DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Reati edilizi e permanenza del reato – Esecuzione di opera edilizia in assenza di permesso – Formale contestazione integrativa – Necessità – Esclusione – Accertamento della decorrenza del termine utile per il maturarsi della prescrizione – Concetto di ultimazione funzionale dell’opera – Momento della cessazione della permanenza del reato – Insufficiente – Onere dell’imputato dimostrare la data di inizio del decorso del termine della prescrizione – Art. 44, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001 – Reati urbanistici e paesaggistici – Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto – Applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen. – Presupposti – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Sindacato demandato alla Corte di cassazione – Atti del processo specificamente indicati – Individuazione e procedure – Principio di autosufficienza del ricorso – Onere di puntuale indicazione – Art. 606, cod. proc. pen. – Art. 165-bis disp. att. cod. proc. pen..
Provvedimento: SENTENZA
Sezione: 3^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 9 Gennaio 2024
Numero: 676
Data di udienza: 21 Settembre 2023
Presidente: RAMACCI
Estensore: ACETO
Premassima
DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Reati edilizi e permanenza del reato – Esecuzione di opera edilizia in assenza di permesso – Formale contestazione integrativa – Necessità – Esclusione – Accertamento della decorrenza del termine utile per il maturarsi della prescrizione – Concetto di ultimazione funzionale dell’opera – Momento della cessazione della permanenza del reato – Insufficiente – Onere dell’imputato dimostrare la data di inizio del decorso del termine della prescrizione – Art. 44, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001 – Reati urbanistici e paesaggistici – Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto – Applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen. – Presupposti – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Sindacato demandato alla Corte di cassazione – Atti del processo specificamente indicati – Individuazione e procedure – Principio di autosufficienza del ricorso – Onere di puntuale indicazione – Art. 606, cod. proc. pen. – Art. 165-bis disp. att. cod. proc. pen..
Massima
CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^, 9 gennaio 2024 (Ud. 21/09/2023), Sentenza n. 676
DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Reati edilizi e permanenza del reato – Esecuzione di opera edilizia in assenza di permesso – Formale contestazione integrativa – Necessità – Esclusione – Accertamento della decorrenza del termine utile per il maturarsi della prescrizione – Concetto di ultimazione funzionale dell’opera – Momento della cessazione della permanenza del reato – Insufficiente – Onere dell’imputato dimostrare la data di inizio del decorso del termine della prescrizione – Art. 44, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001.
In tema di reati edilizi, attesa la loro natura permanente, qualora il pubblico ministero si sia limitato ad indicare esclusivamente la data iniziale (o la data dell’accertamento) e non quella finale del reato, la permanenza deve ritenersi compresa nell’imputazione, per cui l’interessato è chiamato a difendersi nel processo in relazione anche alle condotte poste in essere successivamente alla data di contestazione. Poiché la permanenza del reato edilizio cessa o con l’ultimazione dei lavori o, prima ancora, con la loro definitiva cessazione (coattiva o spontanea), la prova dell’ultimazione dei lavori o della loro spontanea cessazione deve essere fornita dall’imputato, ove ciò non emerga nel corso dell’istruttoria dibattimentale.
DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Reati urbanistici e paesaggistici – Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto – Applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen. – Presupposti.
Ai fini della applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen. nelle ipotesi di violazioni urbanistiche e paesaggistiche, la consistenza dell’intervento abusivo – data da tipologia, dimensioni e caratteristiche costruttive – costituisce solo uno dei parametri di valutazione, assumendo rilievo anche altri elementi quali, ad esempio, la destinazione dell’immobile, l’incidenza sul carico urbanistico, l’eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e l’impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto di vincoli e la conseguente violazione di più disposizioni, l’eventuale collegamento dell’opera abusiva con interventi preesistenti, la totale assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo stesso, il rispetto o meno di provvedimenti autoritativi emessi dall’amministrazione competente, le modalità di esecuzione dell’intervento.
DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Sindacato demandato alla Corte di cassazione – Atti del processo specificamente indicati – Individuazione e procedure – Principio di autosufficienza del ricorso – Onere di puntuale indicazione – Art. 606, cod. proc. pen. – Art. 165-bis disp. att. cod. proc. pen..
L’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. La Corte di cassazione può conoscere «gli atti del processo specificamente indicati» (art. 606, lett. e, cod. proc. pen.) solo quando ne viene dedotto il travisamento, configurabile quando si introduce nella motivazione una informazione rilevante che non esiste nel processo o quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia; il relativo vizio ha natura decisiva solo se l’errore accertato sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio. In tal caso è onere del ricorrente, in virtù del principio di “autosufficienza del ricorso”, suffragare la validità del suo assunto mediante la completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti medesimi (ovviamente nei limiti di quanto era già stato dedotto in sede di appello), dovendosi ritenere precluso al giudice di legittimità il loro esame diretto, a meno che il “fumus” del vizio dedotto non emerga all’evidenza dalla stessa articolazione del ricorso. Sicché, non è sufficiente riportare meri stralci di singoli brani di prove dichiarative, estrapolati dal complessivo contenuto dell’atto processuale al fine di trarre rafforzamento dall’indebita frantumazione dei contenuti probatori, o, invece, procedere ad allegare in blocco ed indistintamente le trascrizioni degli atti processuali, postulandone la integrale lettura da parte della Suprema Corte. In conclusione: a) il vizio di motivazione non può essere utilizzato per spingere l’indagine di legittimità oltre il testo del provvedimento impugnato, nemmeno quando ciò sia strumentale a una diversa ricomposizione del quadro probatorio che, secondo gli auspici del ricorrente, possa condurre il fatto fuori dalla fattispecie incriminatrice applicata; b) l’esame può avere ad oggetto direttamente la prova quando se ne deduce il travisamento, purché l’atto processuale che la incorpora sia allegato al ricorso (o ne sia integralmente trascritto il contenuto) e possa scardinare la logica del provvedimento creando una insanabile frattura tra il giudizio e le sue basi fattuali; c) la natura manifesta della illogicità della motivazione del provvedimento impugnato costituisce un limite al sindacato di legittimità che impedisce alla Corte di cassazione di sostituire la propria logica a quella del giudice di merito e di avallare, dunque, ricostruzioni alternative del medesimo fatto, ancorché altrettanto ragionevoli; d) non è consentito, in caso di cd. “doppia conforme”, dedurre il travisamento della prova mediante la pura e semplice riproposizione delle medesime questioni fattuali già devolute in appello soprattutto quando, come nel caso di specie, la censura riguardi il medesimo compendio probatorio non avendo la Corte territoriale attinto a prove diverse da quelle scrutinate in primo grado.
(rigetta il ricorso avverso sentenza del 02/05/2022 della CORTE APPELLO di LECCE), Pres. RAMACCI, Rel. ACETO, Ric. My
Allegato
Titolo Completo
CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^, 09/01/2024 (Ud. 21/09/2023), Sentenza n. 676SENTENZA
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
omissis
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da MY A. nato a BRINDISI il –/–/—-;
avverso la sentenza del 02/05/2022 della CORTE APPELLO di LECCE;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere ALDO ACETO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale LUIGI ORSI, che ha concluso per l’inammissibilita del ricorso;
udito il difensore, AVV. LADISLAO MASSARI, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. La sig.ra A. My ricorre per l’annullamento della sentenza del 02/05/2022 della Corte di appello di Lecce che ha confermato la condanna alla pena di un mese di arresto e 12.000,00 euro di ammenda irrogata con sentenza del 18/02/2020 del Tribunale di Brindisi per il reato di cui all’art. 44, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, a lei ascritto perché, senza permesso di costruire, aveva realizzato sul lastrico solare sovrastante l’unità immobiliare di sua proprietà un bagno e un vano ad esso adiacente; il fatto è contestato come accertato in Brindisi il 15/04/2016.
1.1. Con il primo motivo deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione carente, contraddittoria ed illogica con riferimento tanto al malgoverno delle prove relative alla riconducibilità della condotta alla sua persona, quanto alla invocata operatività del cd. “piano casa”.
1.2. Con il secondo motivo deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione carente ed illogica con riferimento al diniego della applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen.
1.3. Con il terzo motivo deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione carente ed illogica con riferimento alla mancata declaratoria di estinzione del reato per prescrizione.
1.4. Con il quarto motivo deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione carente ed illogica in ordine alla conferma della subordinazione del beneficio della sospensione condizionale della pena alla demolizione del manufatto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
2. Il ricorso è infondato.
3. Osserva il Collegio:
3.1. dalla lettura della sentenza impugnata risulta che alla data dell’accertamento (15/04/2016) i lavori di realizzazione del bagno e del vano adiacente erano ancora in corso e che, per questo motivo, il fatto deve essere ascritto alla personale responsabilità dell’imputata, presente all’accertamento stesso, la quale, peraltro, aveva presentato la DIA del 04/10/2010, in difformità alla quale erano state realizzate le opere;
3.2. la ricorrente si duole della insufficienza motivazionale e del malgoverno delle prove assunte in primo grado, sostenendo che dall’escussione dell’impiegato dell’Ufficio Tecnico comunale si sarebbe dovuta evincere la preesistenza degli abusi siccome realizzati dai precedenti proprietari;
3.3. in realtà, le informazioni rese dalla Corte territoriale sono chiare e precise, così come i fatti descritti: i lavori erano in corso alla data del sopralluogo e la ricorrente vi aveva presenziato; non è chiaro quali ulteriori dati la Corte di appello avrebbe dovuto fornire per assolvere all’onere motivazionale;
3.4. né la corrispondenza di tali informazioni alle prove indicate dal giudice può essere messa in discussione in questa sede mediante l’inammissibile allegazione del loro contenuto;
3.5. oggetto di cognizione in sede di legittimità non è il fatto come ricostruibile in base alle prove assunte nella fase di merito, bensì il fatto come ricostruito (e descritto) nel provvedimento impugnato. Il vizio di motivazione, pertanto, deve essere apprezzato in base alla lettura diretta e immediata del testo del provvedimento impugnato senza la “mediazione” di elementi spuri ad esso estranei (inequivoco il riferimento al “testo del provvedimento impugnato” contenuto nella lettera “e”del comma 1 dell’art. 606 cod. proc. pen.). L’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali (Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794; Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944 – 01; Sez. U, n. 30 del 27/09/1995, Mannino, Rv. 202903);
3.6. la Corte di cassazione può conoscere «gli atti del processo specificamente indicati» (art. 606, lett. e, cod. proc. pen.) solo quando ne viene dedotto il travisamento, configurabile quando si introduce nella motivazione una informazione rilevante che non esiste nel processo o quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia; il relativo vizio ha natura decisiva solo se l’errore accertato sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio (Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, Rv. 277758 – 01; Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio, Rv. 258774; Sez. 2, n. 47035 del 03/10/2013, Giugliano, Rv. 257499);
3.7. in tal caso è onere del ricorrente, in virtù del principio di “autosufficienza del ricorso”, suffragare la validità del suo assunto mediante la completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti medesimi (ovviamente nei limiti di
quanto era già stato dedotto in sede di appello), dovendosi ritenere precluso al giudice di legittimità il loro esame diretto, a meno che il “fumus” del vizio dedotto non emerga all’evidenza dalla stessa articolazione del ricorso (Sez. 2, n. 20677 dell’11/04/2017, Schioppo, Rv. 270071; Sez. 4, n. 46979 del 10/11/2015, Bregannotti, Rv. 265053; Sez. F. n. 37368 del 13/09/2007, Torino, Rv. 237302).
Non è sufficiente riportare meri stralci di singoli brani di prove dichiarative, estrapolati dal complessivo contenuto dell’atto processuale al fine di trarre rafforzamento dall’indebita frantumazione dei contenuti probatori, o, invece, procedere ad allegare in blocco ed indistintamente le trascrizioni degli atti processuali, postulandone la integrale lettura da parte della Suprema Corte (Sez. 1, n. 23308 del 18/11/2014, Savasta, Rv. 263601; Sez. 3, n. 43322 del 02/07/2014, Sistí, Rv. 260994, secondo cui la condizione della specifica indicazione degli “altri atti del processo”, con riferimento ai quali, l’art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., configura il vizio di motivazione denunciabile in sede di legittimità, può essere soddisfatta nei modi più diversi (quali, ad esempio, l’integrale riproduzione dell’atto nel testo del ricorso, l’allegazione in copia, l’individuazione precisa dell’atto nel fascicolo processuale di merito), purché detti modi siano comunque tali da non costringere la Corte di cassazione ad una lettura totale degli atti, dandosi luogo altrimenti ad una causa di inammissibilità del ricorso, in base al combinato disposto degli artt. 581, comma primo, lett. c), e 591 cod. proc. pen.);
3.8. è necessario, pertanto: a) identificare l’atto processuale omesso o travisato; b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda; d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale “incompatibilità” all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato (Sez. 6, n. 45036 del 02/12/2010, Damiano, Rv. 249035);
3.9. il principio di autosufficienza del ricorso trova applicazione anche a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 165-bis disp. att. cod. proc. pen., introdotto dall’art. 7, comma 1, d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, che si traduce nell’onere di puntuale indicazione, da parte del ricorrente, degli atti che si assumono travisati e dei quali si ritiene necessaria l’allegazione, materialmente devoluta alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato ove a ciò egli non abbia provveduto nei modi sopra indicati (Sez. 5, n. 5897 del 03/12/2020, Rv. 280419 – 01; Sez. 2, n. 35164 del 08/05/2019, Rv. 276432 – 01);
3.10. inoltre, poiché il vizio riguarda la ricostruzione del fatto effettuata utilizzando la prova travisata, se l’errore è imputabile al giudice di primo grado la relativa questione deve essere devoluta al giudice dell’appello, pena la sua preclusione nel giudizio di legittimità, non potendo essere dedotto con ricorso per cassazione, in caso di c.d “doppia conforme”, il vizio di motivazione in cui sarebbe incorso il giudice di secondo grado se il travisamento non gli era stato rappresentato (Sez. 5, n. 48703 del 24/09/2014, Biondetti, Rv. 261438; Sez. 6, n. 5146 del 2014, cit.), a meno che, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, il giudice di secondo grado abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice (nel qual caso il vizio può essere eccepito in sede di legittimità, Sez. 4, n. 4060 del 12/12/2013, Capuzzi, Rv. 258438);
3.11. in conclusione: a) il vizio di motivazione non può essere utilizzato per spingere l’indagine di legittimità oltre il testo del provvedimento impugnato, nemmeno quando ciò sia strumentale a una diversa ricomposizione del quadro probatorio che, secondo gli auspici del ricorrente, possa condurre il fatto fuori dalla fattispecie incriminatrice applicata; b) l’esame può avere ad oggetto direttamente la prova quando se ne deduce il travisamento, purché l’atto processuale che la incorpora sia allegato al ricorso (o ne sia integralmente trascritto il contenuto) e possa scardinare la logica del provvedimento creando una insanabile frattura tra il giudizio e le sue basi fattuali; c) la natura manifesta della illogicità della motivazione del provvedimento impugnato costituisce un limite al sindacato di legittimità che impedisce alla Corte di cassazione di sostituire la propria logica a quella del giudice di merito e di avallare, dunque, ricostruzioni alternative del medesimo fatto, ancorché altrettanto ragionevoli; d) non è consentito, in caso di cd. “doppia conforme”, dedurre il travisamento della prova mediante la pura e semplice riproposizione delle medesime questioni fattuali già devolute in appello sopratutto quando, come nel caso di specie, la censura riguardi il medesimo compendio probatorio non avendo la Corte territoriale attinto a prove diverse da quelle scrutinate in primo grado;
3.12. la ricorrente si è sottratta all’onere di allegazione dei verbali delle prove a suo dire travisate, né spiega se il travisamento della prova testimoniale indicata dalla Corte di appello era stato dedotto in sede di impugnazione della sentenza di primo grado;
3.13. del resto, la ricorrente non prende posizione sull’altro argomento utilizzato dalla Corte di appello per ribadire la sua personale responsabilità: la presentazione e sottoscrizione della DIA già nel 2010, fatto che, combinato con la descrizione dello stato dei luoghi, rende manifestamente illogica ogni affermazione contraria alla personale responsabilità della ricorrente stessa;
3.14. quanto alla dedotta riconducibilità degli interventi al cd. “Piano casa” disciplinato con legge reg. Puglia n. 14 del 2009, va evidenziato che tali interventi non erano sottratti, quanto al relativo regime edilizio, alle norme previste dal d.P.R. n. 380 del 2001, espressamente richiamate dall’art. 5, comma 3, legge reg. Puglia n. 14, cit.;
3.15. la possibilità di ampliare, in via straordinaria, la volumetria degli edifici esistenti (tal’é la realizzazione ex novo di due vani, non tecnici, sul lastrico solare) non sottrae l’intervento al regime per esso previsto dall’art. 3, comma 1, lett. e), d.P.R. n. 380 del 2001;
3.16. ne deriva la manifesta infondatezza (oltre che genericità) delle deduzioni difensive sul punto.
4. Le considerazioni svolte ai §§ 3.6 e segg., depongono a favore della infondatezza anche del terzo motivo, ampiamente supportato da non consentite deduzioni fattuali volte a sostenere l’ultimazione funzionale dei lavori in epoca utile alla prescrizione maturata prima della sentenza impugnata.
4.1. Costituisce principio consolidato di questa Corte quello secondo il quale il reato di costruzione abusiva cessa con il totale esaurimento dell’attività illecita e, quindi, soltanto quando siano terminati i lavori di rifinitura (Sez. 3, n. 3183 del 18/01/1984, Rv. 163580, con richiamo a numerosi precedenti conformi, nonché, più recentemente, Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano, Rv. 261153, secondo cui deve ritenersi “ultimato” solo l’edificio concretamente funzionale che possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità, di modo che anche il suo utilizzo effettivo, ancorché accompagnato dall’attivazione delle utenze e dalla presenza di persone al suo interno, non è sufficiente per ritenere sussistente l’ultimazione dell’immobile abusivamente realizzato, coincidente generalmente con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni; Sez. 3, n. 8172 del 27/01/2010, Vitali, Rv. 246221) ovvero, se precedente, con il provvedimento di sequestro, che sottrae all’imputato la disponibilità di fatto e di diritto dell’immobile (Sez. 3, n. 5654 del 16/03/1994, Rv. 199125).
4.2. La tesi difensiva, conscia di tale orientamento, fa leva sul concetto di ultimazione funzionale dell’opera (cfr., sul punto, Sez. 3, n. 3067 del 08/09/2016, Conti, Rv. 269022, secondo cui il completamento dell’opera con tutte le rifiniture interne o esterne costituisce un elemento sintomatico utile nella normalità dei casi per individuare il momento di cessazione dei lavori, ma che non esclude situazioni marginali in cui la permanenza sia terminata anche senza l’ultimazione del manufatto, come quando risulti l’ininterrotto utilizzo abitativo del bene, comprovato dall’attivazione delle utenze, da considerarsi unitamente agli ulteriori elementi raccolti, ben potendosi verificare il caso in cui detta attivazione sia avvenuta a lavori ancora in corso; nello stesso senso, Sez. 3, n. 38136 del 25/09/2001, Triassi, Rv. 220351) e deduce, in fatto, che l’immobile doveva considerarsi funzionalmente ultimato già da prima del sopralluogo perché pressoché tutte le opere contemplate nella DIA erano state contemplate (mancava la scala a chiocciola), non c’erano operai al momento del sopralluogo e lo stesso tecnico comunale aveva ritenuto di non sottoporre a sequestro gli immobili perché «ci abitavano dentro».
4.3. L’introduzione, a sostegno della deduzione difensiva, di allegazioni fattuali in assenza di corretta denunzia del travisamento del dato utilizzato dalla Corte di appello per ritenere non ultimata l’opera, rende le deduzioni stesse inammissibili in fatto prima ancora che manifestamente infondate in diritto.
4.4. Resta pertanto insuperata la circostanza che al momento del sopralluogo i lavori non erano stati completati (gli ambienti, peraltro, erano sporchi, lo ammette la stessa ricorrente); l’informazione probatoria che ne trae la Corte di appello in ordine alla attuale permanenza del reato non è dunque logicamente sovvertibile.
4.5. Si deve aggiungere che, in caso di ultimazione funzionale, la cessazione della permanenza del reato edilizio, siccome frutto dell’intima decisione dell’autore di non proseguire oltre l’edificazione o di non rifinire l’opera, deve trovare sicuri appigli fattuali e deve risultare con certezza, essendo onere dell’imputato dimostrare che la mancata ultimazione strutturale non osta al decorso del termine della prescrizione da epoca antecedente l’accertamento della consistenza del manufatto (nel senso che in tema di prescrizione, grava sull’imputato, che voglia giovarsi di tale causa estintiva del reato, l’onere di allegare gli elementi in suo possesso dai quali desumere la data di inizio del decorso del termine, diversa da quella risultante dagli atti, Sez. 3, n. 27061 del 05/03/2014, Laiso, Rv. 259181 – 01; Sez. 3, n. 19082 del 24/03/2009, Cusati, Rv. 243765 – 01; Sez. 3, n. 10585 del 23/05/2000, Milazzo, Rv. 217091 – 01).
4.6. Peraltro, trattandosi di questioni di fatto, dovevano essere devolute in appello con specifico motivo; non avendovi provveduto, la ricorrente non può proporla per la prima volta in questa sede.
5. In ogni caso, il Collegio non può prescindere dalla giurisprudenza di legittimità (espressamente invocata dalla ricorrente) secondo la quale, nei reati permanenti, la formulazione dell’imputazione segna in ogni caso il momento temporale ultimo della contestazione del reato, pertanto ogni slittamento del termine di cessazione della permanenza necessita di una formale contestazione integrativa da parte dell’accusa, indipendentemente dal fatto che nel capo di imputazione sia stata indicata la data di cessazione della permanenza o sia stata lasciata eventualmente aperta la relativa contestazione (Sez. 3, n. 13168 del 23/02/2005, Stoia, Rv. 231226 – 01, che ha affermato il principio in fattispecie relativa al reato di esecuzione di opera edilizia in assenza di concessione). E’ stato, al riguardo, affermato che nei reati permanenti, la formulazione dell’imputazione segna in ogni caso il momento temporale ultimo della contestazione del reato ed ogni slittamento del termine di cessazione della permanenza necessita di una formale contestazione integrativa da parte dell’accusa, indipendentemente dal fatto che nel capo d’imputazione sia stata indicata la data di cessazione della permanenza o lasciata aperta la relativa contestazione. Fissare nel secondo caso il momento della cessazione della permanenza in coincidenza con la pronuncia della sentenza, violerebbe l’esclusiva attribuzione al pubblico ministero dell’esercizio dell’azione penale e l’obbligo di descrizione del fatto nel decreto che dispone il giudizio, da cui discende quello dell’indicazione precisa della collocazione temporale della condotta, per i rilevantissimi riflessi giuridici che tale indicazione ha, non solo diritto di difesa, ma anche sulla prescrizione e sulla successione temporale delle norme. Spetta inoltre all’accusa individuare la data di cessazione della permanenza dovendosi, in caso contrario, ritenere che essa coincida con quella della contestazione della violazione (Sez. 3, n. 11221 del 18/09/1997, Masullo, Rv. 209983 – 01, che, in applicazione di tale principio, ha ritenuto estinto per prescrizione un reato di violazione edilizia per il quale, nel decreto di citazione a giudizio, veniva indicata solo la data della constatazione della violazione e non quella della cessazione della permanenza).
5.1. Tale indirizzo si è posto in consapevole contrasto con quanto affermato da Sez. U, n. 11930 del 11/11/1994, Polizzi, che, decidendo un caso di inosservanza di un’ordinanza di demolizione e sgombero di opere abusive adottata dalla pubblica amministrazione e pronunciando in tema di accertamento della decorrenza del termine utile per il maturarsi della prescrizione, ha affermato i seguenti principi di diritto: a) quando il capo di imputazione contenuto nel decreto di rinvio a giudizio relativo ad un reato permanente si limiti ad indicare soltanto la data iniziale del fatto o quella della denuncia, ma non anche la data di cessazione della permanenza, l’intrinseca idoneità di tale tipo di reato a durare nel tempo, anche dopo l’avverarsi dei suoi elementi costitutivi, comporta che l’originaria contestazione si estenda all’intero sviluppo della fattispecie criminosa e che l’imputato sia conseguentemente chiamato a difendersi, fin dall’origine, non soltanto in ordine alla parte già realizzatasi di tale fattispecie, ma anche con riguardo a quella successiva perdurante fino alla cessazione della condotta o dell’offesa e comunque non oltre la sentenza di primo grado. In tal caso il giudice del dibattimento deve tener conto, pertanto, ai fini della condanna o comunque ad ogni effetto penale, anche della persistenza della condotta oltre quelle date, come emersa dall’istruttoria dibattimentale, senza che sia necessaria un’ulteriore specifica contestazione da parte del pubblico ministero (Rv. 199169 – 01); b) nell’ipotesi in cui il capo di imputazione contenuto nel decreto di rinvio a giudizio indichi esclusivamente la data di accertamento di un reato permanente, senza nessun riferimento a quella di cessazione della permanenza, il giudice del dibattimento deve appurare, attraverso l’interpretazione di detto capo, considerato nel suo complesso, se esso riguardi una fattispecie concreta la quale, così come descritta, sia già esaurita prima o contestualmente all’accertamento medesimo, ovvero una condotta ancora in atto; in tal caso, poiché il capo di imputazione ascrive all’imputato una condotta che, lungi dall’essersi già esaurita, è ancora perdurante alla data in esso indicata, deve ritenersi che la contestazione comprenda anche l’ulteriore eventuale protrazione della permanenza, di cui pertanto può tenere conto il giudice del dibattimento ad ogni effetto penale, senza che sia richiesta a tal fine un’ulteriore contestazione da parte del pubblico ministero; c) qualora nel capo di imputazione contenuto nel decreto di rinvio a giudizio relativo ad un reato permanente si contesti una durata della permanenza precisamente individuata nel tempo, quanto meno nel suo momento terminale, il giudice può tener conto del successivo protrarsi della consumazione soltanto qualora esso sia stato oggetto di un’ulteriore contestazione ad opera del pubblico ministero ex art. 516 cod. proc. pen.; la posticipazione della data finale della permanenza, infatti, incide sulla individuazione del fatto come inizialmente contestato, comportandone una diversità, sotto il profilo temporale, che influisce sulla gravità del reato e sulla misura della pena e può condizionare l’operatività di eventuali cause estintive.
5.2. Spiegano in motivazione le Sezioni Unite, che «qualora all’imputato sia stato contestato un reato permanente, non può non influire la particolare struttura di questa ipotesi criminosa, caratterizzata dal fatto che, secondo la descrizione della norma incriminatrice, il processo consumativo non si esaurisce “uno actu”, ma è invece suscettibile di protrarsi nel tempo, per la persistenza dell’offesa al bene giuridico tutelato, quale effetto di una condotta volontaria del soggetto attivo, perdurante anche dopo l’avverarsi degli elementi costitutivi del reato (…). Invero, nell’ipotesi in cui il capo d’imputazione si limiti ad indicare soltanto la data iniziale del reato o quella della denunzia, ma non anche la data di cessazione della permanenza, la stessa idoneità del reato in esame a durare nel tempo comporta che l’originaria contestazione si estenda all’intero sviluppo della fattispecie criminosa e che, pertanto, l’imputato sia chiamato a difendersi, sin dall’origine, non soltanto in ordine alla parte già realizzatasi di tale fattispecie, ma anche con riguardo a quella successiva, perdurante sino alla cessazione della condotta o dell’offesa e comunque non oltre la sentenza di primo grado. In tal caso, pertanto, il giudice del dibattimento deve valorizzare, ai fini della condanna o comunque ad ogni effetto penale, anche la persistenza della condotta, emersa dall’istruttoria dibattimentale, dopo quelle date, senza che sia necessaria un, ulteriore specifica contestazione».
5.3. Nel disattendere questo insegnamento, Sez. 3, Stola, cit., ha affermato che, «nei reati permanenti, la formulazione dell’imputazione segna in ogni caso il momento temporale ultimo della contestazione del reato ed ogni slittamento del termine di cessazione della permanenza necessita di una formale contestazione integrativa da parte dell’accusa, indipendentemente dal fatto che nel capo d’imputazione sia stata indicata la data di cessazione della permanenza o lasciata eventualmente aperta la relativa contestazione (…) va considerato che il reato permanente trova la sua definizione concettuale nel raffronto tra la condotta incriminata e l’interesse protetto, nel senso che la durata dell’offesa deve essere espressione di una contestuale e duratura condotta colpevole. Nella fattispecie astratta in discussione la permanenza del reato termina con la cessazione dei lavori di costruzione del manufatto o con la loro interruzione. Non è cioè necessario alla cessazione della permanenza del reato il completamento dell’opera abusiva, ben potendosi verificare che l’attività antigiuridica si esaurisca “in itinere” per le più diverse ragioni (intervento dell’autorità o spontanea desistenza), indipendentemente dal perfezionamento della costruzione. È evidente – in tal caso – che la cessazione della permanenza dovrà essere accertata con riferimento al momento effettivo di interruzione dell’attività edificatoria».
5.4. Più articolato il ragionamento di Sez. 3, Masullo, cit., secondo cui, in caso di contestazione “aperta” di un reato permanente, far coincidere tout court la cessazione della permanenza con la data della sentenza di primo grado comporterebbe gravi ed inaccettabili conseguenze, non sembrando ammissibile che la contestazione originaria possa implicitamente comprendere il successivo protrarsi della condotta criminosa e, ancor meno, il suo perdurare sino alla sentenza di primo grado. Si afferma, in particolare, che: a) la formulazione dell’accusa è atto del P.M. cristallizzato in quello con il quale viene disposto il giudizio e al giudice non è dato di poter superare i limiti del fatto contestato, pena la violazione degli artt. 429 e 555 (oggi 552) cod. proc. pen., i quali impongono, a pena di nullità, che il fatto contestato col decreto di citazione deve essere certo e determinato in ogni suo elemento; b) la sentenza di primo grado non fissa alcuna contestazione dell’addebito dato che non opera sulla contestazione ma procede alla sua valutazione al fine di stabilire la responsabilità penale dell’imputato e, peraltro, il fatto accertato dal giudice di primo grado neppure è fissato in sentenza in termini definitivi poiché, a seguito di impugnazione, può essere modificato dal giudice dell’appello; c) la modificazione dell’imputazione originaria richiede un’ulteriore contestazione da parte del P.M. per cui, in assenza di questa, il fatto addebitato non può che essere quello indicato nel decreto di citazione a giudizio. Sicché, prosegue Sez. 3, Masullo, ragionare diversamente comporterebbe: 1) la violazione del principio della correlazione tra accusa contestata e sentenza, principio che obbliga il giudice a rispettare i limiti del fatto, quale formalmente contestato all’imputato, così come descritto nel decreto che dispone il giudizio, e che esclude che ad esso possa essere attribuito un contenuto più ampio di quello enunciato; è da escludere, pertanto, che il giudice possa valutare la protrazione della permanenza del reato oltre la data indicata nel capo di imputazione. Il perdurare della condotta criminosa oltre tale data costituisce infatti un fatto ontologicamente distinto e diverso rispetto a quello descritto nel decreto di citazione a giudizio per cui, in assenza di una contestazione supplettiva da parte del RM., se è preso in esame dal giudice, risulta violata la disposizione di cui all’art. 521 cod. proc. pen.; 2) la violazione dell’iniziativa spettante al P.M. nell’esercizio dell’azione penale sancita dagli artt. 50 cod. proc. pen. e 112 Cost., sicché il giudice, nel caso in cui valuta il protrarsi della permanenza del reato oltre la data indicata nel capo di imputazione, si sostituisce al P.M. nell’esercizio dell’azione penale, dato che in ordine a tale fatto il titolare dell’azione non ha formulato alcuna accusa; anche sotto questo profilo, la decisione del giudice risulterebbe viziata da nullità assoluta ed insanabile; 3) la violazione del diritto di difesa, considerato che la struttura del processo penale è imperniata sul presupposto che con il decreto di citazione a giudizio sono contestati all’imputato fatti accaduti e non già che devono ancora accadere, sicché, ritenere la protrazione della permanenza fino alla sentenza di primo grado equivale a sostenere che, in ordine a tale ulteriore fatto, l’imputato è tenuto a difendersi benché non ritualmente contestato; inoltre, considerando che gli artt. 468 e (oggi) 555 cod. proc. pen., impongono, a pena di inammissibilità, il deposito delle liste testimoniali almeno sette giorni prima della data fissata per il dibattimento, accogliendo il principio secondo il quale la permanenza del reato cessa alla data della sentenza di primo grado, si realizzerebbe una palese violazione del principio fissato dall’art. 24, secondo comma, Cost., per il quale la difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, dato che in ordine al perdurare della permanenza nel corso del dibattimento l’imputato non è nelle condizioni di predisporre la sua difesa; 4) la violazione del principio di cui all’art. 129 cod. proc. pen. per effetto del quale chi sostiene che la permanenza cessa con la sentenza di primo grado non sempre considera che un fatto può essere valutato dal giudice a carico dell’imputato solo se sussiste agli atti la prova che esso in concreto è stato realizzato; le stesse Sez. U, Polizzi, precisano che il giudice può tener conto dell’ulteriore protrarsi della condotta criminosa solo se esso emerge dalla istruzione dibattimentale. E, però, dovrebbe essere evidente che il giudice viola anche la norma di cui all’art. 129 cod. proc. pen. se valuta a carico dell’imputato la permanenza del reato sino alla sentenza di primo grado poiché nel corso dell’istruzione dibattimentale dinanzi al primo giudice è materialmente impossibile accertare che la condotta criminosa continuerà sino al momento in cui sarà emessa la sentenza, diversamente ragionando si opera un’inammissibile inversione dell’onere della prova. Ed infatti, conclude la sentenza, è principio cardine del sistema processuale che spetta al pubblico ministero fornire la prova in ordine alla fondatezza dell’accusa, se una tale prova manca il giudice, lungi dal porre a carico dell’imputato il fatto addebitato, per esso ha l’obbligo di pronunciare il proscioglimento.
5.5. In conclusione, il reato permanente che la rubrica contesta come accertato ad una certa data deve ritenersi perfezionato a quella stessa data e, in assenza di contestazione suppletiva, non oltre essa. Il capo di imputazione indica soltanto la data in cui il reato permanente è stato accertato. Tale data, pertanto, è da assumere sempre e comunque come quella finale del fatto addebitato anche se, in ipotesi, la rubrica, oltre ad indicare il giorno dell’accertamento del fatto, ne ipotizzi la protrazione successivamente ad esso (“accertato il. …con permanenza” oppure utilizzando formule come “dal…”, “il…e successivamente”, “il…ed oltre”). In tal caso, chiosa Sez. 3, Masullo, la data finale del fatto deve identificarsi con quella del decreto di citazione a giudizio o del decreto che dispone il giudizio.
5.6. Tutti gli argomenti indicati da Sez. 3, Masullo, a sostegno dell’indirizzo “restrittivo” sono stati esplicitamente disattesi dal nuovo intervento delle Sezioni Unite che, ribadendo l’indirizzo giurisprudenziale assolutamente prevalente, hanno affermato il principio di diritto secondo il quale la contestazione del reato permanente, per l’intrinseca natura del fatto che enuncia, contiene già l’elemento del perdurare della condotta antigiuridica, sicché qualora il pubblico ministero si sia limitato ad indicare esclusivamente la data iniziale (o la data dell’accertamento) e non quella finale, la permanenza – intesa come dato della realtà – deve ritenersi compresa nell’imputazione, per cui l’interessato è chiamato a difendersi nel processo in relazione ad un fatto la cui essenziale connotazione è data dalla sua persistenza nel tempo, senza alcuna necessità che il protrarsi della condotta criminosa formi oggetto di contestazioni suppletive da parte del titolare dell’azione penale (Sez. U. n. 11021 del 13/07/1998, Montanari, Rv. 211385 – 01, secondo cui la contestazione del reato permanente assume una sua “vis expansiva” fino alla pronuncia della sentenza, e ciò non perché in quel momento cessi o si interrompa naturalisticamente o sostanzialmente la condotta, bensì perché le regole del processo non ammettono che possa formare oggetto di contestazione, di accertamento giudiziale e di sanzione una realtà fenomenica successiva alla sentenza, pur se legata a quella giudicata da un nesso inscindibile per la genesi comune, l’omogeneità e l’assenza di soluzione di continuità, la quale potrà essere eventualmente oggetto di nuova contestazione).
5.7. Le Sezioni Unite Montanari partono dalla constatazione della natura unitaria del reato permanente «nel quale, cioè, il fatto che lo costituisce non si esaurisce “uno actu” ed “uno tempore” ma si protrae nel tempo finché perdura la situazione antigiuridica dovuta alla condotta volontaria del reo e questi non la fa cessare». La natura unitaria del reato permanente è l’unica che trova giustificazione nella lettura coordinata degli artt. 158, primo comma, cod. pen., 8, comma 2, e 382, comma 2, cod. proc. pen., i quali fanno esplicito riferimento ad un “inizio della consumazione” del reato (art. 8 cod. proc. pen.) e ad una sua “cessazione” (artt. 158 cod. pen. e 382, comma 2, cod. proc. pen.): «[i] concetti di inizio e fine della consumazione implicano (…) quello di unitarietà della stessa derivante dalla unicità ed omogeneità del “quid” che ha inizio e che giunge al termine». La natura unitaria del reato permanente spiega altresì la possibilità, pacificamente ammessa dalla dottrina e dalla giurisprudenza, del concorso nel reato anche quando la condotta del concorrente venga posta in essere successivamente alla perfezione della fattispecie (dovendosi altrimenti ritenere penalmente irrilevante la condotta del concorrente oppure qualificarla come favoreggiamento), ché anzi questa possibilità si spiega proprio con il fatto che, ai fini della perfezione del reato permanente, è sufficiente la realizzazione del fatto tipico, dell’azione cioè prevista per la integrazione della soglia minima della fattispecie astratta, laddove la sua consumazione si identifica con il momento in cui cessa il protrarsi della situazione antigiuridica. In questo intervallo di tempo qualunque condotta si inserisca nella sequenza delittuosa concorre nella consumazione del reato. In conclusione, «il reato permanente corrisponde ad una fattispecie astratta nella quale la consumazione protratta nel tempo rileva sotto il profilo della tipicità che il legislatore ha concepito come unitaria, sussumendo nella fattispecie la caratteristica fenomenologica del permanere dell’azione e del perdurare dell’offesa che la coscienza sociale già percepisce come una situazione ontologicamente unica».
Le Sezioni Unite confutano espressamente la teoria pluralistica secondo la quale il reato permanente consiste in una pluralità di illeciti penali autonomi i quali vengono unificati dall’ordinamento giuridico così da dar luogo ad un fenomeno simile al reato continuato; ciò perché, affermano, il “continuum” che nel reato permanente è una componente naturale della sua struttura, nel reato continuato è una artificiale costruzione normativa. Orbene, sostengono, l’ontologica struttura del reato nei suoi aspetti naturalistici non può essere ignorata quando si tratta di adattare i principi della contestazione e della corrispondenza tra l’accusa e la sentenza alla intrinseca idoneità a durare nel tempo del reato permanente nel quale, appunto, l’elemento temporale del perdurare della condotta, con il sostegno dell’elemento psicologico, è costitutivo della tipicità e caratterizza anche il dato dell’empiria (fatto) sussunto nella fattispecie astratta. Il che vuol dire che nel caso in cui la contestazione abbia per oggetto un reato permanente con indicazione della data iniziale della permanenza (o della data dell’accertamento), la permanenza stessa, intesa come dato della realtà, è compresa nella imputazione per la logica ed essenziale connotazione del fatto storico che integra l’accusa. Di qui la affermazione che la contestazione, per l’intrinseca natura del fatto che enuncia, contiene già l’elemento del perdurare della condotta ed assume una sua “vis expansiva” fino alla pronunzia della sentenza; ciò non perché in quel momento cessi o si interrompa naturalisticamente o sostanzialmente la permanenza ma perché i principi e le regole del processo non ammettono che possa formare oggetto di contestazione, di accertamento giudiziale e dì possibile sanzione una realtà fenomenica successiva alla sentenza anche di un solo attimo. L’imputato di reato permanente – salvo che nell’accusa non sia dedotto un preciso arco temporale – è chiamato nel processo a difendersi in relazione ad un fatto che oggettivamente e per sua intrinseca natura perdura nel tempo in virtù della stessa condotta lesiva, siccome tipicamente conformata e presidiata dalla coscienza e volontà dello stesso agente.
5.8. La permanenza non tollera, sul piano logico, la necessità di una contestazione che indichi il momento della cessazione del reato se tali dati non emergono nel corso del processo. Il reato – annotano le Sezioni Unite – proprio perché permanente, dura finché non si esaurisce. Un diverso argomentare, sottolineano, porterebbe alle estreme ed assurde conseguenze di dover negare la (già ammessa) possibilità di instaurare il giudizio per un reato permanente in atto o di disarticolare inammissibilmente nel tempo il reato unico che ammette la sola cesura temporale della sentenza. Quando viene contestato un reato permanente l’imputato sa già che «sarà chiamato difendersi senza bisogno di contestazione suppletiva anche dell’ultimo protrarsi della condotta illecita che è e rimane sempre determinata se è contestata come permanente e che, pertanto, rispetto al suo intrinseco perdurare, non può avere i caratteri della novità della diversità o della sorpresa». Le Sezioni Unite, quindi, stigmatizzano l’impostazione che parte dalla summa divisio fra fatti accaduti/fatti da accadere, e che nega ai secondi il diritto di ingresso nella contestazione siccome lesivi dei diritti della difesa. Tale impostazione, sottolineano, contiene una petizione di principio ed ignora i fatti in via di accadimento che si protraggono ininterrottamente fino alla sentenza senza autonomia ma come semplice manifestazione tipica del reato contestato al di fuori del quale non assumono rilevanza: «fila contestazione, insomma, anche in ossequio ai principi formali richiamati dall’opposta tesi, altro non è che la descrizione del fatto come esso si è svolto (o si va svolgendo) “in rerum natura” per cui, quando esso è descritto quale è per sua intrinseca natura, ossia come reato che perdura nel tempo e perciò permanente, la permanenza è già insita nella sostanza del fatto contestato ed è da questo inseparabile non potendo essere degradata a mero elemento accidentale o ad una sorta di postfatto la cui punibilità richieda a sua volta una ulteriore ed ultronea contestazione».
5.9. Sul piano probatorio, proseguono le Sezioni Unite, una volta assodato che la condotta successiva alla data di accertamento del reato permanente entra a far parte del thema decidendum, è irrilevante il termine di scadenza di presentazione delle liste testimoniali o l’argomento relativo all’onere della prova; l’imputato sa che deve difendersi anche dalla accusa della protrazione della condotta oltre il termine del suo accertamento, ferma restando, ovviamente, l’applicazione del principio in dubio pro reo per effetto del quale la permanenza contestata sarà, nel dubbio, ritenuta non provata.
5.10. I principi affermati da Sez. U, Montanari, sono stati ribaditi da Sez. 1, n. 27381 del 06/06/2003, Caruso, Rv. 225021-01; Sez. 6, n. 13280 del 04/12/2000, Silvestri, Rv. 217534-01; Sez. 3, n. 11591 del 11/10/2000, Parrelli, Rv. 217765-01; Sez. 6, n. 10621 del 04/07/2000, Calafato, Rv. 217765-01; Sez. 2, n. 20798 del 20/04/2016, Zagaria, Rv. 267085-01, che ha ribadito che nel caso di contestazione di un reato permanente nella forma cosiddetta “chiusa”, con precisa indicazione della data di cessazione della condotta illecita (ad es. con la formula “accertato fino al…”), il giudice può tener conto dell’eventuale protrarsi della consumazione soltanto se ciò sia oggetto di un’ulteriore contestazione ad opera del pubblico ministero ex art. 516 cod. proc. pen.; qualora invece il reato permanente sia stato contestato in forma c.d. “aperta” – essendosi il P.M. limitato ad indicare solo la data di inizio della consumazione, ovvero quella dell’accertamento – il giudice può valutare, senza necessità di contestazioni suppletive, anche la condotta criminosa eventualmente posta in essere fino alla data della sentenza di primo grado.
5.11. Nell’affermare il contrario principio, Sez. 3, Stoia, cit., non si è confrontata minimamente con quanto sostenuto da Sez. U, Montanari, essendosi limitata a sostenere che «nei reati permanenti, la formulazione dell’imputazione segna in ogni caso il momento temporale ultimo della contestazione del reato ed ogni slittamento del termine di cessazione della permanenza necessita di una formale contestazione integrativa da parte dell’accusa, indipendentemente dal fatto che nel capo d’imputazione sia stata indicata la data di cessazione della permanenza o lasciata eventualmente aperta la relativa contestazione».
5.12. Tale indirizzo deve essere definitivamente superato.
5.13. Sicché, deve essere ribadito il principio secondo il quale, in tema di reati edilizi, attesa la loro natura permanente, qualora il pubblico ministero si sia limitato ad indicare esclusivamente la data iniziale (o la data dell’accertamento) e non quella finale del reato, la permanenza deve ritenersi compresa nell’imputazione, per cui l’interessato è chiamato a difendersi nel processo in relazione anche alle condotte poste in essere successivamente alla data di contestazione. Poiché la permanenza del reato edilizio cessa o con l’ultimazione dei lavori o, prima ancora, con la loro definitiva cessazione (coattiva o spontanea), la prova dell’ultimazione dei lavori o della loro spontanea cessazione deve essere fornita dall’imputato, ove ciò non emerga nel corso dell’istruttoria dibattimentale.
5.14. Deve perciò essere ribaltato il principio affermato dalle sentenze Sez. 3, Masullo, e Sez. 3, Stoia, cit.
5.15. E ciò per le seguenti ragioni: a) in primo luogo, perché costituisce dato contrario all’esperienza, dalla quale sarebbe irragionevole prescindere, che, in assenza di un provvedimento cautelare reale, l’autore del reato edilizio interrompa spontaneamente l’esecuzione dei lavori in conseguenza dell’accertamento del reato stesso, essendo piuttosto vero il contrario; b) in secondo luogo, perché l’opera non ultimata dà corpo e sostanza alla natura permanente del reato edilizio la quale cessa solo con l’ultimazione effettiva dei lavori; disarticolare il reato edilizio fissandone la consumazione alla data del suo accertamento equivale a introdurre una causa di cessazione della permanenza che non è frutto della condotta dell’agente, bensì conseguenza di un intervento ab externo, che prescinde dalla realtà fenomenica, sovrapponendosi anzi ad essa, fissando una cessazione “artificiale” della permanenza di cui l’agente si giova a prescindere dal fatto che abbia proseguito o meno nella sua attività illecita; c) in terzo luogo, perché affermare che la permanenza cessa in corrispondenza con la data di accertamento del reato e onerare di conseguenza il PM del compito di dimostrare la prosecuzione dei lavori comporta conseguenze paradossali posto la contestazione suppletiva postula la diversità (o la novità) del reato contestato rispetto a quello oggetto di iniziale imputazione con conseguenze scomposizione del reato permanente in tanti singoli reati a fronte dell’unicità della condotta e del suo oggetto materiale; d) in quarto luogo, perché la necessità del PM di variare la data di consumazione del reato opera solo in caso di contestazione cd. “chiusa”, non in caso di contestazione aperta; e) infine (e non per ordine di importanza), perché, a fronte di una contestazione che dà conto di un’opera non ancor ultimata, della prova dell’ultimazione funzionale dei lavori è onerato l’imputato, non certo il PM (Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano, Rv. 261153 – 01; si veda altresì la giurisprudenza riportata sub § 4.5).
5.16. In ogni caso, trattandosi di accertamento di fatto, la questione della effettiva ultimazione dei lavori deve essere dedotta in sede di merito, non potendo essere devoluta per la prima volta in sede di legittimità.
5.17. Nel caso di specie, il reato edilizio è contestato come accertato in data 15/04/2016 e, poiché si trattava di opera non ultimata, in assenza di elementi di segno contrario, la permanenza deve ritenersi cessata alla data della sentenza di primo grado.
6. Quanto al dedotto malgoverno dell’art. 131-bis cod. pen., la Corte di appello ha escluso la marginalità dell’intervento in considerazione del numero di vani abusivamente realizzati, della loro consistenza volumetrica (poco meno di 30 metri cubi), dell’entità dell’aumento di sagoma, del fatto che l’abuso ricadeva sul condominio in cui erano situati gli appartamenti con aggravamento del danno anche indiretto degli interessi dei condomini.
6.1. E’ stato più volte affermato che, ai fini della applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen. nelle ipotesi di violazioni urbanistiche e paesaggistiche, la consistenza dell’intervento abusivo – data da tipologia, dimensioni e caratteristiche costruttive – costituisce solo uno dei parametri di valutazione, assumendo rilievo anche altri elementi quali, ad esempio, la destinazione dell’immobile, l’incidenza sul carico urbanistico, l’eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e l’impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto di vincoli e la conseguente violazione di più disposizioni, l’eventuale collegamento dell’opera abusiva con interventi preesistenti, la totale assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo stesso, il rispetto o meno di provvedimenti autoritativi emessi dall’amministrazione competente, le modalità di esecuzione dell’intervento (Sez. 3, n. 19111 del 10/03/2016, Rv. 266586 – 01; Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015, Rv. 265450 – 01).
6.2. Il principio di diritto invocato dalla ricorrente trova, dunque, applicazione sopratutto nei casi in cui la consistenza dell’opera abusivamente realizzata non sia tale da escludere, di per sé, la natura esigua del danno o del pericolo di danno agli interessi tutelati dalle norme in materia edilizia, urbanistica e paesaggistica. Quando, come nel caso di specie, la consistenza dell’opera è tale da escludere in radice l’esiguità del danno o del pericolo, correttamente il giudice può escludere la applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen..
6.3. Si aggiunga, tra l’altro, che: a) gli immobili hanno determinato una vistosa modifica della sagoma e del prospetto dell’edificio; b) la determinazione della pena in misura decisamente lontana dal minimo edittale, ancorché inferiore alla media, esprime comunque un giudizio di gravità del reato che stride con la pretesa difensiva di non punibilità del fatto, pretesa a sua volta intrinsecamente contraddetta dalla mancata impugnazione, in tutti i gradi di giudizio, del punto relativo al trattamento sanzionatorio; c) la ricorrente indica, quali argomenti a sostegno della applicazione della causa di non punibilità, la parziale riferibilità della condotta al precedente proprietario e la riconducibilità dell’intervento stesso al cd. Piano casa, questioni che presuppongono la fondatezza del primo motivo (che, invece, tale non è).
7.Quanto all’ultimo motivo, a fronte della decisione del Tribunale di subordinare il beneficio della sospensione condizionale della pena alla demolizione delle opere abusive, la ricorrente non aveva articolato uno specifico motivo di appello, essendosi limitata a evidenziare, in modo del tutto generico, «la non particolare gravità della condotta» e la «già richiesta sanatoria». La genericità del motivo rendeva inammissibile l’appello sul punto, con conseguente inammissibilità dell’odierno quarto motivo di ricorso.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 21/09/2023.