamento con la pubblica via; c) un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione dell’uso da tempo immemorabile. Si tratta della dicatio ad patriam, quale modo di costituzione di una servitù di uso pubblico su un bene privato, consistente nel comportamento del proprietario che, se pur non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, metta volontariamente, con carattere di continuità (non di precarietà e tolleranza), un proprio bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al correlativo uso, che ne perfeziona l’esistenza, senza che occorra un congruo periodo di tempo o un atto negoziale o ablatorio, al fine di soddisfare un’esigenza comune ai membri di tale collettività uti cives, indipendentemente dai motivi per i quali detto comportamento venga tenuto, dalla sua spontaneità o meno e dallo spirito che lo anima (TAR Friuli Venezia Giulia, sez. I, 8 aprile 2011, n. 184).

5.6. Alla luce di quanto chiarito, destituito di fondamento risulta dunque il rilievo difensivo teso ad affermare la piena libertà dei ricorrenti di installare le tre barriere new jersey oggetto di contestazione, in ragione della natura privata dell’area essendo venuto meno il vincolo quinquennale all’espropriazione. Peraltro, deve essere evidenziato che, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa, non è condivisibile nemmeno l’ulteriore argomento secondo il quale i manufatti contestati avrebbero rappresentato soltanto una soluzione provvisoria, in attesa di realizzare un sistema automatico finalizzato ad inibire l’accesso a soggetti “non autorizzati” ad accedere a tale strada. In tal senso, non può ammettersi un intervento del proprietario mediante il ricorso all’art. 841 cod. civ., a fronte del quale «il proprietario può chiudere in qualunque tempo il fondo», proprio in considerazione del fatto che, nel caso di specie, il bene è gravato da una servitù di passaggio, il cui esercizio del diritto (ossia, il passaggio pubblico) non può essere limitato (Cass. civ., sez. VI, 2 settembre 2019, n. 21928).

6. Il secondo motivo di ricorso è anch’esso manifestamente infondato.

In primo luogo, occorre evidenziare che, come ribadito dalle Sezioni Unite, non è consentito il motivo di ricorso che deduca la violazione dell’art. 192 cod. proc. pen., anche se in relazione agli artt. 125 e 546, comma 1, lett. e), stesso codice, per censurare l’omessa od erronea valutazione degli elementi di prova acquisiti od acquisibili, in quanto i limiti all’ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui alla lettera c) della medesima disposizione, nella parte in cui consente di dolersi dell’inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027 – 04.; Sez. 1, n. 1088 del 26/11/1998, dep. 1999, Condello, Rv. 212248; Sez. 6, n. 45249 del 08/11/2012, Cimini, Rv. 254274; Sez. 2, n. 38676 del 24/05/2019, Onofri, Rv. 277518). Ancora, si è chiarito che l’erronea applicazione dell’art. 192 cod. proc. pen. non è deducibile in termini di violazione di legge: si tratta infatti di una disposizione non assimilabile ad una norma di diritto penale o ad altra norma giuridica di cui si deve tener conto nell’applicazione della legge penale, come indicato nell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., e nemmeno ad una norma processuale stabilita a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza, ai sensi del predetto art. 606, comma 1, lett. c), giacché l’inosservanza dell’art. 192 cod. proc. pen. non è in tal modo sanzionata (Sez. 1, n. 42207 del 20/10/2016, dep. 2017, Pecorelli, Rv. 271294; Sez. 3, n. 44901 del 17/10/2012, F., Rv. 253567; Sez. 6, n. 7336 del 08/01/2004, Meta, Rv. 229159; Sez. 1, n. 1088 del 26/11/1998, dep. 1999, Condello, Rv. 212248).

La dedotta violazione dell’art. 192 cod. proc. pen. rileva solo come vizio di motivazione nei limiti indicati dall’art. 606, comma 1, lett. e), ossia come mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulti dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame.

6.1. Peraltro, il dedotto travisamento probatorio per omessa valutazione di prove documentali difetta del carattere della decisività.

Ebbene, sul punto occorre chiarire che secondo pacifica giurisprudenza di legittimità, ai fini della deducibilità in cassazione del vizio di “travisamento della prova” – che si risolve nella utilizzazione di un’informazione inesistente o nella omessa valutazione della prova esistente agli atti, è necessario che il ricorrente prospetti la decisività del travisamento o dell’omissione nell’ambito dell’apparato motivazionale sottoposto a critica (Sez. 2, n. 19848 del 24/05/2006, P.M. in proc. Todisco, Rv. 234162; Sez. 6, n. 36512 del 16/10/2020, Rv. 280117-01).

Invero, il travisamento ha natura decisiva solo se l’errore accertato sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio frainteso o ignorato, fermi restando il limite del “devolutum” in caso di cosiddetta “doppia conforme” e l’intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio (Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, Rv. 277758 – 01; Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio, Rv. 258774; Sez. 2, n. 47035 del 03/10/2013, Giugliano, Rv. 257499). Il travisamento, dunque, consiste in un errore percettivo, e non valutativo, della prova tale da minare alle fondamenta il ragionamento del giudice ed il sillogismo che ad esso presiede. In particolare, consiste nell’affermare come esistenti fatti certamente non esistenti ovvero come inesistenti fatti certamente esistenti. Il travisamento rende la motivazione insanabilmente contraddittoria con le premesse fattuali del ragionamento così come illustrate nel provvedimento impugnato, una diversità tale da non reggere all’urto del contro -giudizio logico sulla tenuta del sillogismo.

Il vizio è perciò decisivo quando la frattura logica tra la premessa fattuale del ragionamento e la conclusione che ne viene tratta è irreparabile. Come ribadito dalle Sezioni Unite “Patalano”, il travisamento della prova sussiste quando emerge che la sua lettura sia affetta da errore “revocatorio”, per omissione, invenzione o falsificazione. In questo caso, difatti, la difformità cade sul significante (sul documento) e non sul significato (sul documentato) (Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Rv. 269787 – 01). Ne consegue che: a) il vizio di motivazione non può essere utilizzato per spingere l’indagine di legittimità oltre il testo del provvedimento impugnato, nemmeno quando ciò sia strumentale a una diversa ricomposizione del quadro probatorio che, secondo gli auspici del ricorrente, possa condurre il fatto fuori dalla fattispecie incriminatrice applicata; b) l’esame può avere ad oggetto direttamente la prova quando se ne denunci il travisamento, purché l’atto processuale che la incorpora sia allegato al ricorso (o ne sia integralmente trascritto il contenuto) e possa scardinare la logica del provvedimento creando una insanabile frattura tra il giudizio e le sue basi fattuali; c) la natura manifesta della illogicità della motivazione del provvedimento impugnato costituisce un limite al sindacato di legittimità che impedisce alla Corte di cassazione di sostituire la propria logica a quella del giudice di merito e di avallare, dunque, ricostruzioni alternative del medesimo fatto, ancorché altrettanto ragionevoli; d) non è consentito, in caso di cd. “doppia conforme”, eccepire il travisamento della prova mediante la pura e semplice riproposizione delle medesime questioni fattuali già devolute in appello soprattutto quando, come nel caso di specie, la censura riguardi il medesimo compendio probatorio, non avendo la Corte territoriale attinto a prove diverse da quelle scrutinate in primo grado.

6.2. Tanto premesso, la difesa ritiene che i giudici di merito abbiano omesso di valutare due note: la prima, del 24.09.2014 a firma dell’amministratore di condominio, con la quale veniva presentata al Comune di Turi una richiesta di messa in sicurezza della strada privata in commento, anticipando nelle more di un riscontro dell’amministrazione comunale, l’adozione di una soluzione provvisoria; la seconda, del 22.4.2022, relativa alla comunicazione dell’inefficacia della CILA, nella quale il Comune da atto che le installazioni contestate furono apposte temporaneamente in regime di libera edilizia. Ebbene, a dire dei ricorrenti, tali note sarebbero determinanti nel senso di una pronuncia assolutoria, dimostrando inequivocabilmente il carattere temporaneo e contingente delle opere contestate.

Tuttavia, detto assunto difensivo si appalesa del tutto infondato, atteso che le note in commento difettano del requisito della decisività. La Corte territoriale, infatti, ha disatteso i rilievi difensivi con argomentazioni logiche e puntuali esenti dai vizi denunciati. In particolare, ha valorizzato il dato temporale, rilevando come le opere contestate insistettero sul posto per oltre cinque anni, non risultando, peraltro, allo stato rimosse. Ha, inoltre, escluso che le barriere new jersey potessero essere assoggettate al regime di edilizia libera, evidenziando come lo scopo perseguito dai condomini fosse quello di ostruire stabilmente l’accesso alla Via Giuseppe Conversi. Tali circostanze, rendevano evidente come gli interventi oggetto di contestazione difettassero dei caratteri della precarietà e della contingenza, indispensabili ai fini della realizzazione degli stessi in regime di edilizia libera, e cioè in assenza del permesso di costruire.

La forza dimostrativa di tale logico apparato argomentativo non risulta in alcun modo compromessa dalle prove di cui il ricorrente lamenta la mancata valutazione, apparendo, al contrario, evidente come la difesa tenti di sollecitare questa Corte a sovrapporre la propria valutazione a quella dei giudici di merito laddove, come detto, ciò non è consentito, nemmeno quando venga eccepito il travisamento/significante della prova.

Il travisamento non costituisce il mezzo per valutare nel merito la prova, bensì lo strumento per saggiare la tenuta della motivazione alla luce della sua coerenza logica con i fatti sulla base dei quali si fonda il ragionamento.

7. Il terzo motivo, con il quale si deduce vizio di violazione di legge in relazione all’art. 131-bis cod. pen. e correlato vizio di motivazione, è generico per aspecificità e manifestamente infondato.

I ricorrenti ripropongono pedissequamente le medesime censure già dedotte con l’atto di appello e adeguatamente confutate dalla Corte territoriale, senza l’apporto di alcun elemento di novità critica, omettendo di confrontarsi con le argomentazioni logiche e puntuali svolte dai giudici di seconde cure.

7.1. In via preliminare, occorre chiarire che secondo la giurisprudenza di legittimità, ai fini dell’applicabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131-bis cod. pen., il giudizio sulla tenuità dell’offesa dev’essere effettuato con riferimento ai criteri di cui all’art. 133, comma primo, cod. pen., ma non è necessaria la disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti, essendo sufficiente l’indicazione di quelli ritenuti rilevanti (Sez. 6, n. 55107 del 08/11/2018, Rv. 274647 – 01).

7.2. Di tale principio ha fatto buon governo la Corte d’appello di Bari, la quale ha correttamente argomentato le motivazioni sottese al diniego espresso in ordine al riconoscimento della causa di non punibilità de qua, attraverso una valutazione congiunta degli indicatori afferenti alla condotta, al danno e alla colpevolezza, correttamente valorizzando, peraltro, il dato derivante dalla modalità dell’azione, finalizzata a protrarre sine die l’accesso ad una strada di uso pubblico.

Invero, la Corte territoriale, confrontandosi con le doglianze difensive, ha ampliamente chiarito le ragioni sottese al mancato riconoscimento della speciale causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen.

In particolare, ha evidenziato, per un verso, come l’effettiva portata dell’intervento abusivo non potesse considerarsi di particolare tenuità, atteso che lo stesso era finalizzato ad impedire l’accesso ad una strada di uso pubblico, mediante l’apposizione di barriere in cemento armato, per un tempo sostanzialmente indeterminato, essendo state collocate in loco per oltre cinque anni, né tantomeno rimosse; per altro verso, ha ritenuto non congruente ai fini dell’applicazione dell’istituto in commento il richiamo da parte della difesa alla giurisprudenza di legittimità (Sez. 3, n.47039 del 08/10/2015, Rv. 265449 – 01), osservando come le opere contestate fossero in contrasto con gli strumenti urbanistici, fossero state realizzate in totale assenza del titolo autorizzativo, avessero perpetuamente interdetto la viabilità da uno degli accessi di una strada, comunque, di uso pubblico e servita anche da mezzi del Comune e, infine, allo stato attuale non fossero suscettibili di sanatoria. Ancora, sotto il profilo soggettivo, ha escluso la qualificazione della colpa degli imputati in termini di colpa lievissima, poste le modalità di una condotta non solo sorretta dal dolo, ma che ha evidenziato una ferma determinazione nel raggiungimento del divisato risultato, sebbene la destinazione al traffico ordinario della strada sia stata ribadita dal PUG approvato anteriormente alla predisposizione delle barriere de quibus (pagg. 21 e ss. sentenza di appello). Alla luce di quanto rappresentato, esente dai vizi denunciati risulta la sentenza impugnata, la quale con motivazione logica e coerente ha escluso la configurabilità della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen.

7.3. Infine, non rileva, la circostanza che il termine di prescrizione del reato sia maturato alla data del 20.02.2023, e dunque, successivamente alla sentenza d’appello, emessa in data 13.02.2023. Trova infatti applicazione il consolidato principio di diritto, secondo cui l’inammissibilità del ricorso per cassazione, dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi, non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen. (Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, D.L., Rv. 217266 – 01).

8. Il congiunto ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile, con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3000 in favore della cassa delle ammende, non potendosi escludere profili di colpa nella proposizione del ricorso.

9. Segue, infine, la condanna alla refusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, liquidate come da dispositivo in base ai parametri disciplinati dal D.M. 55/2014 recante: “Determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense ai sensi dell’art. 13 comma 6 della legge 31 dicembre 2012 n. 247”, aggiornati al D.M. n. 147 del 13/08/2022.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Condanna, inoltre, gli imputati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile che liquida in complessivi euro 3.686, oltre accessori di legge.

Così deciso, il 14 settembre 2023

 
 

 

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