Provvedimento: Sentenza
Sezione: 3^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 27 Febbraio 2014
Numero: 9607
Data di udienza: 14 Novembre 2013
Presidente: Teresi
Estensore: Andronio
Premassima
BENI CULTURALI E AMBIENTALI – Vincolo paesaggistico – Beni tutelati – Elenchi compilati ai sensi della L. n.149739 – Effetti – Tutela dei beni paesistici – Riduzione in pristino – Rapporto diretto del soggetto condannato – Legale rappresentante della società proprietaria del bene – Artt. 136, 142, 146 e 181, d.lgs. n. 42 del 2004 – D. M. 15/04/1958 – DIRITTO URBANISTICO – Piano di recupero – Efficacia giuridica – Difformità degli interventi realizzati – Effetti – Artt. 31, 32 e 44, c.1, lett.b) e c), d.P.R. n. 380/2001 – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Falsità ideologica in certificati – Fattispecie: richiesta del permesso di costruire.
Massima
CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^, 27/02/2014 (Udc. 14/11/2013), Sentenza n. 9607
BENI CULTURALI E AMBIENTALI – Vincolo paesaggistico – Beni tutelati – Elenchi compilati ai sensi della L. n.149739 – Effetti.
Si può dedurre dal complesso sistema di tutela approntato dal
d.lgs. n. 42 del 2004, che i beni inseriti negli elenchi compilati ai sensi della legge n. 1497 del 1939 sono tuttora sottoposti a vincolo paesaggistico, senza alcuna soluzione di continuità rispetto ai regimi previgenti (Cass., sez. 3, 18/05/2011, n. 35728; sez. 3, 15/07/2011, n. 30551).
(riforma sentenza della Corte d’appello di Milano del 31/05/2012) Pres. Teresi, Est. Andronio, Ric. Calcagni ed altro
In tema di tutela dei beni paesistici, sussiste un rapporto diretto del soggetto condannato con il bene oggetto del ripristino ex
art. 181, comma 2, del d.lgs. n. 42 del 2004, anche nel caso in cui il condannato sia il legale rappresentante della società proprietaria del bene. Del resto, anche la persona giuridica alla quale appartengono le opere illegittimamente realizzate da chi all’epoca ne era legale rappresentante e nei confronti del quale sia stata pronunciata condanna può essere tenuta alla riduzione in pristino (Cass. sez. 3, 21/10/2009, n. 47281; sez. 3, 4/2/2000, n. 3679).
(riforma sentenza della Corte d’appello di Milano del 31/05/2012) Pres. Teresi, Est. Andronio, Ric. Calcagni ed altro
Il piano di recupero è uno strumento urbanistico dotato di efficacia giuridica equivalente al piano particolareggiato, dal quale si differenzia perché è finalizzato non tanto alla complessiva trasformazione del territorio, quanto al recupero del patrimonio edilizio-urbanistico esistente, con interventi rivolti alla conservazione, alla ricostruzione e alla migliore utilizzazione del patrimonio stesso. Il piano di recupero, inoltre, è gerarchicamente subordinato al piano regolatore e al programma di fabbricazione. Se ne conclude che la difformità degli interventi realizzati rispetto al piano di recupero assume in ogni caso rilevanza penale. Nella specie, a tale considerazione deve aggiungersi che il permesso di costruire in base al quale le opere sono state realizzate era comunque illegittimo, perché frutto di una falsa rappresentazione della consistenza dell’immobile posta in essere dal progettista (le opere, inoltre, configuravano variazioni essenziali ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto creavano un organismo edilizio integralmente diverso per utilizzazione e per caratteristiche planovolumetriche e tipologiche).
(riforma sentenza della Corte d’appello di Milano del 31/05/2012) Pres. Teresi, Est. Andronio, Ric. Calcagni ed altro
DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Falsità ideologica in certificati – Fattispecie: richiesta del permesso di costruire.
Integra il delitto di falsità ideologica in certificati la presentazione a corredo della richiesta del permesso di costruire di una planimetria falsamente descrittiva dello stato dei luoghi, di cui rispondono sia il professionista, che ha redatto la planimetria, che il committente che ha allegato la stessa alla richiesta del permesso di costruire (Cass., sez. 3, 23/06/2009, n. 30401; sez. 5, 21/03/2006, n. 15860).
(riforma sentenza della Corte d’appello di Milano del 31/05/2012) Pres. Teresi, Est. Andronio, Ric. Calcagni ed altro
Allegato
Titolo Completo
CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^, 27/02/2014 (Udc. 14/11/2013), Sentenza n. 9607
SENTENZA
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
TERZA SEZIONE PENALE
Composta da
Alfredo Teresi – Presidente
Luigi Marini
Gastone Andreazza
Alessio Scarcella
Alessandro M. Andronio – Relatore
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
– Calcagni Franco Maria, nato il 5 agosto 1947
– Montesi Alberto, nato il 28 marzo 1959
avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano del 31 maggio 2012;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessandro M. Andronio;
udito il pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore generale, Enrico
Delehaye, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi gli avv.ti Aldo Turconi e Corrado Limentani, in sostituzione dell’avv. Ruggero Tumbiolo, per Calcagni; Carlo Clementini, per Montesi.
RITENUTO IN FATTO
1. – Con sentenza del 22 giugno 2010, il Tribunale di Como – per quanto qui rileva – ha ritenuto gli imputati Calcagni Franco Maria e Montesi Alberto colpevoli dei seguenti reati:
A)
art. 44, comma 1, lettere b) e c), del d.P.R. n. 380 del 2001, perché, nell’ambito dei lavori di ristrutturazione di un edificio ad uso residenziale, ex filanda, il primo nella sua qualità di legale rappresentante della società proprietaria dell’edificio e committente delle opere, il secondo nella sua qualità di progettista e direttore dei lavori, nonché di socio di tale società, in totale difformità o assenza del permesso di costruire e in violazione del piano di recupero approvato e convenzionato, in area soggetta a vincolo ambientale:
a) effettuavano l’innalzamento delle linee di gronda e di colmo, la modifica dell’andamento delle falde di copertura e la modifica della sagoma dell’edificio;
b) destinavano ad uso residenziale il piano sottotetto, in difformità dal piano di recupero;
c) realizzavano alcuni terrazzini al piano sottotetto, una finestra sul fronte Nord al piano terra e un’apertura trapezoidale al piano terra;
Il solo Montesi è stato ritenuto responsabile anche del reato di cui agli artt. 81, secondo comma, e 481 cod. pen. (capo F dell’imputazione), perché, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, nella sua qualità di progettista delle opere descritte al capo precedente, negli elaborati grafici allegati alla pratica edilizia relativa al permesso di costruire, effettuava le seguenti false attestazioni:
a) raffigurava i prospetti privi di quote, con differenza sostanziale rispetto ai prospetti allegati al piano di recupero;
b) rappresentava i prospetti ovest con un dislivello pari a metri 20,65, a fronte di un dislivello di metri 19,40 risultante dal piano di recupero;
c) riportava come esistente una colonna di quattro balconi, accompagnata dalla dicitura “balconi già autorizzati”;
d) non rappresentava 4 finestre e una tettoia esistenti, mentre aggiungeva due finestre, una balconata continua, un balcone al piano inferiore, un portone, tutti non rilevati nel piano di recupero;
e) rappresentava come prolungata la balconata già esistente al primo piano.
Con sentenza del 31 maggio 2012, la Corte d’appello di Milano, in accoglimento del ricorso del pubblico ministero: ha ritenuto sussistente, quanto al capo A), la sola ipotesi di reato di cui all’
art. 44, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 380 del 2001; ha ritenuto sussistente, quanto al capo B), il delitto di cui all’
articolo 181, comma 1-bis, del d.lgs. n. 42 del 2004, per il particolare interesse pubblico dell’area su cui sorge il manufatto; e ha rideterminato le pene in aumento, considerando tale ultimo reato quale reato base, in quanto più grave in astratto. In accoglimento del ricorso dell’imputato Montesi ha, inoltre, revocato, limitatamente alla sua posizione, la subordinazione della riconosciuta sospensione condizionale della pena alla rimessione in pristino dello stato dei luoghi.
2. – Avverso la sentenza l’imputato Calcagni ha proposto personalmente ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. – Con un primo motivo di doglianza, si rileva l’erronea applicazione degli articoli 5 e 47 cod. pen., con riferimento alla ritenuta consapevolezza dell’imputato circa l’illegittimità del permesso di costruire n. 9 del 2005 rilasciato dal Comune e delle successive varianti, nonché delle autorizzazioni paesaggistiche aventi ad oggetto i lavori di ristrutturazione edilizia. Si contestano, in particolare, gli assunti secondo cui il permesso di costruire n. 9 del 2005 sarebbe un provvedimento di rango inferiore rispetto alla convenzione originaria e, conseguentemente, non consentirebbe di superare le previsioni contenute nel piano di recupero, risalente al 1997. Si contesta altresì l’assunto secondo cui il fatto che il progetto allegato alla richiesta di permesso di costruire del 2005 presentasse alcuni elementi differenziali rispetto all’originario piano di recupero avrebbe imposto di richiedere una variante dello stesso. Lamenta, in particolare, il ricorrente che la Corte d’appello non avrebbe considerato il fatto che egli non dispone di nozioni tecnico-giuridiche tali da consentirgli di cogliere la presunta illegittimità degli atti amministrativi in questione; non trattandosi di profili di illegittimità macroscopica.
2.2. – Si lamentano, in secondo luogo, la carenza e la manifesta illogicità della motivazione, nonché la violazione di legge, in relazione all’esistenza di un vincolo paesaggistico ex
art. 181, comma 1-bis, lettera a), del d.lgs. n. 42 del 2004 sull’area in cui sorge il manufatto. Rileva il ricorrente che la presenza di un tale vincolo non era stata indicata neppure nelle autorizzazioni rilasciate dal Comune. Né si sarebbe considerato che la violazione di tale vincolo è sanzionata solo nei casi previsti dall’art. 181, comma 1-bis, lettera b), cioè quando i lavori hanno comportato un aumento dei manufatti superiore al 30% della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento della medesima superiore a 750 m3, ovvero, ancora, abbiano comportato una nuova costruzione con una volumetria superiore ai 1000 m3; ipotesi che non si sarebbero verificate nel caso di specie.
3. – La sentenza è stata impugnata anche dai difensori dell’imputato Calcagni.
3.1. – Con un primo motivo di doglianza, si rilevano l’inosservanza e l’erronea applicazione dell’art. 5 della legge regionale n. 1 del 2001, 1, nonché dell’articolo 32.4.4 delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore generale e la mancanza e manifesta illogicità della motivazione quanto alla necessità del piano di recupero alla data di rilascio del permesso di costruire n. 9 del 2005. Non si sarebbe considerato, in particolare, che il richiamato art. 5 della legge regionale n. 1 del 2011 ha eliminato l’obbligo del piano di recupero per gli interventi da realizzarsi nel centro storico. Si sostiene, altresì, che, in ogni caso, gli interventi di ristrutturazione edilizia sono ammessi con semplice permesso di costruire, a condizione che siano rispettati i caratteri tipologici e formali originari e che non modifichino la destinazione d’uso; destinazione che nel caso di specie non sarebbe incoerente con la classificazione della zona A1, sussistendo un divieto di destinazione relativamente alle sole attività artigianali, di distribuzione commerciale e agricole. Nel caso di specie, dunque, l’intervento assentito con il permesso di costruire n. 9 del 2005, che aveva natura di ristrutturazione edilizia e non aveva comportato un mutamento di destinazione d’uso, non doveva ritenersi subordinato alla pianificazione attuativa.
3.2. – Con un secondo motivo di doglianza si rilevano l’erronea applicazione dell’art. 8 della legge regionale n. 14 del 1984, dell’art. 7 della legge regionale n. 23 del 1997, dell’art. 14 della legge regionale n. 12 del 2005, degli articoli 10.13.2 e 10.16.1 delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore, nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Si lamenta, in particolare, che la Corte d’appello avrebbe riconosciuto che il permesso di costruire non prevedeva la trasformazione del sottotetto in volume abitabile ed avrebbe effettuato una valutazione di fatto circa il mutamento di destinazione del sottotetto stesso, sul rilievo della presenza di rifiniture e della presenza di terrazzini non previsti nel progetto. Non si sarebbe considerato, in particolare, che, in forza delle disposizioni di legge regionale sopra citate, vi è la possibilità, in sede di esecuzione di un piano attuativo, di introdurre modifiche planovolumetriche senza alterazione delle caratteristiche tipologiche di impostazione dello strumento attuativo e senza incidere sul dimensionamento globale degli insediamenti e operare una diminuzione della dotazione di aree per servizi pubblici di interesse pubblico generale. Né si sarebbe considerato, secondo la difesa, che l’innalzamento delle linee di gronda e di colmo non avrebbe inciso sull’altezza dell’edificio, visto che tale altezza si misurerebbe sino all’intradosso del solaio di copertura dell’ultimo vano abitabile e non fino alla falda o al colmo. Quanto all’affermazione secondo cui la rappresentazione dello stato di fatto nelle tavole a corredo del permesso di costruire sarebbe difforme da quello rappresentato nel piano di recupero, la difesa sostiene che nel capo d’imputazione non si contesta di legittimità del titolo edilizio perché fondato su una falsa rappresentazione dello stato di fatto, ma solo perché questo sarebbe stato rilasciato in difformità dal piano di recupero quanto all’innalzamento del limite di gronda e di colmo, alla modifica dell’andamento delle falde e alla destinazione d’uso residenziale del sottotetto.
3.3. – Con un terzo motivo di doglianza, si deducono la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione circa l’equiparazione tra illegittimità del titolo e assenza di titolo edilizio. Tale equiparazione sarebbe, in particolare, un’inammissibile ingerenza sull’attività amministrativa e, comunque, non potrebbe mai portare a superare la presunzione di legittimità degli atti amministrativi; con la conseguenza che mai potrebbe essere ritenuto sussistente l’elemento psicologico della contravvenzione, quantomeno qualora la violazione delle norme urbanistiche non fosse grossolana o macroscopica.
3.4. – Si contesta, con un quarto motivo di ricorso, la motivazione circa la presenza di variazioni essenziali o in totale difformità e circa l’asserita realizzazione del sottotetto in difformità dal permesso di costruire. La difesa evidenzia che, a differenza dell’
art. 32 del d.P.R. n. 380 del 2001, l’art. 54 della legge regionale n. 12 del 2005 – che sarebbe, a suo dire, applicabile nella presente fattispecie – non dà alcun rilievo, ai fini della qualificazione delle variazioni come essenziali o meno, alla circostanza che l’area sia assoggettata a vincolo paesaggistico. Ne conseguirebbe sempre secondo la difesa – che le modifiche dell’altezza inferiore al metro non potrebbero essere considerate quali variazioni essenziali. Quanto ai mutamenti della destinazione d’uso – prosegue la difesa – questi configurano variazioni essenziali sono nel caso in cui comportino una carenza di aree per servizi e attrezzature di interesse generale e l’interessato non provveda a reperire ulteriori aree necessarie ai sensi degli artt. 54 e 51 della richiamata legge regionale n. 12 del 2005. Né sarebbero configurabili, nel caso di specie, lavori eseguiti in totale difformità.
3.5. – Con un quinto motivo di doglianza, si deducono la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione, nonché la violazione della norma incriminatrice e degli artt. 41 e 54 della legge regionale n. 12 del 2005, in relazione alle singole opere asseritamente realizzate in difformità e, in particolare: ai terrazzini al piano sottotetto, alla finestra sul fronte Nord e all’apertura trapezoidale al piano terra. Si lamenta, inoltre, che non si sarebbe tenuta in considerazione l’evidente assenza dell’elemento psicologico.
3.6. – Il sesto motivo di impugnazione è riferito alla condanna per il capo B) dell’imputazione. Si contesta, innanzitutto, la configurabilità di un vincolo paesaggistico sull’area, perché la stessa si trovava in zona A1 in virtù del piano regolatore generale. Si contesta, altresì, la ricostruzione interpretativa secondo cui i beni individuati in base a decreti legittimamente emanati nella vigenza della legge n.1497 del 1939 sarebbero a tutt’oggi ancora sottoposti a vincolo. E ciò perché il testo unico n. 490 del 1999 doveva ritenersi meramente compilativo ed aveva, perciò, creato una cesura tra il vecchio regime e quello attualmente vigente in forza dell’
art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004. Se ne deduce – secondo la difesa – l’insussistenza sia del vincolo di cui all’
art. 142 del d.lgs. n. 42 del 2004, per la vicinanza dell’immobile al lago, sia di quello derivante dal decreto ministeriale del 15 aprile 1958. Quanto, poi, alle singole opere realizzate, queste non sarebbero difformi dal permesso di costruire rilasciato, neanche ai fini paesaggistici.
3.7. – Con un settimo motivo di doglianza, si denunciano la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione nonché la violazione delle disposizioni incriminatrici quanto alla sussistenza del dolo relativamente al reato di cui all’art. 181, comma 1-bis, del d.lgs. n. 42 del 2004. Tale ultima disposizione si applicava – secondo la difesa – nella sua versione vigente al momento dei fatti – che risalgono, sempre secondo la difesa, al 19 aprile 2005 – esclusivamente con riferimento agli immobili dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato sulla base della nuova disciplina introdotta dal
d.lgs. n. 42 del 2004 e non con provvedimenti emanati sulla base della disciplina previgente.
Mancherebbe, inoltre, una motivazione circa la sussistenza del dolo del reato in capo all’imputato Calcagni.
3.8. – Proprio sul profilo del dolo si incentra l’ottavo motivo di ricorso, con cui si prospettano la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione, perché non si sarebbe considerato che Calcagni: aveva agito sul presupposto della sussistenza di validi ed efficaci titoli costituiti dalle autorizzazioni ambientali e della concessione edilizia, non aveva predisposto gli elaborati contestati come falsi, non aveva mai presentato richieste di concessione in sanatoria ma solo varianti in corso d’opera, aveva sempre indicato come non abitabile il piano sottotetto, era stato rassicurato dal progettista e dagli altri tecnici circa la piena legittimità del progetto e delle varianti.
3.9. – In via subordinata, si rilevano l’erronea applicazione dell’art. 165 cod. pen. e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione quanto alla subordinazione della sospensione condizionale della pena alla rimessione in pristino. Non si sarebbe precisato, in particolare, cosa dovesse intendersi per “pristino stato” né quali interventi dovessero, in concreto, essere eseguiti. Né si sarebbe adeguatamente risposto all’obiezione difensiva secondo cui la potestà di intervenire sul manufatto è di esclusiva competenza della società committente, soggetto giuridico autonomo e diverso dalla persona fisica del condannato; con la conseguenza che l’eventuale inottemperanza dalla società avrebbe esposto l’incolpevole imputato, suo malgrado, alla privazione della libertà personale.
4. – La sentenza è stata impugnata, tramite i difensori, anche dall’imputato Montesi, il quale propone, fra gli altri, motivi di ricorso analoghi a quelli proposti dal coimputato circa la vigenza del piano di recupero e circa la configurabilità del vincolo paesaggistico.
4.1. – Quanto alla pretesa partecipazione dell’imputato all’attività di progettazione e di realizzazione dei lavori avente ad oggetto i terrazzini e la destinazione residenziale del sottotetto, si deducono il travisamento del fatto e la violazione dell’art. 14 della legge regionale n. 12 del 2005. Rileva, in particolare, la difesa che l’imputato aveva predisposto la variante che prevedeva la realizzazione di terrazzini, ma tale variante non aveva avuto alcun effetto perché non era stata approvata e, dunque, non aveva nulla a che vedere con la ristrutturazione edilizia per destinare a residenza la ex filanda. Non si sarebbe considerato, in particolare, che, quanto alla posizione del progettista non rileva lo stato di realizzazione delle opere, ma il solo contributo in sede progettuale, senza che i giudici abbiano indicato in quali elaborati grafici a firma dell’imputato risultasse una destinazione abitativa del locale sottotetto.
4.2. – Si deducono anche la violazione e la falsa applicazione dell’art. 481 cod. pen., perché non si sarebbe considerato che le relazioni tecniche e le tavole progettuali allegate alla richiesta del permesso di costruire non hanno valore probante, tanto che la pubblica amministrazione è tenuta a verificarne la veridicità; con la conseguenza che la condotta del progettista sarebbe inidonea a ingannare la pubblica amministrazione. Quest’ultima, del resto, avrebbe potuto facilmente verificare la difformità fra gli elaborati redatti dall’imputato e il piano di recupero.
4.3. – Si rileva, infine, l’intervenuta prescrizione dei reati contestati, con particolare riferimento al reato di cui all’art. 481 cod. pen., perché si sarebbe consumato prima del rilascio del permesso di costruire n. 9 del 14 aprile 2005.
CONSIDERATO IN DIRITTO
5. – I ricorsi di Calcagni Franco Maria sono infondati.
5.1. – Il motivo di doglianza sub 3.1. ha carattere pregiudiziale, perché con esso si sostiene, in sostanza che – in forza dell’art. 5 della legge regionale n. 1 del 2001, nonché dell’art. 32.4.4 delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore generale – non vi è necessità di piano di recupero per interventi quali quelli realizzati nel caso di specie.
Tale ricostruzione non è condivisibile, anche a prescindere dall’ulteriore considerazione che – come si vedrà – le opere oggetto dell’imputazione sono comunque illegittime perché configurano variazioni essenziali ai sensi dell’
art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto creano un organismo edilizio integralmente diverso per utilizzazione e per caratteristiche planovolumetriche e tipologiche.
Come correttamente evidenziato dalla Corte d’appello, il piano di recupero è uno strumento urbanistico dotato di efficacia giuridica equivalente al piano particolareggiato, dal quale si differenzia perché è finalizzato non tanto alla complessiva trasformazione del territorio, quanto al recupero del patrimonio edilizio-urbanistico esistente, con interventi rivolti alla conservazione, alla ricostruzione e alla migliore utilizzazione del patrimonio stesso. Il piano di recupero, inoltre, è gerarchicamente subordinato al piano regolatore e al programma di fabbricazione. Nella specie, il piano era stato adottato con delibera n. 33 del 30 novembre 1996, che aveva mutato in residenziale l’originaria destinazione all’attività produttiva dell’edificio, a condizione che l’altezza, la sagoma e la consistenza planovolumetrica dell’originario edificio restassero inalterate. Al piano era seguita la convenzione attuativa stipulata il 9 ottobre 1997, che prevedeva una serie di oneri a carico della parte, quali la cessione a titolo gratuito di alcune aree, la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria, l’assunzione degli oneri di urbanizzazione secondaria. Per tali opere dovevano essere presentati progetti esecutivi al fine di del rilascio del permesso di costruire.
Tale essendo la situazione di fatto descritta in sentenza, deve rilevarsi che le modifiche della normativa e della pianificazione generale richiamate dal ricorrente – e, in particolare l’art. 5 della legge della Regione Lombardia n. 1 del 2001 e l’art. 32.4.4 delle norme tecniche attuative di cui alla variante al piano regolatore generale adottata il 25 gennaio 2003 – non fanno venire meno la necessità del piano di recupero, perché si riferiscono evidentemente alle attività edilizie che si svolgeranno a partire dalla loro entrata in vigore. Del resto – come correttamente evidenziato dalla Corte d’appello – diversamente opinando, la società dell’imputato avrebbe dovuto richiedere nuovamente al Comune l’approvazione del mutamento di destinazione della filanda, posto che quello autorizzato con il piano di recupero aveva perso efficacia.
Venendo più specificatamente all’interpretazione del richiamato art. 5 della legge regionale n. 1 del 2001, va premesso che esso prevedeva – per quanto qui rileva – che il piano regolatore generale individuasse gli ambiti e le tipologie di intervento soggetti a preventivo piano attuativo, nonché le zone di recupero. Tale previsione deve essere interpretata nel senso che essa non fa venire meno la disciplina previgente e, dunque, mantiene inalterata l’efficacia di atti amministrativi precedentemente adottati, anche perché si riferisce a un meccanismo, quello del piano attuativo, in tutto per tutto assimilabile a quello adottato nel caso di specie. Coerente con tale previsione è il richiamato art. 32.4.4 delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore, secondo cui vi è la possibilità di fare ricorso alla concessione edilizia convenzionata proprio nei casi – come quello di specie – in cui l’intervento di ristrutturazione comporti anche mutamenti di destinazione d’uso.
Se ne conclude che la difformità degli interventi realizzati rispetto al piano di recupero assume in ogni caso rilevanza penale. A tale considerazione deve aggiungersi peraltro – come già anticipato e come si vedrà più dettagliatamente nel prosieguo – che, anche a prescindere da tali considerazioni il permesso di costruire in base al quale le opere sono state realizzate è comunque illegittimo, perché è frutto di una falsa rappresentazione della consistenza dell’immobile posta in essere dal progettista.
Ne deriva l’infondatezza del motivo di ricorso.
5.2. – Il motivo di doglianza sub 3.2. è anch’esso infondato.
Infatti, le disposizioni di legge e la normativa tecnica richiamate dalla difesa ricorrente (art. 8 della legge regionale n. 14 del 1984, art. 7 della legge regionale n. 23 del 1997, art. 14 della legge regionale n. 12 del 2005, artt. 10.13.2 e 10.16.1 delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore), sono invocate in riferimento all’ipotesi, evidentemente diversa da quella in esame, in cui non vi sia una modifica nel dimensionamento dell’insediamento, perché consentono, limitatamente a tale ipotesi, la possibilità di introdurre variazioni planovolumetriche.
Come bene evidenziato dalla Corte d’appello, nel caso di specie vi sono state modifiche della falda delle linee di gronda che hanno inciso sull’altezza dell’edificio e hanno comportato una modifica della capacità insediativa, per la creazione ex novo di un sottotetto a destinazione residenziale. Le argomentazioni difensive si fondano, del resto, sul falso presupposto che, mancando l’altezza minima prevista dalle norme igienico-sanitarie per rendere il sottotetto abitabile, questo non potrebbe comunque considerarsi abitabile e non sarebbe dunque dotato di destinazione residenziale. La falsità di tale presupposto è evidente; ciò che conta non è infatti che l’altezza realizzata sia inferiore a quella minima prevista per i locali abitabili, ma che il sottotetto sia stato realizzato per essere destinata in concreto a fini abitativi, pur essendo privo dell’altezza regolamentare. E tale illegittima destinazione emerge sia dalla circostanza che lo stesso sottotetto è stato posto in commercio come abitativo sia dall’ulteriore considerazione che esso è dotato di terrazzini in falda sul lato prospiciente al lago, la cui presenza è evidentemente incompatibile con la destinazione al deposito di materiale di cantiere o a ripostiglio prospettata dalla difesa. Si tratta infatti – come evidenziato dai giudici di primo e secondo grado – di terrazzini dotati di impermeabilizzazione e muniti di pluviale, rifiniti con le caratteristiche tipiche degli esterni degli immobili residenziali.
Quanto alla specifica censura secondo cui l’innalzamento delle linee di gronda e di colmo non avrebbe inciso sull’altezza dell’edificio, visto che tale altezza si misurerebbe sino all’intradosso del solaio di copertura dell’ultimo vano abitabile e non fino alla falda o al colmo, è sufficiente qui osservare che la stessa prende le mosse da un presupposto di fatto che si pone in contrasto con l’analitica valutazione delle risultanze istruttorie operata dalla Corte d’appello. È infatti proprio il sottotetto abusivamente realizzato l’ultimo vano abitabile dell’edificio rispetto al quale l’altezza dell’edificio stesso deve essere misurata, anche seguendo il criterio richiamato dalla difesa; con l’evidente conseguenza che, nel caso di specie, si è realizzato un abusivo incremento dell’altezza stessa.
Le considerazioni già svolte sub 5.1 circa la necessità nel caso di specie del piano di recupero rendono irrilevante l’ulteriore considerazione difensiva relativa al fatto che il titolo edilizio sarebbe illegittimo, secondo quanto riportato nell’imputazione, solo perché in contrasto con detto piano di recupero. Infatti, anche a prescindere dagli ulteriori profili di illegittimità – di cui si dirà – il contrasto con il piano di recupero è di per sé ampiamente sufficiente a rendere illegittimo il titolo edilizio in questione.
5.3. – Il motivo di doglianza sub 3.3. è, invece, inammissibile per manifesta infondatezza.
La difesa muove, infatti, da un presupposto puntualmente smentito nella motivazione della sentenza impugnata, laddove si evidenzia che l’illegittimità del permesso di costruire è, nel caso di specie, macroscopica ed induce a ritenere sussistente con certezza il reato anche sotto il profilo soggettivo. E ciò, perché il permesso di costruire:
a) si pone in contrasto con il piano di recupero;
b) è stato ottenuto sulla base di una falsa rappresentazione della consistenza iniziale dell’immobile;
c) è stato comunque violato, quanto meno attraverso la destinazione d’uso residenziale del piano sottotetto, che non era prevista né dal piano di recupero, né dallo stesso permesso di costruire.
I riferimenti al superamento della presunzione di legittimità degli atti amministrativi – anche a prescindere dalla loro correttezza sul piano giuridico risultano, dunque ultronei, in presenza di violazioni consapevoli e macroscopiche della legge, del piano di recupero, del titolo abilitativo.
5.4. – Il motivo di ricorso sopra riportato sub 3.4. – con cui si contesta la motivazione della sentenza circa la presenza di variazioni essenziali o in totale difformità e circa l’asserita realizzazione del sottotetto in difformità dal permesso di costruire – è infondato.
La difesa sostiene, in particolare, che, a differenza dell’
art. 32 del d.P.R. n. 380 del 2001, l’art. 54 della legge regionale n. 12 del 2005 – che sarebbe, a suo dire, applicabile nella presente fattispecie – non dà alcun rilievo, ai fini della qualificazione delle variazioni come essenziali o meno, alla circostanza che l’area sia assoggettata a vincolo paesaggistico. Ne conseguirebbe – sempre secondo la difesa – che le modifiche dell’altezza inferiore al metro non potrebbero essere considerate quali variazioni essenziali.
Deve richiamarsi, anche su questo punto, l’analitica motivazione fornita dalla Corte d’appello, la quale ribadisce che, nel caso di specie, il permesso di costruire non prevedeva la trasformazione del sottotetto in volume abitabile. In punto di diritto, la stessa Corte evidenzia, poi che l’
articolo 31, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 assimila agli interventi eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire l’esecuzione di volumi edilizie oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente realizzabile. Correttamente la stessa Corte distrettuale ritiene che nel caso di specie vi sia stata una trasformazione sostanziale dell’originaria costruzione tale da interrompere il nesso di riferibilità all’originario progetto autorizzato dell’immobile concretamente realizzato; con la conseguenza che non possono trovare applicazione né l’ipotesi meno grave di cui alla lettera a) del
comma 1 dell’art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, né la previsione dell’art. 54 della legge regionale n. 12 del 2005 richiamata dalla difesa. E ciò, a prescindere dall’ulteriore considerazione che, nel caso di specie, le opere sono state realizzate in presenza di vincolo paesaggistico, tanto che trova applicazione anche l’
art. 32, comma 3, del richiamato d.P.R. n. 380 del 2001, a norma del quale tutti gli interventi realizzati in presenza di un tale vincolo, inclusi quelli eseguiti in difformità solamente parziale, si considerano come variazioni essenziali e, quindi, in difformità totale (sez. 3, 17 febbraio 2010, n. 16392, rv. 246960; in senso analogo, sez. 3, 22 settembre 2011, n. 36095, rv. 251263).
5.5. – Anche il motivo di doglianza sub 3.5. è infondato.
Con esso, si deducono, infatti, la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione, nonché la violazione della norma incriminatrice e degli artt. 41 e 54 della legge regionale n. 12 del 2005, in relazione alle singole opere asseritamente realizzate in difformità e, in particolare: ai terrazzini al piano sottotetto, alla finestra sul fronte nord e all’apertura trapezoidale al piano terra.
Ai rilievi già svolti circa l’evidente difformità di tali opere dal piano di recupero può qui aggiungersi che la Corte d’appello motivatamente osserva che, sotto l’aspetto soggettivo, vi era piena consapevolezza del mutamento di destinazione degli alloggi, anche per l’evidente sproporzione tra gli spazi destinati ad uso appropriatamente residenziale e quelli indicati come accessori (e in realtà abusivamente destinati anch’essi all’uso residenziale). Quanto alle finestre illecitamente realizzate, è sufficiente osservare che le stesse sono riconducibili alla falsa rappresentazione dello stato dei luoghi di cui al capo F), n. 11) dell’imputazione.
Tali considerazioni rendono evidentemente sussistente secondo la Corte d’appello – come già visto – l’elemento psicologico del dolo in capo all’imputato Calcagni.
5.6. – I motivi di ricorso sub 3.6., 3.7. e 2.2. possono essere trattati congiuntamente, perché attengono alla configurabilità del vincolo paesaggistico sull’area.
La prospettazione difensiva si basa su un duplice ordine di considerazioni, variamente circostanziate e argomentate:
a) il decreto ministeriale 15 aprile 1958, con il quale era stato dichiarato il notevole interesse pubblico dell’area non può costituire il fondamento normativo per la sussistenza del reato di cui all’
art. 181, comma 1-bis, del d.lgs. n. 42 del 2004, perché tale ultima disposizione si riferisce solo alla violazione dei vincoli posti successivamente alla sua entrata in vigore;
b) la violazione di tale vincolo è sanzionata solo nei casi previsti dall’
art. 181, comma 1-bis, lettera b), cioè quando i lavori hanno comportato un aumento dei manufatti superiore al 30% della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento della medesima superiore a 750 m3, ovvero, ancora, abbiano comportato una nuova costruzione con una volumetria superiore ai 1000 m3; ipotesi che non si sarebbero verificate nel caso di specie.
Entrambi tali assunti sono infondati.
Quanto al primo, è sufficiente rilevare che il dato testuale e il complesso del sistema di tutela approntato dal
d.lgs. n. 42 del 2004 inducono a ritenere che i beni inseriti negli elenchi compilati ai sensi della legge n. 1497 del 1939 sono tuttora sottoposti a vincolo paesaggistico, senza alcuna soluzione di continuità rispetto ai regimi previgenti (
ex multis, sez. 3, 18 maggio 2011, n. 35728, rv. 251233; sez. 3, 15 luglio 2011, n. 30551, rv. 251258). Ne consegue l’irrilevanza, a tal fine, delle considerazioni difensive circa il regime applicabile
ratione temporis al caso di specie.
Quanto all’assunto appena sopra riportato sub b) è sufficiente osservare che l’
art. 181, comma 1-bis, lettera a), del d.lgs. 42 del 2004 sanziona ogni violazione del vincolo risultante da un provvedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico, senza richiedere il superamento di alcun limite volumetrico. I limiti volumetrici cui fa riferimento il ricorrente, previsti dalla successiva lettera b) dello stesso art. 181, comma 1-bis, sono invece presi in considerazione nella diversa ipotesi della violazione del vincolo ex
art. 142 dello stesso d.lgs.
Quanto alla motivazione circa la difformità delle opere realizzate e circa la configurabilità del dolo quanto alla violazione del vincolo paesaggistico – oggetto di specifica critica da parte del ricorrente – è sufficiente qui osservare che si tratta di profili che la Corte d’appello ha ritenuto ampiamente accertati, per le stesse ragioni già evidenziate ai punti 5.3., 5.4., 5.5.
5.7. – Analoghe ragioni inducono a ritenere infondato anche il motivo sub 3.8., con cui si prospettano la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione, perché non si sarebbe considerato, al fine di escludere la configurabilità del dolo, che Calcagni: aveva agito sul presupposto della sussistenza di validi ed efficaci titoli costituiti dalle autorizzazioni ambientali e dalla concessione edilizia, non aveva predisposto gli elaborati contestati come falsi, non aveva mai presentato richieste di concessione in sanatoria ma solo varianti in corso d’opera, aveva sempre indicato come non abitabile il piano sottotetto, era stato rassicurato dal progettista e dagli altri tecnici circa la piena legittimità degli atti.
Del tutto corretta e coerente risulta, sul punto, la motivazione della sentenza impugnata, laddove desume l’assoluta intenzionalità delle condotte illecite contestate a entrambi gli imputati sulla base di elementi correttamente ritenuti univoci e concordanti quali: la falsa rappresentazione dello stato di fatto nella richiesta del permesso di costruire e il macroscopico contrasto fra le opere realizzate, da un lato, e il piano di recupero e il permesso di costruire, dall’altro.
5.8. – Le considerazioni che precedono inducono, nel loro complesso, a ritenere infondato anche il motivo sopra riportato sub 2.1.
Con esso ci si riferisce, infatti, sostanzialmente alla motivazione della sentenza impugnata circa la consapevolezza dell’imputato relativamente all’illegittimità del permesso di costruire n. 9 del 2005 e delle successive varianti, nonché delle autorizzazioni paesaggistiche; ci si riferisce inoltre alla pretesa mancanza di nozioni tecnico-giuridiche in capo all’imputato. Censure entrambe esaminate e disattese da questa Corte sub 5.3. e 5.7.
Quanto alla contestazione relativa al fatto che il permesso di costruire n. 9 del 2005 sarebbe stato ritenuto illegittimamente un provvedimento di rango inferiore rispetto alla convenzione originaria e, conseguentemente, non avrebbe consentito di superare le previsioni contenute nel piano di recupero, risalente al 1997, vanno qui richiamate le considerazioni già svolte sub 5.1. circa la necessità, nel caso di specie, del pieno rispetto del piano di recupero.
5.9. – Infondato è anche il motivo sub 3.9., formulato in via subordinata, con cui si rilevano l’erronea applicazione dell’art. 165 cod. pen. e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione quanto alla subordinazione della sospensione condizionale della pena alla rimessione in pristino.
Quanto alla mancata precisazione di cosa dovesse intendersi per “pristino stato” e di quali interventi dovessero, in concreto, essere eseguiti, lamentata dalla difesa, va rilevato che la sentenza impugnata reca sul punto una motivazione pienamente sufficiente e logicamente coerente.
La Corte d’appello evidenzia, infatti, che lo stato di fatto pregresso è cristallizzato nel piano di recupero e che l’eliminazione di tutte le illecite modifiche all’edificio preesistente garantisce di per sé anche il ripristino della destinazione non abitativa del sottotetto. Infondato è anche il rilievo difensivo secondo cui la potestà di intervenire sul manufatto è di esclusiva competenza della società committente, soggetto giuridico autonomo e diverso dalla persona fisica del condannato; con la conseguenza che l’eventuale inottemperanza della società avrebbe esposto l’incolpevole imputato, suo malgrado, alla privazione della libertà personale.
La Corte d’appello evidenzia, infatti, che sussiste un rapporto diretto del soggetto condannato con il bene oggetto del ripristino ex
art. 181, comma 2, del d.lgs. n. 42 del 2004, essendo il condannato il legale rappresentante della società proprietaria del bene. Del resto, anche la persona giuridica alla quale appartengono le opere illegittimamente realizzate da chi all’epoca ne era legale rappresentante e nei confronti del quale sia stata pronunciata condanna può essere tenuta alla riduzione in pristino (ex plurimis, sez. 3, 21 ottobre 2009, n. 47281, rv. 245403; sez. 3, 4 febbraio 2000, n. 3679).
6. – Il ricorso di Montesi Alberto è fondato limitatamente all’intervenuta prescrizione del reato di cui al capo F) e infondato quanto al resto.
Come anticipato, alcuni dei motivi proposti sono sovrapponibili a quelli contenuti nei ricorsi presentati nell’interesse del coimputato; su tali doglianze valgono le considerazioni sopra svolte ai punti 5. e seguenti.
6.1. – Venendo agli altri, deve rilevarsi che il motivo riportato sub 4.1. è infondato.
Afferma, in particolare, la difesa che l’imputato aveva predisposto la variante che prevedeva la realizzazione dei terrazzini, ma tale variante non aveva avuto alcun effetto perché non era stata approvata e, dunque, non aveva nulla a che vedere con la ristrutturazione edilizia per destinare a residenza la ex filanda.
Trattasi di considerazioni all’evidenza inconferenti con l’oggetto delle imputazioni, che sono riferite non alle varianti, ma alla difformità delle opere realizzate dal piano di recupero e, in parte, dallo stesso permesso di costruire, nonché alle false attestazioni effettuate al fine dell’ottenimento di detto permesso.
Manifestamente erroneo è poi l’assunto difensivo secondo cui, quanto alla posizione del progettista non rileverebbe lo stato di realizzazione delle opere, ma il solo contributo in sede progettuale.
È infatti proprio il contributo dato dall’imputato in sede progettuale ad essere oggetto della dettagliata contestazione ex art. 481 cod. pen., cui conseguono logicamente la violazione del piano di recupero e del vincolo paesaggistico, contestate ai capi A) e B). Ed è ovvio che la diversa destinazione abitativa del locale sottotetto non risulti dagli elaborati grafici falsamente predisposti dall’imputato, perché il mutamento di destinazione in questione è la necessaria conseguenza, sul piano fattuale, dell’abusiva realizzazione del sottotetto, dei terrazzi e delle finestre che l’imputato aveva, appunto, inteso occultare tramite gli elaborati grafici da lui predisposti.
6.2. – Infondato è il motivo sub 4.2., con cui si sostiene che le relazioni tecniche e le tavole progettuali allegate alla richiesta di permesso di costruire non hanno valore probante, tanto che la pubblica amministrazione è tenuta a verificarne la veridicità; con la conseguenza che la condotta del progettista sarebbe inidonea a configurare il reato di cui all’art. 481 cod. pen.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, integra il delitto di falsità ideologica in certificati la presentazione a corredo della richiesta del permesso di costruire di una planimetria falsamente descrittiva dello stato dei luoghi, di cui rispondono sia il professionista, che ha redatto la planimetria, che il committente che ha allegato la stessa alla richiesta del permesso di costruire (ex multis, sez. 3, 23 giugno 2009, n. 30401, rv. 244588; sez. 5, 21 marzo 2006, n. 15860, rv. 234601).
6.3. – Fondato è, invece, il motivo di ricorso sub 4.3., relativo alla prescrizione del reato di cui all’art. 481 cod. pen., con cui si evidenzia che lo stesso si sarebbe consumato prima del rilascio del permesso di costruire in data 19 aprile 2005.
La prescrizione deve, infatti, ritenersi già maturata alla data della pronuncia della presente sentenza, trovando applicazione il termine complessivo di 7 anni e 6 mesi previsto dagli artt. 157, primo comma, e 161, secondo comma, cod. pen., anche tenuto conto delle cause di sospensione nel frattempo intervenute. All’estinzione del reato per prescrizione consegue l’eliminazione dell’aumento di pena applicato sulla pena base, in ragione di giorni 15 di reclusione.
7. – La sentenza impugnata deve essere dunque annullata limitatamente al reato di cui al capo F) dell’imputazione ascritto a Montesi Alberto, perché estinto per prescrizione, con conseguente eliminazione della relativa pena di giorni 15 di reclusione. Il ricorso di Montesi Alberto deve essere rigettato nel resto. Il ricorso di Calcagni Franco Maria deve essere rigettato, con condanna al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo F) dell’imputazione ascritto a Montesi Alberto, perché estinto per prescrizione, ed elimina la relativa pena di giorni 15 di reclusione. Rigetta nel resto il ricorso di Montesi Alberto. Rigetta il ricorso di Calcagni Franco Maria e lo condanna al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 14 novembre 2013.