Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime |
Categoria: Danno ambientale,
Diritto urbanistico - edilizia,
Pubblica amministrazione
Numero: 3067 |
Data di udienza: 8 Settembre 2016
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Progettista – False attestazioni contenute nella relazione di accompagnamento alla dichiarazione di inizio di attività edilizia (D.I.A.) – Reato di falsità ideologica in certificati – Persone esercenti un servizio di pubblica necessità – Articolo 481 Codice Penale – Attestazione sullo stato dei luoghi e la conformità delle opere realizzande agli strumenti urbanistica – Art. 23, 44, c.1, lett.b) d.P.R. n. 380/2001 – Reato di falsità ideologica in certificati – Natura plurioffensiva dei delitti contro la fede pubblica e legittimazione alla costituzione di parte civile – Tutela dell’ambiente e del territorio – RISARCIMENTO DEL DANNO – Diritto del Comune al risarcimento del danno sia per il reato edilizio sia per il connesso reato di falso – Permanenza del reato di edificazione abusiva – Momento conclusivo della fattispecie – Ininterrotto utilizzo abitativo del bene – Giudice civile determinazione del momento consumativo del reato di abuso edilizio – Limite alle statuizioni civili – Estinzione del reato.
Provvedimento: Sentenza
Sezione: 3^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 23 Gennaio 2017
Numero: 3067
Data di udienza: 8 Settembre 2016
Presidente: CARCANO
Estensore: ANDRONIO
Premassima
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Progettista – False attestazioni contenute nella relazione di accompagnamento alla dichiarazione di inizio di attività edilizia (D.I.A.) – Reato di falsità ideologica in certificati – Persone esercenti un servizio di pubblica necessità – Articolo 481 Codice Penale – Attestazione sullo stato dei luoghi e la conformità delle opere realizzande agli strumenti urbanistica – Art. 23, 44, c.1, lett.b) d.P.R. n. 380/2001 – Reato di falsità ideologica in certificati – Natura plurioffensiva dei delitti contro la fede pubblica e legittimazione alla costituzione di parte civile – Tutela dell’ambiente e del territorio – RISARCIMENTO DEL DANNO – Diritto del Comune al risarcimento del danno sia per il reato edilizio sia per il connesso reato di falso – Permanenza del reato di edificazione abusiva – Momento conclusivo della fattispecie – Ininterrotto utilizzo abitativo del bene – Giudice civile determinazione del momento consumativo del reato di abuso edilizio – Limite alle statuizioni civili – Estinzione del reato.
Massima
CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^ 23/01/2017 (Ud. 08/09/2016) Sentenza n.3067
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Progettista – False attestazioni contenute nella relazione di accompagnamento alla dichiarazione di inizio di attività edilizia (D.I.A.) – Reato di falsità ideologica in certificati – Persone esercenti un servizio di pubblica necessità – Articolo 481 Codice Penale – Attestazione sullo stato dei luoghi e la conformità delle opere realizzande agli strumenti urbanistica – Art. 23, 44, c.1, lett.b) d.P.R. n. 380/2001.
Le false attestazioni contenute nella relazione di accompagnamento alla dichiarazione di inizio di attività edilizia integrano il reato di falsità ideologica in certificati (art. 481 cod, pen.), in quanto detta relazione ha natura di certificato in ordine alla descrizione dello stato attuale dei luoghi, alla ricognizione degli eventuali vincoli esistenti sull’area o sull’immobile interessati dall’intervento, alla rappresentazione delle opere che si intende realizzare e all’attestazione della loro conformità agli strumenti urbanistici ed ai regolamento edilizio. E, più in particolare, va ribadito che, rispetto alla d.i.a.. assume la qualità di persona esercente un servizio di pubblica necessità e risponde, quindi, del reato di falsità ideologica in certificati, il progettista che, nella relazione iniziale di accompagnamento di cui all’art. 23, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, renda false attestazioni, sempre che le stesse riguardino lo stato dei luoghi e la conformità delle opere realizzande agli strumenti urbanistici e non anche la mera intenzione del committente o la futura eventuale difformità di quest’ultima rispetto a quanto poi in concreto realizzato. Nella specie: la falsa attestazione riguardava lo stato dei luoghi e non l’intenzione del committente di realizzare una certa tipologia di opere o l’eventuale futura difformità di quanto realizzato rispetto a quanto progettato.
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Reato di falsità ideologica in certificati – Natura plurioffensiva dei delitti contro la fede pubblica e legittimazione alla costituzione di parte civile – Tutela dell’ambiente e del territorio – DANNO AMBIENTALE – Diritto del Comune al risarcimento del danno sia per il reato edilizio sia per il connesso reato di falso.
I delitti contro la fede pubblica, per la loro natura plurioffensiva, tutelano direttamente non solo l’interesse pubblico alla genuinità materiale e alla veridicità ideologica di determinati atti, ma anche quello dei soggetti sulla cui sfera giuridica l’atto sia destinato a incidere concretamente, con la conseguenza che essi, in tal caso, sono legittimati a costituirsi parte civile (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 2511 del 16/10/2014 Ud., dep. 21/01/2015). Pertanto, la legittimazione alla costituzione di parte civile sussiste non solo per i reati urbanistici o ambientali, ma anche per i reati commessi in occasione o con la finalità di violare normative dirette alla tutela dell’ambiente e del territorio (Sez. 5, Sentenza n. 2076 del 05/12/2008 Ud., dep. 20/01/2009). Nella specie: sia il Tribunale e la Corte d’appello hanno ritenuto sussistente il diritto del Comune al risarcimento del danno sia per il reato edilizio di cui al capo A, sia per il connesso reato di falso di cui al capo E.
DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Permanenza del reato di edificazione abusiva – Momento conclusivo della fattispecie – Ininterrotto utilizzo abitativo del bene – Giudice civile determinazione del momento consumativo del reato di abuso edilizio – Limite alle statuizioni civili – Estinzione del reato.
La permanenza del reato di edificazione abusiva termina, con conseguente consumazione della fattispecie, o nel momento in cui, per qualsiasi causa volontaria o imposta (ad esempio, il sequestro del manufatto), cessano o vengono sospesi i lavori abusivi, ovvero, se i lavori sono proseguiti anche dopo l’accertamento e fino alla data del giudizio, in quello della emissione della sentenza di primo grado. Ne consegue che, ai fini dell’individuazione del momento di cessazione dei lavori, il completamento dell’opera con tutte le rifiniture interne ed esterne costituisce solo un elemento sintomatico, che, se utile nella normalità dei casi, non consente di escludere ipotesi marginali in cui la permanenza sia terminata anche senza l’ultimazione dell’opera nel senso anzidetto, come ad esempio quando risulti l’ininterrotto utilizzo abitativo del bene comprovato dalla attivazione delle utenze necessarie. Ciò che conta, è dunque l’ininterrotto utilizzo abitativo del bene, del quale l’attivazione delle utenze è solo uno degli elementi sintomatici e non è da solo sufficiente a far ritenere cessata la permanenza, ben potendosi dare il caso di attivazione delle utenze a lavori ancora in corso. Il giudice civile, in applicazione dei principi sopra enunciati in relazione alla determinazione del momento consumativo del reato di abuso edilizio, dovrà preventivamente valutare se l’estinzione del reato sia maturata prima della pronuncia di primo grado. Infatti, se l’estinzione del reato è maturata prima della pronuncia di primo grado, il giudice di secondo grado – ivi compreso quello di rinvio – non può pronunciarsi sulle statuizioni civili (Cass. pen., sez. un., 11/07/2006, n. 25083).
(riforma sentenza del 14/01/2015 della CORTE APPELLO di TORINO) Pres. CARCANO, Rel. ANDRONIO, Ric. PG in proc. Conti ed altri
Allegato
Titolo Completo
CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^ 23/01/2017 (Ud. 08/09/2016) Sentenza n.3067
SENTENZA
CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^ 23/01/2017 (Ud. 08/09/2016) Sentenza n.3067
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
omissis
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da PROCURATO REGENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI TORINO
nei confronti di:
CONTI PIERO nato il 24/03/1957 a TORINO
FALLETTI DANIELE nato il 29/10/1957 a ASTI
ALESSANDRIA CLAUDIA nato il 07/03/1966 a TORINO
MANFREDI VITTORIO nato il 09/12/1948 a ROBASSOMERO
ACCOSSATO DAVIDE nato il 18/01/1973 a TORINO
inoltre:
ALESSANDRIA CLAUDIA nato il 07/03/1966 a TORINO
MANFREDI VITTORIO nato il 09/12/1948 a ROBASSOMERO
avverso la sentenza del 14/01/2015 della CORTE APPELLO di TORINO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 08/09/2016, la relazione svolta dal Consigliere ALESSANDRO MARIA ANDRONIO
Udito il Procuratore Generale in persona del ANTONIO BALSAMO che ha concluso annullamento con rinvio della sentenza impugnata, in relazione al reato del capo A), in accoglimento del ricorso del Procuratore Generale; per l’inammissibilità dei ricorsi di Manfredi e Alessandria;
Udito il difensore Avv. Marcello Gori, per Alessandria.
RITENUTO IN FATTO
1. – Con sentenza del 28 gennaio 2013, il Tribunale di Asti ha – per quanto qui rileva – condannato gli imputati Conti, Falletti, Alessandria, Manfredi, per il reato di cui all’art. 44, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001, perché: Conti come legale rappresentante della società titolare del permesso di costruire e committente, Falletti come committente, Alessandria come direttore dei lavori, realizzavano abusivamente una villa unifamiliare, cominciando i lavori prima de! rilascio del permesso di costruire e con permesso di costruire in contrasto con le norme urbanistiche, senza presentazione del d.u.r.c., e con difformità rispetto al permesso di costruire (Capo A dell’imputazione; con attività non ancora esaurita nel 2010). Ha condannato Alessandria, per il reato di cui all’art. 481 cod. pen., per avere falsamente rappresentato, nella tavola n. 1 del progetto redatto nell’ottobre 2006 e allegato alla domanda di permesso di costruire del fabbricato, il profilo esistente della collina e le quote altimetriche; cosicché il piano interrato sarebbe risultato interrato, mentre se il profilo della collina fosse stato indicato correttamente, buona parte del piano apparentemente interrato sarebbe risultata fuori terra e, dunque, computabile ai fini dei limiti alla cubatura edificabile (capo E). Ha altresì condannato Manfredi per avere falsamente rappresentato, nella tavola n. 3 del progetto redatto nel febbraio 2010 e allegato alla d.I.a. in variante al permesso di costruire del fabbricato, il profilo esistente della collina e le quote altimetriche; cosicché il piano interrato sarebbe risultato interrato, mentre se il profilo della collina fosse stato indicato correttamente, buona parte del piano apparentemente interrato sarebbe risultata fuori terra e, dunque, computabile ai fini dei limiti alla cubatura edificabile (capo F).
Gli imputati sono stati anche condannati anche al risarcimento del danno subito dal Comune di Soglio, costituitosi parte civile.
Ha dichiarato non doversi procedere, per essere il reato estinto per prescrizione, nei confronti di Accossato, quanto allo stesso capo A dell’imputazione, a lui contestato nella sua qualità di responsabile dell’ufficio tecnico comunale che aveva rilasciato il permesso di costruire, in relazione alle opere abusive di cui sopra (con attività non ancora esaurita nel 2011).
Con sentenza del 14 gennaio 2015, la Corte d’appello di Torino ha dichiarato non doversi procedere nei confronti degli imputati Conti, Falletti, Alessandria, in ordine al reato di cui al capo A dell’imputazione per essere lo stesso estinto per prescrizione a far data dal dicembre 2012 (ovvero da un momento anteriore alla pronuncia della sentenza di primo grado); ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di Alessandria quanto al reato di cui al capo E, per essere lo stesso estinto per prescrizione a far data dall’aprile 2014 (ovvero da un momento successivo alla pronuncia della sentenza di primo grado); ha conseguentemente revocato le statuizione civili contenute nella sentenza di primo grado relativamente al reato di cui al capo A; ha revocato l’ordine di demolizione del manufatto; ha confermato nel resto la sentenza impugnata, con esclusione della subordinazione della sospensione condizionale della pena concessa a Manfredi alla demolizione del manufatto e alla remissione in pristino.
2. – Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Torino, deducendo, con unico motivo di doglianza, l’erroneo calcolo della prescrizione a norma dell’art 157 cod. pen., in relazione al reato di cui al capo A dell’imputazione (art. 44, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001). Rileva ricorrente che la Corte territoriale ha sostenuto che vi fosse prova documentale del fatto che, al mese di dicembre 2007, l’immobile era ultimato, le utenze per l’utilizzo di gas, acqua, corrente elettrica erano già state attivate e venivano corrisposti gli importi relativi ai consumi; mentre mancherebbe la prova dell’accusa che dimostri che i lavori erano proseguiti oltre il dicembre 2007. Su questo assunto, la Corte d’appello aveva concluso che il reato sia prescritto per tutti gli imputati al dicembre 2012 e, dunque, prima della pronuncia della sentenza di primo grado. Il pubblico ministero sostiene che l’attivazione delle utenze non ha rilievo ai fini della cessazione della permanenza, perché la stessa cessa solo quando risulti l’ininterrotto utilizzo abitativo del bene. E dalla documentazione fotografica in atti risulterebbe pacifico che l’immobile non fosse abitato, anche perché non ultimato, quantomeno fino all’aprile 2011; con la conseguenza che lo stato di permanenza della violazione sarebbe cessato solo con la sottoposizione dell’immobile a sequestro, in data 16 aprile 2011.
3. – La sentenza è stata impugnata anche nell’interesse dell’imputato Manfredi, per violazione di legge e manifesta illogicità della motivazione quanto alla condanna per il reato di cui al capo F (art. 481 cod. pen.), contestato all’imputato per avere falsamente rappresentato, nella tavola n. 3 del progetto redatto nel febbraio 2010 e allegato alla d.i.a. in variante al permesso di costruire del fabbricato, il profilo esistente della collina e le quote altimetriche; cosicché il piano interrato risulterebbe interrato, mentre se il profilo della collina fosse stato indicato correttamente, buona parte del piano apparentemente interrato sarebbe risultata fuori terra e, dunque, computabile ai fini dei limiti alla cubatura edificabile. La difesa deduce la sostanziale inutilità del falso, sul rilievo che, al momento della presentazione della d.i.a., il Corpo forestale e il Comune avevano già contestato la realizzazione dell’abuso edilizio, censurando proprio la differenza di quote. Il comportamento dell’imputato sarebbe stato, peraltro, frutto di un errore, dovuto all’avere copiato integralmente il progetto di Alessandria. Non si sarebbe considerato, inoltre, elle la planimetria allegata alla d.i.a. non Ila natura di certificato, perché la stessa rifletterebbe non una realtà oggettiva, bensì una semplice intenzione, cioè un giudizio espresso dall’agente scevro da un contenuto apprezzabilmente valutabile sotto il profilo del dolo.
4. – Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione anche il difensore dell’imputata Alessandria, in riferimento alla conferma delle statuizioni civili, a fronte della dichiarazione d’intervenuta prescrizione dei reati di cui ai capi A ed E dell’imputazione. Si sostiene che la sentenza avrebbe omesso di citare l’esatta dizione utilizzata dalla commissione edilizia, che non avrebbe considerato che l’imputata, nel progetto presentato, aveva evidenziato le quote altimetriche assunte dalla committenza, relative all’area interessata dall’intervento e aveva addirittura predisposto un plastico per la migliore illustrazione delle caratteristiche del progetto. Si sostiene, altresì, che l’amministrazione non era legittimata a costituirsi parte civile in relazione al capo E dell’imputazione, perché il bene-interesse giuridico tutelato dall’art. 481 cod. pen. è la fede pubblica. La relativa eccezione era stata rigettata con ordinanza del Tribunale di Asti del 9 febbraio 2012, che si era però concentrata sul solo reato di abuso edilizio. Il Tribunale avrebbe dovuto, invece, specificare rispetto a quale capo di imputazione vi fosse un diritto risarcimento del danno in favore della persona offesa costituitasi parte civile. E nella sentenza d’appello non si sarebbe riportato che la difesa aveva più volte richiesto la revoca delle statuizioni civili, mentre la Corte d’appello non aveva vagliato la responsabilità dell’imputata con riferimento al capo E. La Corte d’appello non avrebbe neanche chiarito sufficientemente i profili di illegittimità del procedimento seguito nel caso di specie, perché non si sarebbe tenuto conto del fatto che il consulente del pubblico ministero non era stato sentito in merito. Non si sarebbe considerato, inoltre, che le misurazioni si riferivano «alla differenza tra quanto costruito e quanto realizzato, non al progettato rispetto alla situazione reale ex ante». Si sostiene, a tale proposito, che l’area era stata già edificata e non era stata oggetto di reinterro, «laddove, peraltro, lo scavo delle fondazioni, allorquando è stato effettuato, non ha visto la partecipazione dell’arch. Alessandria», la quale non era un tecnico compiacente e non era consapevole del preteso abuso che avrebbe concorso ad effettuare. Inoltre, non si sarebbe tenuto conto del fatto che l’abuso edilizio era stato contestato anche per il mancato rispetto del permesso di costruire; né l’arch. Curti, presso cui l’imputata lavorava, che era anche membro della Commissione edilizia comunale, era stato destinatario di contestazioni di reato. Si lamenta, poi, che nessuna delle persone sentite nel giudizio davanti al Tribunale avrebbe rilevato misure difformi tra quanto progettato e la «situazione ante realizzazione dell’opera»; né sarebbe stata dimostrata la corrispondenza tra la tavola n. 3 redatta dal coimputato Manfredi, allegata alla d .i .a., e la tavola n. 1 redatta dalla Alessandria, allegata alla domanda di permesso di costruire. Quanto alla costituzione di parte civile, si sostiene che le censure contenute nell’atto di appello sarebbero state travisate dalla Corte distrettuale, perché la difesa non aveva contestato che il vicesindaco, in caso di assenza, anche meramente temporanea, fosse legittimato a conferire procura. Aveva invece contestato la mancata rappresentazione nell’atto di condizioni di incompatibilità o di temporaneo impedimento del sindaco, tali da legittimare la sua sostituzione da parte del vicesindaco; tanto più che il soggetto che si era costituito parte civile era il Comune, in persona del proprio legale rappresentante pro tempore e non – come erroneamente rilevato dal Tribunale – D’Auria Claudio, nella sua qualità di vicesindaco pro tempore del Comune. Si lamenta, poi, la mancata esclusione dal fascicolo del dibattimento di due relazioni di sopralluogo, che non avrebbero potuto essere ritenute come atti irripetibili compiuti della polizia giudiziaria; mentre il Tribunale aveva erroneamente considerato tali atti come irripetibili, perché aventi ad oggetto accertamenti urgenti su cose suscettibili di subire modificazioni. Non si sarebbe considerato che tra un sopralluogo e l’altro erano passati ben 21 giorni e che, dunque, tali relazioni non avrebbero potuto essere acquisite al fascicolo del dibattimento senza il consenso delle parti. Si contesta, infine, la mancata audizione dei testimoni della difesa da parte della Corte d’appello, richiesta ai fini dell’applicazione dell’art. 129, comma 2, cod. proc. pen. La difesa precisa che si trattava di testimoni la cui audizione non era stata ammessa in primo grado, per la ritenuta mancanza di una compiuta indicazione di prova contraria ai sensi dell’art. 468, comma 4, cod. proc. pen., non essendo sufficientemente chiarito l’oggetto di tale prova. La difesa sostiene che, in particolare, le audizioni di testimoni Curti e Cisero sarebbero state essenziali quanto all’attività svolta nell’ambito della Commissione edilizia, mentre quella del teste Tolemeto sarebbe stata rilevante ai fini della valutazione della planimetria redatta dall’imputata e dell’attività esecutiva che ne era conseguita.
Con memoria depositata in prossimità dell’udienza davanti a questa Corte, la difesa eccepisce l’inammissibilità del ricorso del Procuratore generale e ribadisce la fondatezza dei motivi di ricorso proposti nell’interesse dell’imputata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
5. – Il ricorso del Procuratore generale, limitato al capo A dell’imputazione e riferito alle posizioni di Conti, Falletti, Alessandria e Accossato, è fondato.
5.1. – Deve premettersi che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, Sez. 3, Sentenza n. 49990 del 04/11/2015 Ud., dep. 18/12/2015, Rv. 265626; Sez. 3, Sentenza n. 29974 del 06/05/2014 Cc., dep. 09/07/2014, Rv. 260498; Sez. 3, n. 43147 del 08/10/2003, Rv. 226498; Sez. 3, n. 8563 del 14/01/2003, Rv. 224980; Sez. 3, n. 38136 del 25/09/2001, Rv. 220351), la permanenza del reato di edificazione abusiva termina, con conseguente consumazione della fattispecie, o nel momento in cui, per qualsiasi causa volontaria o imposta (ad esempio, il sequestro del manufatto), cessano o vengono sospesi i lavori abusivi, ovvero, se i lavori sono proseguiti anche dopo l’accertamento e fino alla data del giudizio, in quello della emissione della sentenza di primo grado. Ne consegue che, ai fini dell’individuazione del momento di cessazione dei lavori, il completamento dell’opera con tutte le rifiniture interne ed esterne costituisce solo un elemento sintomatico, che, se utile nella normalità dei casi, non consente di escludere ipotesi marginali in cui la permanenza sia terminata anche senza l’ultimazione dell’opera nel senso anzidetto, come ad esempio quando risulti l’ininterrotto utilizzo abitativo del bene comprovato dalla attivazione delle utenze necessarie. Ciò che conta, è dunque l’ininterrotto utilizzo abitativo del bene, del quale l’attivazione delle utenze è solo uno degli elementi sintomatici e non è da solo sufficiente a far ritenere cessata la permanenza, ben potendosi dare il caso di attivazione delle utenze a lavori ancora in corso.
5.2. – Come correttamente evidenziato dal Procuratore generale ricorrente, la Corte d’appello non ha fatto corretta applicazione di tali principi, perché ha ritenuto dirimente l’elemento dell’attivazione delle utenze e non ha adeguatamente preso in considerazione la documentazione fotografica in atti, quantomeno al fine di valutare se dalla stessa risultasse che l’immobile non era abitato, anche perché non ultimato, fino all’aprile 2011; e ciò allo scopo di accertare che lo stato di permanenza della violazione non fosse invece cessato solo con la sottoposizione dell’immobile a sequestro, in data 16 aprile 2011.
5.3. – Venendo alla specifica posizione di Accossato, deve rilevarsi che lo stesso è imputato del reato di cui al capo A (la condotta da lui tenuta è descritta, per la precisione, in un capo non indicato con lettera, che si trova nell’imputazione immediatamente dopo il capo F, ma ha lo stesso contenuto del capo A), in relazione al quale il Tribunale aveva già dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato, sul rilievo che la sua condotta si sarebbe esaurita l’8 febbraio 2007, alla data del rilascio del permesso di costruire e dell’accertamento della circostanza che i lavori erano già stati abusivamente iniziati. Il Procuratore generale correttamente evidenzia che la Corte d’appello, nella ricostruzione del fatto, ha sostanzialmente accolto l’appello proposto dal Procuratore della Repubblica in relazione alla posizione di Accossato, per il quale si era comunque ritenuto che il reato di cui al capo A si fosse prescritto nel dicembre 2012, ovvero ancora prima della pronuncia della sentenza di primo grado. Come ben evidenziato dal ricorrente, la Corte d’appello avrebbe dovuto però precisare la ragione per cui il ruolo svolto all’imputato sarebbe cessato 1’8 febbraio 2007, in presenza di un concorso dello stesso in un reato la cui eventuale permanenza oltre tale data non è stata correttamente valutata.
5.4. – La sentenza impugnata deve essere, dunque, annulla, limitatamente all’affermazione dell’avvenuta prescrizione del reato prima della pronuncia della sentenza di primo grado. Deve peraltro rilevarsi che la prescrizione di tale reato, anche a voler ritenere che lo stesso si sia consumato il 16 aprile 2011, è comunque maturata alla data del 27 aprile 2016, perché al termine complessivo di cinque anni, previsto per i reati contravvenzionali (artt. 157, primo comma, e 161, secondo comma, cod. pen.), devono essere aggiunti 11 giorni di sospensione del corso della prescrizione (dal 22 novembre al 3 dicembre 2012). L’annullamento della sentenza può, dunque, avere effetto ai soli fini civili e deve essere pronunciato con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, in relazione alle posizioni di Conti, Falletti, Alessandria, Accossato, non essendo stato proposto ricorso per cassazione in relazione alle posizioni dei coimputati Tasca e Bollati, per i quali la dichiarazione di non doversi procedere per intervenuta prescrizione contenuta nella sentenza di primo grado era già passata in giudicato, in mancanza di appello del pubblico ministero. Il giudice civile, in applicazione dei principi sopra enunciati in relazione alla determinazione del momento consumativo del reato di abuso edilizio, dovrà preventivamente valutare se l’estinzione del reato sia maturata prima della pronuncia di primo grado. Infatti, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, se l’estinzione del reato è maturata prima della pronuncia di primo grado, il giudice di secondo grado – ivi compreso quello di rinvio – non può pronunciarsi sulle statuizioni civili (ex plurimis, Cass. pen., sez. un., 11 luglio 2006, n. 25083).
6. – Il ricorso proposto nell’interesse dell’imputato Manfredi è inammissibile.
Le violazioni di legge e i vizi della motivazione dedotti dalla difesa in relazione alla condanna per il reato di cui al capo F (art. 481 cod. pen.) sono, infatti, manifestamente insussistenti. La difesa non contesta la falsità della rappresentazione contenuta nella tavola n. 3 del progetto redatto nel febbraio 2010 e allegato alla d.i.a. in variante al permesso di costruire del fabbricato, avente ad oggetto il profilo esistente della collina e le quote altimetriche. Si limita, invece, ad asserire genericamente la sostanziale inutilità del falso, sul rilievo – non suffragato da puntuali riferimenti agli atti di causa – che, al momento della presentazione della d.i.a., il Corpo forestale dello Stato e il Comune avevano già contestato la realizzazione dell’abuso edilizio. Ribadisce, poi, la doglianza, già esaminata e correttamente disattesa in secondo grado, secondo cui la planimetria allegata alla d.i.a. non ha natura di certificato, perché la stessa rifletterebbe non una realtà oggettiva, bensì una semplice intenzione, cioè un giudizio espresso dall’agente, scevro da un contenuto apprezzabilmente valutabile sotto il profilo del dolo.
È sufficiente ribadire, quanto a tale profilo, che le false attestazioni contenute nella relazione di accompagnamento alla dichiarazione di inizio di attività edilizia integrano il reato di falsità ideologica in certificati (art. 481 cod, pen.), in quanto detta relazione ha natura di certificato in ordine alla descrizione dello stato attuale dei luoghi, alla ricognizione degli eventuali vincoli esistenti sull’area o sull’immobile interessati dall’intervento, alla rappresentazione delle opere che si intende realizzare e all’attestazione della loro conformità agli strumenti urbanistici ed ai regolamento edilizio (ex plurimis, Sez. 3, Sentenza n. 50621 del 18/06/2014 Ud., dep. 03/12/2014, Rv. 261513; Sez. 3, Sentenza n. 35795 del 17/04/2012 Ud., dep. 19/09/2012, Rv. 253666; Sez. 5, Sentenza n. 35615 del 14/05/2010 Ud., dep. 04/10/2010, Rv. 248878). E, più in particolare, va ribadito che, rispetto alla d.i.a.. assume la qualità di persona esercente un servizio di pubblica necessità e risponde, quindi, del reato di falsità ideologica in certificati, il progettista che, nella relazione iniziale di accompagnamento di cui all’art. 23, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, renda false attestazioni, sempre che le stesse riguardino lo stato dei luoghi e la conformità delle opere realizzande agli strumenti urbanistici e non anche la mera intenzione del committente o la futura eventuale difformità di quest’ultima rispetto a quanto poi in concreto realizzato (Sez. 3, Sentenza n. 27699 del 20/05/2010 Ud. (dep. 16/07/2010) Rv. 247927). Si tratta di principi che si attagliano pienamente al caso di specie, in cui la falsa attestazione riguarda, appunto, lo stato dei luoghi e non l’intenzione del committente di realizzare una certa tipologia di opere o l’eventuale futura difformità di quanto realizzato rispetto a quanto progettato.
7. – Anche il ricorso proposto nell’interesse dell’imputata Alessandria è inammissibile. La difesa non contesta in modo sufficientemente specifico la ratio decidendi della sentenza impugnata in punto di responsabilità penale, limitandosi, per lo più, a riproporre censure già esaminate e motivatamente disattese dalla Corte d’appello, in particolare, nessuna diretta contestazione viene mossa in ordine alla sussistenza del reato di cui al capo A, non essendo sottoposti a critica gli accertamenti relativi all’inizio dei lavori, al contrasto tra il premesso di costruire e gli strumenti di pianificazione, alle modifiche in corso d’opera e alle difformità tra quanto realizzato e quanto assentite (profili oggetto di analitica disamina da parte del Tribunale alle pagine 15-18 della sentenza di primo grado, implicitamente richiamate nella sentenza d’appello, che si è incentrata sul profilo della prescrizione del reato); e ciò, da parte di un soggetto che non era solo progettista, ma anche direttore dei lavori abusivamente svolti. Né il ricorso contesta adeguatamente la motivazione della sentenza impugnata in ordine alla prova del reato di cui al capo E (art. 481 cod. pen.), contestato all’imputata per avere falsamente rappresentato, nella tavola n. 1 del progetto redatto nell’ottobre 2006 e allegato alla domanda di permesso dì costruire del fabbricato, il profilo esistente della collina e le quote altimetriche; cosicché il piano interrato sarebbe risultato interrato, mentre, se ii profilo della collina fosse stato indicato correttamente, buona parte del piano apparentemente interrato sarebbe risultata fuori terra e, dunque, computabile ai fini dei limiti alla cubatura edificabile. Dalle prove rappresentate dal confronto fra il contenuto della tavola, da un lato, e la documentazione fotografica, le relazioni di sopralluogo e la decisiva deposizione dibattimentale dell’ispettore Diodà, dall’altro, emerge con chiarezza anche la sussistenza dell’elemento soggettivo, quale piena consapevolezza della contrarietà dell’attestazione alla verità dei fatti. E tale conclusione trova conferma, del resto, nel fatto che si tratta di una falsità reiterata nel tempo da due distinti professionisti, che si inserisce in una vicenda più ampia di abuso.
7.1. – Venendo alle doglianze proposte con il ricorso per cassazione, deve, in primo luogo, rilevarsi che la predisposizione del plastico con l’illustrazione delle caratteristiche dei progetto e l’evidenziazione delle quote altimetriche da parte della Commissione edilizia non possono essere prese in considerazione in questa sede, trattandosi di dati equivoci, che si pongono in contrasto con il diretto accertamento operato dal Corpo forestale dello Stato e confermato – come appena visto – dalla circostanza che la stessa falsità è stata reiterata dal professionista successivamente subentrato, in sede di predisposizione di d.i.a. Il Tribunale chiarisce anche, che oltre al teste Diodà – la cui decisiva deposizione non è stata contestata con il ricorso per cassazione – anche Tollemetto, incaricato dei relativi accertamenti, ha chiarito, che le quote altimetriche, erano difformi rispetto a quelle indicate nel progetto allegato al permesso di costruire (pag. 12 della sentenza di primo grado). In tale quadro, risultano del tutto generiche le doglianze difensive secondo cui non si sarebbe considerato che le misurazioni si riferivano «alla differenza tra quanto costruito e quanto realizzato, non al progettato rispetto alla situazione reale ex ante». Tali rilievi si basano, infatti, sul dato – del tutto irrilevante, oltre che non confermato dagli atti di causa – che vi sarebbe stato un precedente abuso non conosciuto come tale dall’imputata, che aveva causato la variazione della quota altimetrica.
Parimenti irrilevanti risultano le affermazioni relative al fatto che l’abuso edilizio era stato contestato anche per il mancato rispetto del permesso di costruire e che l’arch. Curti, presso cui l’imputata lavorava, che era anche membro della Commissione edilizia comunale, non era stato destinatario di contestazioni di reato. Quanto il primo profilo, è sufficiente qui osservare che la presenza di ulteriori profili di abuso edilizio conferma, anziché smentire, la piena consapevolezza dell’imputata della falsità della certificazione rilasciata e della destinazione della stessa; quanto al secondo profilo, è sufficiente ricordare che la condotta tenuta dall’imputata assume carattere di illiceità in sé, indipendentemente dal comportamento e dalle determinazioni in merito della Commissione edilizia comunale o di suoi componenti.
In conseguenza di quanto sopra osservato, risulta, poi, smentita dagli atti l’affermazione difensiva – meramente reiterata con il ricorso per cassazione – secondo cui nessuna delle persone sentite nel giudizio davanti al Tribunale avrebbe rilevato misure difformi tra quanto progettato e la «situazione ante realizzazione dell’opera». I giudici di merito hanno anzi accertato una piena corrispondenza, in punto di falsità, tra la tavola n. 3 redatta dal coimputato Manfredi, allegata alla d.i.a., e la tavola n. 1 redatta dalla Alessandria, allegata alla domanda di permesso di costruire.
7.2. – In questo quadro, correttamente la Corte d’appello ha rigettato la richiesta di audizione, nel giudizio di secondo grado, di soggetti che avrebbero potuto riferire – secondo la difesa – elementi utili all’accertamento dei fatti, ai fini dell’applicazione dell’art. 129, comma 2, cod. proc. pen. Dalla stessa prospettazione difensiva emerge, infatti, la superfluità di tali audizioni: quanti a Curti e Cisero, gli stessi avrebbero dovuto essere sentiti in relazione all’attività svolta nell’ambito della Commissione edilizia, del tutto irrilevante ai fini dell’accertamento della responsabilità penale, che emerge – come più volte sottolineato – dalla semplice comparazione tra l’attestazione effettuata dall’imputata e l’effettivo stato dei luoghi. E anche l’audizione del teste Tolemetto risulta irrilevante, perché egli aveva già riferito – secondo quanto riportato dal teste Dassetto – della rilevata difformità. Del resto, l’audizione di tali soggetti era stata correttamente esclusa in primo grado, non essendo stati gli stessi indicati nella lista testimoniale a prova diretta, e in mancanza di una compiuta indicazione delle circostanze sulle quali essi avrebbero dovuto essere sentiti a prova contraria.
La chiarezza del quadro probatorio, alla luce delle testimonianze raccolte, rende parimenti superfluo l’esame della censura relativa alla mancata esclusione dal fascicolo del dibattimento di due relazioni di sopralluogo, che – secondo la ricorrente – non avrebbero potuto essere ritenute come atti irripetibili compiuti della polizia giudiziaria. Si tratta, in ogni caso, di una censura formulata in modo non specifico, sia perché la difesa si limita ad affermare – contro l’evidenza dei fatti – che il Tribunale aveva erroneamente considerato tali atti come irripetibili, perché aventi ad oggetto accertamenti urgenti su cose suscettibili di subire modificazioni; sia perché la stessa difesa non chiarisce se e in quale misura tali atti abbiano influito sull’accertamento della responsabilità penale.
7 .3. – Quanto alla doglianza relativa all’ammissibilità della costituzione di parte civile del Comune in relazione al reato di cui al capo E dell’imputazione, formulata sul rilievo che il bene-interesse giuridico tutelato dall’art. 481 cod. pen. sarebbe la fede pubblica, è sufficiente qui richiamare i principi affermati in materia dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui i delitti contro la fede pubblica, per la loro natura plurioffensiva, tutelano direttamente non solo l’interesse pubblico alla genuinità materiale e alla veridicità ideologica di determinati atti, ma anche quello dei soggetti sulla cui sfera giuridica l’atto sia destinato a incidere concretamente, con la conseguenza che essi, in tal caso, sono legittimati a costituirsi parte civile (ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 2511 del 16/10/2014 Ud., dep. 21/01/2015, Rv. 263416; Sez. 5, Sentenza n. 2076 del 05/12/2008 Ud., dep. 20/01/2009, Rv. 242361); dunque, la legittimazione alla costituzione di parte civile sussiste non solo per i reati urbanistici o ambientali, ma anche per i reati commessi in occasione o con la finalità di violare normative dirette alla tutela dell’ambiente e del territorio (Sez. 5, Sentenza n. 2076 del 05/12/2008 Ud., dep. 20/01/2009, Rv. 242361). Correttamente, dunque, il Tribunale e la Corte d’appello hanno ritenuto sussistente il diritto del Comune al risarcimento del danno sia per il reato edilizio di cui al capo A, sia per il connesso reato di falso di cui al capo E.
Manifestamente infondato è, infine, il rilievo della ricorrente secondo cui il vicesindaco del Comune, che aveva conferito mandato al difensore per la costituzione di parte civile, non aveva rappresentato nell’atto la sussistenza di condizioni di incompatibilità o di temporaneo impedimento del sindaco, tali da legittimare la sua sostituzione da parte dello stesso vicesindaco. Una tale rappresentazione non è infatti necessaria né alla luce dei principi, né alla luce dello Statuto comunale, il quale pacificamente consente che il sindaco sia sostituito dal vicesindaco in caso di incompatibilità o temporaneo impedimento, senza prevedere alcuna particolare modalità di accertamento di tali presupposti o di manifestazione degli stessi all’esterno. Correttamente, dunque, si è costituito parte civile il Comune, in persona del vicesindaco, quale legale rappresentante pro tempore.
7. – Ne deriva che la sentenza impugnata deve essere annullata, limitatamente al capo A), con rinvio, sul punto, al giudice civile competente per valore in grado d’appello. I ricorsi di Manfredi e Alessandria devono essere invece dichiarati inammissibili.
Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità>>, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen ., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 2.000,00.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata, limitatamente al capo A), con rinvio, sul punto, al giudice civile competente per valore in grado d’appello. Dichiara inammissibili i ricorsi di Manfredi e Alessandria e li condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, l’8 settembre 2016.