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Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime | Categoria: Appalti, Sicurezza sul lavoro, 231 Numero: 50278 | Data di udienza: 6 Dicembre 2023

SICUREZZA SUL LAVORO – Infortunio sul lavoro – Responsabilità per omessa predisposizione di presidi antinfortunistici – Comportamento doveroso omesso – Verifiche del giudice del nesso di causalità nei reati colposi – Giudizio di alta probabilità logica – Informazioni scientifiche – Contingenze significative – Effetto salvifico del comportamento omesso – APPALTI – Dovere di sicurezza del committente – Responsabilità del committente – Incidenza della condotta nell’eziologia dell’evento – Obblighi di sicurezza del committente – Artt. 15, 26 e 90, D.Lgs. n.81/2008 – Proprietario non committente – 231 – Responsabilità degli enti – Art. 5 D.Lgs. n. 231/2001 – Illecito realizzato nell’interesse e in vantaggio dell’ente – Criteri di imputazione oggettiva – Criteri alternativi e concorrenti – Utilità per l’ente – Riduzione dei costi – Art. 25-septies, D.Lgs. n. 231/2001 – Lesioni personali aggravate dalla violazione della disciplina antinfortunistica – Trasgressione isolata. (Segnalazione e massime a cura di Alessia Riommi)


Provvedimento: SENTENZA
Sezione: 4^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 12 Dicembre 2023
Numero: 50278
Data di udienza: 6 Dicembre 2023
Presidente: FERRANTI
Estensore: MARI


Premassima

SICUREZZA SUL LAVORO – Infortunio sul lavoro – Responsabilità per omessa predisposizione di presidi antinfortunistici – Comportamento doveroso omesso – Verifiche del giudice del nesso di causalità nei reati colposi – Giudizio di alta probabilità logica – Informazioni scientifiche – Contingenze significative – Effetto salvifico del comportamento omesso – APPALTI – Dovere di sicurezza del committente – Responsabilità del committente – Incidenza della condotta nell’eziologia dell’evento – Obblighi di sicurezza del committente – Artt. 15, 26 e 90, D.Lgs. n.81/2008 – Proprietario non committente – 231 – Responsabilità degli enti – Art. 5 D.Lgs. n. 231/2001 – Illecito realizzato nell’interesse e in vantaggio dell’ente – Criteri di imputazione oggettiva – Criteri alternativi e concorrenti – Utilità per l’ente – Riduzione dei costi – Art. 25-septies, D.Lgs. n. 231/2001 – Lesioni personali aggravate dalla violazione della disciplina antinfortunistica – Trasgressione isolata. (Segnalazione e massime a cura di Alessia Riommi)



Massima

CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 4^, 18 dicembre 2023 (Ud. 06/12/2023), Sentenza n. 50278

 

SICUREZZA SUL LAVORO – Infortunio sul lavoro – Responsabilità per omessa predisposizione di presidi antinfortunistici – Nesso di causalità nei reati colposi – Comportamento doveroso omesso – Giudizio di alta probabilità logica – Informazioni scientifiche – Contingenze significative – Effetto salvifico del comportamento omesso – Verifiche del giudice sul nesso di causalità.

In tema di responsabilità derivante dall’omessa predisposizione di presidi antinfortunistici, l’accertamento del nesso causale, ed in particolare il giudizio controfattuale necessario per stabilire la valenza del comportamento doveroso omesso, deve essere effettuato secondo un giudizio di alta probabilità logica, tenendo conto non solo di affidabili informazioni scientifiche ma anche delle contingenze significative del caso concreto, conseguendone che l’esistenza del nesso causale può essere ritenuta quando l’ipotesi circa il sicuro effetto salvifico del comportamento omesso sia caratterizzata da elevata probabilità logica, ovvero sia fortemente corroborata alla luce delle informazioni scientifiche e fattuali disponibili. Le Sezioni Unite che, con la sentenza Sez. U, n. 30328/2002, hanno fissato, specificamente in una fattispecie concreta di causalità omissiva impropria, alcuni snodi logico-giuridici fondamentali per la verifica del nesso di causalità nei reati colposi, confermati dalla giurisprudenza successiva (tra le varie, nella specifica materia della responsabilità per omissione derivante dalla mancata predisposizione di presidi antinfortunistici). In altre parole, il giudice ha il dovere di verificare il nesso di causalità secondo le regole della sussunzione della causalità entro leggi scientifiche universali sufficientemente valide e in tale operazione deve lasciarsi guidare dal criterio di alta probabilità logica della spiegazione causale ipotizzata, ma non può usare, per validare la propria verifica, il canone logico del ragionevole dubbio, che, invece, si manifesta all’esito di tale verifica, come piano di sintesi logico-giuridica degli accertamenti di fatto già svolti, alla luce dell’art. 533 c.p.p..

APPALTI – Dovere di sicurezza del committente – Responsabilità del committente – Incidenza della condotta nell’eziologia dell’evento – Obblighi di sicurezza del committente – Artt. 15, 26 e 90, D.Lgs. n.81/2008 – Proprietario non committente.

Il principio generale, secondo cui il dovere di sicurezza gravante sul datore di lavoro opera anche in relazione al committente, deve essere precisato nel senso che dal committente non può esigersi un controllo pressante, continuo e capillare sull’organizzazione e sull’andamento dei lavori con la conseguenza che, ai fini della configurazione della responsabilità del committente, occorre verificare in concreto quale sia stata l’incidenza della sua condotta nell’eziologia dell’evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l’esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta dell’appaltatore o del prestatore d’opera, alla sua ingerenza nell’esecuzione dei lavori oggetto di appalto o del contratto di prestazione d’opera, nonché alla agevole ed immediata percepibilità da parte del committente di situazioni di pericolo. Derivando dai predetti principi, quello in forza del quale gli obblighi di sicurezza previsti dagli artt. 26 e 90, D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, gravano esclusivamente sul committente, da intendersi come colui che ha stipulato il contratto d’opera o di appalto, anche se non proprietario del bene che si avvantaggia delle opere affidate, mentre nessuna responsabilità è configurabile a carico del proprietario non committente che non si sia ingerito nell’esecuzione delle opere, pur in assenza di una delega di funzioni.

231 – Responsabilità degli enti – Art. 5 D.Lgs. n. 231/2001, – Illecito realizzato nell’interesse e in vantaggio dell’ente – Criteri di imputazione oggettiva – Criteri alternativi e concorrenti – Utilità per l’ente – Riduzione dei costi – Art. 25-septies, D.Lgs. n. 231/2001 – Lesioni personali aggravate dalla violazione della disciplina antinfortunistica – Trasgressione isolata.

Ai fini della configurabilità della responsabilità da reato degli enti, è sufficiente la prova dell’avvenuto conseguimento di un vantaggio ai sensi dell’art.5, D.Lgs. n. 231 del 2001, da parte dell’ente, anche quando non sia possibile determinare l’effettivo interesse da esso vantato ex ante rispetto alla consumazione dell’illecito, purché il reato non sia stato commesso nell’esclusivo interesse del suo autore persona fisica o di terzi; ricordando sul punto che i criteri di imputazione oggettiva, rappresentati dal riferimento all’interesse o al vantaggio, sono alternativi e concorrenti tra di loro e devono essere relazionati alla condotta anziché all’evento e con la conseguenza che ricorre il requisito dell’interesse qualora l’autore del reato ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di conseguire un’utilità per l’ente, mentre sussiste il requisito del vantaggio qualora la persona fisica ha violato sistematicamente le norme prevenzionistiche, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto. D’altra parte, in relazione specifica al disposto dell’art. 25-septies, D.Lgs. n. 231 del 2001, in tema di responsabilità amministrativa degli enti derivante dal reato di lesioni personali aggravate dalla violazione della disciplina antinfortunistica, il criterio di imputazione oggettiva dell’interesse può sussistere anche in relazione a una trasgressione isolata dovuta ad un’iniziativa estemporanea, senza la necessità di provare la natura sistematica delle violazioni antinfortunistiche, allorché altre evidenze fattuali dimostrino il collegamento finalistico tra la violazione e l’interesse dell’ente.

(annulla con rinvio nei confronti di D.M. sentenza del 27/10/2022 – CORTE APPELLO di CAGLIARI. Rigetta i ricorsi di D.F. e De.Ma. Costruzioni Edilizia s.r.l.), Pres. Ferranti, Est. Mari, Ric. D.F., D.M. e De.Ma. Costruzioni Edilizia s.r.l.


Allegato


Titolo Completo

CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 4^, 18/12/2023 (Ud. 06/12/2023), Sentenza n. 50278

SENTENZA

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE

composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

omissis

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
D.F., nato a (omissis);
D.M., nato a (omissis);
DE.MA. COSTRUZIONI EDILI S.R.L.;

avverso la sentenza del 27/10/2022 della CORTE APPELLO di CAGLIARI;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. ATTILIO MARI;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dr. SALVADORI SILVIA, che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi, riportandosi alla memoria depositata.

E’ presente l’avvocato GRAZIANO MARZIA, del foro di LANUSEI, in difesa di DE.MA. COSTRUZIONI EDILI S.R.L..

Il difensore illustra i motivi di ricorso e insiste per il suo accoglimento.

E’ altresì presente l’avvocato PILIA PAOLO GIUSEPPE, del foro di LANUSEI, in difesa di D.M.. Il difensore conclude per l’accoglimento del ricorso, richiamandone i motivi.

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Cagliari ha parzialmente riformato la sentenza emessa il 12/03/2019 dal GUP presso il Tribunale di Lanusei, rideterminando la pena detentiva inflitta nei confronti di D.M. e D.F., imputati del reato previsto dall’art. 589 c.p., commesso in danno di P.D., in anni uno e mesi otto di reclusione, revocando altresì le statuizioni civili e contestualmente concedendo il beneficio della sospensione condizionale.

1.1 Era stato contestato agli imputati di avere – nelle loro rispettive qualità di committente (D.M.) e di datore di lavoro della persona offesa (D.F.) – cagionato il decesso del P.; in particolare, secondo il capo di imputazione, nei confronti del committente sarebbe stato ravvisabile un profilo di colpa specifica ai sensi dell’art. 90 del T.U. emesso con D.Lgs. n. 81 del 2008, (che impone al committente di attenersi ai principi e alle misure generali di tutela di cui all’art. 15 dello stesso T.U.), mentre nei confronti del datore di lavoro sarebbe stata ravvisabile la violazione degli artt. 111 e 115 del T.U., che impone – in ipotesi di lavori effettuati in quota – di scegliere le attrezzatture di lavoro più idonee a garantire e mantenere condizioni di lavoro sicure, a minimizzare i rischi prevedendo installazione di dispositivi di protezione nonché di fare in modo che i lavoratori utilizzino i dovuti sistemi di protezione; in tal modo contribuendo alla causazione del suddetto evento letale, avvenuto durante i lavori di ampliamento della parte superiore di un immobile in uso a D.M. e in occasione di lavori svolti alle dipendenze di (D.F., per la quale il P. prestava opera retribuita in assenza di regolarizzazione.

Era altresì stato contestato alla De.ma. Costruzioni Edilzia s.r.l., di cui (D.F.) era legale rappresentante, l’illecito amministrativo previsto dall’art. 25-septies del D.Lgs. n. 231 del 2001, essendo il fatto imputato allo stesso (D.F. stato commesso nell’interesse e a vantaggio della società.

1.2 La Corte territoriale ha premesso la ricostruzione del fatto operata da parte del Tribunale.

In particolare, ha rilevato che il giudice di primo grado aveva accertato; che l’infortunio si era verificato il (omissis) in un terreno di proprietà della De.ma., ubicato nella località (omissis) nel Comune di (omissis), ove insisteva una struttura edilizia su due livelli, di cui quello al piano terreno adibito ad abitazione della famiglia di D.M. e quello superiore ancora in via di ultimazione; che, alle ore 8,15, il P. e il P. si erano portati sul terreno con l’incarico di ripulirlo dai residui di precedenti lavorazioni effettuate; che, dopo il pranzo, i lavoratori si sarebbero offerti di sistemare alcuni teloni in plastica siti sul tetto dell’edificio e destinati a proteggere il tavolato in legno da probabili piogge, salendo quindi sulla copertura con il consenso di D.M.; che, nello svolgere tale mansione, il P. – privo di mezzi di protezione – era precipitato dall’altezza di circa tre metri, riportando gravi lesioni e che lo stesso era quindi rimasto ricoverato presso strutture sanitarie sino al decesso, sopravvenuto il (omissis); che la causa “prossima” del decesso era stata una broncopolmonite bilaterale provocata dal transito del bolo dall’esofago alla trachea attraverso una fistola non diagnosticata formatasi in seguito all’errata manovra di intubazione avvenuta dopo l’infortunio e aggravata dal comportamento del paziente, che non aveva osservato le indicazioni consigliate dai sanitari curanti.

La Corte ha quindi rilevato che, su tali presupposti, il Tribunale aveva ritenuto che vi fosse stata violazione delle norme antinfortunistiche, in quanto il P. era salito sul tetto dell’immobile senza alcuna imbracatura, senza dispositivi di ancoraggio e senza quindi essere dotato di alcuna protezione individuale; che il nesso di causalità non era stato interrotto dal successivo errore medico ovvero dalla condotta della persona offesa; che la penale responsabilità doveva quindi essere attribuita a D.F., quale legale rappresentante della società datrice di lavoro del P. e proprietaria del terreno e a D.M. quale soggetto che aveva la materiale disponibilità dell’edificio e che aveva consentito che il lavoratore salisse sul tetto; che la responsabilità amministrativa della De.ma, discendesse dal fatto che il reato era stato commesso nel suo interesse dal legale rappresentante.

La Corte ha quindi operato una trattazione congiunta dei motivi di appello da ritenere prospettanti questioni comuni di fatto e di diritto; ha rilevato – in ordine ai motivi di impugnazione attinenti alla sussistenza del nesso causale – che la dedotta interruzione non potesse essere opposta da D.M., trattandosi di colui che aveva la disponibilità dell’immobile e che aveva esplicitamente autorizzato i due lavoratori a portarsi sulla copertura, ingerendosi quindi nello svolgimento dei lavori; e che ad analoga conclusione dovesse giungersi con riferimento a D.F., essendo colui che aveva dato incarico al P. e al P. di ripulire l’area – comprensiva delle copertura – dai residui di precedenti lavorazioni, di modo che la condotta dei lavoratori non poteva dirsi avesse creato un rischio eccentrico rispetto alle mansioni affidate; ha altresì rilevato che da nessuna evidenza processuale sarebbe emersa la circostanza, dedotta dalle difese, in base alla quale i lavoratori si sarebbero recati sul posto per motivi extralavorativi e, in particolare, per ritirare due agnelli promessi in regalo; ha rilevato altresì che il nesso di causalità non poteva ritenersi interrotto dal successivo errore medico né dal rifiuto delle cure opposto dal P..

Quanto all’attribuzione di responsabilità, ha condiviso la valutazione del Tribunale, ritenendo che la stessa gravasse tanto sul datore di lavoro – che aveva agito in veste di amministratore della De.ma. (atteso che lo stesso non aveva, quale persona fisica, nessun diritto sull’immobile) – quanto sul possessore dell’immobile e committente dei lavori, nel cui svolgimento si era concretamente ingerito; che la responsabilità amministrativa della società discendesse dal fatto che i lavori erano stati eseguiti su un bene di sua proprietà e con un apprezzabile risparmio di spesa, derivante dalla mancata predisposizione dei presidi antinfortunistici.

La Corte ha quindi ritenuto infondato il motivo di impugnazione attinente alla mancata concessione delle attenuanti generiche, difettando elementi idonei a giustificarne l’applicazione e in considerazione della gravità della colpa ascrivibile ai due imputati; ha invece ritenuto fondato il motivo inerente alla misura del trattamento sanzionatorio irrogato nei loro confronti, rideterminato nel senso suddetto; ritenendo invece infondato il motivo inerente alla misura della sanzione amministrativa irrogata nei confronti della società, contestualmente revocando le statuizioni civili atteso l’avvenuto trasferimento dell’azione.

2. Avverso la predetta sentenza hanno presentato distinti ricorsi per cassazione, tramite i propri difensori, D.M., D.F. e la De.ma. s.r.l..

3. La difesa di D.M. ha articolato quattro motivi di impugnazione.

3.1 Con il primo motivo ha dedotto la violazione di legge, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione agli artt. 40 e 41 c.p., nonché la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in punto di indagine attinente al nesso causale.

Ha dedotto che le sentenze di merito avrebbero operato una errata valutazione in punto di sussistenza del nesso causale tra l’evento letale e l’infortunio occorso; ha dedotto che, sulla base di quanto accertato dai consulenti del pubblico ministero e della difesa, la fistola tracheo-esofagea diagnosticata già a soli sedici giorni dal ricovero e riconducibile a una errata manovra di intubazione, aveva determinato una interruzione del nesso di rischio tra la condotta del primo autore e l’evento morte e che le considerazioni spiegate dagli ausiliari in punto di evoluzione dello stato clinico del paziente avrebbero dovuto indurre a una più approfondita indagine in ordine alla rilevanza eziologica degli elementi causali sopravvenuti, anche in relazione al comportamento tenuto dal paziente durante la degenza; ritenendo, quindi, che il giudizio finale espresso dai giudici di merito si sarebbe posto in contrasto con i consolidati principi giurisprudenziali in punto di accertamento della sussistenza di un elevato grado di probabilità logica in ordine alla sussistenza del nesso causale e di eccentricità del fattore sopravvenuto rispetto al rischio governato dal precedente garante, tanto deducendo sulla base della concreta concatenazione degli eventi riscontrabile nel caso concreto ed esposta nel corpo dell’esposizione del motivo di ricorso.

3.2 Con il secondo motivo ha dedotto la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione agli artt. 40 e 41 c.p. e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione – ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett.e), – in punto di valutazione attinente alla sussistenza di una posizione di garanzia in capo al ricorrente.

Ha dedotto che i lavori di ampliamento dell’immobile ove si era verificato l’infortunio non erano stati commissionati da D.M., come emerso nel corso del primo grado di giudizio sulla base della testimonianza del P., bensì dal solo D.F., unico soggetto a impartire le relative direttive e a effettuare i pagamenti per le lavorazioni effettuate; deducendo come D.M. non rivestisse alcun ruolo nell’impresa né avesse mai espresso ordini o indicazioni riguardo all’esecuzione dei lavori; deducendo come non risultasse, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, che il ricorrente avesse autorizzato il lavoratore a portarsi sulla copertura; ritenendo, di conseguenza, che difettasse la necessaria posizione di garanzia in capo al ricorrente, non desumibile dalla sola circostanza che lo stesso occupasse una parte dell’immobile e avesse un generico interesse al suo completamento.

Con il terzo motivo ha dedotto la violazione di legge, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione all’art. 430 c.p. e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett.e), in riferimento alla dedotta inesigibilità del rispetto delle regole cautelari previste dagli artt. 15 e 90, D.Lgs. n. 81 del 2008.

Ha dedotto che, in considerazione della mancanza di qualsiasi effettivo potere di ingerenza nello svolgimento dei lavori, sarebbe emersa l’estraneità del ricorrente rispetto al rischio protetto e la conseguenza che non poteva essere pretesa l’osservanza delle regole predette.

Con il quarto motivo ha dedotto la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), nonché la violazione del disposto dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), per omessa assunzione di una prova decisiva, derivante dal mancato conferimento di un incarico peritale affinché accertasse l’effettiva incidenza dell’infortunio sul decorso causale che aveva portato al decesso della persona offesa, sotto il profilo del rapporto tra l’antecedente causale e l’evento e la rilevanza dell’incidenza dei fattori sopravvenuti.

4. La difesa di D.F. ha articolato quattro motivi di impugnazione. 4.1 Con il primo motivo ha dedotto la violazione e falsa applicazione degli artt. 40 e 41 c.p. e il vizio di motivazione sul punto.

Ha dedotto che la Corte territoriale sarebbe incorsa in un vizio di violazione di legge nel momento in cui aveva ritenuto l’insussistenza di una causa sopravvenuta idonea a determinare la morte del P. e costituita dal comportamento dei sanitari che avevano proceduto all’errore in sede di intubazione oro-tracheale nonché dal successivo rifiuto delle cure opposto dal paziente, ripercorrendo sul punto il complessivo excursus clinico seguito all’infortunio nonché il contenuto delle consulenze tecniche acquisite nel corso del primo grado di giudizio; ritenendo quindi che i giudici di merito, a fronte di tale quadro fattuale, avrebbero dovuto riconoscere la sussistenza di sequenze fattuali idonee a interrompere il nesso causale con l’infortunio stesso.

4.2 Con il secondo motivo, ha dedotto l’inosservanza o erronea applicazione dell’art. 533 c.p.p., comma 1, e art. 546 c.p.p. in punto di superamento del principio del ragionevole dubbio.

Ha dedotto che i giudici di merito avrebbero omesso di motivare adeguatamente le ragioni in base alle quali non vi sarebbe stato un ragionevole dubbio in ordine all’interruzione del nesso causale tra l’infortunio e il decesso, richiamando le considerazioni spiegate nel primo motivo di ricorso in ordine alla rilevanza dei fattori costituiti dalle concause di carattere medico nonché di quelli riconducibili al comportamento del paziente.

4.3 Con il terzo motivo ha dedotto l’inosservanza e omessa applicazione dell’art. 530 c.p.p., comma 2.

Ha dedotto che, sulla base delle medesime considerazioni, la sentenza impugnata aveva anche violato la regola di giudizio imposta dall’art. 530 c.p.p., comma 2, attesa la insufficienza e contraddittorietà della prova in punto di sussistenza del nesso causale.

4.4 Con il quarto motivo ha dedotto – ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. d), c.p.p., – la mancata assunzione di una prova decisiva e, specificamente, il mancato espletamento di una perizia medico-legale in punto di effettiva valutazione della sussistenza del nesso causale tra l’infortunio e il decesso del lavoratore, sulla base di una scelta processuale da ritenersi consentita anche in sede di giudizio abbreviato e ricorrendo tutti i presupposti previsti dall’art. 222 c.p.p., comma 1.

5. La difesa della De.ma. Costruzioni Edili S.r.l. ha articolato tre motivi di impugnazione; previa esposizione della complessiva ricostruzione dei fatti, dalle quali sarebbe emerse l’assenza di un effettivo rapporto tra il lavoratore e la società e della non desumibilità dello stesso per effetto del solo rapporto tra lo stesso lavoratore e D.F..

5.1 Con il primo motivo ha dedotto l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale nonché la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione – ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d) ed e), – in punto di mancata rilevazione dell’estraneità della società rispetto ai fatti di causa.

Ha dedotto che i fatti postulati dai giudici di merito – rappresentati dalla veste di legale rappresentante della società in capo a D.F. e dalla titolarità del fondo su cui era ubicato l’immobile in capo alla De.ma. – non avrebbero giustificato la conclusione relativa a un rapporto di dipendenza tra la società e il P., elementi dedotti dai giudici sulla base delle dichiarazioni rese da L.M. e D.D.; ha peraltro dedotto che i giudici di merito non avrebbero adeguatamente valutato l’attendibilità delle dichiarazioni rese dalle L., atteso il suo interesse economico sotteso alla costituzione di parte civile e la effettiva valenza probatoria da attribuire al calendario dei lavori recanti annotazioni asseritamente riconducibili al P. – dalla stessa prodotto e peraltro mai acquisito nelle forme del sequestro – comunque inidoneo a comprovare la sussistenza di un effettivo rapporto di lavoro con la società, anche in considerazione della contraddizione tra il dato veicolato dalla L. circa gli orari di lavoro e quello di inizio effettivo della prestazione alla data del (omissis); ha altresì dedotto che le conclusioni dei giudici di merito sarebbero state smentite dalle risultanze degli accertamenti svolti sul posto dai Carabinieri della stazione di (omissis) e dal servizio di prevenzione e sicurezza ambienti di lavoro presso la ASL di Lanusei, dalle quali sarebbe emerso che sul luogo non fosse in corso alcuna attività edile; ha pure dedotto che, sulla base delle dichiarazioni rese dal P., si sarebbe potuto desumere che la scelta di salire sul tetto e di sistemare il telone fosse il frutto di una mera iniziativa dei lavoratori non riconducibile ad alcun ordine o direttiva altrui con conseguente ravvisabilità del carattere eccentrico del comportamento del lavoratore.

5.3 Con il secondo motivo ha dedotto l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale – ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), nonché la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in punto di violazione degli artt. 40 e 41 c.p.p. e in riferimento alla dedotta sussistenza del nesso causale tra l’infortunio e il decesso del lavoratore; esponendo, sul punto, il complessivo excursus della vicenda clinica seguita al ricovero del P., in ordine alla condotta dei sanitari e a quella del paziente.

5.4 Con il terzo motivo ha dedotto – ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), – la mancata assunzione di una prova decisiva e, specificamente, il mancato espletamento di una perizia medico-legale in punto di effettiva valutazione della sussistenza del nesso causale tra l’infortunio e il decesso del lavoratore, sulla base di una scelta processuale da ritenersi consentita anche in sede di giudizio abbreviato.

3. Il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta nella quale ha concluso per il rigetto dei ricorsi.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso proposto da D.M. è fondato, mentre vanno rigettati i ricorsi proposti da D.F. e dalla De.ma..

2. Va premesso che, vertendosi – in punto di valutazione di responsabilità degli imputati – in una fattispecie di c.d. doppia conforme, le due decisioni di merito vanno lette congiuntamente, integrandosi le stesse a vicenda, secondo il tradizionale insegnamento della Suprema Corte; tanto in base al principio per cui “Il giudice di legittimità, ai fini della valutazione della congruità della motivazione del provvedimento impugnato, deve fare riferimento alle sentenze di primo e secondo grado, le quali si integrano a vicenda confluendo in un risultato organico ed inscindibile” (Sez. 2, n. 11220 del 13/11/1997, Ambrosino, Rv. 209145; in conformità, tra le numerose altre, Sez. 6, n. 11878 del 20/01/2003, Vigevano, Rv. 224079; Sez. 6, n. 23248 del 07/02/2003, Zanotti, Rv. 225671; Sez. 5, n. 14022 del 12/01/2016, Genitore, Rv. 266617).

3. Vanno quindi congiuntamente esaminati il primo motivo di ricorso proposto dalla difesa di D.M., il primo motivo di ricorso proposto dalla difesa di D.F. e il secondo motivo di ricorso proposto dalla difesa della De.ma. e con i quali – sulla base di argomentazioni, di fatto, coincidenti – è stata censurata la valutazione dei giudici di merito in punto di sussistenza del nesso causale tra l’infortunio occorso il (omissis) alla persona offesa e il successivo decesso sopravvenuto il 21/05/2014.

Avendo le stesse difese dedotto la sussistenza di una sequenza causale indipendente ed idonea a escludere la sussistenza del nesso causale medesimo, concretizzata dalla condotta negligente dei sanitari e che avrebbe determinato l’insorgenza – diagnosticata già dopo sedici giorni dal trauma conseguente all’infortunio – di una fistola tracheo-esofagea riconducibile a un’errata manovra di intubazione eseguita subito dopo il ricovero; nonché dalla condotta tenuta dallo stesso paziente il quale, nei mesi seguito al ricovero, non aveva consentito all’esecuzione di alcune necessarie indagini diagnostiche e non aveva ottemperato alle indicazioni dei sanitari in ordine alla quantità e qualità degli alimenti da assumere.

I motivi sono infondati.

3.1 Sotto tale profilo, deve essere premesso – in via logicamente pregiudiziale – che eccede dai limiti di cognizione della Corte di cassazione ogni potere di revisione degli elementi materiali e fattuali, trattandosi di accertamenti rientranti nel compito esclusivo del giudice di merito, posto che il controllo sulla motivazione rimesso al giudice di legittimità è circoscritto, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), alla sola verifica dell’esposizione delle ragioni giuridicamente apprezzabili che l’hanno determinata, dell’assenza di manifesta illogicità dell’esposizione e, quindi, della coerenza delle argomentazioni rispetto al fine che ne ha giustificato l’utilizzo e della non emersione di alcuni dei predetti vizi dal testo impugnato o da altri atti del processo, ove specificamente indicati nei motivi di gravame, requisiti la cui sussistenza rende la decisione insindacabile (Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, Caradonna, Rv. 280747; Sez. 3, n. 17395 del 24/01/2023, Chen, Rv. 284556, tra le altre).

Ricordando, altresì, che non è consentita in sede legittimità una rivalutazione nello stretto merito delle risultanze processuali, essendo preclusa in questa sede la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito. (Sez. 6, n. 27429 del 4/7/2006, Lobriglio, RV. 234559; Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, B., Rv. 280601); essendo, infatti, stato più volte ribadito che la Corte di cassazione non può sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di giudizio (Sez. 5, n. 39048 del 25/9/2007, Casavola, Rv. 238215; Sez. 6, n. 25255 del 14/2/2012, Minervini, Rv. 253099), restando esclusa la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o attendibilità delle fonti di prova (Sez. 2, n. 7380 del 11/1/2007, Messina, Rv. 235716).

3.2 Ciò posto, le deduzioni poste alla base dei suddetti motivi di impugnazione non paiono idonee a intaccare il giudizio di congruità delle argomentazioni dei giudici di merito – in riferimento specifico alla tematica del nesso causale – non palesandosi nel ragionamento seguito dagli stessi le dedotte violazioni di legge ovvero passaggi argomentativi suscettibili di dare luogo al prospettato vizio di illogicità.

In particolare, deve rilevarsi che i giudici di merito si siano adeguatamente confrontati con i principi dettati dalla giurisprudenza di questa Corte e applicabili alla fattispecie concreta in esame e specificamente relativi alla problematica relativa al nesso di causalità in ipotesi di reati commissivi determinati mediante omissione.

3.3 A tale proposito va fatto richiamo alle considerazioni espresse nella parte motiva di Sez. 5, n. 15816 del 20/01/2020, Mascolo, Rv. 279417 – a propria volta fondate sull’esame della consolidata giurisprudenza di questa Corte – che si ritiene di dover integralmente condividere e nella quale si è rilevato come il relativo accertamento di responsabilità debba avvenire sulla base della legge statistica di riferimento, al fine di stabilire se nel caso concreto sussistano o meno altri fattori di tipo alternativo in nesso causale con l’evento.

Tale principio, in generale, discende dalle affermazioni delle Sezioni Unite che, con la sentenza Sez. U, n. 30328 del 10/7/2002, Franzese, Rv. 222138/222139 hanno fissato, specificamente in una fattispecie concreta di causalità omissiva impropria, alcuni snodi logico-giuridici fondamentali per la verifica del nesso di causalità nei reati colposi, confermati dalla giurisprudenza successiva (tra le varie, nella specifica materia della responsabilità per omissione derivante dalla mancata predisposizione di presidi antinfortunistici, Sez. 4, n. 28571 del 01/06/2016, De Angelis, Rv. 266945; Sez. 4, n. 33749 del 04/05/2017, Ghelfi, Rv. 271052, nonché – in diverso ambito fattuale – Sez. U, Sentenza n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261103).

Le Sezioni Unite hanno stabilito che, nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.

Allo stesso modo, l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del nesso causale tra condotta ed evento – e cioè il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante dell’omissione dell’agente rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo – comportano l’esito assolutorio del giudizio.

Va quindi rilevato che causalità omissiva e causalità commissiva nei reati colposi rispondono a regole identiche ai fini della verifica della sussistenza del nesso di causalità, poiché i comportamenti che le realizzano sono strettamente connessi, dato che, nella condotta omissiva, nel violare le regole cautelari, il soggetto non sempre è assolutamente inerte, ma, frequentemente, pone in essere un comportamento diverso da quello dovuto, cioè da quello che sarebbe stato doveroso secondo le regole della comune prudenza, perizia, attenzione.

La distinzione attiene, quindi, soltanto alla necessità, in caso di comportamento omissivo, di fare ricorso, per verificare la sussistenza del nesso di causalità, ad un giudizio controfattuale meramente ipotetico (dandosi per verificato il comportamento invece omesso), anziché fondato sui dati della realtà, come nella causalità commissiva; infatti, nel caso di comportamento omissivo, è solo con riferimento alle regole cautelari inosservate che può formularsi un concreto rimprovero nei confronti del soggetto e verificarsi, con giudizio controfattuale ipotetico, la sussistenza del nesso di causalità (Sez. 4, n. 3380 del 15/11/2005, dep. 2006, Fedele, Rv. 233237).

Ne consegue che, seguendo l’impostazione della citata sentenza delle Sezioni Unite, al fine di stabilire la sussistenza del nesso di causalità, occorre un duplice controllo, ovvero: la verifica sul nesso causale tra la condotta e l’evento sulla base di una legge statistica o universale di copertura sufficientemente valida e astrattamente applicabile al caso concreto; la successiva verifica, attraverso un giudizio di alta probabilità logica, dell’attendibilità, in concreto, della spiegazione causale così ipotizzata.

Occorre cioè verificare – sulla base delle evidenze processuali – che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione doverosa omessa (nel reato colposo omissivo improprio) o al contrario non compiuta la condotta commissiva assunta a causa dell’evento (nel reato commissivo colposo), ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non si sarebbe verificato (oppure sarebbe avvenuto molto dopo, o avrebbe comunque avuto minore intensità lesiva).

A propria volta, l’interpretazione di tale criterio passa attraverso la delimitazione del concetto di “probabilità logica”, il quale – ulteriormente – muove dalla divisione, nell’ambito delle leggi scientifiche, tra leggi di carattere universale e leggi di carattere statistico; intendendosi per le prime che asseriscono, nella successione di determinati eventi, invariabilità regolari mentre le seconde si limitano ad affermare che il verificarsi di un evento è accompagnato dal verificarsi di un altro evento in una certa percentuale di casi e con una frequenza relativa (si vedano sul punto le considerazioni spiegate in parte motiva, pure qui integralmente condivise, da Sez. 4, n. 9705 del 15/12/2021, dep. 2022, Pazzoni, Rv. 282855).

A proposito di tale distinzione, questa Corte ha affermato che il ricorso alle leggi statistiche da parte del giudice è più che legittimo perché il modello della sussunzione sotto leggi sottende, il più delle volte, necessariamente il distacco da una spiegazione causale deduttiva che implicherebbe una impossibile conoscenza di tutti i fatti e di tutte le leggi pertinenti; affermando quindi le Sezioni unite che, ove si ripudiasse la natura eminentemente induttiva dell’accertamento giudiziale e si pretendesse comunque una spiegazione causale di tipo deterministico e nomologico-deduttivo, secondo criteri di utopistica certezza assoluta, si finirebbe col frustrare gli scopi preventivo-repressivi del diritto e del processo penale in settori nevralgici per la tutela di beni primari, stabilendo conseguentemente che la spiegazione causale dell’evento può essere tratta da leggi scientifiche, universali o statistiche, enucleabili anche da rilevazioni epidemiologiche (Sez. U, 10 luglio 2002, Franzese, cit.).

Per colmare le carenze derivanti da parametri che, di per sé stessi, non assicurano la certezza del nesso causale, le Sezioni Unite hanno quindi elaborato il concetto di probabilità logica, a propria volta da distinguere da quello di probabilità statistica; difatti, mentre la prima attiene alla verifica empirica circa la misura della frequenza relativa nella successione degli eventi, la seconda contiene la verifica aggiuntiva, sulla base dell’intera evidenza disponibile, dell’attendibilità dell’impiego della legge statistica per il singolo evento e della persuasiva e razionale credibilità dell’accertamento giudiziale; dunque, il concetto di probabilità logica impone di tener conto di tutte le caratteristiche del caso concreto, integrando il criterio della frequenza statistica con tutti gli elementi astrattamente idonei a modificarla.

Se la probabilità statistica viene invece integrata da tutti gli elementi forniti dall’evidenza disponibile, è possibile pervenire ad una valutazione, in un senso o nell’altro, connotata da un elevato grado di credibilità razionale, non più espresso in termini meramente percentualistici.

Sul punto le Sezioni unite, nella sentenza Franzese, hanno affermato che anche coefficienti medio-bassi di probabilità c.d. frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica o da generalizzazioni empiriche del senso comune o da rilevazioni epidemiologiche, pur imponendo verifiche particolarmente attente sia in merito alla loro fondatezza che alla specifica applicabilità alla fattispecie concreta, possono essere utilizzati per l’accertamento del nesso di condizionamento, ove siano corroborati dal positivo riscontro probatorio circa la sicura non incidenza, nel caso di specie, di altri fattori interagenti in via alternativa.

Il procedimento logico, non dissimile, secondo le Sezioni unite, dalla sequenza del ragionamento inferenziale dettata, in tema di prova indiziaria, dall’art. 192 c.p.p., comma 2, deve pertanto condurre alla conclusione, caratterizzata da “un alto grado di credibilità razionale”, quindi alla “certezza processuale che, esclusa l’interferenza di decorsi alternativi, la condotta omissiva dell’imputato, alla luce della cornice nomologica e dei dati ontologici, sia stata condizione “necessaria” dell’evento, attribuibile perciò all’agente come fatto proprio.

L’ulteriore passo sarà costituito, nell’ottica del giudizio di probabilità logica, dalla ricerca ed eventualmente, dall’esclusione di decorsi causali alternativi. Dunque, l’attività investigativa del pubblico ministero prima e quella istruttoria del giudice poi non devono essere dirette soltanto ad ottenere la conferma dell’ipotesi formulata ma devono riguardare anche l’esistenza di fattori causali alternativi, che possano costituire elementi di smentita dell’ipotesi prospettata.

L’impossibilità di escludere, al di là di ogni ragionevole dubbio, l’esistenza di fattori causali alternativi non consente di ritenere processualmente certo il rapporto di causalità e dunque di attribuire, sotto il profilo oggettivo, l’evento all’imputato.

In giurisprudenza, si è, in proposito, precisato però che il giudice deve adeguatamente motivare la conclusione sulla possibile esistenza di fattori alternativi di spiegazione dell’evento e che lo stesso non può contrapporre ai dati di fatto accertati mere congetture per ipotizzare tali spiegazioni alternative (Sez. 4, Sentenza n. 20560 del 02/03/2005, Herreros, Rv. 231356); mentre le Sezioni unite hanno ribadito che il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sulla base dell’analisi delle connotazioni del fatto storico e delle peculiarità del caso concreto (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Rv. 261103, sopra citata).

In tale contesto, il principio dell’oltre il ragionevole dubbio segna il limite del ragionamento probatorio, non il requisito di validità della legge scientifica di copertura; difatti il principio stesso rappresenta nient’altro che, a contrario, la verifica del grado di probabilità logica attribuibile al ragionamento sulla base delle prove raccolte, nonché del collegamento tra il fatto concreto e l’ipotizzata spiegazione causale. Ed invero, intanto tale ragionamento può ritenersi dotato di elevato grado di probabilità logica e idoneo, pertanto, a supportare il convincimento della sussistenza del nesso causale con “elevato grado di credibilità razionale”, in quanto non permanga un “dubbio ragionevole” (ossia, non meramente congetturale) che l’evento possa essere stato determinato da una causa diversa. Non è possibile, dunque, invocare il principio dell’oltre il ragionevole dubbio per determinare la validità della legge di copertura, poiché in tal modo si confonde il piano processuale con quello sostanziale e si attribuisce valenza probatoria fattuale ad una regola di giudizio che rappresenta, appunto, un canone logico di ragionamento e non un’evidenza concreta (in tal senso si esprime la richiamata sentenza n. 9695 del 2014).

In altre parole, il giudice ha il dovere di verificare il nesso di causalità secondo le regole della sussunzione della causalità entro leggi scientifiche universali sufficientemente valide e in tale operazione deve lasciarsi guidare dal criterio di alta probabilità logica della spiegazione causale ipotizzata, ma non può usare, per validare la propria verifica, il canone logico del ragionevole dubbio, che, invece, si manifesta all’esito di tale verifica, come piano di sintesi logico-giuridica degli accertamenti di fatto già svolti, alla luce dell’art. 533 c.p.p..

3.4 Conseguendone quindi, dalle predette considerazioni, la conclusione in base alla quale in tema di responsabilità derivante dall’omessa predisposizione di presidi antinfortunistici, l’accertamento del nesso causale, ed in particolare il giudizio controfattuale necessario per stabilire la valenza del comportamento doveroso omesso, deve essere effettuato secondo un giudizio di alta probabilità logica, tenendo conto non solo di affidabili informazioni scientifiche ma anche delle contingenze significative del caso concreto, conseguendone che l’esistenza del nesso causale può essere ritenuta quando l’ipotesi circa il sicuro effetto salvifico del comportamento omesso sia caratterizzata da elevata probabilità logica, ovvero sia fortemente corroborata alla luce delle informazioni scientifiche e fattuali disponibili.

3.5 Ciò posto, va rilevato che la sentenza impugnata – a propria volta attraverso il richiamo a quella di primo grado – ha compiutamente delineato l’iter causale che ha portato al decesso della persona offesa.

In particolare, una volta acclarato che la caduta del lavoratore era da ricondurre causalmente all’omessa predisposizione di presidi antinfortunistici – e specificamente costituiti da quelli indicati nel capo di imputazione e corrispondenti agli artt. 111 e 115, D.Lgs. n. 81 del 2008, – il giudice di primo grado ha ricostruito l’intera catena causale che ha portato al decesso del P., riconducendone l’origine alla predetta condotta omissiva e poi tenendo conto degli specifici fattori concausali determinatisi dopo il suo ricovero.

Difatti, il giudice di primo grado ha compiutamente esposto le conclusioni spiegate dal consulente del pubblico ministero; il quale ha dato atto che il P., a seguito della caduta, aveva riportato varie lesioni (tra cui un trauma cranico e toracico, un ematoma peridurale e fratture localizzate in varie parti del corpo che avevano determinato la necessità di un intervento urgente e di una tracheotomia); che le sue condizioni erano progressivamente migliorate per poi peggiorare nel febbraio del 2014, momento dal quale erano sopravvenute frequenti infezioni delle vie respiratore che lo avevano portato al decesso; che, dall’esame delle cartelle cliniche, era emerso che il paziente si era ripetutamente opposto all’effettuazione di indagini diagnostiche necessarie ai fini di un corretto intervento terapeutico e aveva tenuto un’alimentazione non corrispondente a quella imposta dalle prescrizioni mediche.

Il giudice di primo grado ha altresì dato atto del parere reso dal consulente nominato dalla difesa, in base al quale l’insufficienza respiratoria – a propria volta da porre in diretto rapporto causale con il decesso – sarebbe stata aggravata da una fistola tracheo-esofagea da porre in diretto rapporto con un errore compiuto nella manovra di intubazione seguita all’originario ricovero e accertata già sedici giorni dopo il trauma.

Deve quindi rilevarsi come i giudici di merito – con motivazione congrua e immune dal denunciato vizio di illogicità – abbiano ricondotto il decesso del P. all’originario stato traumatico derivante dalla caduta, pure non disconoscendo che l’evento finale è stato determinato anche dal concorso di una pluralità di fattori sopravvenuti, la cui sinergia, con quella che è stata identificata come la causa primigenia, ha ritenuto aver favorito il processo degenerativo risultato fatale alla vittima.

Difatti i giudici di merito, mediante l’esposizione delle suddette valutazioni operate dai consulenti tecnici e il complessivo apparato argomentativo desumibile dalle motivazioni, non hanno affatto escluso – ed anzi hanno, di fatto, affermato che nel caso concreto la struttura della spiegazione causale sia complessa e possa contemplare anche le negligenti omissioni dei sanitari ed il progressivo indebolimento dell’organismo del P. determinato dalla non corretta condotta sanitaria tenuta dal paziente e dal discostamento rispetto alle prescrizioni e alle cure imposte; hanno peraltro evidenziato come tali circostanze non solo non possano ritenersi indipendenti dall’azione degli imputati, ma altresì non abbiano effettivamente deviato l’originaria serie causale, avendone semplicemente favorito o accelerato il decorso evitando di impedirne lo sviluppo, costituendo in tal senso mere concause dell’evento.

In altri termini, la Corte territoriale ha escluso che le condotte omissive e commissive tenute da soggetti diversi da parte degli imputati potessero costituire una causa sopravvenuta da sola sufficiente ad interrompere il rapporto condizionalistico tra la loro condotta e l’evento finale.

3.6 Si tratta quindi di una valutazione – operata con giudizio di fatto non rivedibile in questa sede in quanto fondato su considerazioni non palesemente illogiche – che si pone in linea con l’orientamento di questa Corte per cui il collegamento causale tra l’azione lesiva imputata e l’evento che ne è derivato non è interrotto dalla intermedia omissione della condotta che sarebbe stata in ipotesi idonea ad evitare la produzione dell’evento medesimo, qualora questa non costituisca un fatto imprevedibile ovvero uno sviluppo assolutamente atipico della serie causale; considerazione che questa Corte ha specificamente enunciato proprio a proposito della eventuale e sopravvenuta condotta colposa da parte dei sanitari che siano intervenuti dopo il perfezionamento di un evento lesivo, la cui condotta colposa commissiva ed omissiva – ancorché di elevata gravità – non elide, di per sé, il nesso causale tra la condotta lesiva e l’evento morte, in quanto l’intervento dei sanitari costituisce, rispetto al soggetto leso, un fatto tipico e prevedibile, anche nei potenziali errori di cura, mentre ai fini dell’esclusione del nesso di causalità occorre un errore del tutto eccezionale, abnorme, da solo determinante l’evento letale (tra le altre, Sez. 5, n. 29075 del 23/05/2012, Barbagallo, Rv. 253316; Sez. 4, n. 25560 del 02/05/2017, Schiavone, Rv. 269976; Sez. 5, n. 45241 del 19/10/2021, D’Onofrio, Rv. 282285; Sez. 5, n. 18396 del 04/04/2022, Di Bernardo, Rv. 283216 – 02).

Difatti tali condotte sopravvenute possono, ricorrendone le condizioni, costituire eventualmente e unicamente il titolo per l’affermazione della concorrente responsabilità del soggetto inadempiente. D’altra parte, ad analoghe considerazioni deve giungersi in relazione all’omesso rispetto – da parte del paziente – delle prescrizioni imposte dai sanitari; in quanto, anche in tale caso, i giudici di merito hanno ritenuto che alla stessa condotta potesse eventualmente attribuirsi una mera valenza concausale; in ciò ponendosi pure in linea di coerenza con quanto già affermato da questa Corte e in base al quale il rifiuto di terapie, da parte del paziente capace d’intendere e volere non costituisce causa sopravvenuta sufficiente a determinare l’evento e a interrompere il nesso di causalità, dovendo essere considerato non un evento anomalo e eccezionale, ma uno dei possibili esiti ordinari della proposta di terapia conseguente all’insorgere di una patologia potenzialmente letale (Sez. 1, Sentenza n. 14560 del 15/12/2021, dep. 2022, Pinti, Rv. 283305; nonché, in parte motiva, Sez. 5, n. 18396 del 04/04/2022, Di Bernardo, Rv. 283216).

3.7 D’altra parte, nemmeno a conclusioni diverse può giungersi sulla base della teoria del rischio, pure evocata nel corpo del ricorso proposto da D.M. e della quale il ricorrente lamenta l’omessa applicazione da parte dei giudici del merito.

Come noto, nella costante ricerca di un efficiente strumento idoneo ad arginare l’eccessiva forza espansiva dell’imputazione del fatto determinata dal condizionalismo, anche nella giurisprudenza di legittimità si è venuto consolidando un orientamento per cui il nesso causale tra condotta ed evento si interrompe quando la causa sopravvenuta innesca un rischio nuovo e incommensurabile, del tutto incongruo rispetto al rischio originario attivato dalla condotta originaria (Sez. 4, n. 123 del 11/12/2018, dep. 2019, Nastasi, Rv. 274829; Sez. 4, Sentenza n. 22691 del 25/02/2020, Romagnolo).

Difatti, anche volendo ricondurre la questione dell’imputazione oggettiva dell’evento esclusivamente alla verifica della sua concreta produzione quale realizzazione del rischio originariamente innescato dalla condotta ascritta agli imputati, va ribadito che le motivazioni dei giudici di merito non hanno escluso – ed anzi, come già ricordato, lo hanno di fatto ammesso esplicitamente – che gli accadimenti successivi alla causazione delle lesioni riportate in occasione dell’infortunio abbiano influito sul decorso causale, ma hanno invece sostenuto che il decesso del P. ha costituito la concretizzazione proprio del pericolo determinato dalla condotta lesiva, negando che tali accadimenti abbiano generato un rischio inedito rispetto a quello originariamente determinato dagli imputati.

Difatti, dalle sentenze di merito si evince la considerazione – da considerarsi intrinsecamente coerente – in base alla quale l’infortunio ha concretizzato un antecedente causale necessario dell’evento mortale; avendo quindi la sentenza di appello congruamente rigettato le doglianze difensiva in base alla quali al trauma originario avrebbe anche dovuto negarsi l’identificazione quale antecedente causale necessario dell’evento mortale, in ipotesi determinato da una serie totalmente autonoma ed indipendente, tanto da identificare l’infortunio quale elemento apoditticamente ininfluente nella produzione dell’exitus.

Dovendosi invece ritenere coerente con i principi propri della teoria condizionalistica la conclusione dei giudici di merito in base alla quale i traumi determinati dall’infortunio – con la conseguente necessità di un intervento urgente da parte dei sanitari, pure in ipotesi determinato da un originario errore operativo – abbia costituito un antecedente logico e necessario dell’evento mortale, del quale non è quindi possibile ritenere l’assenza di valenza concausale prospettata nei motivi di ricorso.

4. In quanto direttamente connesso alla tematica del nesso causale, va altresì esaminato il profilo di fatto e di diritto – specificamente enunciato nel primo motivo articolato per conto della difesa della De.ma. – e in base al quale l’infortunio sarebbe stato conseguenza di un comportamento del lavoratore eccentrico rispetto alle mansioni affidate, in modo da dare luogo a una condotta connotata dall’attributo dell’abnormità.

La censura è infondata.

Va quindi rilevato – sotto tale aspetto – che il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche, è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente sia qualificabile come abnorme, dovendo definirsi tale il comportamento imprudente del lavoratore che sia stato posto in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli.

In particolare, ancora più specificamente, la giurisprudenza di questa Corte ha rilevato che, in tema di prevenzione antinfortunistica, perché la condotta colposa del lavoratore possa ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo, è necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (Sez. 4, n. 16397 del 05/03/2015, Guida, Rv. 263386; Sez. 4, n. 33976 del 17/03/2021, Vigo, Rv. 281748; Sez. 4, n. 7012 del 23/11/2022, dep. 2023, Cimolai, Rv. 284237, cit.).

In sostanza, sulla base dell’esame sinottico dei principi dettati dalla giurisprudenza di legittimità, deve ritenersi che sia interruttiva del nesso di condizionamento la condotta del lavoratore nel solo caso in cui la stessa si collochi in qualche modo al di fuori dell’area di rischio definita dalla lavorazione in corso.

Rilevando altresì che la giurisprudenza di legittimità è ferma nel sostenere che non possa discutersi di responsabilità (o anche solo di corresponsabilità) del lavoratore per l’infortunio quando il sistema della sicurezza approntato dal datore di lavoro presenti delle evidenti criticità (Sez.4, n. 16888 del 07/02/2012, Pugliese, Rv.252373, nonché, in senso coerente, anche Sez. 4, n. 27871 del 20/03/2019, Simeone, Rv. 276242), ciò in quanto le disposizioni antinfortunistiche perseguono, infatti, il fine di tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa, onde l’area di rischio da gestire include il rispetto della normativa prevenzionale che si impone ai lavoratori, dovendo il datore di lavoro dominare ed evitare l’instaurarsi, da parte degli stessi destinatari delle direttive di sicurezza, di prassi di lavoro non corrette e per tale ragione foriere di pericoli (Sez.4, n. 4114 del 13/01/2011, n. 4114, Galante, n. m.; Sez. F, n. 32357 del 12/08/2010, Mazzei, Rv. 247996).

Deve quindi rilevarsi come le argomentazioni espresse dalla Corte territoriale, in adesione a quelle formulate nella motivazione della sentenza di primo grado, si siano adeguatamente confrontate con i predetti principi, con motivazione immune dal denunciato vizio di contraddittorietà.

In particolare, la Corte – richiamando quanto desumibile dagli atti – ha rilevato che, sulla base delle dichiarazioni acquisite nel corso delle indagini preliminari (e, in particolare, da parte dell’altro lavoratore P.L.), le opere affidate da D.F. attenevano a lavori di ampliamento del fabbricato in uso a D.M. e che, specificamente nella mattinata del (omissis), gli stessi lavoratori avrebbero dovuto “pulire l’area dai materiali che erano residuati dai precedenti lavori utili per l’installazione dei vari impianti idrici ed elettrici”; e tanto sulla base di puntuali indicazioni fornite dallo stesso D.F. “che, in prossimità delle festività natalizie, desiderava vi fosse ordine presso la casa del figlio”, dichiarando quindi come – dopo il pranzo – lo stesso P. e il P. fossero saliti sul tetto per coprirlo con alcuni teloni in plastica in previsione di possibili fenomeni atmosferici.

Tali univoci elementi di fatto hanno quindi indotto la Corte territoriale – con motivazione non contraddittoria e non manifestamente illogica – a ritenere che l’incidente mortale si sia verificato in occasione dello svolgimento, da parte della vittima, di mansioni direttamente connesse a quelle originariamente affidate da D.F., in quanto non eccentriche rispetto a quelle aventi per oggetto la complessiva ripulitura dell’area di svolgimento del lavoro.

Deve quindi escludersi che il datore di lavoro possa invocare la propria assenza di responsabilità per carenza del nesso causale quando – come nel caso di specie – l’incidente si sia verificato nell’ambito delle mansioni predette; essendo, in tal caso, evidentemente carente – in coerenza con i predetti principi – il dato dell’esorbitanza della condotta del lavoratore rispetto alla sfera di rischio governata dal datore.

5. Va quindi esaminata, per diretta conseguenza logica, la doglianza comune posta alla base del quarto motivo di ricorso articolato da D.M., del quarto motivo di ricorso articolato da D.F. e del terzo motivo di ricorso articolato dalla De.ma.; con i quali è stata lamentata la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), derivante dal mancato espletamento di una perizia in punto di effettivo accertamento dell’asserito nesso causale esclusivo con la serie deterministica sopravvenuta rispetto all’infortunio.

I relativi motivi sono inammissibili, in quanto manifestamente infondati.

Sul punto, la giurisprudenza di questa Corte è difatti costante nel ritenere che la mancata effettuazione di un accertamento peritale non possa costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), non potendo la perizia farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova “neutro”, sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, laddove il citato art. 606, attraverso il richiamo all’art. 495 c.p.p., comma 2, si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano carattere di decisività; conseguendone che il diniego della perizia, in quanto giudizio di fatto, è pertanto insindacabile in sede di legittimità se sorretto da adeguata motivazione (Sez. 4, n. 7444 del 17/01/2013, Sciarra, Rv. 225152; Sez. 2, n. 52517 del 03/11/2016, Russo, Rv. 268815; Sez. U, n. 39746 del 31/08/2017, A., Rv. 270935 – 01).

A tale principio si riconnette quindi quello in base al quale la sentenza di condanna deve dare adeguata spiegazione delle ragioni per le quali, a fronte della richiesta dell’imputato di perizia, gli esiti del sapere tecnico derivanti dalle consulenze di parte vengano ritenuti esaustivi e incontrovertibili giacché la regola di giudizio dell'”aldilà ogni ragionevole dubbio” impone al giudice l’adozione di un metodo dialettico di verifica dell’ipotesi accusatoria (Sez. 4, n. 28102 del 21/03/2019, Hannouche, Rv. 277474; Sez. 3, n. 15444 del 15/03/2023, Leone, Rv. 284364).

Nel caso di specie, quindi, non risulta che l’accertamento peritale sia stato posto alla base della richiesta di rito abbreviato, che tutti gli odierni ricorrenti avevano condizionato alla sola escussione del proprio consulente di parte e nemmeno che il mancato espletamento della perizia sia stato posto alla base di motivi di appello.

Deve quindi ritenersi che il giudice di secondo grado non avesse alcun dovere di disporre la perizia – eventualmente sanzionabile ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), – e che neanche possa ravvisarsi alcun obbligo di motivare sullo specifico punto.

6. Le considerazioni che precedono, in punto di valutazione in ordine alla sussistenza del nesso causale tra l’infortunio e il decesso, portano al conseguente e logico rigetto del secondo e del terzo motivo proposto dalla difesa di D.F. e con i quali è stata prospettata la violazione del principio dell’oltre ragionevole dubbio e della necessità di pronunciare sentenza di assoluzione in presenza di insufficienza o contraddittorietà della prova, in relazione all’art. 530 c.p.p., comma 2 e art. 533 c.p.p., comma 1.

7. Va quindi esaminato il secondo motivo di ricorso articolato dalla difesa di D.M. e con il quale lo stesso ha contestato la sussistenza della propria posizione di garanzia invece ritenuta dalle sentenze di merito; in particolare, il ricorrente ha dedotto di non avere commissionato l’esecuzione dei lavori di ampliamento dell’immobile ove si è verificato l’infortunio e di non rivestire alcun ruolo nell’ambito della De.ma., società proprietaria del terreno al cui interno si trovava l’immobile medesimo, contestando di avere mai impartito alcun ordine o direttiva in ordine all’esecuzione delle opere.

Il motivo è fondato.

7.1 Va quindi premesso che, in sede di atto di esercizio dell’azione penale, D.M. è stato tratto a giudizio – e quindi ritenuto responsabile del relativo addebito – quale soggetto “detentore” dell’immobile ove si sono svolte le lavorazioni e nella propria veste di committente dei lavori medesimi.

Sul punto, il D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 90 stabilisce gli obblighi facenti capo al committente dei lavori; specificamente, in relazione all’area degli obblighi facenti capo al committente – da intendersi come soggetto nel cui interesse l’opera venga realizzata e che abbia affidato l’esecuzione della stessa mediante la conclusione di un contratto d’opera – nell’ambito della prevenzione infortunistica, va fatto richiamo all’elaborazione relativa alla connotazione della relativa figura e alla concreta delimitazione degli obblighi sulla stessa gravanti, come operata dalla giurisprudenza di legittimità e, in particolare, nella parte motiva (che qui si ritiene di condividere integralmente) di Sez. 4, n. 10039 del 13/11/2018, dep. 2019, Pezzi, Rv. 275270.

In particolare, in tale sede si è ricordato che il legislatore non ha disciplinato la figura del committente né con il D.P.R. n. 547 del 1955, né con il successivo D.P.R. n. 302 del 1956 e neppure con il D.Lgs. n. 626 del 1994; quest’ultimo provvedimento normativo con l’art. 7 prendeva, infatti, in considerazione la sola figura del datore di lavoro quale referente soggettivo degli obblighi previsti dalla medesima disposizione, in relazione all’affidamento dei lavori ad imprese appaltatrici anche artigiane, nella propria azienda o nell’ambito del ciclo produttivo, regolando il rischio interferenziale fra te imprese ivi operanti.

L’estensione di quella disciplina al committente, in un primo tempo, era stata giustificata dalla giurisprudenza solo quando il medesimo travalicasse il ruolo di semplice conferimento delle opere, ingerendosi nell’organizzazione per la loro esecuzione (Sez. 4, n. 2731 del 12/01/1990, Bovienzo, Rv. 183507, tra le altre); mentre, successivamente, la corresponsabilità del committente, affiancante quella del datore di lavoro e del direttore dei lavori, è stata posta in relazione alla diretta emanazione di direttive od al diretto conferimento di progetti che essi stessi siano fonte di pericolo “ovvero quando egli abbia commissionato o consentito l’inizio dei lavori, pur in presenza di situazioni di fatto parimenti pericolose” (Sez. 3, n. 8134 del 24/04/1992, Togni, Rv. 19138701) o ancora quanto allo svolgimento di opere in un cantiere gestito dall’appaltante o su strutture o con strumentazioni che gli appartengono e che il medesimo avesse l’obbligo di mantenere in efficienza (Sez. 4, n. 2800 del 15/12/1998, dep. 2019, Breccia. Rv. 21322601).

Il mutamento della disciplina è intervenuto con l’introduzione del D.Lgs. n. 494 del 1996, che ha definito la figura del committente come colui che per conto del quale l’intera opera viene realizzata, indipendentemente da eventuali frazionamenti della sua realizzazione (art. 2, comma 1, lett. b) prima parte, richiamando anche il D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 3) e precisato le responsabilità su di lui incombenti, che derivano sostanzialmente dalla violazione degli obblighi sull’informazione sui rischi dell’ambiente di lavoro e da quelli inerenti alla cooperazione nell’apprestamento delle misure di protezione e prevenzione (D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7, ora D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 26).

Sulla scorta del vigente quadro normativo la giurisprudenza (si veda sul punto, tra le altre, Sez. 4, n. 44131 del 15/07/2015, Heqimi, Rv. 264974) ha quindi ritenuto che il principio generale, secondo cui il dovere di sicurezza gravante sui datore di lavoro opera anche in relazione al committente, debba essere precisato, nel senso che dal committente non può esigersi un controllo pressante, continuo e capillare sull’organizzazione e sull’andamento dei lavori con la conseguenza che ai fini della configurazione della responsabilità del committente, occorre verificare in concreto quale sia stata l’incidenza della sua condotta nell’eziologia dell’evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l’esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta dell’appaltatore o del prestatore d’opera, alla sua ingerenza nell’esecuzione dei lavori oggetto di appalto o del contratto di prestazione d’opera, nonché alla agevole ed immediata percepibilità da parte del committente di situazioni di pericolo (nel medesimo senso Sez. 4, n. 27296 del 02/12/2016, dep. 2017, Vettor, Rv. 270100).

7.2 Derivando dai predetti principi, quello in forza del quale gli obblighi di sicurezza previsti dal D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, artt. 26 e 90, gravano esclusivamente sul committente, da intendersi come colui che ha stipulato il contratto d’opera o di appalto, anche se non proprietario del bene che si avvantaggia delle opere affidate, mentre nessuna responsabilità è configurabile a carico del proprietario non committente che non si sia ingerito nell’esecuzione delle opere, pur in assenza di una delega di funzioni.

Pertanto, come rilevato nella parte motiva della citata Sez. 4, n. 10039 del 13/11/2018, dep. 2019, Pezzi, Rv. 275270. la responsabilità del committente, è posta in stretto collegamento con l’affidamento dell’opera, visto che la sua posizione di soggetto su cui incombe il governo del rischio deriva proprio dal dovere di sicurezza in relazione all’incidenza che la sua condotta assume, sia nell’opzione di individuare un contraente inadeguato, sia nell’essersi eventualmente ingerito nell’esecuzione del contratto, non esistendo quindi una necessaria coincidenza tra fra la figura del proprietario che si avvantaggia delle opere e quella del committente che le appalta e tanto sulla base di un ragionamento logico che – in relazione al caso di specie – può essere rapportato anche alla figura del solo detentore del bene sul quale vengano eseguite le opere.

Dovendo quindi ritenersi che, in tale specifica ipotesi (cui sono riconducibili le figure del conduttore ovvero del comodatario), può ravvisarsi una responsabilità di tale ultima figura solo qualora si accerti che lo stesso abbia commissionato l’esecuzione delle opere ovvero vi si sia concretamente ingerito, non essendo configurabile una sua responsabilità nell’omessa adozione dei presidi antinfortunistici nel solo interesse di fatto all’esecuzione medesima.

7.3 Il ricorrente suddetto ha quindi rilevato la sussistenza, nel caso di specie, di un complessivo travisamento del quadro probatorio, nella parte in cui i giudici di merito avrebbero ravvisato la concreta sussistenza della posizione di garanzia; in particolare nella parte della sentenza di secondo grado in cui la Corte territoriale ha affermato che D.M. avrebbe “esplicitamente autorizzato” i lavoratori “a portarsi sul tavolato, al fine di compiere l’operazione in questione”(pagg.8-9) e che lo stesso “essendo presente sul posto, essendo possessore dell’immobile e avendo perciò gli obblighi inerenti alla sua custodia, non era rimasto indifferente rispetto all’attività svolta dal P. e dal P., ma vi si era ingerito, specificando ulteriormente l’ordine di lavoro impartito dal genitore e consentendo agli stessi di salire sul tetto per sistemare i teloni in plastica, pur nell’evidente assenza di qualsivoglia presidio di protezione”; in ciò completando l’affermazione contenuta nella sentenza di primo grado in base alla quale D.M. avrebbe avuto un sostanziale interesse all’esecuzione dei lavori, in quanto detentore dell’immobile destinato ad abitazione, che “seguiva insieme al padre” (pag.9 della sentenza stessa).

7.4 Va quindi premesso che, rispetto al dedotto vizio di travisamento della prova, il vizio medesimo può essere dedotto con il ricorso per cassazione, nel caso – come quello di specie – di cosiddetta “doppia conforme “, nell’ipotesi in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice, ovvero quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti (Sez. 2, n. 5336 del 09/01/2018, L., Rv. 272018; Sez. 4, n. 35963 del 03/12/2020, Tassoni, Rv. 280155); ricordando che tale vizio vede circoscritta la cognizione del giudice di legittimità alla verifica dell’esatta trasposizione nel ragionamento del giudice di merito del dato probatorio, rilevante e decisivo, per evidenziarne l’eventuale, incontrovertibile e pacifica distorsione, in termini quasi di “fotografia “, neutra e a-valutativa, del “significante”, ma non del “significato”, atteso il persistente divieto di rilettura e di re-interpretazione nel merito dell’elemento di prova (Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, Dos Santos Silva, Rv. 283370).

In particolare, il ricorso per cassazione con cui si lamenta il vizio di motivazione per travisamento della prova, non può limitarsi, pena l’inammissibilità, ad addurre l’esistenza di atti processuali non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione del provvedimento impugnato ovvero non correttamente od adeguatamente interpretati dal giudicante, quando non abbiano carattere di decisività, ma deve, invece: a) identificare l’atto processuale cui fa riferimento; b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda; d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale incompatibilità all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato (Sez. 6, n. 10795 del 16/02/2021, F., Rv. 281085).

7.5 Ciò posto, deve rilevarsi come il motivo di ricorso abbia adempiuto rispetto al necessario onere di individuazione degli elementi probatori ritenuti asseritamente incompatibili con la ricostruzione svolta nella sentenza impugnata e specificamente rappresentati dal riferimento – operato nella parte motiva della sentenza di primo grado – al dato in base al quale D.M., presente sul posto al momento dell’esecuzione dei lavori, avrebbe espressamente autorizzato il P. e il P. a portarsi sul tetto al fine di posizionare i teloni.

Deve quindi osservarsi che il dato relativo all’assunzione della qualità di committente in capo a D.M. risulta affermato nelle sentenze impugnate in modo del tutto apodittico e desunto sulla base della sola situazione di soggetto concretamente interessato all’esecuzione dei lavori in quanto detentore dell’immobile.

Sul punto, in particolare, la motivazione della sentenza di primo grado (pag.9) ha attribuito al suddetto ricorrente la figura di “sostanziale committente” delle opere; nonché alla sussistenza del suo diretto interesse rispetto allo svolgimento dei medesimi, trattandosi di lavori di ampliamento della casa di sua abitazione, senza però tenere conto del suddetto principio di diritto in base al quale non può ravvisarsi una necessaria coincidenza la figura del soggetto che si avvantaggia delle opere e quella del committente che le appalta.

In ogni caso, anche volendo sposare la prospettiva contenuta nelle sentenze impugnate in ordine al fatto che D.M. avesse rivestito la qualità di committente “di fatto” dei lavori, va evidenziato come le relative argomentazioni debbano ritenersi intrinsecamente contraddittorie in ordine all’altro dato essenziale e necessario al fine di ravvisare la responsabilità del committente, rappresentato dalla concreta ingerenza nello svolgimento delle opere. Va difatti evidenziato che il relativo dato probatorio – come ritenuto nella prospettazione difensiva – non si evince sulla base delle dichiarazioni, specificamente valorizzate nelle motivazioni di primo e secondo grado, rese da P.P. alla polizia giudiziaria e, successivamente, di fronte all’ispettore dell’INAIL. In particolare, dalle dichiarazioni rese dal P. di fronte alla polizia giudiziaria si evince che: i lavori di ampliamento del primo piano della casa abitata da D.M. erano stati commissionati da D.F. all’inizio del mese di dicembre del 2013; che era lo stesso D.F. a impartire le puntuali direttive in ordine alle mansioni da svolgere; che i lavori di ripulitura dell’ambiente di lavoro, effettuati il (omissis), erano pure stati svolti su direttiva di D.F. e che, nella stessa giornata, il P. e il P. si erano quindi portati sul tetto dell’abitazione per coprirlo con dei teli di plastica; non risultando quindi, al di là della presenza fisica nello stabile, che D.M. avesse fornito alcuna effettiva indicazione né in ordine ai lavori pregressi e nemmeno in relazione a quelli svolti il giorno dell’incidente. Ne’, d’altra parte, tale dato si evince dal solo stralcio delle dichiarazioni rese dello stesso P. all’ispettore dell’INAIL il 19/12/2015, riportato a pag.9 della sentenza di appello, dalla quale risulta che lo stesso aveva esposto che “io e il P. ci siamo offerti di sistemare un telo parapioggia sul tetto mentre D.M. preparava gli agnelli che ci avrebbe dovuto regalare”; dichiarazioni che hanno indotto il giudice di primo grado, alla pag.10 della sentenza impugnata, ad argomentare che lo stesso avrebbe “parlato della copertura del tetto” con il P..
Ulteriormente, alcun elemento utile può ricavarsi in tal senso dalle dichiarazioni rese da D.D. – altro soggetto che aveva partecipato all’esecuzione dei lavori – pure valorizzate nella sede della sentenza di primo grado; soggetto il quale (per la parte di dichiarazioni ivi riportate) aveva dichiarato di avere lavorate per D.F. dal (omissis); e aveva riferito – sulla base delle dichiarazioni riportate alla pag.10 della sentenza di primo grado – che sul posto “a volte si notava la presenza di F. e M., interessati al buon andamento dei lavori”.

7.6 Deve quindi ritenersi che la sentenza impugnata non abbia adeguatamente esposto le ragioni poste alla base della necessaria sussistenza dei concreti poteri di ingerenza necessari al fine di ravvisare la responsabilità del committente per la mancata adozione dei necessari presidi antinfortunistici, al di là della sottolineatura in base alla quale D.M. sarebbe stato “unico referente sul posto dei due muratori” (pag. 8 della sentenza di appello). Ne consegue che il ricorso di D.M. deve essere accolto in relazione alla fondatezza del predetto motivo di impugnazione e che va quindi operato un annullamento con rinvio al giudice di secondo grado affinché provveda, alla luce dei predetti principi e sulla base del complesso degli elementi probatori, a una rivalutazione in ordine all’effettiva sussistenza in capo al ricorrente medesima della posizione di committente e, all’esito, in ordine all’effettivo esercizio di ingerenza nello svolgimento dei lavori.

L’accoglimento del predetto motivo di ricorso determina il logico assorbimento dell’esame del terzo motivo, afferente alla dedotta inesigibilità in capo al ricorrente in ordine all’osservanza delle regole precauzionali imposte dagli artt. 15 e 90, del D.Lgs. n. 81 del 2008.

8. Deve quindi essere esaminato il primo motivo di ricorso proposto nell’interesse della De.ma. e con il quale la stessa ha riproposto le argomentazioni – già sottoposte al giudice di appello – in base alle quali il fatto imputabile a D.F. non sarebbe stato a lui attribuibile quale amministratore della società bensì riconducibile esclusivamente a un rapporto esclusivamente interpersonale con la persona offesa; in tal modo deducendo, di fatto, l’intervenuta violazione da parte dei giudici di merito del disposto all’art. 5, del D.Lgs. n. 231 del 2001, in base al quale la responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche si concretizza esclusivamente in caso di illecito commesso dalle persone che ne hanno il potere di rappresentanza e nel suo interesse o a suo vantaggio.

Il motivo è infondato.

8.1 Va quindi premesso il principio in base al quale, ai fini della configurabilità della responsabilità da reato degli enti, è sufficiente la prova dell’avvenuto conseguimento di un vantaggio ai sensi del citato art. 5, del D.Lgs. n. 231 del 2001, da parte dell’ente, anche quando non sia possibile determinare l’effettivo interesse da esso vantato ex ante rispetto alla consumazione dell’illecito, purché il reato non sia stato commesso nell’esclusivo interesse del suo autore persona fisica o di terzi (Sez. 6, n. 15543 del 19/01/2021, 2L Ecologia Servizi s.r.l., Rv. 281052; Sez. 3, n. 20559 del 24/03/2022, Comune di Molfetta, Rv. 283234); ricordando sul punto che i criteri di imputazione oggettiva, rappresentati dal riferimento all’interesse o al vantaggio, sono alternativi e concorrenti tra di loro e devono essere relazionati alla condotta anziché all’evento e con la conseguenza che ricorre il requisito dell’interesse qualora l’autore del reato ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di conseguire un’utilità per l’ente, mentre sussiste il requisito del vantaggio qualora la persona fisica ha violato sistematicamente le norme prevenzionistiche, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto (Sez. 4, n. 2544 del 17/12/2015, dep.2016, Gastoldi, Rv. 268065; Sez. 4, n. 38363 del 23/05/2018, Consorzio Melinda S.c.a., Rv. 274320, a propria volta conformi al principio espresso da Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn Rv. 261115).

D’altra parte, in relazione specifica al disposto dell’art. 25-septies, D.Lgs. n. 231 del 2001, in tema di responsabilità amministrativa degli enti derivante dal reato di lesioni personali aggravate dalla violazione della disciplina antinfortunistica, il criterio di imputazione oggettiva dell’interesse può sussistere anche in relazione a una trasgressione isolata dovuta ad un’iniziativa estemporanea, senza la necessità di provare la natura sistematica delle violazioni antinfortunistiche, allorché altre evidenze fattuali dimostrino il collegamento finalistico tra la violazione e l’interesse dell’ente (Sez. 4, n. 29584 del 22/09/2020, F.lli Cambria S.p.a., Rv. 279660; Sez. 4, n. 12149 del 24/03/2021, Rodenghi, Rv. 280777).

8.2 Va quindi rilevato che le sentenze di merito hanno ritenuto che il rapporto di lavoro in questione – e in ordine al quale è univocamente emerso il dato della mancata regolarizzazione del medesimo dal punto di vista contributivo e previdenziale – si fosse instaurato tra il P. e D.F., nella propria veste di legale rappresentante della De.ma. e che, conseguentemente, sarebbe sussistito il requisito del conseguimento del vantaggio da parte della persona giuridica, specificamente rappresentato dal risparmio di spesa derivante dalla mancata predisposizioni dei presidi antinfortunistici; ricordando sul punto che il criterio di imputazione oggettiva del vantaggio di cui all’art. 5, del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 è integrato anche da un esiguo, ma oggettivamente apprezzabile, risparmio di spesa, collegato all’inosservanza, pur non sistematica, delle cautele per la prevenzione degli infortuni riguardanti un’area rilevante di rischio aziendale (Sez. 4, n. 33976 del 30/06/2022, Cantina Sociale Bartolomeo da Breganze S.c.a.r.l., Rv. 283556).

I giudici di merito hanno quindi dedotto la congiunta sussistenza degli elementi rappresentati dall’interesse e dal vantaggio, atteso che i lavori erano stati eseguiti su un bene facente parte del patrimonio sociale della De.ma. e che ne sarebbe conseguito un apprezzabile risparmio di spesa derivante dalla mancata predisposizione dei necessari presidi antinfortunistici; altresì, il giudice di primo grado ha specificamente argomentato in ordine alla riconducibilità del rapporto di lavoro alla società sulla base del dato in base al quale – oltre al fatto che il bene si trovasse su un terreno di proprietà della società – D.F. provvedeva al pagamento del corrispettivo presso la sede della De.ma. e detraesse dalla somma dovuta il canone di locazione dovuto dal P. in relazione alla detenzione di un immobile pure di proprietà della stessa società.

8.3 Richiamati i principi sopra esposti in punto insussistenza del potere, da parte del giudice di legittimità, di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di giudizio – restando esclusa la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o attendibilità delle fonti di prova – deve ritenersi che la complessiva valutazione operata dai giudici di merito sia immune dai denunciati vizi di violazione di legge ovvero di illogicità nell’interpretazione e nella valutazione degli elementi probatori.

In particolare, appare immune da vizi di illogicità la valutazione delle dichiarazioni rese da L.M., compagna della persona offesa, la quale ha riferito che il P. prestava la propria opera alle dipendenze di D.F. a partire dall’anno 2012 e nella propria veste di imprenditore edile, con le mansioni di manovale; che esercitava tali mansioni solitamente per cinque giorni alla settimana con orari costanti (7,30-12,30 e 13,30-17,17,30), dietro erogazione di una retribuzione in contanti operata con cadenza settimanale e previo trattenimento di una somma a titolo di pagamento del canone di locazione relativo a un immobile di proprietà della De.ma.; chiarendo (nelle dichiarazioni rese all’ispettore del lavoro) che il pagamento avveniva presso la sede della società; specificando – sempre nelle dichiarazioni rese all’ispettore del lavoro – che il P. lavorava presso l’agriturismo gestito da D.M. da circa un mese.

Sul punto – e in riferimento alle argomentazioni spiegate dalla società ricorrente nel predetto motivo di impugnazione – va quindi premesso che le dichiarazioni del soggetto danneggiato dal reato che si sia costituito, come in questo caso, parte civile possono essere legittimamente poste da sole a fondamento della responsabilità dell’imputato, senza la necessità di applicare le regole probatorie di cui all’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, purché il narrato sia soggetto ad un più rigoroso controllo di attendibilità, opportunamente corroborato dall’indicazione di altri elementi di riscontro e previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, Rv. 253214; Sez. 4, n. 410 del 09/11/2021, dep. 2022, Aramu, Rv. 282558).

8.4 Nel caso di specie, le dichiarazioni della L. sono state ritenute – con argomentazioni immuni dal denunciato vizio di illogicità – come intrinsecamente coerenti e non smentite da altri elementi di prova. In particolare, sulla base del calendario manoscritto da parte del P., allegato al predetto verbale di sommarie informazioni e acquisito dalla polizia giudiziaria, risulta l’annotazione puntuale delle giornate lavorative svolte nel corso del 2013 e nessun elemento di segno contrario alla valutazione di credibilità può essere operato in relazione alla mancata presenza di annotazioni per la giornata del 23 dicembre, atteso che nelle giornate precedenti era comunque operata l’annotazione dello svolgimento del lavoro “da M.”.

Deve quindi ritenersi non illogica la complessiva valutazione dei giudici di merito in base alla quali i dati rappresentati dalla proprietà del compendio immobiliare in capo alla De.ma. – con conseguente accrescimento del relativo valore determinato dall’esecuzione dei lavori – e dalla sussistenza di un rapporto di subordinazione tra il P. e la società, siano idonei a configurare la sussistenza dei presupposti (comunque, come detto, tra di loro alternativi) dell’interesse della stessa compagine sociale nonché del vantaggio rappresentato dal risparmio di spesa.

Sotto il profilo relativo all’imputazione soggettiva del rapporto di lavoro, deve altresì essere richiamato il principio in base al quale nei contratti a forma libera quale quello di lavoro subordinato – al fine di manifestare il potere rappresentativo non è necessario che il rappresentante usi formule sacramentali, ma è sufficiente che dalle modalità e dalle circostanze in cui ha svolto l’attività negoziale e dalla struttura e dall’oggetto del negozio i terzi possano riconoscerne l’inerenza all’impresa sociale in modo da poter presumere, secondo i criteri correnti nella vita degli affari, che l’attività è espletata nella qualità di rappresentante di altro soggetto (Cass., Sez. L, Sentenza n. 23131 del 16/11/2010, Rv. 615558; Cass.civ., Sez. 2, Ordinanza n. 22616 del 10/09/2019, Rv. 65523801).

Nel caso di specie, deve quindi ritenersi coerente con i predetti principi la valutazione dei giudici di merito in base alla quale le modalità concrete di svolgimento della prestazione lavorativa e di adempimento degli obblighi conseguenti inducano a ritenere che D.F. abbia speso la propria qualità di legale rappresentante della De.ma. e che – di conseguenza – la causa concreta del contratto di lavoro non fosse finalizzata alla tutela di un interesse di carattere personale.

9. Sulla base delle predette considerazioni, deve quindi concludersi per l’accoglimento del ricorso presentato da D.M., con conseguente annullamento della sentenza impugnata e trasmissione degli atti ad altra sezione della Corte d’appello di Cagliari per nuovo esame; vanno invece rigettati i ricorsi presentati da D.F. e della De.ma, che vanno condannati al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Annulla nei confronti di D.M. la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Cagliari sezione di Sassari.
Rigetta i ricorsi di D.F. e De.Ma. Costruzioni Edilizia s.r.l. e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 6 dicembre 2023.

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