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Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime | Categoria: Beni culturali ed ambientali, Diritto processuale penale Numero: 12916 | Data di udienza: 27 Febbraio 2019

BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Tutela dei beni ambientali – Intervento abusivo su beni vincolati – Limiti volumetrici – Reato paesaggistico – Poteri del giudice dell’esecuzione – Prescrizione e procedimento di esecuzione – Giurisprudenza – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Efficacia del giudicato penale – Principio di certezza e stabilità giuridica – Divieto di "bis in idem" – Applicazione in sede esecutiva – Corte Cost. sent. n.56/2016 – Fattispecie: illegittimità costituzionale parziale dell’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n.42/2004. 


Provvedimento: Sentenza
Sezione: 3^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 25 Marzo 2019
Numero: 12916
Data di udienza: 27 Febbraio 2019
Presidente: ANDREAZZA
Estensore: REYNAUD


Premassima

BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Tutela dei beni ambientali – Intervento abusivo su beni vincolati – Limiti volumetrici – Reato paesaggistico – Poteri del giudice dell’esecuzione – Prescrizione e procedimento di esecuzione – Giurisprudenza – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Efficacia del giudicato penale – Principio di certezza e stabilità giuridica – Divieto di "bis in idem" – Applicazione in sede esecutiva – Corte Cost. sent. n.56/2016 – Fattispecie: illegittimità costituzionale parziale dell’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n.42/2004. 



Massima

 

CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez.3^ 25/03/2019 (Ud. 27/02/2019), Sentenza n.12916


BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Tutela dei beni ambientali – Intervento abusivo su beni vincolati – Limiti volumetrici – Reato paesaggistico – Poteri del giudice dell’esecuzione – Prescrizione e procedimento di esecuzione – Corte Cost. 23 marzo 2016, n.56 – Art. 181, c.1-bis, d.lgs. n. 42/2004 – Giurisprudenza.
 
In tema di tutela dei beni ambientali, per effetto della sentenza della Corte cost. 23 marzo 2016, n. 56, che ha dichiarato la parziale incostituzionalità dell’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. 42/2004, integra la contravvenzione prevista dal comma primo di detto articolo ogni intervento abusivo su beni vincolati paesaggisticamente, tanto in via provvedimentale che per legge, configurandosi invece il delitto previsto dal successivo comma 1-bis nella sola ipotesi di lavori che superino i limiti volumetrici ivi precisati (Cass. Sez. 3, n. 38976 del 07/04/2017, Guadagno e a.). Detti limiti sono alternativamente indicati: nell’aumento superiore al trenta per cento della volumetria della costruzione originaria; in un ampliamento della medesima superiore a settecentocinquanta metri cubi; nella realizzazione di una nuova costruzione con volumetria superiore a mille metri cubi. Pertanto, il giudice dell’esecuzione, adito a seguito della dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42 del 2004, può dichiarare l’estinzione per prescrizione del reato oggetto della sentenza definitiva di condanna, riqualificato come contravvenzione ai sensi del comma 1 della norma citata, qualora la prescrizione sia maturata in pendenza del procedimento di cognizione e fatti salvi i rapporti ormai esauriti (Sez. 3, n. 38691 del 11/07/2017, Giordano).
 
 
DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Efficacia del giudicato penale – Principio di certezza e stabilità giuridica – Divieto di "bis in idem" – Applicazione in sede esecutiva – Corte Cost. sent. n.56/2016 – Fattispecie: illegittimità costituzionale parziale dell’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n.42/2004.
 
L’efficacia del giudicato penale nasce dalla necessità di certezza e stabilità giuridica, propria della funzione tipica del giudizio, ma anche dall’esigenza di porre un limite all’intervento dello Stato nella sfera individuale, sicché si esprime essenzialmente nel divieto di "bis in idem", e non implica l’immodificabilità in assoluto del trattamento sanzionatorio stabilito con la sentenza irrevocabile di condanna nei casi in cui la pena debba subire modificazioni necessarie imposte dal sistema a tutela dei diritti primari della persona (Conf. Corte cost. sentenze n. 115 del 1987, n. 267 del 1987, n. 282 del 1989). In questi casi, il giudice dell’esecuzione, adito per l’applicazione in sede esecutiva della sent. Corte cost. n. 56 del 2016, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale dell’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n.42 del 2004, il cui delitto sia stato ritenuto con la sentenza di condanna divenuta definitiva, deve dichiarare, anche d’ufficio, ai sensi dell’art. 30, quarto comma, legge n. 87 del 1953, l’estinzione per prescrizione del reato oggetto della sentenza definitiva di condanna che debba essere riqualificato come contravvenzione ai sensi del comma 1 della norma incriminatrice citata, qualora la prescrizione sia maturata in pendenza del procedimento di cognizione e gli effetti della condanna non siano ancora esauriti; negli stessi casi, laddove il reato non sia prescritto, il giudice dell’esecuzione deve rideterminare la pena in relazione alla diversa cornice edittale prevista per la fattispecie contravvenzionale; il relativo potere/dovere del giudice dell’esecuzione dev’essere esercitato quando ci si trovi di fronte ad una condanna definitiva a pena illegale derivante dalla declaratoria d’illegittimità costituzionale della norma incriminatrice non ravvisata dal giudice della cognizione, senza che il medesimo si sia posto il relativo problema giuridico ed abbia espresso le sue valutazioni, non essendo in tal caso la correzione dell’errore preclusa dal giudicato neppure laddove questo si sia formato sulla base di una decisione assunta successivamente alla declaratoria di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice; nel procedimento di esecuzione, nel rispetto del contraddittorio, il giudice, su richiesta di parte o "ex officio", può assumere tutte le prove necessarie per la decisione, ivi compresa l’audizione del consulente tecnico di parte nominato dal condannato e l’acquisizione della relazione dal medesimo  predisposta, e non deve basarsi, solo ed esclusivamente, sulla sentenza in relazione alla quale è stato promosso l’incidente d’esecuzione. Fattispecie: abrogazione e dichiarazione di illegittimità costituzionale delle leggi.
 
 
(annulla con rinvio ordinanza del 20/09/2018 – TRIBUNALE DI CHIETI – SEZ. DIST. DI ORTONA) Pres. ANDREAZZA, Rel. REYNAUD, Ric. Costantini

Allegato


Titolo Completo

CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez.3^ 25/03/2019 (Ud. 27/02/2019), Sentenza n.12916

SENTENZA

 

 

 
CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez.3^ 25/03/2019 (Ud. 27/02/2019), Sentenza n.12916
 
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
 
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
 
omissis 
  
ha pronunciato la seguente
 
SENTENZA
 
sui ricorso proposto da Costantini Antonio Domenico, nato a Bari;
 
avverso l’ordinanza del 20/09/2018 del Tribunale di Chieti – sez. dist. di Ortona;
 
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
 
sentita la relazione svolta dal consigliere Gianni Filippo Reynaud;
 
lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Giulio Romano, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
 
RITENUTO IN FATTO
 
1. Con ordinanza emessa il 20 settembre 2018, all’esito del procedimento camerale di cui all’art. 666 cod. proc. pen., il Tribunale di Chieti – sez. dist. di Ortona, decidendo in funzione ‘di giudice dell’esecuzione, ha respinto l’istanza avanzata nell’interesse di Antonio Domenico Costantini al fine di ottenere l’applicazione in sede esecutiva della sent. Corte cost. n. 52 del 2016 in ordine ai reati giudicati con sentenza di condanna dal medesimo Tribunale emessa in data 12 maggio 2016, divenuta definitiva.
 
2. Avverso l’ordinanza, ha proposto ricorso per cassazione il condannato a mezzo del suo difensore, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ai sensi dell’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
 
3. Con il primo motivo di ricorso si deduce vizio di motivazione per aver l’ordinanza affermato che la suddetta declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. 42 del 2004, in quanto intervenuta nel corso del giudizio di cognizione, non potrebbe trovare applicazione in fase esecutiva, nonostante il contrario obiter dictum contenuto nella sent. Cass., n. 16611/2017, che, dichiarando inammissibile il ricorso proposto dall’imputato, aveva determinato il passaggio in giudicato della sentenza di condanna della cui esecuzione si discute.
 
4. Con il secondo motivo ci si duole della medesima conclusione deducendone la contrarietà con gli artt. 1 cod. pen., 25, secondo comma, Cost., 7 CEDU e 30, quarto comma, l. n. 87 del 1953, sul rilievo che la menzionata sentenza di condanna per due reati qualificati come violazione dell’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. 42 del 2004 che, alla luce della sent. Corte cost. n. 52 del 2016, dovrebbero riqualificarsi come contravvenzioni, conterrebbe pene illegali. A queste, frutto di un mero errore percettivo del giudice della cognizione – che in alcun modo aveva preso in esame la menzionata declaratoria d’illegittimità costituzionale – si deve porre rimedio in sede di esecuzione, non essendosi ancora esaurito il rapporto esecutivo.
 
5. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta la violazione degli artt. 665, 666, 670 cod. proc. pen., 185 disp. att. cod. proc. pen. ed il vizio di motivazione per aver ritenuto non ammissibile nel procedimento d’esecuzione il richiesto supplemento istruttorio costituito dall’acquisizione di una consulenza tecnica di parte e dall’esame del consulente al fine di dimostrare che la complessiva volumetria delle opere abusive per cui era intervenuta condanna non superava i 1.000 m.c., sì da imporre la riqualificazione in contravvenzione dei ritenuti delitti. 
 
6. Con il quarto motivo di ricorso si deducono le medesime doglianze per aver comunque ritenuto necessario un supplemento istruttorio, benché la volumetria complessiva delle opere fosse agevolmente ricavabile dalla sentenza di condanna. 
 
7. Con l’ultimo motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen. la mancata acquisizione della richiamata consulenza tecnica di parte, da ritenersi prova decisiva.
 
CONSIDERATO IN DIRITTO
 
1. Nella giurisprudenza di legittimità è consolidato l’orientamento secondo cui, per effetto della sentenza della Corte cost. 23 marzo 2016, n. 56, che ha dichiarato la parziale incostituzionalità dell’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. 42/2004, integra la contravvenzione prevista dal comma primo di detto articolo ogni intervento abusivo su beni vincolati paesaggisticamente, tanto in via provvedimentale che per legge, configurandosi invece il delitto previsto dal successivo comma 1-bis nella sola ipotesi di lavori che superino i limiti volumetrici ivi precisati (Sez. 3, n. 33047 del 19/04/2016, Mozer e a., Ftv. 268033; v. anche, in motivazione, Sez. 3, n. 38976 del 07/04/2017, Guadagno e a.). Detti limiti sono alternativamente indicati: nell’aumento superiore al trenta per cento della volumetria della costruzione originaria; in un ampliamento della medesima superiore a settecentocinquanta metri cubi; nella realizzazione di una nuova costruzione con volumetria superiore a mille metri cubi.
 
2. Nel caso di specie, secondo il contenuto della sentenza di condanna della cui esecuzione si discute quale dettagliatamente riportato in ricorso, Antonio Domenico Costantini è stato condannato per due distinti reati qualificati come violazione dell’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. 42/2004 (vale a dire i capi a e c della rubrica) per opere realizzate ex novo in zona dichiarata di notevole interesse pubblico che, pur cumulativamente considerate – allega il ricorrente – non avrebbero generato una volumetria superiore a mille metri cubi. In forza della declaratoria d’illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, entrambi i reati sarebbero dunque riconducibili alla fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 181, comma 1, d.lgs. 42 del 2004 con la conseguenza che: per il reato di cui al capo a), ritenuto più grave e per il quale è stata applicata la pena base di anni uno di reclusione, occorrerebbe rideterminare la pena alla luce della più favorevole cornice edittale previstra fattispecie contravvenzionale; per il reato di cui al capo c), relativo a manufatti che il giudice del merito aveva accertato essere stati ultimati prima del quinquennio anteriore alla pronuncia della sentenza di condanna di primo grado (tanto che furono dichiarate prescritte le contravvenzioni urbanistiche ed edilizie contestate con riguardo alle medesime opere abusive ai capi d e f) occorrerebbe dichiarare l’estinzione del reato con revoca del conseguente aumento di pena stabilito a titolo di continuazione rispetto al più grave reato di cui al capo a).
 
La relativa pronuncia, richiesta al giudice dell’esecuzione, non sarebbe impedita dal giudicato benché la sentenza sia stata emessa in data 12 maggio 2016 – vale a dire, circa due mesi dopo la pubblicazione della sent. Corte cost. n. 52 del 2016 – perché il giudice di merito (ciò che trova conferma nella lettura della sentenza di condanna contenuta nel fascicolo) non si era in alcun modo posto il problema dell’applicazione del nuovo quadro normativo risultante dalla declaratoria d’illegittimità costituzionale, né ciò era avvenuto nel prosieguo del giudizio, essendo stati dichiarati inammissibili sia l’appello, sia il ricorso per cassazione.
 
3. Questa impostazione – reputa il Collegio – è corretta, non essendo condivisibile il contrario, stringato, giudizio contenuto nell’ordinanza impugnata ed essendo pertanto fondati il primo ed il secondo motivo di ricorso, da esaminarsi congiuntamente.
 
3.1. Come questa Corte ha già più volte avuto modo di precisare nel decidere analoghe questioni (v. Sez. 3, n. 38691 del 11/07/2017, Giordano, Rv. 271301; Sez. 3, n. 7735 del 06/12/2017, de. 2018, Mansi, non massimata; Sez. 3, n. 55015 del 18/07/2018, Capasso, Rv. 274321) vanno nella specie applicati i principi affermati nella sent. Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, secondo cui (Rv. 260696) «l’efficacia del giudicato penale nasce dalla necessità di certezza e stabilità giuridica, propria della funzione tipica del giudizio, ma anche dall’esigenza di porre un limite all’intervento dello Stato nella sfera individuale, sicché si esprime essenzialmente nel divieto di "bis in idem", e non implica l’immodificabilità in assoluto del trattamento sanzionatorio stabilito con la sentenza irrevocabile di condanna nei casi in cui la pena debba subire modificazioni necessarie imposte dal sistema a tutela dei diritti primari della persona (Conf. Corte cost. sentenze n. 115 del 1987, n. 267 del 1987, n. 282 del 1989)».
 
Nella decisione resa nel caso Gatto, la Corte ha affermato (Rv. 260695) il principio secondo cui «i fenomeni dell’abrogazione e della dichiarazione di illegittimità costituzionale delle leggi vanno nettamente distinti, perché si pongono su piani diversi, discendono da competenze diverse e producono effetti diversi, integrando il primo un fenomeno fisiologico dell’ordinamento giuridico, ed il secondo, invece, un evento di patologia normativa; in particolare, gli effetti della declaratoria di incostituzionalità, a differenza di quelli derivanti dallo "ius supenveniens", inficiano fin dall’origine, o, per le disposizioni anteriori alla Costituzione, fin dalla emanazione di questa, la disposizione impugnata». Ne deriva (Rv. 260697) che «quando, successivamente alla pronuncia di una sentenza irrevocabile di condanna, interviene la dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice, incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, e quest’ultimo non è stato interamente eseguito, il giudice dell’esecuzione deve rideterminare la pena in favore del condannato pur se il provvedimento "correttivo" da adottare non è a contenuto predeterminato, potendo egli avvalersi di penetranti poteri di accertamento e di valutazione, fermi restando i limiti fissati dalla pronuncia di cognizione in applicazione di norme diverse da quelle dichiarate incostituzionali, o comunque derivanti dai principi in materia di successione di leggi penali nel tempo, che inibiscono l’applicazione di norme più favorevoli eventualmente "medio tempore" approvate dal legislatore».
 
Questo potere – ha affermato la Corte – trova fondamento non già nell’art. 673 cod. proc. pen., che riguarda il caso in cui la norma incriminatrice sia abrogata o dichiarata costituzionalmente illegittima, bensì nell’art. 30, comma quarto, l. n. 87 del 1953, relativo alla cessazione della esecuzione e di tutti gli effetti penali di sentenza irrevocabile di condanna in applicazione di norma dichiarata incostituzionale. Già in precedenza, invero, la stessa Corte a sezioni unite aveva insegnato che detto articolo «non è stato implicitamente abrogato dall’art. 673 cod. proc. pen., posto che quest’ultima disposizione, a differenza della prima, avente natura sostanziale, è norma processuale che detta la disciplina del procedimento di esecuzione per l’ipotesi dell’abrogazione o della declaratoria d’incostituzionalità di una previsione incriminatrice» (Sez. U, n. 18821/2014 del 24/10/2013, Ercolano, Rv. 258650). In particolare – si legge nella motivazione della sentenza Gatto – «gli effetti della declaratoria di incostituzionalità non sono paragonabili a quelli dello ius superveniens, poiché la dichiarazione d’illegittimità costituzionale inficia fin dall’origine (o, per le leggi a questa anteriori, fin dalla emanazione della Costituzione) la disposizione impugnata. Pertanto le pronunce stesse fanno sorgere l’obbligo per i giudici avanti ai quali si invocano le norme di legge dichiarate illegittime di non applicarle, a meno che i rapporti cui esse si riferiscono debbano ritenersi ormai esauriti in modo definitivo ed irrevocabile, e conseguentemente non più suscettibili di alcuna azione o rimedio, secondo principi invocabili in materia (Corte cost., sent. n. 58 del 1967) […] A tali distinte situazioni corrispondono diverse conseguenze. Mentre l’applicazione della sopravvenuta legge penale più favorevole, che attiene alla vigenza normativa, trova un limite invalicabile nella sentenza irrevocabile, ciò non può valere per la sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale, che concerne il diverso fenomeno della invalidità. La norma costituzionalmente illegittima viene espunta dall’ordinamento proprio perché affetta da una invalidità originaria. Ciò impone e giustifica la proiezione ‘retroattiva’, sugli effetti ancora in corso di rapporti giuridici prégressi, già da essa disciplinati, della intervenuta pronuncia di incostituzionalità, la quale certifica la definitiva uscita dall’ordinamento di una norma geneticamente invalida. 
 
Una norma che deve dunque considerarsi tamquam non fuisset, perciò inidonea a fondare atti giuridicamente validi, per cui tutti gli effetti pregiudizievoli derivanti da una sentenza penale di condanna fondata, sia pure parzialmente, sulla norma dichiarata incostituzionale devono essere rimossi dall’universo giuridico, ovviamente nei limiti in cui ciò sia possibile, non potendo essere eliminati gli effetti irreversibili perché già compiuti e del tutto consumati (cfr. Cass. Sez. 6, n. 9270 del 16/02/2007, Berlusconi)».
 
Nel discostarsi dal tradizionale orientamento che aveva individuato nel passaggio in giudicato della sentenza di condanna fondata sulla norma penale non incriminatrice dichiarata incostituzionale il limite della retroattiva efficacia della stessa – mutuato dalla disciplina del ben diverso fenomeno della successione nel tempo delle leggi in materia penale e, in particolare, dai limiti posti alla retroattività della lex mitior (art. 2, comma quarto, cod. pen.) – nella sentenza da ultimo citata le Sezioni Unite stigmatizzano quell’orientamento come figlio di una «concezione ‘assolutistica’ del giudicato, come norma del caso concreto, insensibile alle evenienze giuridiche successive all’irrevocabilità della sentenza» e rilevano che «la Costituzione della Repubblica e, successivamente, il nuovo codice di procedura penale hanno ridimensionato profondamente il significato totalizzante attribuito all’intangibilità del giudicato quale espressione della tradizionale concezione autoritaria dello Stato e ne hanno, per contro, rafforzato la valenza di garanzia individuale».
 
La decisione pone poi in luce la forte accelerazione impressa al processo di erosione dell’intangibilità del giudicato dalla necessità di dare esecuzione all’obbligo di ripristinare i diritti del condannato, lesi da violazioni delle norme della Convenzione europea per la salvaguarda dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Corte cost., sentt. n. 113/2011 e 210/2013; Sez. U, n. 18821/2014 del 24/10/2013, Ercolano Rv. 252933- 252934-258649-258650-258651). In particolare, della pronuncia da ultimo ricordata, viene sottolineata l’affermazione secondo cui «la restrizione della libertà personale del condannato deve essere legittimata, durante l’intero arco della sua durata, da una legge conforme alla Costituzione (artt. 13, comma secondo, e 25, comma secondo, Cost.) e deve assolvere la funzione rieducativa imposta dall’art. 27, comma terzo, Cost.», sicché la conformità della pena a legalità «in fase esecutiva deve ritenersi costantemente sub iudice» e «il divieto di dare esecuzione ad una pena prevista da una norma dichiarata illegittima dal Giudice delle leggi è esso stesso un principio di rango sovraordinato – sotto il profilo della gerarchia delle fonti – rispetto agli interessi sottesi all’intangibilità del giudicato».
 
Garante della legalità della pena in fase esecutiva – sottolinea poi la sentenza Gatto – è il giudice dell’esecuzione, cui compete, se richiesto ex art. 666 cod. proc. pen., di ricondurre la pena inflitta a legittimità, con l’unico limite della «non reversibilità degli effetti, giacché l’art. 30 legge n. 87 del 1953 impone di rimuovere tutti gli effetti pregiudizievoli del giudicato non divenuti nel frattempo irreversibili, ossia quelli che non possono essere rimossi, perché già ‘consumati’, come nel caso di condannato che abbia già scontato la pena». 
 
3.2. Applicando detti principi, questa Corte ha già ritenuto che il giudice dell’esecuzione, adito a seguito della dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42 del 2004, può dichiarare l’estinzione per prescrizione del reato oggetto della sentenza definitiva di condanna, riqualificato come contravvenzione ai sensi del comma 1 della norma citata, qualora la prescrizione sia maturata in pendenza del procedimento di cognizione e fatti salvi i rapporti ormai esauriti (Sez. 3, n. 38691 del 11/07/2017, Giordano, Rv. 271301).
 
In detta pronuncia – la cui motivazione deve qui essere richiamata – si è di fatti ritenuto che per eliminare ogni effetto pregiudizievole della condanna pronunciata in forza della disposizione oggetto della declaratoria di illegittimità costituzionale, la «efficacia invalidante ex tunc possa avere effetto anche con riguardo alla declaratoria di prescrizione del reato, eventualmente da pronunciare "ora per allora". In particolare, a fronte di una sentenza di illegittimità costituzionale che incida sul trattamento sanzionatorio, deve ammettersi che il giudice dell’esecuzione – quando a ciò sollecitato – debba non solo intervenire sulla stessa misura della pena (e, nel caso delle fattispecie oggetto della sentenza n. 56 del 2016, addirittura sulla sua specie), trasformando in legale una sanzione ormai illegale (perché determinata in ragione della norma vigente all’epoca della pronuncia di merito, poi cancellata o manipolata dalla sentenza di incostituzionalità), ma debba anche dichiarare l’estinzione per prescrizione del reato quando accerti che i termini di cui agli artt. 157 ss. cod. pen. – calcolati sulla sanzione edittale come ricavata dalla pronuncia di incostituzionalità – erano interamente spirati alla data dell’ultima sentenza di merito. Il giudice dell’esecuzione, pertanto, si deve porre – "ora per allora" – nella stessa ottica che avrebbe avuto il giudice della cognizione se si fosse pronunciato successivamente alla declaratoria di incostituzionalità e, con l’unico ed insuperabile limite dei rapporti ormai esauriti e non più retrattabili, deve dare attuazione alla pronuncia medesima, impedendo che la norma già oggetto di censura – ormai espunta dall’ordinamento – possa produrre qualsivoglia ulteriore effetto; in altri termini, il giudice deve dare piena attuazione al combinato disposto degli artt. 673 cod. proc. pen./30, comma 4, l. n. 87 del 1953, inverando nella massima misura consentita quella "incidenza retroattiva" della pronuncia di incostituzionalità già sopra richiamata, e così 1) revocando la sentenza di condanna ed eliminando ogni suo effetto non esaurito, qualora la declaratoria della Corte abbia investito l’in se del reato (così come il giudice della cognizione avrebbe dovuto pronunciare sentenza di proscioglimento ex artt. 129 e 530 cod. proc. pen.); 2) rideterminando la specie e la misura della pena irrogata, qualora la declaratoria della Corte abbia investito soltanto il trattamento sanzionatorio (quella stessa pena che il giudice della cognizione avrebbe dovuto applicare, per specie, e potuto applicare, per misura, in esito alla pubblicazione della pronuncia di incostituzionalità); 3) se del caso, e nella medesima ipotesi, dichiarando l’estinzione del reato per prescrizione, se già maturata al tempo della pronuncia di merito, con proiezione "a ritroso", alla luce della sentenza della Corte costituzionale. In sintesi, quindi, il giudice dell’esecuzione, quando ritualmente investito, deve realizzare – nella misura consentita da rapporti non esauriti e con l’esclusione di questi – una doverosa "bonifica" della sentenza irrevocabile, privandola degli elementi "inquinanti" oggetto della declaratoria di incostituzionalità, che debbono esser eliminati ab origine perché tamquam non fuisset; nei medesimi termini, dunque, nei quali si sarebbe pronunciato il giudice della cognizione, qualora intervenuto successivamente alla sentenza della Corte costituzionale» (Sez. 3, n. 38691 del 11/07/2017, Giordano).
 
La citata decisione pone altresì in luce come la tematica della flessibilità del giudicato sia stata ulteriormente sviluppata dalle Sezioni unite di questa Corte in una successiva sentenza (Sez. U, n. 37107 del 26/02/2015, Marcon), la quale – si legge nella motivazione della sentenza Giordano – «ha affermato che 1) per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale sostanziale relativa al trattamento sanzionatorio, è necessario rimuovere gli effetti che dalla norma in questione discendono; 2) tale operazione, investendo principi fondamentali quale quello della libertà personale, impone, ai sensi dell’art. 30, terzo e quarto comma, legge n. 87 del 1953, di rivisitare il giudicato di condanna in tutti i casi in cui il rapporto esecutivo non sia esaurito; 3) in tali casi il giudicato, da una parte, deve essere "mantenuto", quanto ai profili relativi alla sussistenza del fatto, alla sua attribuzione soggettiva e alla sua qualificazione giuridica, ma, dall’altra, deve essere "riconformato", quanto ai profili sanzionatori; 4) il compito di incidere sul giudicato ai fini indicati spetta al giudice della esecuzione che "non si limita a conoscere delle questioni sulla validità e sull’efficacia del titolo esecutivo, ma è anche abilitato, in vari casi, ad incidere su di esso (artt. 669, 670, comma 3, 671, 672 e 673 cod. proc. pen.)" e che, quindi, può intervenire sia quando l’intervento si risolva in una mera operazione matematica di tipo automatico, sia quando la rimozione dei perduranti effetti derivanti dalla norma dichiarata incostituzionale richieda l’esercizio di poteri valutativi; 5) il limite all’opera di rideterminazione della pena da parte del giudice della esecuzione, che può fare uso di poteri istruttori, è costituito da quanto già accertato dal giudice di cognizione per ragioni di merito, cioè da quanto accertato non facendo applicazione della norma dichiarata incostituzionale» (Sez. 3, n. 38691 del 11/07/2017, Giordano). 
 
In particolare – insegnano le Sezioni unite nella sentenza Marcon – «dal contenuto delle norme richiamate, nonché dalla "flessibilizzazione" del giudicato registrata nella fase esecutiva, sembra emergere una duplice dimensione del giudicato penale: la prima relativa all’accertamento del fatto, realmente intangibile, non essendo consentita, al di fuori delle speciali ipotesi rescissorie, una rivalutazione del fatto oggetto del giudizio, e tendenzialmente posta a garanzia del reo (presunzione di innocenza e divieto di bis in idem); la seconda relativa alla determinazione della pena, che, sprovvista di reale copertura costituzionale (o convenzionale), appare maggiormente permeabile alle "sollecitazioni" provenienti ab extra rispetto alla res iudicata. In altri termini, se il "giudicato sull’accertamento" è, e resta, intangibile, non consentendo rivalutazioni del fatto, il "giudicato sulla pena" è permeabile ad eventuali modifiche del trattamento sanzionatorio, purché in bonam partem, essendo espressione di un interesse collettivo, quello della certezza dei rapporti giuridici esauriti, suscettibile di bilanciamento con altri principi costituzionali e convenzionali, quali la libertà personale, la legalità della pena, la finalità rieducativa, il principio di uguaglianza, che, nella loro dimensione individuale, sono prevalenti rispetto alla dimensione collettiva sottesa all’esigenza di certezza dei rapporti giuridici» (Sez. U, n. 37107 del 26/02/2015, Marcon).
 
3.3. Contrariamente a quanto ritenuto nell’ordinanza impugnata, al potere-dovere del giudice dell’esecuzione, in tali casi, di incidere sul giudicato non osta il fatto che la pronuncia d’illegittimità costituzionale sia intervenuta (poco) prima della sentenza di merito e che questa non sia stata sul punto efficacemente impugnata (tanto da essere stati dichiarati inammissibili l’appello ed il ricorso per cassazione).
 
Al proposito, sviluppando coerentemente le argomentazioni delle sentenze Ercolano e Gatto più sopra richiamate – ma anche della giurisprudenza costituzionale (v. sent. Corte cost. n. 210 del 2013) – con una serie di decisioni che si sono mosse lungo un’identica linea interpretativa, le Sezioni unite hanno di fatti affermato che «l’applicazione di una pena accessoria extra o contra legem dal parte del giudice della cognizione può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell’esecuzione purché essa sia determinata per legge ovvero determinabile, senza alcuna discrezionalità, nella specie e nella durata, e non derivi da errore valutativo del giudice della cognizione» (Sez. U, n. 6240/2015 del 27/11/2014, Basile, Rv. 262327), che «l’illegalità della pena, derivante da palese errore giuridico o materiale da parte del giudice della cognizione, privo di argomentata valutazione, ove non sia rilevabile d’ufficio in sede di legittimità per tardività del ricorso, è deducibile davanti al giudice dell’esecuzione, adito ai sensi dell’art. 666 cod. proc. pen.» (Sez. U, n. 47766 del 26/06/2015, Butera e a., Rv. 265108), che «il giudice dell’esecuzione può revocare, ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen., una sentenza di condanna pronunciata dopo l’entrata in vigore della legge che ha abrogato la norma incriminatrice, allorché l’evenienza di "abolitio criminis" non sia stata rilevata dal giudice della cognizione» (Sez. U, n. 26259/2016 del 29/10/2015, Mraidi, Rv. 266872).
 
In sostanza, le Sezioni unite hanno affermato che tutte le volte in cui ci si trovi di fronte ad una condanna definitiva a pena illegale – soprattutto se derivante dall’abrogazione o dalla declaratoria d’illegittimità costituzionale della norma incriminatrice non ravvisata dal giudice della cognizione, senza che il medesimo si sia posto il relativo problema giuridico ed abbia espresso le sue valutazioni (a meno, in quest’ultimo caso, di errori macroscopici di calcolo o di applicazione di una pena avulsa dal sistema) – si sia in presenza di un mero errore percettivo, che ne consente (ed impone) la rettifica da parte del giudice dell’esecuzione, anche al fine del rispetto dell’inviolabile principio nullum crimen, nulla poena sine lege sancito dagli artt. 25, comma secondo, Cost. e 7 C.E.D.U., poiché la tutela dei diritti costituzionalmente e convenzionalmente presidiati, quali il  diritto fondamentale alla libertà personale ed il principio di legalità, deve prevalere sull’intangibilità del giudicato.
 
4. Sono parimenti fondati – nei termini di cui in fra – i restanti motivi di ricorso, da esaminarsi anche questi congiuntamente stante la loro connessione. Diversamente da quanto sostenuto nell’ordinanza impugnata, è da tempo consolidato il principio – desumibile dal chiaro disposto di cui all’art. 666, comma 5, cod. proc. pen. – secondo cui nel procedimento di esecuzione il giudice può assumere, su richiesta di parte o "ex officio", tutti i documenti e le prove di cui necessita e non deve basarsi, solo ed esclusivamente, sulle sentenze in relazione alle quali è stato promosso l’incidente d’esecuzione (Sez. 1, n. 17020 del 09/01/2015, Zampaglione, Rv. 263363, relativa a procedimento per l’applicazione della continuazione in executivis), potendo addirittura disporre perizia (cfr. Sez. 3, n. 30167 del 09/05/2017, D’Errico, Rv. 270222), con l’unico limite, previsto dalla citata disposizione, del rispetto del contraddittorio (cfr. Sez. 1, n. 52620 del 08/11/2017, Gallone, Rv. 271814; Sez. 1, n. 8585 del 11/02/2015, Bazzocchi, Rv. 262555).
 
Nulla osta, pertanto, laddove ciò sia ritenuto necessario, all’acquisizione della relazione del consulente tecnico della difesa ed alla sua audizione al fine di chiarire se la volumetria delle opere abusive – come il ricorrente allega, sviluppando calcoli che sarebbe possibile effettuare sulla scorta degli stessi dai contenuti in sentenza – imponga la riqualificazione dei reati di cui ai capi a) e/o c) quali contravvenzioni, onde farne discendere le conseguenze prospettate dal ricorrente. 
 
5. L’ordinanza impugnata deve dunque essere annullata con rinvio al Tribunale di Chieti, che si atterrà ai seguenti principi di diritto: il giudice dell’esecuzione, adito per l’applicazione in sede esecutiva della sent. Corte cost. n. 52 del 2016, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale dell’art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n.42 del 2004, il cui delitto sia stato ritenuto con la sentenza di condanna divenuta definitiva, deve dichiarare, anche d’ufficio, ai sensi dell’art. 30, quarto comma, legge n. 87 del 1953, l’estinzione per prescrizione del reato oggetto della sentenza definitiva di condanna che debba essere riqualificato come contravvenzione ai sensi del comma 1 della norma incriminatrice citata, qualora la prescrizione sia maturata in pendenza del procedimento di cognizione e gli effetti della condanna non siano ancora esauriti; negli stessi casi, laddove il reato non sia prescritto, il giudice dell’esecuzione deve rideterminare la pena in relazione alla diversa cornice edittale prevista per la fattispecie contravvenzionale; il relativo potere/dovere del giudice dell’esecuzione dev’essere esercitato quando ci si trovi di fronte ad una condanna definitiva a pena illegale derivante dalla declaratoria d’illegittimità costituzionale della norma incriminatrice non ravvisata dal giudice della cognizione, senza che il medesimo si sia posto il relativo problema giuridico ed abbia espresso le sue valutazioni, non essendo in tal caso la correzione dell’errore preclusa dal giudicato neppure laddove questo si sia formato sulla base di una decisione assunta successivamente alla declaratoria di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice; nel procedimento di esecuzione, nel rispetto del contraddittorio, il giudice, su richiesta di parte o "ex officio", può assumere tutte le prove necessarie per la decisione, ivi compresa l’audizione del consulente tecnico di parte nominato dal condannato e l’acquisizione della relazione dal medesimo  predisposta, e non deve basarsi, solo ed esclusivamente, sulla sentenza in relazione alla quale è stato promosso l’incidente d’esecuzione. 
 
P.Q.M.
 
Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Chieti.
 
Così deciso il 27 febbraio 2019

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