Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime |
Categoria: Associazioni e comitati,
Danno ambientale,
Legittimazione processuale
Numero: 1992 |
Data di udienza: 30 Ottobre 2017
ASSOCIAZIONI E COMITATI – Reati ambientali – Associazioni ambientaliste – LEGITTIMAZIONE PROCESSUALE – Costituzione parti civili iure proprio – DANNO AMBIENTALE – Risarcimento del danno patrimoniale e morale – RIFIUTI – Sversamento non autorizzato di materiale organico stannico – Analisi dei sedimenti marini – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Estinzione per prescrizione del reato – Decisione su gli interessi civili – Artt. 109, 256 e 260 d.lvo n.152/2006 – Reato di getto pericoloso di cose – Art. 674 cod. pen. – D.M. 173/2016 – Giurisprudenza.
Provvedimento: Sentenza
Sezione: 3^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 18 Gennaio 2018
Numero: 1992
Data di udienza: 30 Ottobre 2017
Presidente: CAVALLO
Estensore: ZUNICA
Premassima
ASSOCIAZIONI E COMITATI – Reati ambientali – Associazioni ambientaliste – LEGITTIMAZIONE PROCESSUALE – Costituzione parti civili iure proprio – DANNO AMBIENTALE – Risarcimento del danno patrimoniale e morale – RIFIUTI – Sversamento non autorizzato di materiale organico stannico – Analisi dei sedimenti marini – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Estinzione per prescrizione del reato – Decisione su gli interessi civili – Artt. 109, 256 e 260 d.lvo n.152/2006 – Reato di getto pericoloso di cose – Art. 674 cod. pen. – D.M. 173/2016 – Giurisprudenza.
Massima
CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. 3^ 18/01/2018, (Ud. 30/10/2017), Sentenza n.1992
ASSOCIAZIONI E COMITATI – Reati ambientali – Associazioni ambientaliste – LEGITTIMAZIONE PROCESSUALE – Costituzione parti civili iure proprio – DANNO AMBIENTALE – Risarcimento del danno patrimoniale e morale – RIFIUTI – Sversamento non autorizzato di materiale organico stannico – Analisi dei sedimenti marini – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Estinzione per prescrizione del reato – Decisione su gli interessi civili – Artt. 109, 256 e 260 d.lvo n.152/2006 – Reato di getto pericoloso di cose – Art. 674 cod. pen. – D.M. 173/2016 – Giurisprudenza.
Le associazioni ambientaliste sono legittimate a costituirsi parti civili iure proprio nel processo per reati ambientali, sia come titolari di un diritto della personalità connesso al perseguimento delle finalità statutarie, sia come enti esponenziali del diritto alla tutela ambientale, anche per i reati commessi in occasione o con la finalità di violare normative dirette alla tutela dell’ambiente, avendo quindi le associazioni ambientaliste diritto al risarcimento del danno, non solo patrimoniale ma anche morale, derivante dal pregiudizio arrecato all’attività da esse concretamente svolta per la valorizzazione e la tutela del territorio su cui incidono i beni oggetto del fatto lesivo.
(annulla senza rinvio per prescrizione dei reati sentenza del 7/04/2016 – TRIBUNALE DI ANCONA) Pres. CAVALLO, Rel. ZUNICA, Ric. Marzialetti
Allegato
Titolo Completo
CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. 3^ 18/01/2018, (Ud. 30/10/2017), Sentenza n.1992
SENTENZA
CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. 3^ 18/01/2018, (Ud. 30/10/2017), Sentenza n.1992
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
omissis
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da Marzialetti Vincenzo, nato a Montegiorgio il 21-03-1958;
avverso la sentenza del 7-04-2016 del Tribunale di Ancona;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Fabio Zunica;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale dott. Luigi Cuomo, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso quanto ai motivi concernenti la responsabilità penale e l’annullamento con rinvio quanto al diniego delle attenuanti generiche;
udito per il ricorrente l’avvocato Palma Francesca, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1 Il Tribunale di Ancona, con sentenza del 7 aprile 2016, condannava Vincenzo Marzialetti alla pena di € 5.000 di ammenda in ordine ai reati di cui agli art. 256 del d. lgs. 152/2006 e 674 cod. pen., accertati in Ancona il 22 agosto 2011 e originariamente contestati anche ad altri 7 imputati, che invece venivano assolti per non aver commesso il fatto. In particolare, secondo la prospettiva accusatoria, Marzialetti, quale dirigente della Regione Marche, effettuava un’attività di gestione di rifiuti non pericolosi in relazione all’escavo dei fondali nel porto di Ancona, consentendo, in violazione delle linee guida di settore e omettendo di effettuare l’opportuno screening e di procedere a nuove analisi, lo sversamento non autorizzato di circa 150 metri cubi di materiale da dragaggio, risultato inquinato da materiale organico stannico in quantitativo superiore ai limiti della tabella 2.1.A. derivante dalle vernici delle navi, laddove la Regione Marche, in data 22 settembre 2009, aveva autorizzato lo sversamento del materiale da fondale sottostante i primi 50 cm., risultati inquinati da composti organo-stannici e da versare in una cassa di colmata, in un’area adiacente alla cassa di colmata lato terra, mentre, in forza dell’ordinanza della Capitaneria di Porto n. 103/11, il materiale di dragaggio eccedente i primi 50 cm. veniva sversato in un’area marina sita a poche decine di metri dalla costa in area sottostante il Duomo di San Ciriaco, individuata con nota del 2 agosto 2011 dello stesso ing. Marzialetti. Questi veniva altresì condannato a risarcire i danni cagionati alla costituita parte civile, Comitato "Mare Libero", liquidati in via equitativa in € 500.
2. Avverso la sentenza del Tribunale di Ancona, Vincenzo Marzialetti, tramite il difensore, ha proposto appello dinanzi alla Corte di Appello di Ancona, che ha poi riqualificato il gravame come ricorso per cassazione, sollevando 10 motivi.
Con il primo viene addotto il vizio di motivazione della sentenza in ordine alla costituzione di parte civile del Comitato "Mare Libero", stante il relativo difetto di rappresentatività, la carenza di legittimazione processuale, la nullità della procura rilasciata ai sensi dell’art. 76 cod. proc. pen. e la violazione delle regole di imputazione della responsabilità e della titolarità della situazione sostanziale sottostante. Osserva in particolare la difesa che non era certa la data di costituzione del Comitato, non era provata la rappresentatività degli interessi diffusi, trattandosi di un movimento di sole 9 persone, non era documentata la vicinanza sostanziale con il bene oggetto di tutela e non era stata provata l’esistenza di un danno reale, e fermo restando che l’azione per il risarcimento del danno ambientale, alla luce della riforma apportata dal d. lgs. n. 152/2006, spetta solo allo Stato.
Con il secondo motivo il ricorrente si duole dell’erronea applicazione dell’art. 256 del d. lg. 152/2006, per la propria carenza di soggettività attiva, non essendo egli gestore professionale di rifiuti ma unicamente titolare del potere autorizzatorio ai sensi dell’art. 109 del d. lgs. 152/2006 circa l’utilizzo dei materiale di dragaggio, essendo destinatario della norma penale solo il soggetto che abbia l’obbligo di sottoporsi al controllo della P.A. e non anche il controllore.
Con il terzo motivo di ricorso, il ricorrente eccepisce l’erronea applicazione degli art. 674 cod. pen. e 109 e 256 comma 1 lett. D) del d. lgs. 152/2006, osservando che, quanto al periodo di validità delle analisi dei sedimenti marini, sussiste una divergenza tra il Manuale per la movimentazione dei sedimenti marini redatto nel 2007 per conto del Ministero, peraltro non vincolante, anche se riprodotto nella delibera della Giunta Regionale del 23 febbraio 2009 (cioè un anno), e l’intesa recepita in sede di conferenza unificata sullo schema di decreto (cioè 2 anni per i sedimenti oggetto di mescolamento e 3 anni per i sedimenti dello strato profondo non interessato da fenomeni di pertubazione); in definitiva, sostiene il ricorrente, tra le due linee guida, costituenti normativa extrapenale, il Giudee avrebbe dovuto applicare quella più favorevole a Marziatelli, cioè quella dello schema di decreto ministeriale; analogamente, quanto alla movimentazione del materiale dragato dal porto, lo schema del decreto ministeriale prevedeva che la stessa potesse avvenire anche in ambito non portuale, cioè immediatamente attiguo al porto, come accaduto nel caso di specie, essendo avvenuta la movimentazione del sedimento marino a ripascimento della spiaggia sommersa nell’ambito non portuale immediatamente attiguo al porto.
Con il quarto motivo di ricorso, viene nuovamente censurata l’erronea applicazione degli art. 674 cod. pen. e 109 e 256 comma 1 lett. D) del d. lgs.152/2006, evidenziandosi che, ove pure l’intesa sullo schema di decreto del Ministro dell’Ambiente attuativo del comma 2 dell’art. 109 del T.U.A. non fosse ritenuta applicabile, tale normativa avrebbe dovuto comunque essere considerata almeno come interpretativa delle direttive contenute nel Manuale per la movimentazione dei sedimenti marini del 2007 che, siccome redatto nel 2007 per conto del Ministero, costituiva l’unica fonte lato sensu ministeriale, con la conseguenza che doveva essere considerata lecita sia la mancata ripetizione delle analisi dei sedimenti marini, non essendo stato effettuato alcuno sversamento nella zona interessata dal dragaggio, sia l’individuazione dell’area di sversamento nella prima utile esterna al braccio del porto, peraltro in zona inibita alla balneazione; dunque, venuta meno la natura di rifiuto non pericoloso, non sarebbe stato configurabile neanche la fattispecie di cui all’art. 674 cod. pen.
Con il quinto motivo di ricorso, viene contestata l’erronea applicazione degli art. 192 cod. proc. pen., 41 e 674 cod. pen. e 109 e 256 del T.U.A., e la conseguente omessa o comunque illogica motivazione della sentenza in ordine al nesso causale nei reati colposi, in base all’assunto secondo cui l’eventuale errore dell’imputato, consistito nel non aver ripetuto l’analisi del sedimento e nel non aver verificato la congruità del sito di immersione, non avrebbe comportato lo sversamento del rifiuto non pericoloso, se le imprese non avessero attestato falsamente che si stava operando nell’ambito di quanto già autorizzato; il comportamento illecito degli operatori, che avevano agito al di fuori della originaria autorizzazione regionale, era quindi idoneo a elidere il nesso causale.
Con il sesto motivo, il ricorrente lamenta l’erronea applicazione degli art. 192 cod. proc. pen., 42 e 674 cod. pen. e 109 e 256 del T.U.A., osservando che il giudice di primo grado non aveva valutato correttamente l’elemento soggettivo delle fattispecie colpose a lui addebitate, in quanto non aveva considerato che le false attestazioni rilasciate da parte degli operatori nei confronti del soggetto controllore avevano totalmente soppiantato il rischio che lo stesso avesse in ipotesi accettato nel ritenere, a torto o a ragione, di non dover ripetere le analisi sul sedimento risultato non contaminato nel 2009, sottoponendolo a un evento imprevedibile, cioè all’utilizzo di un materiale del tutto esulante dal contratto di appalto, di cui la direzione dei lavori era all’oscuro; in definitiva, l’evento verificatosi, cioè l’utilizzo di cumoli isolati di dragaggio residuo delle pregresse attività di gestione di un rifiuto non pericoloso, non corrispondeva a quello prevedibile dal controllore al momento in cui questi, nel 2011, aveva rilasciato l’autorizzazione alla movimentazione del sedimento in ambiente sommerso.
Con il settimo motivo di ricorso, viene censurata l’erronea applicazione dei criteri di valutazione delle prove e la manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione, nella parte in cui finisce con l’addossare al controllore regionale l’esito dell’attività abusiva del controllato esecutore, senza considerare i controlli delle successive Autorità intervenute, che avevano esse sì potere di controllo; in definitiva, una volta riscontrata la falsa attestazione rilasciata da parte degli operatori, soggetti controllati, l’organo controllore non poteva essere ritenuto correo dell’abuso perpetrato in suo danno, tanto più in conseguenza del fatto che era stata esclusa la responsabilità degli effettivi responsabili dell’accaduto.
Con l’ottavo motivo, il ricorrente contesta l’erronea applicazione degli art. 192 e 530 comma 2 cod. proc. pen. e dunque l’omessa o comunque illogica motivazione della sentenza in ordine alla qualità e alla quantità del materiale movimentato il 22 agosto 2011, rispetto alle quali erano state raccolte prove non dirette, ma unicamente presuntive, essendosi desunta la natura del materiale sversato il 22 agosto 2011 unicamente dall’accertamento compiuto il giorno successivo; in ordine a tale accertamento, peraltro, viene messo in discussione l’esito delle analisi compiute, essendo stato il materiale oggetto di mescolamenti; e comunque si sottolinea che l’esito delle analisi è stato ritenuto indebitamente non decisivo dal primo Giudice, posto che, ove lo stesso fosse stato negativo, non si sarebbe realizzato l’evento della fattispecie contestata.
Con il nono motivo, il ricorrente si duole dell’omessa motivazione della sentenza in ordine alla mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis cod. pen., sebbene vi sia stata in tal senso una richiesta esplicita con la memoria depositata all’udienza del 7 aprile 2016, motivata alla luce della limitata consistenza dell’intervento e della ridotta percentuale di contaminazione.
Con il decimo e ultimo motivo di ricorso, infine, viene censurata l’erronea interpretazione dell’art. 62 bis cod. pen., in relazione all’omessa motivazione in ordine alla mancata concessione delle attenuanti generiche, la cui applicazione era stata sollecitata in via subordinata con la memoria prodotta all’udienza del 7 aprile 2016 e argomentata in ragione dell’assenza di precedenti penali, del leale contegno processuale e del comportamento tenuto nell’immediatezza dei fatti.
Con memoria depositata il 13 ottobre 2017, il difensore di Marzialetti, preso atto della riqualificazione dell’appello in ricorso per cassazione e ribadita l’ammissibilità dell’impugnazione, indipendentemente dalla qualificazione data ad essa dalla parte che l’ha proposta e in considerazione dell’abilitazione del difensore all’esercizio della professione dinanzi alle Corti superiori, sollecitava la rimessione alla Corte Costituzionale della questione di legittimità costituzionale dell’art. 593 comma 3 cod. proc. pen., con riferimento agli art. 3 e 4 Cost., nella parte in cui non prevede l’appellabilità delle sentenze di condanna alla sola pena dell’ammenda, laddove le stesse abbiano anche definitivamente pronunciato sulle statuizioni civili.
In secondo luogo si evidenziava che nelle more era entrato in vigore il regolamento attuativo dell’art. 109 del Testo Unico Ambientale (ovvero il decreto ministeriale del 15 luglio 2016, n. 173), che in tal modo aveva codificato l’intesa già raggiunta in sede di Conferenza Stato – Regioni ,menzionata nel gravamè.
Infine la difesa eccepiva la prescrizione dei reati per i quali il ricorrente è stato condannato, osservando che, ai fini del computo delle sospensione, non avrebbe alcun rilievo il rinvio dal 10 dicembre 2015 al 7 aprile 2016, posto che lo stesso è scaturito non da una richiesta di sospensione o da una richiesta di rinvio da parte dell’imputato o del difensore, ma dall’istanza del P.M. di un termine per rileggere i resoconti stenografici, in un contesto in cui il Giudice aveva già anticipato che avrebbe rinviato il processo per la lettura del dispositivo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I primi otto motivi di ricorso sono manifestamente infondati; sono invece fondati il nono e il decimo motivo, dal cui accoglimento consegue l’annullamento della sentenza impugnata, essendo il reato estinto per intervenuta prescrizione, mentre vanno confermate le statuizioni civili della sentenza, dovendosi ribadire l’ascrivibilità all’odierno ricorrente dei fatti illeciti contestati.
1.1. Iniziando la disamina dal primo motivo, concernente il presunto vizio di motivazione in ordine alla costituzione di parte civile del comitato Mare Libero, occorre evidenziare che in realtà il Giudice anconetano, nell’ordinanza di cui al verbale dell’udienza del 23 luglio 2015, ha fornito adeguata motivazione sulla sussistenza dei requisiti formali e sostanziali della costituzione di parte civile del comitato, apparendo invece manifestamente infondati (in assenza peraltro di qualsivoglia allegazione al ricorso) i rilievi difensivi formulati in ordine alla presunta carenza di legittimazione formale della parte civile, e tanto anche alla luce della completezza dell’atto di costituzione depositato il 23 luglio 2015, unitamente ai relativi allegati. In ordine invece alla legittimazione sostanziale del Comitato, costituito in epoca pregressa rispetto ai fatti di causa e preposto alla difesa della integrità e bellezza della fascia costiera anconetana (in forza del richiamato art. 4 dell’atto istitutivo), è sufficiente in questa sede richiamare il costante e condiviso insegnamento di questa Corte (cfr. ex multis Sez. 6, n. 3606 del 20/10/2016, Rv. 269349 e Sez. 3 n. 34761 del 21/06/2011, Rv. 251283), secondo cui le associazioni ambientaliste sono legittimate a costituirsi parti civili iure proprio nel processo per reati ambientali, sia come titolari di un diritto della personalità connesso al perseguimento delle finalità statutarie, sia come enti esponenziali del diritto alla tutela ambientale, anche per i reati commessi in occasione o con la finalità di violare normative dirette alla tutela dell’ambiente, avendo quindi le associazioni ambientaliste diritto al risarcimento del danno, non solo patrimoniale ma anche morale, derivante dal pregiudizio arrecato all’attività da esse concretamente svolta per la valorizzazione e la tutela del territorio su cui incidono i beni oggetto del fatto lesivo.
1.2 Anche il secondo motivo è manifestamente infondato, proponendosi una lettura della fattispecie di cui all’art. 256 comma 1 del d. lgs. 152/2006 disancorata dal dato legislativo testuale, delineando la norma incriminatrice non un reato proprio, ascrivibile solo al "gestore professionale di rifiuti" o a "un soggetto che abbia l’obbligo di sottoporsi al controllo della P.A.", ma un reato comune, come sottolineato dall’uso del pronome indefinito "chiunque".
Sulla natura di reato comune della fattispecie contestata questa Sezione della Corte peraltro si è già pronunciata con la sentenza n. 8193 del 29.02.2016 (citata dallo stesso ricorrente), con cui è stato evidenziato che soggetto attivo del reato in questione può essere "chiunque" eserciti abusivamente una delle attività di gestione indicate, in via alternativa, nell’art. 256 (integrante una fattispecie a condotte alternative), anche se non costituito formalmente in veste imprenditoriale, posto che ciò che rileva per assumere la veste di agente del reato non è una qualifica soggettiva, bensì la concreta attività posta in essere.
Escluso dunque che la norma incriminatrice individui una fattispecie a soggettività ristretta, deve conseguentemente concludersi che può commettere il reato anche una persona rivestita di poteri autorizzativi o di controllo, laddove la sua condotta, anche colposa ed eventualmente pure omissiva, si riveli idonea a integrare una delle condotte alternative indicate dalla norma incriminatrice.
1.3. Inammissibili perché manifestamente infondati sono anche il terzo e il quarto motivo, che ben possono essere affrontati congiuntamente, proponendo sostanzialmente il medesimo tema: si censura infatti la pronuncia impugnata per non aver tenuto conto, né a livello operativo, né come canone interpretativo, dello schema di decreto ministeriale, all’epoca in corso di discussione, essendo stato approvato con il Decreto 15 luglio 2016, n. 173, contenente il regolamento recante modalità e criteri tecnici per l’autorizzazione all’immersione in mare dei materiali di escavo di fondali marini, emanato ai sensi dell’art. 109 del d. lgs. 152/2006, decreto emesso dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 208 del 6 settembre 2016.
Si tratta di una censura chiaramente infondata, non potendosi addebitare al Giudice di primo grado la mancata applicazione, anche come mero criterio interpretativo, di una normativa extrapenale all’epoca della sentenza non ancora esistente, in quanto approvata dopo il deposito della motivazione della sentenza.
E ciò senza considerare che, pur a voler tener conto delle previsioni dell’allegato tecnico del D.M. 173/2016, vigente tuttavia solo a partire dal 21 settembre 2016, la sostanza dei fatti non muta: ed invero la modifica segnalata dalla difesa concerne principalmente il periodo di validità delle analisi del sedimento marino, periodo fissato in un anno dalla Delibera della Giunta Regionale n. 255/2009 che ha recepito il par. 4.4.2 del Manuale per la movimentazione dei sedimenti marini redatto nel 2007 per conto del Ministero dell’Ambiente, all’epoca vigente, laddove il nuovo decreto ministeriale ha esteso il periodo di validità in due anni. Tuttavia, nel caso di specie, come riconosciuto dalla stessa difesa, le analisi erano state effettuate nel giugno 2009, mentre la successiva autorizzazione di Marzialetti che aveva determinato l’indebito versamento dei fanghi nell’area marina del porto di Ancona risaliva all’agosto 2011, dunque a un periodo comunque successivo al più favorevole periodo di validità delle analisi, per cui la problematica sull’applicabilità della nuova disciplina regolamentare, oltre che infondata per le ragioni temporali sopra esposte, risulta anche irrilevante, tanto più ove si tenga presente che il decreto ministeriale del luglio 2016 (emanato, va ribadito, circa cinque anni dopo l’epoca dei fatti contestati), nel regolamentare le attività di immersione in mare dei materiali di escavo di fondali marini, ha comunque previsto una rigida procedura autorizzatoria, soprattutto in relazione alla movimentazione e al dragaggio dei sedimenti, per cui, al di là della questione relativa al tempo di validità delle analisi, non può affermarsi in termini generali che la nuova disciplina sia più favorevole rispetto al regime previgente.
1.4. Il quinto e il sesto motivo possono essere trattati congiuntamente, essendo gli stessi peraltro formulati in termini sostanzialmente coincidenti, affermandosi cioè che le false attestazioni degli operatori privati nei confronti del soggetto controllore, ovvero del ricorrente, erano idonee a determinare il venir meno sia del nesso causale tra l’eventuale errore di Marzialetti di non ripetere le analisi e gli eventi verificatisi, sia dell’elemento soggettivo dei reati contestati, nel senso della prevedibilità da parte del ricorrente dell’utilizzo di cumuli isolati di dragaggio residuo delle pregresse attività di gestione di un rifiuto non pericoloso. Si tratta di doglianze manifestamente infondate, innanzitutto perché si concentrano su un’ipotesi secondaria del percorso motivazionale del Giudice di primo grado, il quale si è confrontato con la tesi di un’eventuale induzione in errore del ricorrente solo dopo aver delineato il fondamento della sua responsabilità rispetto alle accuse formulategli, responsabilità scaturita dall’avere Marzialetti autorizzato indebitamente, cioè in contrasto con quanto previsto dalla Delibera della Giunta Regionale n. 255 del 23 febbraio 2009, lo sversamento in mare di materiale costituente rifiuto, in quanto fango di dragaggio.
L’illegittimità dell’autorizzazione rilasciata dal ricorrente, da cui è derivato lo sversamento in mare dei fanghi, è stata desunta dal fatto che l’area di destinazione del materiale non era immediatamente contigua a quella di dragaggio, essendo fuori dal braccio del porto, e inoltre non vi era stata una valida caratterizzazione dei sedimenti, risalendo le analisi, la cui validità all’epoca era di un anno al giugno 2009, mentre l’autorizzazione risale all’agosto 2011, né era possibile applicare il termine triennale di validità delle analisi, in quanto non esisteva, come richiesto dalla Delibera n. 255/2009, una scheda di bacino che escludesse eventi accidentali tali da poter aver determinato una contaminazione del materiale. Anzi le analisi svolte nel 2011 dopo il sopralluogo da cui ha tratto origine il procedimento penale, hanno consentito di accertare che il materiale prelevato era contaminato da composti organo-stannici in misura superiore al livello chimico di base, con una importante percentuale di pelite (59%).
E in ogni caso, ha aggiunto il Giudice anconetano in merito al fondamento della responsabilità del ricorrente, prima dell’autorizzazione non era stata effettuata alcuna verifica per stabilire la compatibilità chimico-fisica dei sedimenti delle due aree, così come imposto dal par. 3.6 della richiamata Delibera n. 255/2009.
Solo dopo aver individuato, con un ragionamento logico immune da censure, presupposti della responsabilità penale del ricorrente, il Tribunale si è fatto carico di affrontare la tesi di un’eventuale induzione in errore di Marzialetti da parte degli operatori, che avrebbero spostato materiale diverso da quello previsto, affermando che questa tesi non era idonea a escludere la responsabilità del ricorrente, posto che questi non avrebbe comunque dovuto autorizzare l’operazione, anche per come prospettata, in ragione del fatto che la zona di destinazione non era stata individuata in area immediatamente contigua a quella dragata e non era stata svolta alcuna verifica sulla compatibilità dei sedimenti.
E fermo restando che alle analisi svolte non poteva essere assegnata validità ultrannuale, avendo ammesso lo stesso imputato, nel corso del suo esame dibattimentale, che le schede di bacino non erano state ancora approvate.
Le censure difensive, anche rispetto all’ipotesi alternativa affrontata dal primo Giudice, appaiono comunque manifestamente infondate, avendo la sentenza impugnata dato conto adeguatamente dei profili di colpa del ricorrente e della riconducibilità degli sversamenti al provvedimento autorizzatorio di Marzialetti, aspetti questi non suscettibili di essere messi in discussione dalla tesi, peraltro eventuale, di un’induzione in errore del dirigente regionale, che invero aveva un dovere di controllo non solo formale sulla correttezza delle operazioni, e dunque anche rispetto alla tipologia del materiale che avrebbe dovuto essere sversato.
E senza sottacere in ogni caso che, come ben messo in evidenza dal Tribunale, l’operato del ricorrente presenta connotazioni di illegittimità che prescindono dalla diversità del materiale dragato e dunque dall’ipotetica induzione in errore.
1.5 Manifestamente infondato è anche il settimo motivo di ricorso, dovendosi escludere la dedotta illogicità e contraddittorietà della motivazione della sentenza in relazione al giudizio sul non corretto esercizio del potere di controllo da parte del ricorrente, limitandosi la doglianza difensiva (peraltro generica e speculare a quelle sollevate nei due motivi precedenti), a proporre una diversa valutazione giuridica della vicenda, che tuttavia non ha trovato rispondenza nella sentenza impugnata, in forza di un discorso logico-giuridico immune da censure, avendo il Giudice di primo grado correttamente fondato la responsabilità penale di Marzialetti sul rilievo delle significative violazioni (ben descritte nella sentenza impugnata e in precedenza già richiamate) della procedura autorizzatoria seguita dall’imputato in spregio delle prescrizioni regolamentari all’epoca vigenti, essendo stata ribadita altresì la natura non scusante delle eventuali falsi attestazioni degli operatori privati. Le prospettazioni contrarie, come si è visto, sono state dunque affrontate dal primo Giudice, per essere di volta in volta superate con argomenti razionali e persuasivi.
Né l’obiezione difensiva sull’esistenza di ulteriori poteri di controllo appare idonea a escludere l’autonoma rilevanza della condotta del ricorrente, al quale spettava il compito di verificare. per primo. il corretto operato dei soggetti controllati, la cui assoluzione, peraltro, non appare decisiva rispetto alla posizione di Marzialetti.
1.6 È manifestamente infondato anche l’ottavo motivo, l’ultimo concernente l’affermazione del giudizio di colpevolezza del ricorrente.
Deve evidenziarsi al riguardo che, rispetto alle doglianze relative alla validità delle analisi compiute dalle dr.ssa Siciliani, la sentenza impugnata contiene già delle risposte esaustive, avendo il primo Giudice osservato, con motivazione logica, che la dr.ssa Siciliani, persona di comprovata esperienza, in servizio presso un ente pubblico (l’A.R.P.A.M.), ha agito nel rispetto nella normativa vigente, essendo condivisibile la sua scelta di effettuare il prelievo dal materiale dragato, anziché operare sul fondale, non trattandosi di effettuare una nuova caratterizzazione, bensì una verifica di ciò che di fatto si andava a movimentare. Peraltro, al fine di sgombrare il campo da equivoci, il Giudice marchigiano ha aggiunto che, ove pure venga messo in discussione il risultato delle analisi, la responsabilità del ricorrente rimane comunque configurabile alla luce delle ulteriori violazioni connesse all’individuazione della zona di destinazione e all’omessa verifica della compatibilità chimica dei sedimenti delle due aree, aspetti questi comunque idonei a integrare l’elemento costitutivo della fattispecie di cui all’art. 256 del d. lgs. 152/2006, ovvero la gestione illegittima di rifiuti, mentre, quanto all’ulteriore contestazione avente ad oggetto il reato di getto pericoloso di cose, la sentenza ha dato conto della constatazione dei militari del N.O.E., i quali avevano descritto un fenomeno di evidente intorbidimento delle acque marine, senz’altro idoneo a integrare il reato ex art. 674 cod. pen.
1.8 Dunque può concludersi che motivi sull’accertamento della responsabilità penale del ricorrente in ordine alle due fattispecie oggetto di imputazione sono manifestamente infondati, apparendo altresì destituita di fondamento la doglianza evocata nella memoria difensiva depositata il 13 ottobre 2017, relativa alla presunta incostituzionalità dell’art. 593 comma 3 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede l’appellabilità delle sentenze di condanna alla sola pena dell’ammenda, laddove le stesse abbiano anche definitivamente pronunciato sulle statuizioni civili, atteso che, come ricordato anche dal ricorrente, già in altre occasioni questa Corte ha evidenziato ( cfr. Sez. 3, n. 8340 del 18.12.2000, Rv. 218194 e Sez. 3, n. 1552 del 14/11/2002 Rv. 223271) che il diritto all’appello non è stato costituzionalizzato, per cui tale mezzo di impugnazione può essere ragionevolmente escluso dal legislatore nei casi di condanna per contravvenzione alla sola pena dell’ammenda, a prescindere dall’esistenza o meno di una statuizione civile nella sentenza di primo grado.
2. Sono invece fondati il nono e il decimo motivo del ricorso.
Con riferimento al nono motivo, occorre evidenziare che, nella memoria depositata il 7 aprile 2016, data della discussione, il difensore sollecitava in via subordinata l’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis cod. pen., in considerazione della mancata prova che il materiale precedentemente sversato fosse stato inquinato e dunque della particolare tenuità del fatto.
Allo stesso modo (ed è la doglianza sollevata con il decimo motivo) nella medesima memoria depositata all’udienza del 7 aprile 2016, veniva invocata anche la concessione delle attenuanti generiche, motivata dalla considerazione del leale contegno processuale di Marzialetti, che era stato l’unico imputato a sottoporsi all’esame, nonostante le comprovate condizioni di salute.
Orbene a tali richieste la sentenza impugnata non ha dato alcun tipo di riscontro, sebbene abbia riconosciuto, nel motivare la liquidazione del danno alla parte civile, "l’assenza di prova certa di pregiudizio reale all’ecosistema della zona imbratta", profilo questo che avrebbe astrattamente potuto giustificare il riconoscimento o dell’art. 131 bis cod. pen. o almeno delle attenuanti generiche. L’omessa risposta del Giudice di primo grado in ordine alle due richieste difensive sopra citate, tempestivamente proposte e oggettivamente non pretestuose, integra pertanto un evidente vizio della motivazione della sentenza impugnata. Dall’accoglimento dei motivi di ricorso in esame discende l’annullamento senza rinvio della pronuncia gravata, dovendosi prendere atto che i reati contestati, aventi entrambi natura contravvenzionale, risultano estinti per prescrizione.
L’epoca di commissione dei reati è infatti indicata in rubrica nel 22 agosto 2011, dovendosi aggiungere al termine quinquennale di prescrizione (decorso il 22 agosto 2016) l’ulteriore periodo di 10 mesi e 21 giorni per le due sospensioni della prescrizione dichiarate in primo grado dal 20 marzo all’ll dicembre 2014 per l’astensione dei difensori e dall’11 dicembre 2014 al 19 marzo 2015 per legittimo impedimento di Marzialetti (sospensione quest’ultima computabile comunque in 60 giorni, in forza del principio formulato dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 4909 del 18/12/2014, Rv. 262913).
Il termine massimo di prescrizione risulta quindi maturato il 14 luglio 2017, non potendosi tener conto invece del rinvio disposto dal 10 dicembre 2015 al 7 aprile 2016, per il quale invero non è stata dichiarata la sospensione della prescrizione. Al di là di quest’ultimo aspetto, in sé non dirimente, deve comunque evidenziarsi che, come emerge dalla lettura della trascrizione fonografica dell’udienza, il rinvio del 10 dicembre 2015 è stato sollecitato dal Pubblico Ministero che, appena esaurita la fase istruttoria, aveva chiesto al Giudice di poter rivedere con maggiore calma gli atti di causa, comprese le trascrizioni delle testimonianze raccolte quel giorno, prima di rassegnare le proprie conclusioni; dopo una iniziale proposta di concedere un rinvio orario, il Giudice, nulla opponendo le difese, alla fine concedeva il rinvio del processo ad altra data, lasciando chiaramente intendere che, ove pure il Pubblico Ministero avesse discusso, comunque non avrebbe avuto luogo la fase deliberativa, stante la complessità del processo.
Tale differimento invero non appare idoneo a determinare la sospensione della prescrizione, in quanto richiesto da una parte diversa dall’imputato, non avendo questi o il suo difensore espressamente aderito al rinvio e non potendosi l’adesione desumere dal fatto che non vi sia stata una formale opposizione alla richiesta di rinvio (sul punto v. la recentissima Sez. 3, n. 51589 del 28.09.2017).
3. La sentenza impugnata deve essere pertanto annullata essendo i reati estinti per prescrizione, con conferma invece delle statuizioni civili, posto che sono state dichiarate inammissibili perché manifestamente infondate le censure difensive relative all’accertamento della responsabilità penale del ricorrente, oltre che alla validità della costituzione di parte civile del Comitato "Mare libero".
Deve solo aggiungersi che si è proceduto alla rettifica del ruolo di udienza, nel senso che, ove per mero errore è stato scritto "il reato è estinto", deve leggersi e intendersi "i reati sono estinti".
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché reati sono estinti per intervenuta prescrizione. Conferma le statuizioni civili.
Così deciso il 30/10/2017