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Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime | Categoria: Rifiuti Numero: 24100 | Data di udienza: 16 Maggio 2012

* RIFIUTI – Gestione dei rifiuti – Prescrizioni contenute nel titolo abilitativo – Violazione – Effetti – Permanenza del reato – Fattispecie – Art. 256, c.4, d. Lgs. n. 152/2006.


Provvedimento: Sentenza
Sezione: 3^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 18 Giugno 2012
Numero: 24100
Data di udienza: 16 Maggio 2012
Presidente: De Maio
Estensore: Franco


Premassima

* RIFIUTI – Gestione dei rifiuti – Prescrizioni contenute nel titolo abilitativo – Violazione – Effetti – Permanenza del reato – Fattispecie – Art. 256, c.4, d. Lgs. n. 152/2006.



Massima

 

 

CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^ 18 Giugno 2012 (Ud. 16/5/2012) Sentenza n. 24100

RIFIUTI – Gestione dei rifiuti – Prescrizioni contenute nel titolo abilitativo – Violazione –  Effetti – Permanenza del reato – Fattispecie – Art. 256, c.4, d. Lgs. n. 152/2006.
 
In materia di rifiuti, qualora la violazione delle prescrizioni imposte dal provvedimento amministrativo non consista soltanto in puntuali inosservanze di modalità con le quali deve essere svolta l’attività (che possano essere eliminate in qualsiasi momento senza particolari interventi), bensì derivi dalla mancata realizzazione di un’opera che sia stata prescritta come condizione per lo svolgimento della attività stessa, il reato di cui all’art. 256, comma 4, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, deve ritenersi permanente, essendo punita la protrazione della specifica condotta di smaltimento, recupero, trasporto od altro senza l’osservanza della prescrizione che imponeva la realizzazione dell’opera. Nella fattispecie, il titolare di una ditta di demolizione, custodia e recupero di autoveicoli, non aveva osservato le prescrizioni dell’ordinanza della autorità amministrativa, ed in particolare non aveva dotato l’impianto di idonea barriera di protezione con siepi e alberatura sempreverde, non aveva separato l’area addetta alla custodia da quella di recupero, non aveva stoccato gli pneumatici in apposito bacino di contenimento.
 
(conferma sentenza emessa l’11.3.2011 dal giudice del tribunale di Rossano) Pres. De Maio, Est. Franco, Ric. Pecora

 


Allegato


Titolo Completo

CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^ 18 Giugno 2012 (Ud. 16/5/2012) Sentenza n. 24100

SENTENZA

 

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
 
Composta dagli Ill.mi Sigg.:
 
1. Dott. Guido De Maio – Presidente
2. Dott. Aldo Fiale – Consigliere
3. Dott. Amedeo Franco – Consigliere Rel.
4. Dott. Giulio Sarno – Consigliere
5. Dott. Gastone Andreazza – Consigliere
 
ha pronunciato la seguente
 
SENTENZA
 
– sul ricorso — erroneamente qualificato come appello — proposto da Pecora Paolo, nato a Crosia i12.1.1968;
– avverso la sentenza emessa l’11.3.2011 dal giudice del tribunale di Rossano;
– udita nella pubblica udienza del 16 maggio 2012 la relazione fatta dal Consigliere Amedeo Franco;
– udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Sante Spinaci, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
– udito il difensore avv. Giovanni Tedesco in sostituzione dell’avv. Vincenzo Arcangelo;
 
Svolgimento del processo
 
Con la sentenza in epigrafe il giudice del tribunale di Rossano dichiarò Pacora Paolo colpevole del reato di cui all’art. 51, comma 4, d. lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (ora art. 256, comma 4, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152) – perché, quale titolare di una ditta di demolizione, custodia e recupero di autoveicoli, non aveva osservato le prescrizioni dell’ordinanza della autorità amministrativa, ed in particolare non aveva dotato l’impianto di idonea barriera di protezione con siepi e alberatura sempreverde, non aveva separato l’area addetta alla custodia da quella di recupero, non aveva stoccato gli pneumatici in apposito bacino di contenimento (reato accertato il 16.7, 1’8.9 e il 22.9.2004) – e lo aveva condannato alla pena di € 4.000,00 di ammenda. Il giudice ritenne che si trattava di reato permanente, richiamando una decisione di questa Corte.
 
L’imputato propone, a mezzo dell’avv. Vincenzo Arcangelo e dell’avv. Francesco Coppola, ricorso per cassazione – erroneamente qualificato come appello – deducendo violazione di legge, contraddittorietà della motivazione e travisamento del fatto. Osserva che si tratta di violazioni meramente formali alle prescrizioni della ordinanza commissariale, accertate nel 2004 ed eliminate successivamente in occasione del rinnovo della autorizzazione nel 2005, sicché il reato é comunque prescritto. 
 
Quanto alla prima violazione, osserva che l’attività si svolge in un locale chiuso, distante circa 200 metri dalla strada, e delimitata da un muro di cemento alto oltre due metri, idoneo ad impedire impatti visivi o inquinamenti acustici. In ogni modo, dopo il primo accertamento sono state impiantate siepi ed alberature sempre verdi. 
 
Osserva poi che la seconda autorizzazione del 27.5.2005 era stata rilasciata a seguito di idoneo sopralluogo del funzionari regionali, e nella stessa si dava atto dell’esito positivo del sopralluogo effettuato nel marzo 2005 e del parere favorevole al rilascio del rinnovo. Per contro, gli ispettori della provincia che avevano effettuato il primo accertamento nel 2004 hanno dichiarato in dibattimento di non essersi più recati sul posto in seguito. Quanto alla separazione tra veicoli da custodire e quelli da demolire, osserva che gli ispettori nel 2004 non avevano accertato a quale categoria appartenessero i veicolo rinvenuti nella prima area, ma avevano operato una mera supposizione su circostanze non utilizzabili, perché riferite dallo stesso imputato. 
 
Quanto agli pneumatici, osserva che le dichiarazioni degli ispettori erano state generiche e poco chiare, mentre risulta dai registri che gli pneumatici erano smontati e rivenduti. 
 
Lamenta infine che illogicamente il giudice ha ritenuto che la documentazione proveniente dalla regione Calabria fosse non idonea a dimostrare la cessazione della permanenza e l’avvenuta prescrizione del reato.
 
Motivi della decisione
 
Il Collegio ritiene che il ricorso si risolva in una censura in punto di fatto della decisione impugnata, con la quale si richiede una nuova e diversa valutazione delle risultanze processuali riservata al giudice del merito e non consentita in questa sede di legittimità, ed é comunque manifestamente infondato.
 
Difatti, il punto decisivo del giudizio consiste nello stabilire se e quando l’imputato, dopo l’accertamento, avesse adempiuto alle prescrizioni dalla autorità amministrativa, e quindi se la permanenza del reato fosse cessata in una data anteriore a quella della sentenza di primo grado.
 
Deve invero confermarsi il principio che, qualora la violazione delle prescrizioni imposte dal provvedimento amministrativo non consista soltanto in puntuali inosservanze di modalità con le quali deve essere svolta l’attività (che possano essere eliminate in qualsiasi momento senza particolari interventi), bensì derivi dalla mancata realizzazione di un’opera che sia stata prescritta come condizione per lo svolgimento della attività stessa, il reato di cui all’art. 256, comma 4, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, deve ritenersi permanente, essendo punita la protrazione della specifica condotta di smaltimento, recupero, trasporto od altro senza l’osservanza della prescrizione che imponeva la realizzazione dell’opera (cfr. Sez. III, 14.4.2005, n. 16890, Gallucci, m. 231649, la quale, con riferimento alla prescrizione di pavimentare l’area di stoccaggio dei rifiuti entro un certo termine, ritenne che il reato permaneva anche dopo la scadenza del termine). Pertanto, se potrebbe ritenersi che spetti all’accusa provare che, dopo l’accertamento, il soggetto abbia continuato a svolgere l’attività con modalità diverse da quelle previste, quando invece la prescrizione riguardi – come nel caso di specie – la realizzazione di un’opera o di un intervento, o l’utilizzazione di un macchinario speciale o casi del genere (come la pavimentazione di un’area o come, nella specie, la recinzione dell’impianto con una adeguata barriera di protezione ambientale, realizzata con siepi e alberatura sempreverde e d’alto fusto), spetta invece all’interessato provare che la permanenza del reato é cessata con la realizzazione dell’opera o dell’intervento.
 
Nel caso in esame, il giudice, con una apprezzamento di fatto adeguatamente e congruamente motivato, e quindi non censurabile in questa sede, ha appunto ritenuto che l’imputato non avesse fornito tale prova e che anzi vi fosse la prova contraria, in quanto il teste Tedesco, all’epoca consulente dell’imputato ed incaricato della relazione tecnica necessaria per il rinnovo della autorizzazione regionale, aveva dichiarato che anche in seguito non era stata realizzata la barriera di protezione ambientale con siepi e alberatura sempreverde e d’alto fusto, e che sotto questo profilo l’imputato non si era conformato alle prescrizioni al riguardo dell’ordinanza. Il giudice ha invece ritenuto non attendibili le diverse dichiarazioni dei testi Calarota e Chiarelli. Allo stesso modo, il giudice ha ritenuto che l’imputato non aveva provato nemmeno di avere provveduto a recintare l’area in cui veniva svolta l’attività di custodia per separarla da quella di svolgimento della attività di recupero. Il giudice ha altresì osservato che la prova dell’avvenuto adempimento delle suddette prescrizioni non poteva automaticamente desumersi dalla emissione della successiva ordinanza n. 3493 del 2005, con la quale era stata rinnovata all’imputato l’autorizzazione allo svolgimento della attività, perché da essa non emergeva in alcun modo che le prescrizioni fossero state rispettate ed anzi l’ordinanza imponeva le medesime prescrizioni previste dalla ordinanza precedente, dal che poteva presumersi esse fossero state reiterate perché l’imputato non aveva ancora realizzato la barriera di protezione con siepi e alberatura sempreverde d’alto fusto e la recinzione dell’area per la custodia dei veicoli. Si tratta di una valutazione non manifestamente illogica e che quindi non può essere sostituita in questa sede di legittimità da una diversa valutazione più favorevole alla tesi della difesa.
 
Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza dei motivi.
 
In applicazione dell’art. 616 cod. proc. pen., segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi che possano far ritenere non colpevole la causa di inammissibilità del ricorso, al pagamento in favore della cassa delle ammende di una somma, che, in considerazione delle ragioni di inammissibilità del ricorso stesso, si ritiene congruo fissare in € 1.000,00.
 
Per questi motivi
 
La Corte Suprema di Cassazione
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.
 
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 16 maggio 2012.
 

 

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