DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Cambio destinazione uso fra categorie edilizie omogenee e disomogenee – Cambio destinazione uso tra locali accessori e vani ad uso residenziale – Cambio destinazione d’uso senza o con la realizzazione di opere edilizie – Disciplina applicabile – Titolo abilitativo necessario – D.lgs. n. 222/2016 – Artt. 3, 10, 23-ter, 44, d.p.r. n. 380/2001 – Reati urbanistici – Ampliamento degli interventi di manutenzione straordinaria – Legge n. 164/2014 – Reati edilizi – Verifica di atti della pubblica amministrazione – Correttezza dei procedimenti amministrativi – Poteri del giudice penale – Disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo – Fattispecie.
Provvedimento: SENTENZA
Sezione: 3^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 29 Marzo 2022
Numero: 11303
Data di udienza: 4 Febbraio 2022
Presidente: DI NICOLA
Estensore: SCARCELLA
Premassima
DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Cambio destinazione uso fra categorie edilizie omogenee e disomogenee – Cambio destinazione uso tra locali accessori e vani ad uso residenziale – Cambio destinazione d’uso senza o con la realizzazione di opere edilizie – Disciplina applicabile – Titolo abilitativo necessario – D.lgs. n. 222/2016 – Artt. 3, 10, 23-ter, 44, d.p.r. n. 380/2001 – Reati urbanistici – Ampliamento degli interventi di manutenzione straordinaria – Legge n. 164/2014 – Reati edilizi – Verifica di atti della pubblica amministrazione – Correttezza dei procedimenti amministrativi – Poteri del giudice penale – Disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo – Fattispecie.
Massima
CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez.3^, 29 marzo 2022 (Ud. 04/02/2022), Sentenza n.11303
DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Cambio destinazione uso fra categorie edilizie omogenee e disomogenee – Cambio destinazione uso tra locali accessori e vani ad uso residenziale – Cambio destinazione d’uso senza o con la realizzazione di opere edilizie – Disciplina applicabile – Titolo abilitativo necessario – D.lgs. n. 222/2016 – Artt. 3, 10, 23-ter, 44, d.p.r. n. 380/2001.
In materia urbanistica, solo il cambio di destinazione d’uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico), mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, così come tra locali accessori e vani ad uso residenziale, integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire, e ciò indipendentemente dall’esecuzione di opere che, comunque, nel caso di specie sono presenti. Sicché, neanche il cambiamento di destinazione d’uso senza realizzazione di opere edilizie costituirebbe un’attività del tutto libera e priva di vincoli, non potendo comportare la vanificazione di ogni previsione urbanistica che disciplini l’uso nel territorio del singolo Comune. In definitiva, nel caso di trasformazione dei vani accessori in vani abitabili, è da ritenersi che venga meno il rispetto degli elementi formali/strutturali dell’organismo edilizio (intendendosi per “elementi formali” quelli attinenti alla disposizione dei volumi, elementi architettonici che distinguono in modo peculiare il manufatto, configurando la sua immagine caratteristica; mentre, gli “elementi strutturali” sono quelli che materialmente compongono la struttura dell’organismo edilizio), i quali non vanno giustapposti, bensì considerati sinteticamente come espressivi dell’identità dell’edificio residenziale, che è connotato non solo tipologicamente, ma anche con individualità, dalla previsione di una determinata proporzione di elementi accessori, la cui eliminazione trascende l’ambito della mera conservazione, sia pure intesa dinamicamente. Questo tipo di mutamento (da locale accessorio o pertinenza a vano abitabile, attuabile con un intervento di tipo ristrutturativo), presenta allora carattere urbanisticamente rilevante, così da richiedere il permesso di costruire per la sua esecuzione, essendo del tutto assimilabile ad un cambio di categoria riconducibile all’art. 23-ter, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001, come tale avente rilevanza urbanistica ai sensi del punto 39 della tabella A – Edilizia allegata al decreto SCIA 2 (d.lgs. n. 222/2016).
DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Reati urbanistici – Ampliamento degli interventi di manutenzione straordinaria – Legge n. 164/2014 – Fattispecie: cambio di destinazione d’uso tra locali accessori e vani ad uso residenziale.
In tema di reati urbanistici, a seguito delle modifiche apportate dall’art. 17 comma primo lett. b), n.1 e 2 del D.L. n. 133 del 2014 (conv. in legge n. 164 del 2014), deve ritenersi ampliata la categoria degli interventi di manutenzione straordinaria, comprensiva anche del frazionamento o accorpamento di unità immobiliari con esecuzione di opere, anche se comportanti una variazione di superficie o del carico urbanistico, per i quali pertanto, ove rimangano immutate la volumetria complessiva e la originaria destinazione d’uso, non è più necessario il permesso di costruire. Nella fattispecie, tuttavia, è altrettanto vero che il cambio di utilizzo dei locali accessori del p.t. in due distinte unità abitative, in difformità dello stato autorizzato dell’immobile, necessitava del permesso di costruire. Pertanto, non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire. Quindi, deve ritenersi che il cambio di destinazione d’uso tra locali accessori e vani ad uso residenziale integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire, e ciò indipendentemente dall’esecuzione di opere.
DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Reati edilizi – Verifica di atti della pubblica amministrazione – Correttezza dei procedimenti amministrativi – Poteri del giudice penale – Disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo
In tema di reati edilizi, l’accertamento della correttezza dei procedimenti amministrativi per il rilascio dei titoli abilitativi è un giudizio di fatto, fondato sulla verifica di atti della pubblica amministrazione, riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità, concernente, invece, la correttezza giuridica di detto accertamento. Mentre per le violazioni urbanistiche, l’interesse protetto dall’art. 44, DPR n. 380/2001 non è quello del rispetto delle prerogative della pubblica amministrazione nel controllo dell’attività edilizia e perciò della regolarità delle procedure di rilascio dei titoli abilitativi, ma quello sostanziale della protezione del territorio in conformità alla normativa urbanistica, perciò non si pone un problema di disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo, quanto di controllo della legittimità di un atto amministrativo che costituisce un elemento costitutivo o un presupposto del reato. Qualora emerga una difformità tra la normativa urbanistica ed edilizia e l’intervento realizzato, per il quale sia stato rilasciato un titolo abilitativo, il giudice penale è in ogni caso tenuto a verificare incidentalmente la legittimità di quest’ultimo, senza che ciò comporti la sua eventuale “disapplicazione”, in quanto tale provvedimento non è sufficiente a definire di per sé – ovvero prescindendo dal quadro delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, e dalle rappresentazioni di progetto alla base della sua emissione – lo statuto di legalità dell’opera realizzata. L’esercizio di una potestà riservata agli organi dell’Amministrazione si realizza quando il giudice con il provvedimento impugnato abbia usurpato poteri amministrativi (ad esempio, annullando o revocando un atto amministrativo) e, cioè, abbia esercitato una potestà tipica spettante all’amministrazione. Non sussiste, invece, l’esercizio di una siffatta potestà allorché il giudice ordinario, nella specie penale, è chiamato a verificare incidentalmente la legittimità dell’atto amministrativo, estrinsecandosi infatti tale potestà nel consentito controllo della legittimità di un atto, che costituisce un elemento costitutivo o un presupposto del reato.
(dich. inammissibile il ricorso avverso sentenza del 10/06/2021 della CORTE APPELLO di VENEZIA) Pres. DI NICOLA, Rel. SCARCELLA, Ric. Turrin
Allegato
Titolo Completo
CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez.3^, 29/03/2022 (Ud. 04/02/2022), Sentenza n.11303SENTENZA
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
omissis
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da TURRIN R. nato ad ABANO TERME;
avverso la sentenza del 10/06/2021 della CORTE APPELLO di VENEZIA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere ALESSIO SCARCELLA;
letta la requisitoria scritta del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale STEFANO TOCCI, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio dell’impugnata sentenza;
lette le conclusioni scritte del difensore del ricorrente, Avv. LUCIANO ALESSANDRO, che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza 10.06.2021, la Corte d’appello di Venezia confermava la sentenza 2.12.2020 del tribunale di Padova appellata dal Turrin che lo aveva dichiarato colpevole del reato di cui all’art. 44, co. 1, lett. b), TU edilizia, per aver realizzato in assenza di permesso di costruire due unità abitative al p.t. dell’immobile di sua proprietà sito in Abano Terme già precedentemente rimosse a seguito di ordine di ripristino e demolizione, in relazione a fatti accertati nel settembre 2019, condannandolo alla pena di 6 mesi di arresto ed € 20.000 di ammenda, oltre alla demolizione, subordinando la sospensione condizionale della pena all’eliminazione entro sei mesi dall’irrevocabilità della sentenza delle opere abusive, e riconoscendo il beneficio di cui all’art. 175, c.p.
2. Avverso la sentenza il ricorrente ha proposto ricorso per cassazione a mezzo del difensore di fiducia, articolando due motivi.
2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione all’art. 44, co.1, lett. b) d.p.r. n. 380 del 2001, artt. 3 e 10, nonché in relazione agli artt. 1, c.p. e 25 Cost., e correlato vizio motivazionale sotto il profilo del travisamento probatorio. In sintesi, con il primo motivo il ricorrente si duole per aver la Corte d’appello confermato la condanna per il reato edilizio contestato, ritenendo erroneamente che le opere abusive oggetto di contestazione, consistenti nel frazionamento dell’unità familiare nelle due unità abitative di cui all’imputazione, necessitassero del permesso di costruire, laddove, diversamente, tale intervento edilizio, come del resto era stato reso palese da una nota dello stesso Comune di Abano Terme, doveva essere classificata come intervento di manutenzione straordinaria leggera ex art. 3, comma 1, lett. b), DPR n.380/2001, soggetto in quanto tale al regime amministrativo della CILA, ossia la comunicazione di inizio lavori asseverata.
Nello specifico, a seguito dell’intervento dell’amministrazione comunale, il ricorrente a seguito dell’ordine impartito dal Comune, aveva riportato il p.t. allo stato originario, in quanto i locali ivi presenti, classificati quali vani accessori a servizio dell’unità residenziale posta al primo piano, non presentavano un’altezza sufficiente per realizzare due unità abitative. Tuttavia, sostiene il ricorrente, in ciò censurando la sentenza d’appello, il mero cambio di utilizzo dei locali del p.t. da accessori ed abitabili, in difformità dello stato autorizzato dell’immobile, non necessitava del permesso di costruire, trattandosi appunto di intervento di manutenzione straordinaria ex art. 3, comma 1, lett. b), DPR n. 380/2001.
I giudici, a fronte di tali doglianze, non avrebbero speso una parola per motivare le ragioni della configurabilità di tale illecito edilizio, peraltro esprimendo alcune considerazioni personali circa l’operato della P.A. del tutto superflue in quanto comunque non conferenti rispetto alla questione centrale, ossia quella della sussistenza dell’illecito edilizio, peraltro travisando del tutto il materiale probatorio in atti per giungere al giudizio di condanna.
Si ribadisce, quindi, che l’opera di frazionamento posta in essere dal ricorrente nell’immobile di sua proprietà, non avendo comportato alcuna modifica della volumetria complessiva dell’edificio né alcuna modifica della destinazione d’uso dello stesso, che era ed è residenziale, non rientrerebbe tra le opere che ex lege richiedono il p.d.c., trattandosi di manutenzione straordinaria leggera soggetta al regime della CILA, in base alla normativa applicabile (artt. 3, lett. b), 10 TU edilizia, a seguito delle modifiche introdotte dal d.l. n. 133/2014, conv. in I. 164/2014).
2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di eccesso di potere ex art. 606, lett. a), c.p.p. per aver esercitato il giudice penale una potestà riservata dalla legge ad organi amministrativi e correlato vizio motivazionale quanto alla presunta illegittimità dell’ordine dennolitorio emesso dal Comune di Abano terme e della nota chiarificatrice circa la natura e qualificazione giuridica dell’intervento edilizio.
In sintesi, il ricorrente sostiene che i giudici di appello, nel censurare i contenuti dell’ordinanza dennolitoria e della successiva nota chiarificatrice con cui il Comune aveva, in sostanza, classificato l’intervento edilizio come intervento di manutenzione straordinaria leggera ex art. 3, lett. b), DPR 380/2001, soggetto a CILA, avrebbero ecceduto dai limiti giurisdizionali attribuiti al giudice penale, per invadere la sfera dell’azione amministrativa laddove hanno ritenuto illegittimi tali atti. Il giudice penale, da un lato, avrebbe, in particolare, esercitato un potere riservato alla P.A. andando a sindacare un’area di discrezionalità riservata a quest’ultima e, dall’altro, non avrebbe motivato, salvo ad esprimere considerazioni squisitamente personali, in ordine alla presunta illegittimità dei provvedimenti amministrativi emessi successivamente al verbale di sopralluogo redatto dalla polizia locale.
3. Con requisitoria scritta del 14.01.2022 il Procuratore Generale presso questa Corte ha chiesto annullarsi con rinvio l’impugnata sentenza.
In particolare, ritiene il P.G. fondato il ricorso, atteso che la Corte territoriale non avrebbe tenuto in conto la circostanza per cui, rispetto alla definizione di ristrutturazione edilizia data dall’art. 3, comma 1, lett. d) D.P.R. n. 380/2001, il successivo art. 10, comma 1, lett. c), nel testo oggi vigente, assoggetta al regime del permesso di costruire – salve le ipotesi, che nella specie non ricorrono, della modifica della destinazione d’uso nei centri storici o delle modificazioni della sagoma di immobili vincolati – soltanto quegli interventi che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti.
Si tratta degli interventi definiti di ristrutturazione edilizia c.d. “pesante” che, a differenza delle residuali ipotesi rientranti nella categoria sono assoggettati al previo rilascio del permesso di costruire con conseguente realizzazione della fattispecie penale contestata nel caso di assenza del titolo. Se, per contro, si tratti di ristrutturazione edilizia “leggera”, quand’anche non fosse stata corretta la qualificazione dei lavori in termini di risanamento conservativo data dai richiedenti, il fatto non integrerebbe gli estremi del reato contestato.
La Corte territoriale non avrebbe per il P.G. adeguatamente valutato il suddetto aspetto normativo, per cui la decisione meriterebbe rivisitazione.
4. Con note scritte del 26.01.2022 pervenute a mezzo PEC presso la cancelleria di questa Corte, la difesa del ricorrente, nel riprendere le argomentazioni di cui ai motivi di ricorso, sul cui accoglimento ha insistito, ha ribadito che l’intervento edilizio di cui si discute, in quanto opere di manutenzione leggera, non necessiterebbe del permesso di costruire, ma una semplice CILA.
I giudici di appello sarebbero invece incorsi in un errore macroscopico, ritenendo invece sussumibile l’intervento edilizio nella fattispecie dei cui alla lett.b) dell’art. 44, TU edilizia, atteso che le opere contestate sono solo quelle relative al frazionamento, seppure non sanabile, laddove la Corte d’appello avrebbe travisato quanto contestato nell’imputazione. Il fatto, tuttavia, che dette opere non fossero suscettibili di sanatoria non comporta l’integrazione dell’illecito penale, in quanto il reato si configura solo in caso di assenza o in caso di difformità di un permesso di costruire, nella specie non necessario, trattandosi, si ribadisce, di manutenzione straordinaria “leggera” soggetta al regime della CILA.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
2. Correttamente i giudici di merito hanno ritenuto che l’intervento edilizio in questione abbia rilevanza penale in quanto necessitante del permesso di costruire.
È emerso infatti, e su questo non vi è contestazione, che il ricorrente, a seguito dell’ordine impartito dal Comune, aveva riportato il p.t. allo stato originario, in quanto i locali ivi presenti, classificati quali vani accessori a servizio dell’unità residenziale posta al primo piano, non presentavano un’altezza sufficiente per realizzare due unità abitative. La difesa ha sostenuto che il mero cambio di utilizzo dei locali del p.t. da accessori ed abitabili, in difformità dello stato autorizzato dell’immobile, non necessitava del permesso di costruire, trattandosi di intervento di manutenzione straordinaria ex art. 3, comma 1, lett. b), DPR n. 380/2001.
3. La censura non ha pregio.
Ed infatti, se è ben vero, come già più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, che, in tema di reati urbanistici, a seguito delle modifiche apportate dall’art. 17 comma primo lett. b), n.1 e 2 del D.L. n. 133 del 2014 (conv. in legge n. 164 del 2014), deve ritenersi ampliata la categoria degli interventi di manutenzione straordinaria, comprensiva anche del frazionamento o accorpamento di unità immobiliari con esecuzione di opere, anche se comportanti una variazione di superficie o del carico urbanistico, per i quali pertanto, ove rimangano immutate la volumetria complessiva e la originaria destinazione d’uso, non è più necessario il permesso di costruire. (Sez. 3, n. 31618 del 14/01/2015 – dep. 21/07/2015, Rv. 264496 – 01), è tuttavia altrettanto vero che, nel caso in esame, il cambio di utilizzo dei locali accessori del p.t. in due distinte unità abitative (che risulta peraltro fossero state poi affittate in nero a due inquilini), in difformità dello stato autorizzato dell’immobile, necessitava del permesso di costruire.
4. Sul punto, merita infatti di essere chiarito che, nell’ambito di un’unità immobiliare ad uso residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi «accessori» che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse, cantine e “locali di servizio” rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire. Quindi, deve ritenersi che il cambio di destinazione d’uso tra locali accessori e vani ad uso residenziale integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire, e ciò indipendentemente dall’esecuzione di opere.
5. Trattasi peraltro di principio consolidato nella giurisprudenza amministrativa (T.A.R. Salerno, sez. I, 14/05/2018, n.742; T.A.R. Lazio, sez. II, 26/07/2018, n.8452).
Deve infatti ritenersi che solo il cambio di destinazione d’uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico), mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, così come tra locali accessori e vani ad uso residenziale, integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire, e ciò indipendentemente dall’esecuzione di opere che, comunque, nel caso di specie sono presenti (T.A.R. Lazio, sez. II, 04/04/2017, n.4225). Infatti, neanche il cambiamento di destinazione d’uso senza realizzazione di opere edilizie costituirebbe un’attività del tutto libera e priva di vincoli, non potendo comportare la vanificazione di ogni previsione urbanistica che disciplini l’uso nel territorio del singolo Comune (T.A.R. Lazio, sez. II, 14/09/2020, n. 9570).
In definitiva, dunque, come già sottolineato da recente giurisprudenza amministrativa (T.A.R. Campania, sez. VIII, 05/03/2019, n.1212), nel caso di trasformazione dei vani accessori in vani abitabili, è da ritenersi che venga meno il rispetto degli elementi formali/strutturali dell’organismo edilizio (intendendosi per “elementi formali” quelli attinenti alla disposizione dei volumi, elementi architettonici che distinguono in modo peculiare il manufatto, configurando la sua immagine caratteristica; mentre, gli “elementi strutturali” sono quelli che materialmente compongono la struttura dell’organismo edilizio), i quali non vanno giustapposti, bensì considerati sinteticamente come espressivi dell’identità dell’edificio residenziale, che è connotato non solo tipologicamente, ma anche con individualità, dalla previsione di una determinata proporzione di elementi accessori, la cui eliminazione trascende l’ambito della mera conservazione, sia pure intesa dinamicamente. Questo tipo di mutamento (da locale accessorio o pertinenza a vano abitabile, attuabile con un intervento di tipo ristrutturativo), presenta allora carattere urbanisticamente rilevante, così da richiedere il permesso di costruire per la sua esecuzione, essendo del tutto assimilabile ad un cambio di categoria riconducibile all’art. 23-ter, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001, come tale avente rilevanza urbanistica ai sensi del punto 39 della tabella A – Edilizia allegata al decreto SCIA 2 (d.lgs. n. 222/2016).
Conseguentemente, l’intervento edilizio oggetto di contestazione riveste rilevanza penale, in quanto necessitante del permesso di costruire, non potendosi pertanto porre alcun rilievo alla soluzione cui perviene la decisione impugnata.
6. Ad analogo approdo deve pervenirsi quanto al secondo motivo di ricorso.
Ed invero, deve essere in questa sede ribadito che, in tema di reati edilizi, l’accertamento della correttezza dei procedimenti amministrativi per il rilascio dei titoli abilitativi è un giudizio di fatto, fondato sulla verifica di atti della pubblica amministrazione, riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità, concernente, invece, la correttezza giuridica di detto accertamento (Sez. 3, n. 13075 del 08/02/2019 – dep. 26/03/2019, Rv. 275858 – 01). Nella specie, ciò è quanto è avvenuto nella vicenda processuale in esame, nella quale i giudici di appello, nel valutare quanto emergente dall’ordinanza demolitoria e dalla nota chiarificatrice relativa alla qualificazione giuridica dell’intervento edilizio, hanno, in effetti, verificato la correttezza della procedura amministrativa che ha condotto la P.A. a qualificare un intervento edilizio in termini difformi rispetto a quanto emergente dalla situazione fattuale. Non deve poi essere dimenticato che, in tema di violazioni urbanistiche, l’interesse protetto dall’art. 44, DPR n. 380/2001 non è quello del rispetto delle prerogative della pubblica amministrazione nel controllo dell’attività edilizia e perciò della regolarità delle procedure di rilascio dei titoli abilitativi, ma quello sostanziale della protezione del territorio in conformità alla normativa urbanistica, perciò non si pone un problema di disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo, quanto di controllo della legittimità di un atto amministrativo che costituisce un elemento costitutivo o un presupposto del reato (v., sotto la vigenza della I. n. 47/1985: Sez. 3, n. 1756 del 12/05/1995 – dep. 30/06/1995, Rv. 202077 – 01). Qualora infatti emerga una difformità tra la normativa urbanistica ed edilizia e l’intervento realizzato, per il quale sia stato rilasciato un titolo abilitativo, il giudice penale è in ogni caso tenuto a verificare incidentalmente la legittimità di quest’ultimo, senza che ciò comporti la sua eventuale “disapplicazione”, in quanto tale provvedimento non è sufficiente a definire di per sé – ovvero prescindendo dal quadro delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, e dalle rappresentazioni di progetto alla base della sua emissione – lo statuto di legalità dell’opera realizzata (Sez. 3, n. 36366 del 16/06/2015 – dep. 09/09/2015, Faiola, Rv. 265034 – 01).
7. Non può, dunque, prospettarsi la censurata violazione dell’art. 606, lett. a), c.p.p., posto che l’art. 606, comma primo, lett. a), cod. proc. pen., considera, quale motivo di ricorso per cassazione, che giustifica l’annullamento senza rinvio della sentenza (art. 620 cod. proc. pen.), l’esercizio da parte del giudice di merito di una potestà riservata dalla legge ad organi legislativi o amministrativi ovvero non consentita ai pubblici poteri.
L’esercizio di una potestà riservata agli organi dell’Amministrazione si realizza quando il giudice con il provvedimento impugnato abbia usurpato poteri amministrativi (ad esempio, annullando o revocando un atto amministrativo) e, cioè, abbia esercitato una potestà tipica spettante all’amministrazione. Non sussiste, invece, l’esercizio di una siffatta potestà allorché il giudice ordinario, nella specie penale, è chiamato a verificare incidentalmente la legittimità dell’atto amministrativo, estrinsecandosi infatti tale potestà nel consentito controllo della legittimità di un atto, che costituisce un elemento costitutivo o un presupposto del reato.
8. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma, ritenuta adeguata, di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso, il 4 febbraio 2022