SICUREZZA SUL LAVORO – Prevenzione infortuni sul lavoro – Obbligo di vigilare del datore di lavoro – Nomina di un preposto – Affidamento compiti di vigilanza – Prassi “contra legem” foriera di pericoli per gli addetti – Doveri di formazione e informazione delle misure di prevenzione – Dovere di sorveglianza – Violazione delle norme antinfortunistiche – Controllo del datore di lavoro – Controllo non personale e quotidiano – Controllo affidato a procedure – Artt. 6,7, 16, 18, D.Lgs. n. 81/2008 – L. n. 215/2021 – Nesso causale tra condotta del gestore del rischio ed evento – Interruzione del nesso – Rischio nuovo ed eccentrico – Azione o omissione del lavoratore – Condotta colposa del lavoratore – Condotta abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità – Condotta tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante – DVR cantieri e POS – 231 – Responsabilità degli enti – Inottemperanza dell’obbligo di adottare le cautele necessarie a prevenire la commissione di reati – Documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli – Illecito dell’ente – Fattispecie complessa – Reato presupposto – Colpa di organizzazione – Violazione di regole cautelari – Mancata adozione e inefficace attuazione degli specifici modelli di organizzazione e di gestione – Artt. 6, 7, 25, D.Lgs. n. 231/2001 – Relazione funzionale tra reo ed ente – Relazione teleologica tra reato ed ente – Attribuzione alla persona morale del reato commesso da un soggetto incardinato nell’organizzazione – Illecito realizzato nell’interesse e in vantaggio dell’ente – Finalità che muove il reo – Utilità per l’ente. (Segnalazione e massime a cura di Alessia Riommi)
Provvedimento: SENTENZA
Sezione: 4^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 28 Dicembre 2023
Numero: 51455
Data di udienza:
Presidente: DOVERE
Estensore: SESSA
Premassima
SICUREZZA SUL LAVORO – Prevenzione infortuni sul lavoro – Obbligo di vigilare del datore di lavoro – Nomina di un preposto – Affidamento compiti di vigilanza – Prassi “contra legem” foriera di pericoli per gli addetti – Doveri di formazione e informazione delle misure di prevenzione – Dovere di sorveglianza – Violazione delle norme antinfortunistiche – Controllo del datore di lavoro – Controllo non personale e quotidiano – Controllo affidato a procedure – Artt. 6,7, 16, 18, D.Lgs. n. 81/2008 – L. n. 215/2021 – Nesso causale tra condotta del gestore del rischio ed evento – Interruzione del nesso – Rischio nuovo ed eccentrico – Azione o omissione del lavoratore – Condotta colposa del lavoratore – Condotta abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità – Condotta tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante – DVR cantieri e POS – 231 – Responsabilità degli enti – Inottemperanza dell’obbligo di adottare le cautele necessarie a prevenire la commissione di reati – Documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli – Illecito dell’ente – Fattispecie complessa – Reato presupposto – Colpa di organizzazione – Violazione di regole cautelari – Mancata adozione e inefficace attuazione degli specifici modelli di organizzazione e di gestione – Artt. 6, 7, 25, D.Lgs. n. 231/2001 – Relazione funzionale tra reo ed ente – Relazione teleologica tra reato ed ente – Attribuzione alla persona morale del reato commesso da un soggetto incardinato nell’organizzazione – Illecito realizzato nell’interesse e in vantaggio dell’ente – Finalità che muove il reo – Utilità per l’ente. (Segnalazione e massime a cura di Alessia Riommi)
Massima
CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 4^, 28 dicembre 2023 (Ud. 05/10/2023), Sentenza n. 51455
SICUREZZA SUL LAVORO – Prevenzione infortuni sul lavoro – Obbligo di vigilare del datore di lavoro – Nomina di un preposto – Affidamento compiti di vigilanza – Prassi “contra legem” foriera di pericoli per gli addetti – Doveri di formazione e informazione delle misure di prevenzione – Dovere di sorveglianza – Violazione delle norme antinfortunistiche – Controllo del datore di lavoro – Controllo non personale e quotidiano – Controllo affidato a procedure – Artt. 6,7, 16, 18, D.Lgs. n. 81/2008 – L. n. 215/2021.
In tema di prevenzione infortuni sul lavoro, il datore di lavoro deve controllare che il preposto, nell’esercizio dei compiti di vigilanza affidatigli, si attenga alle disposizioni di legge e a quelle, eventualmente in aggiunta, impartitegli; ne consegue che, qualora nell’esercizio dell’attività lavorativa si instauri, con il consenso del preposto, una prassi “contra legem”, foriera di pericoli per gli addetti, in caso di infortunio del dipendente, la condotta del datore di lavoro che sia venuto meno ai doveri di formazione e informazione del lavoratore e che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, integra il reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche. Le modalità con le quali il datore di lavoro deve adempiere al dovere di vigilanza non sono esplicitamente definite dal legislatore. Ma la stessa previsione di una necessaria articolazione di ruoli e funzioni sta ad indicare che il controllo richiesto al datore di lavoro non è personale e quotidiano e che, ogni volta che le dimensioni dell’impresa non consentano un controllo diretto, è affidato a procedure: report, controlli a campione, istituzione di ruoli dirigenziali e quanto altro la scienza dell’organizzazione segnali come idoneo allo scopo nello specifico contesto.
SICUREZZA SUL LAVORO – Nesso causale tra condotta del gestore del rischio ed evento – Interruzione del nesso – Rischio nuovo ed eccentrico – Azione o omissione del lavoratore – Condotta colposa del lavoratore – Condotta abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità – Condotta tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante – DVR cantieri e POS.
L’interruzione del nesso causale tra condotta del gestore del rischio ed evento verificatosi si determina solo quando la causa sopravvenuta innesca un rischio nuovo e del tutto eccentrico rispetto a quello originario attivato dalla prima condotta. Con specifico riferimento alla materia prevenzionistica, ciò ha condotto ad una innovazione concettuale e terminologica, di talché la causa interruttiva non è il comportamento imprevedibile del lavoratore infortunatosi o la sua condotta esorbitante dalle mansioni affidategli bensì quell’azione o omissione che innesta nel decorso causale un rischio nuovo ed eccentrico rispetto a quello affidato al soggetto della cui responsabilità si discute. In tema di prevenzione antinfortunistica, perché la condotta colposa del lavoratore possa ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo, è necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia.
231 – Responsabilità degli enti – Inottemperanza dell’obbligo di adottare le cautele necessarie a prevenire la commissione di reati – Documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli – Illecito dell’ente – Fattispecie complessa – Reato presupposto – Colpa di organizzazione – Violazione di regole cautelari – Mancata adozione e inefficace attuazione degli specifici modelli di organizzazione e di gestione – Artt. 6, 7, 25, D.Lgs. n. 231/2001.
La responsabilità da reato delle persone giuridiche fonda sulla colpa di organizzazione. A tal proposito, è stato precisato che la colpa di organizzazione deve intendersi in senso normativo ed è fondata sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli. L’illecito dell’ente è, quindi, costituito da una fattispecie complessa, della quale il reato presupposto è uno degli elementi essenziali; e ciò che fa di esso un illecito proprio dell’ente, nel senso più rigoroso imposto dall’art. 27 Cost., è l’ulteriore elemento essenziale rappresentato dalla colpa di organizzazione. Del pari, la colpa di organizzazione e l’assimilazione della stessa alla colpa, intesa quale violazione di regole cautelari, implica che la mancata adozione e l’inefficace attuazione degli specifici modelli di organizzazione e di gestione prefigurati dal legislatore rispettivamente agli artt. 6 e 7 del D.Lgs. n. 231 del 2001 e all’art. 30 del D.Lgs. n. 81 del 2008, non è un elemento costitutivo della tipicità dell’illecito dell’ente ma una circostanza atta ex lege a dimostrare che sussiste la colpa di organizzazione. Dovendosi ribadire che il verificarsi del reato non implica ex se l’inidoneità o l’inefficace attuazione del modello organizzativo che sia stato adottato dall’ente.
231 – Responsabilità degli enti – Relazione funzionale tra reo ed ente – Relazione teleologica tra reato ed ente – Attribuzione alla persona morale del reato commesso da un soggetto incardinato nell’organizzazione – Illecito realizzato nell’interesse e in vantaggio dell’ente – Finalità che muove il reo – Utilità per l’ente.
La fattispecie dell’illecito dell’ente presuppone una relazione funzionale corrente tra reo ed ente ed altresì una relazione teleologica tra reato ed ente, ricorrente quando il primo è stato commesso nell’interesse del secondo o questo ne ha tratto vantaggio. Ciò è richiesto perché il legislatore nazionale ha ritenuto non sufficiente il mero rapporto di immedesimazione organica; con la previsione del collegamento teleologico, ha escluso che possa essere attribuito alla persona morale un reato commesso sì da un soggetto incardinato nell’organizzazione ma per fini estranei agli scopi di questo. All’interesse viene per lo più attribuita un’accezione soggettivizzante, nel senso che esso viene inteso come allusivo alla finalità che muove il reo e non alla oggettiva attitudine del reato di concretizzare un’utilità per l’ente. Sicché è al reo che occorre guardare per accertare se quell’elemento ricorre nel caso concreto. Ciò diversamente dal vantaggio, che è proprio l’utilità che l’ente ricava dal reato commesso.
(annulla con rinvio sentenza del 29/03/2022 – CORTE APPELLO di FIRENZE), Pres. Dovere, Rel. Sessa, Ric. F.F. e N.S. s.r.l.
Allegato
Titolo Completo
CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 4^, 28/12/2023 (Ud. 05/10/2023), Sentenza n. 51455SENTENZA
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
omissis
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
– F. F., nata a (omissis);
– N.S. s.r.l., avente sede legale in (omissis), località (omissis);
avverso la sentenza in data 29/03/2022 della CORTE DI APPELLO DI FIRENZE;
letti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Gennaro Sessa;
lette le conclusioni scritte con cui il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Marilia Di Nardo, ha chiesto che i ricorsi siano dichiarati inammissibili.
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Firenze ha riformato la pronuncia del Tribunale di Pisa del 03/04/2017 che aveva giudicato F.F., unitamente ai coimputati C.G. e K.R., responsabile del delitto di omicidio colposo e la N. S. s.r.l. responsabile dell’illecito amministrativo di cui all’art. 25-septies della L. n. 231 del 2001, condannando tutti i predetti alle sanzioni ritenute per ciascuno eque. La riforma operata dalla Corte distrettuale si è concretizzata nella sola rideterminazione della pena già inflitta alla F., alla quale sono stati concessi i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, contestualmente venendo revocate le pene accessorie dell’interdizione legale durante l’esecuzione della pena principale e dell’interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque.
1.1. Secondo la ricostruzione dell’accaduto operata dai giudici di merito, e non oggetto di contestazione in questa sede, il (omissis) due squadre di operai addetti al taglio di piante, dipendenti della N. S. s.r.l., avevano fatto accesso all’area della ex sottostazione di trasformazione di energia elettrica della Terna s.p.a. sita nel territorio del Comune di (omissis), per procedere al disbosco di una porzione di terreno posta in pendenza verso il campo fotovoltaico ivi presente.
Caratteristica di tale terreno era il fatto di terminare in una ripida scarpata, alla cui base era un muro di contenimento dell’altezza di 3,90 metri, realizzato con tre corsi di gabbioni in rete metallica, collocati a realizzare quattro gradoni, il primo dell’altezza di 1,50 metri, il secondo e il terzo di circa un metro di altezza ciascuno, con una pedata di circa 50 centimetri. Alla base del muro si trovava una ringhiera metallica delimitante una fossetta di scolo delle acque piovane, di circa 40 cm. di larghezza e 50 cm. di profondità. Nel corso della giornata gli operai avevano eseguito il taglio degli alberi di alto fusto, senza procedere alla pulizia del terreno man mano, sicché il terreno era ingombro di ramaglie posizionate alla rinfusa, con grossi tronchi frammisti a frasche.
Compito del S. era stato soprattutto quello di prendere le ramaglie lasciate sul pendio e portarle nella zona pianeggiante posta alla base; per far ciò egli era salito e sceso dai gradoni. Alle 16,11 (orario individuato con precisione in virtù della ripresa video eseguita da una delle telecamere presenti sul sito), il S., era precipitato lungo il muro, investito da materiale legnoso, finendo nella fossetta di scolo. Nel frangente il lavoratore aveva riportato lesioni, cagionategli sia dallo scivolamento lungo il bordo del muro che dall’urto di un grosso tronco che era precipitato anch’esso sino alla fossetta. La gravità delle lesioni ne aveva determinato la morte.
I giudici di merito hanno rimproverato alla F., in quanto datore di lavoro, di non aver “delegato ad alcuno le funzioni di addetto alla materia antinfortunistica e responsabile della sicurezza dei luoghi di lavoro”; di non aver curato l’organizzazione del lavoro dei suoi dipendenti (ella avrebbe “evidenziato il disinteresse…circa gli aspetti organizzativi del lavoro dei suoi dipendenti presso il cantiere…”); di aver omesso “ogni controllo per il rispetto delle norme di sicurezza a tutela dell’incolumità dei propri dipendenti”.
Inoltre, hanno ritenuto l’ente responsabile dell’illecito di cui all’art. 25-septies, del D.Lgs. n. 231 del 2001, perché, pur avendo adottato i documenti previsti per la prevenzione dei rischi ed indicato i soggetti responsabili della loro attuazione, in concreto si era dato una struttura gestionale ed organizzativa inadeguata rispetto agli obiettivi previsti da quei documenti.
2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia della F., avv.to Tagliasacchi Sandra, che ha articolato quattro motivi di doglianza, di seguito sintetizzati conformemente al disposto dell’art. 173 disp. att. c.p.p..
2.1. Con il primo motivo lamenta, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), vizio di motivazione per illogicità intrinseca e per travisamento della prova.
Sostiene la ricorrente che la decisione della Corte territoriale risulterebbe argomentata in maniera illogica e rivelerebbe, inoltre, un evidente travisamento della prova nella parte in cui, per un verso, ha escluso che ella potesse andare esente da penale responsabilità per aver delegato ai propri dipendenti le funzioni in materia di sicurezza sul lavoro, stante l’omessa allegazione di tale delega e, per altro verso, ha affermato che il coimputato K.R., in qualità di preposto al cantiere, si era assunto il compito e la responsabilità di organizzare il lavoro degli operai della sua squadra, e perciò rispondeva dell’incidente occorso per aver accettato l’incarico e la corrispondente più elevata retribuzione.
2.2. Con il secondo motivo di ricorso si duole, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), di vizio di motivazione per carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità, nonché per travisamento della prova.
Viene affermato che la decisione gravata è insufficientemente e contraddittoriamente motivata nella parte in cui sostiene che la F., nelle qualità di datrice di lavoro, di amministratrice unica della N. S. s.r.l. e di responsabile del servizio prevenzione e protezione, si era disinteressata degli aspetti organizzativi presso il cantiere teatro dell’incidente; infatti, sulla predetta graverebbe la sola gestione del rischio specifico, incombenza regolarmente assolta, e non anche l’individuazione degli strumenti concreti per fronteggiare tale rischio sul luogo di lavoro, rimessa al preposto al cantiere K.R..
2.3. Con il terzo motivo lamenta, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), vizio di motivazione per carenza in punto di valutazione del comportamento del lavoratore.
Viene rilevato che la decisione della Corte territoriale, eludendo la doverosa valutazione della questione, proposta con l’atto di appello, non avrebbe argomentato in ordine alla possibile incidenza dell’anomalo comportamento del lavoratore sul verificarsi dell’incidente, ancorché emergesse con evidenza dagli elementi acquisiti che la vittima, al momento della precipitazione, era intento a scendere lungo la scarpata tirando a sé gli arbusti già tagliati, con condotta imprudente, non prevedibile dal datore di lavoro.
2.4. Con il quarto motivo si duole, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), di vizio di motivazione per contraddittorietà in punto di trattamento sanzionatorio.
Si invoca, nello specifico, un’ulteriore attenuazione della pena per il caso di non accoglimento delle doglianze in precedenza esposte.
3. Ha proposto ricorso anche la N. S. s.r.l., a mezzo del difensore di fiducia avv.to Lanfredini Giovanna, che ha, del pari, articolato quattro motivi di doglianza.
3.1. Con il primo lamenta, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), vizio di motivazione per carenza in punto di affermata responsabilità dell’ente.
Viene sostenuto che la decisione oggetto d’impugnativa, nel confermare, in parte qua, la pronunzia di primo grado, ha affermato la sussistenza di una colpa di organizzazione dell’ente in ragione del solo interesse dello stesso a ridurre i costi, senza tener conto dell’avvenuto rilascio in suo favore del certificato di idoneità alla partecipazione a gare d’appalto indette da soggetti pubblici appaltanti del rilievo di Terna s.p.a. e non considerando che il verificarsi dell’infortunio avrebbe dovuto logicamente ascriversi all’organizzazione “in loco” delle misure di sicurezza e di salvaguardia dell’incolumità dei lavoratori.
3.2. Con il secondo motivo ci si duole, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), di vizio di motivazione per illogicità intrinseca, in punto di affermata responsabilità dell’ente.
Assume in proposito la ricorrente società che la decisione della Corte di appello di Firenze, nel far derivare la ritenuta colpa di organizzazione dell’ente dal suo interesse alla minimizzazione dei costi aggiuntivi e nell’individuare il fondamento di tale colpa nella mancata formazione dei dipendenti e nell’omessa fornitura ai medesimi di adeguati strumenti di lavoro, avrebbe illogicamente svilito la rilevanza dell’operatività, sul cantiere teatro del sinistro, del sistema satellitare di controllo a distanza “Geolab”, collegato anche all’appaltante Terna s.p.a., il cui funzionamento garantiva che ciascun lavoratore indossasse costantemente i dispositivi di protezione individuale.
3.3. Con il terzo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), violazione di legge in relazione alle norme incriminatrici oggetto di contestazione e vizio di motivazione per carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità, in punto di affermata responsabilità dell’ente.
Viene osservato, in particolare, che la decisione oggetto d’impugnativa ha addossato all’ente una colpa di organizzazione in maniera illegittima e immotivata, posto che la N. S. s.r.l. si era dotata della documentazione attestante l’avvenuta valutazione dei rischi, aveva fornito ai lavoratori i prescritti dispositivi di protezione individuale, aveva ritualmente predisposto il POS, in cui risultavano indicate le tutele da adottare a fronte di terreni scoscesi o scivolosi e aveva designato K.R. quale preposto, sicché, in ragione dell’avvenuta ripartizione delle competenze, eventuali profili di colpa avrebbero potuto individuarsi nella sola condotta del citato preposto, deputato alla concreta gestione del rischio, previamente e correttamente individuato dall’ente.
3.4. Con il quarto motivo di ricorso la ricorrente si duole infine, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), di vizio di motivazione per carenza e contraddittorietà in punto di trattamento sanzionatorio.
Sostiene, in specie, che nella decisione della Corte di appello di Firenze non risulta argomentata la denegata riduzione della sanzione, espressamente richiesta con l’atto di gravame in termini di modifica del valore delle quote o di decremento dell’importo della sanzione dalla metà a due terzi, in conseguenza dell’intervenuto risarcimento dei danni subiti dalle parti civili.
4. Il procedimento è stato trattato in udienza camerale con le forme e con le modalità di cui al D.L. n. 137 del 2020, art. 23, commi 8 e 9, convertito dalla L. n. 176 del 2020, i cui effetti sono stati prorogati dal D.L. n. 105 del 2021, art. 7, convertito dalla L. n. 126 del 2021 e, ancora, dal D.L. n. 228 del 2021, art. 16, convertito dalla L. n. 15 del 2022.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso di F.F. è fondato nei primi due motivi che meritano di essere trattati congiuntamente. Tanto determina l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata.
1.1. Come si è scritto nella parte narrativa, i giudici di merito hanno rimproverato alla F., in quanto datore di lavoro, di non aver “delegato ad alcuno le funzioni di addetto alla materia antinfortunistica e responsabile della sicurezza dei luoghi di lavoro”; di non aver curato l’organizzazione del lavoro dei suoi dipendenti (ella avrebbe “evidenziato il disinteresse…circa gli aspetti organizzativi del lavoro dei suoi dipendenti presso il cantiere…”); di aver omesso “ogni controllo per il rispetto delle norme di sicurezza a tutela dell’incolumità dei propri dipendenti”; di non aver provveduto ad “assicurare un’adeguata formazione degli operai e delle figure tenute a coordinare le loro attività”.
Senonché tali affermazioni convivono, nel provvedimento impugnato, con dati di fatto almeno apparentemente dissonanti e non resi coerenti dal percorso motivazionale tracciato dai giudici di merito. Dalla sentenza di primo grado emerge che la F. aveva provveduto ad elaborare la valutazione dei rischi e a redigere il relativo documento, senza che al riguardo le sia stato mosso un qualche addebito; aveva altresì redatto il POS (Piano operativo di sicurezza), in relazione alla tipologia dei lavori da eseguire nel cantiere presso il quale si è verificato il sinistro; inoltre, aveva previsto articolazioni funzionali per lo svolgimento dei lavori in quel cantiere: l’organizzazione dei lavori definita dalla F. contemplava un responsabile di cantiere nella persona di C.G. e un caposquadra-preposto nella persona di K.R.. Entrambi sono stati condannati per non aver correttamente adempiuto agli obblighi che rispettivamente li gravavano in ragione di tali ruoli.
Sicché le affermazioni della Corte distrettuale appaiono manifestamente illogiche.
In primo luogo, perché manca la esplicitazione dei riferimenti fattuali che darebbero loro conforto. Ne’ sovviene sul punto la sentenza di primo grado; a pg. 40 (citata dalla Corte di appello per l’indicazione delle condotte addebitate alla F.) si afferma che la ricorrente aveva omesso di vigilare sull’operato del C. e del K. e segnatamente sul fatto che essi “si fossero attenuti alle disposizioni di legge e a quelle riportate nel DVR predisposto dalla società e dal DVR cantieri mobili e dal Pos…, nel far rispettare le misure di sicurezza previste per le operazioni di taglio piante, tra cui in particolare l’utilizzo di imbracatura di sicurezza con fune di trattenuta e dissipatore di energia collegate ad un ancoraggio sicuro, oltre che in relazione alla messa in opera di paratie per impedire che i tronchi tagliati e le ramaglie di risulta potessero scivolare a valle lungo il pendio travolgendo cose o persone”. Ma non vi è alcuna esplicazione dei fatti dai quali si trae il giudizio; sicché deve ritenersi che esso sia ricavato dal verificarsi dell’evento. Ma pur mettendo da parte questa grave lacuna motivazionale, emerge chiaramente da quanto riportato che già per il primo giudice il datore di lavoro aveva gestito il rischio facendone oggetto di valutazione tanto nei DVR che nel Pos; aveva, evidentemente, individuato le misure idonee ad eliminarlo o almeno ridurlo (imbracature di sicurezza, paratie); aveva anche posto concretamente a disposizione tali presidi, tanto da permettere di imputare al C. e al K., di non aver dato concreto seguito a quelle previsioni, consentendo discordi e scorrette modalità esecutive dei lavori. Tanto che il primo giudice aveva limitato il rimprovero mosso alla F. all’aver omesso “una vigilanza puntuale e concreta verso i propri sottoposti”; omissione che avrebbe favorito “il consolidamento nel cantiere in esame di scorrette modalità operative e lavorative assunte come prassi dai lavoratori…” (ancora p. 40). Così perimetrato il rimprovero, si ritiene che in tali affermazioni si annidino rispettivamente una violazione di legge e un vizio motivazionale.
La giurisprudenza di questa Corte insegna che, in tema di prevenzione infortuni sul lavoro, il datore di lavoro deve controllare che il preposto, nell’esercizio dei compiti di vigilanza affidatigli, si attenga alle disposizioni di legge e a quelle, eventualmente in aggiunta, impartitegli; ne consegue che, qualora nell’esercizio dell’attività lavorativa si instauri, con il consenso del preposto, una prassi “contra legem”, foriera di pericoli per gli addetti, in caso di infortunio del dipendente, la condotta del datore di lavoro che sia venuto meno ai doveri di formazione e informazione del lavoratore e che abbia omesso ogni forma di sorveglianza circa la pericolosa prassi operativa instauratasi, integra il reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche (Sez. 4, n. 26294 del 14/03/2018, Rv. 272960).
Le modalità con le quali il datore di lavoro deve adempiere al dovere di vigilanza non sono esplicitamente definite dal legislatore (salvo quanto si osserverà a breve). Ma la stessa previsione (oggi ancor più cogente che in passato: si legga l’art. 18, comma 1, lett. b bis, del D.Lgs. n. 81 del 2008, non applicabile al caso che occupa in quanto introdotto successivamente al fatto per cui è processo, con L. n. 215 del 2021) di una necessaria articolazione di ruoli e funzioni sta ad indicare che il controllo richiesto al datore di lavoro non è personale e quotidiano e che, ogni volta che le dimensioni dell’impresa non consentano un controllo diretto, è affidato a procedure: report, controlli a campione, istituzione di ruoli dirigenziali e quanto altro la scienza dell’organizzazione segnali come idoneo allo scopo nello specifico contesto. Per quanto si proietti in un ambito differente, ovvero quello dei garanti a titolo derivato, anche il D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 16, offre indicazioni di interesse con riguardo ad un garante a titolo originario qual è il preposto. Nella interpretazione giurisprudenziale, da quella previsione discende che l’obbligo di vigilanza del datore di lavoro in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite non impone “la concreta, minuta conformazione delle singole lavorazioni – che la legge affida al garante – concernendo, invece, la correttezza della complessiva gestione del rischio da parte del delegato; ne consegue che l’obbligo di vigilanza del delegante è distinto da quello del delegato – al quale vengono trasferite le competenze afferenti alla gestione del rischio lavorativo – e non impone il controllo, momento per momento, delle modalità di svolgimento ‘ delle singole lavorazioni” (Sez. 4, n. 22837 del 21/04/2016, Rv. 267319).
L’interpretazione è ulteriormente confortata dalla previsione del comma 3 dell’art. 16, secondo il quale l’obbligo di vigilanza “si intende assolto in caso di adozione ed efficace attuazione del modello di verifica e controllo di cui all’art. 30, comma 4”. Ovvero attraverso l’adozione di cautele procedurali.
Fuori del perimetro della delega di funzioni, può accadere che le dimensioni dell’impresa non richiedano una proceduralizzazione dell’attività di vigilanza sull’operato del preposto, sì da rendere doveroso il controllo diretto da parte del datore di lavoro. Ma quando quelle dimensioni o altre condizioni concrete rendano idoneo allo scopo solo un controllo a mezzo di ruoli o procedure, è alla predisposizione di essi che occorre guardare per valutare l’adempimento del datore di lavoro.
Quanto sin qui affermato trova eco nella giurisprudenza di questa Corte, la quale insegna che il datore di lavoro può assolvere all’obbligo di vigilare sull’osservanza delle misure di prevenzione adottate attraverso la preposizione di soggetti a ciò deputati e la previsione di procedure che assicurino la conoscenza da parte sua delle attività lavorative effettivamente compiute e delle loro concrete modalità esecutive, in modo da garantire la persistente efficacia delle misure di prevenzione scelte a seguito della valutazione dei rischi. Principio, peraltro, formulato in una fattispecie nella quale il datore di lavoro era stato ritenuto responsabile per il decesso di un lavoratore dovuto alla sopravvenuta inadeguatezza delle misure di prevenzione adottate in conseguenza del mutamento delle modalità esecutive delle lavorazioni rispetto a quelle previste nel POS; orbene, la Corte di cassazione ha annullato con rinvio la sentenza escludendo che essa fosse correttamente fondata sul fatto che, nonostante la nomina di un preposto presente al momento dell’infortunio, la mancata conoscenza della decisione di ricorrere a modalità esecutive diverse da quelle previste fosse da ricondurre ad una violazione dell’obbligo del datore di lavoro di controllare personalmente l’andamento dei lavori in cantiere (Sez. 4, n. 14915 del 19/02/2019, Rv. 275577).
Ciò rende evidente che limitarsi a richiedere una vigilanza ‘puntuale e concreta’ sui sottoposti (ovvero sul C. e sul K.) come fatto dai giudici di merito, senza dare conto delle ragioni per le quali nel caso concreto non fosse ex ante adeguata l’organizzazione datasi dall’impresa in relazione al controllo sull’operato dei preposti è una motivazione, alterna, o del tutto carente o espressiva di un fraintendimento del quadro normativo. Ne’ sovverte tale giudizio il riferimento che già il giudice di primo grado opera alla circostanza di aver la F. permesso il consolidamento di scorrette modalità operative, ovvero di prassi non conformi alle previsioni prevenzionistiche.
Il Tribunale asserisce che le attività lavorative erano statele condotte nel sito ‘anche nei giorni precedenti l’infortunio’. Il dato, essenziale, va meglio specificato. A pg. 28 il Tribunale rammenta che la sottostazione (omissis) venne consegnata alla N. S. il (omissis) (e vi sarebbe dovuta rimanere sino al (omissis)); a pg. 27 si scrive che il(omissis) le due squadre di operai non furono presenti in loco; ancora a pg. 27 si scrive che esistevano foto dell'(omissis) che documentavano l’esistenza di alberi abbattuti lungo la scarpata qui di interesse; a pg. 26, citando le dichiarazioni dei dipendenti della società, il Tribunale scrive che al momento dell’infortunio essi avevano lavorato diversi giorni della sottostazione e “da almeno due giorni… nella parte di terreno circostante il campo fotovoltaico situato in pendenza da dove è precipitato il S.”. Ne consegue, che nell’ipotesi più sfavorevole alla ricorrente, le scorrette modalità operative seguite per i lavori sulla scarpata erano state adottate dal 7 marzo. Orbene, anche a ritenere che i giudici di merito abbiano sostenuto l’esistenza di una prassi senza alcuna illogicità, e ciò perché, in ragione dei fini perseguiti dalla disciplina, il concetto di prassi deve ritenersi allusivo ad un numero di occorrenze relativo e non assoluto, ovvero determinato in rapporto alla durata complessiva delle lavorazioni, il ragionamento risulterebbe ancora monco, poiché non è stata esibita alcuna valutazione della conoscibilità di tale prassi alla luce dell’organizzazione data al cantiere dal datore di lavoro e del breve tempo di ‘vigenza’ della menzionata prassi. Invero, pure in presenza di una prassi dei lavoratori elusiva delle prescrizioni volte alla tutela della sicurezza, non è ravvisabile la colpa del datore di lavoro, sotto il profilo dell’esigibilità del comportamento dovuto omesso, ove non vi sia prova della sua conoscenza, o della sua colpevole ignoranza, di tale prassi. Vale rammentare è nell’ambito del procedimento che ha visto formulare il principio appena riproposto questa Corte abbia annullato senza rinvio, “perché il fatto non costituisce reato”, la sentenza di condanna del legale rappresentante di una società di raccolta rifiuti per l’omicidio colposo di un lavoratore deceduto (perché, dopo aver ritirato l’ultimo sacchetto di rifiuti, anziché salire nella cabina del camion, si era aggrappato dietro allo stesso), rilevando che la vigilanza che i veicoli venissero utilizzati in maniera conforme alle prescrizioni contenute nel documento di valutazione dei rischi era stata delegata ai capisquadra presenti sui mezzi, e che era impossibile una diuturna vigilanza su mezzi circolanti ininterrottamente (Sez. 4, n. 32507 del 16/04/2019, Rv. 276797).
L’analisi dei motivi proposti dalla ricorrente va completata prendendo in esame l’ulteriore rimprovero mosso dalla Corte di appello, ovvero che la F. non aveva delegato ad altri la funzione di addetto alla materia antinfortunistica e responsabile della sicurezza dei luoghi di lavoro. Premesso che quella utilizzata dalla corte territoriale è nomenclatura che non trova corrispondenza in quella legislativa (si vedano il D.Lgs. n. 81 del 2008, artt. 2 e 89), quanto sopra esposto rende del tutto recessivo il tema del trasferimento ad altri degli obblighi datoriali delegabili, posto che nell’impianto della sentenza impugnata esso viene collocato a valle del giudizio di sussistenza della colpa oggettiva, per escludere che le rinvenute inosservanze cautelari debbano essere attribuite ad altri soggetti. Infatti, proprio la motivazione sulla sussistenza della colpa oggettiva dà luogo all’annullamento.
1.2. Il terzo motivo attiene a tema proposto dalla F. per la prima volta con il ricorso; come tale non è consentito. In ogni caso esso è manifestamente infondato. In tema di interruzione del nesso causale tra condotta del gestore del rischio ed evento verificatosi la recente giurisprudenza di questa Corte ha consolidato l’orientamento secondo il quale essa si determina solo quando la causa sopravvenuta innesca un rischio nuovo e del tutto eccentrico rispetto a quello originario attivato dalla prima condotta (ex multis, Sez. 4, n. 15493 del 10/03/2016, Rv. 266786). Con specifico riferimento alla materia prevenzionistica, ciò ha condotto ad una innovazione concettuale e terminologica, di talché la causa interruttiva non è il comportamento imprevedibile del lavoratore infortunatosi o la sua condotta esorbitante dalle mansioni affidategli bensì quell’azione o omissione che innesta nel decorso causale un rischio nuovo ed eccentrico rispetto a quello affidato al soggetto della cui responsabilità si discute. L’indicazione giurisprudenziale è che, in tema di prevenzione antinfortunistica, perché la condotta colposa del lavoratore possa ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo, è necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (Sez. 4, n. 15124 del 13/12/2016, dep. 2017, Rv. 269603; Sez. 4, n. 7012 del 23/11/2022, dep. 2023, Rv. 284237).
Nel caso che occupa, come correttamente rilevato dal Tribunale (cfr. p. 41 s.), l’asserita – ma indimostrata – imprudenza del lavoratore è direttamente correlata alle mansioni affidategli e al contesto nel quale egli è stato fatto operare. Sicché, ben lungi dall’introdurre un rischio che esulava dall’area di rischio affidata ai garanti della sua incolumità, il comportamento del lavoratore ne è stato diretto effetto.
1.3. Il quarto motivo resta assorbito attese le ragioni dell’annullamento della decisione.
2. Il ricorso dell’ente incolpato è parimenti fondato, in ragione dei rilievi formulati con i primi tre motivi, che meritano una trattazione unitaria, attenendo tutti ai presupposti legittimanti la responsabilità dell’ente ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001. Tanto determina l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata.
2.1. Come è noto, la responsabilità da reato delle persone giuridiche fonda sulla colpa di organizzazione. A tal proposito, il S.C. ha precisato che la colpa di organizzazione deve intendersi in senso normativo ed è fondata sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli (cfr. S.U. n. 38343 del 24/04/22014, Espenhahn e altri, Rv. 261113; similmente Sez. 4, n. 29538 del 28/5/2019, Calcinoni e altri, Rv.276596). Questa Corte condivide la ricostruzione che vuole l’illecito dell’ente essere costituito da una fattispecie complessa, della quale il reato presupposto è uno degli elementi essenziali (ex multis, Sez. 6, n. 2251 del 5.10.2010, Fenu, Rv. 248791, in motivazione; Sez. 6, n. 28299 del 10/11/2015, dep. 2016, Bonomelli e altri, Rv. 267048, in motivazione; Sez. 6, n. 49056 del 25/07/2017, P.G. e altro in proc. Brambilla e altri, Rv. 271564, in motivazione; Sez. 4, n. 32899 del 08/01/2021, Castaldo e altri, Rv. 281997, in motivazione); e ciò che fa di esso un illecito ‘propriò dell’ente, nel senso più rigoroso imposto dall’art. 27 Cost., è l’ulteriore elemento essenziale rappresentato dalla colpa di organizzazione (in tal senso anche Sez. 6, n. 23401 del 11/11/2021, dep. 2022, Impregilo, Rv. 283437, in motivazione, per la quale “il fondamento della responsabilità dell’ente è costituito dalla “colpa di organizzazione”, essendo tale deficit organizzativo quello che consente la piana ed agevole imputazione all’ente dell’illecito penale”). Del pari, questa Corte vuol ribadire che la colpa di organizzazione e l’assimilazione della stessa alla colpa, intesa quale violazione di regole cautelari, implica che la mancata adozione e l’inefficace attuazione degli specifici modelli di organizzazione e di gestione prefigurati dal legislatore rispettivamente agli artt. 6 e 7 del decreto e al D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 30, non è un elemento costitutivo della tipicità dell’illecito dell’ente ma una circostanza atta ex lege a dimostrare che sussiste la colpa di organizzazione (alla medesima necessità si ispira l’evocazione della redazione di un documento, fatta dalle Sezioni Unite) (in tal senso anche la già citata Sez. 4, n. 32899 del 08/01/2021). Dovendosi ribadire che il verificarsi del reato non implica ex se l’inidoneità o l’inefficace attuazione del modello organizzativo che sia stato adottato dall’ente.
Ciò detto, va anche precisato che il modello organizzativo non coincide con il sistema di gestione della sicurezza del lavoro incentrato sul documento di valutazione dei rischi di cui al D.Lgs. n. 81 del 2008, artt. 17,18,28 e 29. Mentre questo individua i rischi implicati dalle attività lavorative e determina le misure atte a eliminarli o ridurli, il modello di organizzazione previsto dal decreto 231 è strumento di governo del rischio di commissione di reati da parte di taluno dei soggetti previsti dall’art. 5 del decreto. Con specifico riguardo alla materia che qui occupa, il modello – nella specificazione di cui al D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 30 – non si riduce al DVR (o al POS) ma configura un sistema aziendale preordinato (tra l’altro) al corretto adempimento delle attività di valutazione del rischio (art. 30, comma 1 lett. b). Detto altrimenti, esso delinea l’infrastruttura che permette il corretto assolvimento dei doveri prevenzionistici, discendenti dalla normativa di settore e dalla stessa valutazione dei rischi.
2.2. Date simili premesse è del tutto palese che edificare la responsabilità dell’ente su condotte che sono riferibili, in astratto prima ancora che in concreto, esclusivamente alla persona fisica rappresenta un errore giuridico.
In particolare, coglie il vero l’assunto difensivo di un rimprovero all’ente per la ‘organizzazione in loco’. In effetti, in particolare la sentenza di appello manifesta una indebita sovrapposizione di piani, ciò già a partire dalla sequenza degli argomenti, avendo trattato dapprima della responsabilità dell’ente e poi di quella delle persone fisiche. Lungi dall’essere soltanto una infelice tecnica espositiva, la scansione argomentativa corrisponde alla prospettiva di analisi dell’atto di appello adottata dalla Corte distrettuale. Quello presentava solo due motivi specificamente dedicati alle ritenute manchevolezze dell’ente: da un canto si asseriva che l’amministratore aveva “nominato precise figure con le relative mansioni” e che il tragico evento si era verificato per la violazione dei rispettivi doveri da parte del C. e del K.; dall’altro, dette trasgressioni cautelari erano state commesse dal K., nel suo proprio interesse.
A questi, come agli altri motivi, la Corte territoriale ha replicato rilevando “i profili colposi della condotta tenuta dagli imputati e, in specie, dalla N. S.”, menzionando in primo luogo “il fatto che i lavori di potatura degli alberi non erano stati adeguatamente programmati” (p. 10); quindi, “la carenza di organizzazione -…che ha caratterizzato l’attività del cantiere di lavoro” (p. 11). Ha poi sostenuto che “l’Ente, in particolare F.F., nella sua veste di datore di lavoro, non è esente da responsabilità per il fatto che i propri dipendenti, ciascuno secondo le rispettive competenze, hanno omesso di svolgere i compiti loro assegnati”. Affermazione singolare nella assimilazione dell’ente al datore di lavoro; seguita dall’ancor più singolare evocazione del principio secondo il quale l’onere di provare l’esistenza di una delega di funzioni grava su colui che la invoca (p. 12).
In sostanza, la Corte territoriale incorre in errore quando rimprovera all’ente “la presenza non autorizzata di macchinari nel cantiere… senza alcuna coordinazione con l’intervento che veniva eseguito dal S….” perché l’ente era tra coloro “tenuti a garantire condizioni di sicurezza del cantiere…”, caratterizzato, per contro, dalla carenza di organizzazione; quando sostiene che il coinvolgimento della N. S. discende dal fatto che “la responsabilità coinvolge tutti gli aspetti di controllo e gestione del cantiere di lavoro”; quando associa l’ente e la Fiochi nel rimprovero per l’omissione di cautele il cui approntamento competi al datore di lavoro persona fisica.
Il medesimo errore prospettico emerge laddove la Corte di appello tratta dell’interesse dell’ente. Come è stato più volte sostenuto da questa Corte, la fattispecie dell’illecito dell’ente presuppone una relazione funzionale corrente tra reo ed ente ed altresì una relazione teleologica tra reato ed ente, ricorrente quando il primo è stato commesso nell’interesse del secondo o questo ne ha tratto vantaggio. Ciò è richiesto perché il legislatore nazionale ha ritenuto non sufficiente il mero rapporto di immedesimazione organica; con la previsione del collegamento teleologico, ha escluso che possa essere attribuito alla persona morale un reato commesso sì da un soggetto incardinato nell’organizzazione ma per fini estranei agli scopi di questo (e, in ipotesi, persino in contrasto con quest’ultimi).
All’interesse viene per lo più attribuita un’accezione soggettivizzante, nel senso che esso viene inteso come allusivo alla finalità che muove il reo e non alla oggettiva attitudine del reato di concretizzare un’utilità per l’ente. Sicché è al reo che occorre guardare per accertare se quell’elemento ricorre nel caso concreto. Ciò diversamente dal vantaggio, che è proprio l’utilità che l’ente ricava dal reato commesso. Orbene, nel caso che occupa la Corte distrettuale parla di “interesse economico perseguito dall’Ente”, di “preciso interesse dell’Ente appaltante a ridurre l’impegno di spesa…”, mostrando un ennesimo errore interpretativo.
La Corte di appello ha anche preso in esame la censura difensiva incentrata sull’adozione del modello organizzativo. Lo ha fatto senza sciogliere il dubbio circa il tempo della sua adozione, nonostante la decisività della circostanza ai fini di una ipotetica esclusione di responsabilità dell’ente; e sostenendo che, ove pure adottato ex ante un simile modello, ciò non sarebbe valso ad escludere tale responsabilità in quanto “avuto riguardo ai profili di sicurezza sul lavoro, tale paradigma certamente non sarebbe stato rispettato, relativamente alle modalità esecutive del contratto di appalto…”. Una motivazione che, se non meramente apparente in quanto vuota di contenuto effettivamente esplicativo e specifico rispetto al caso concreto, è erronea, ove da intendersi nel senso che l’inidoneità (o la inefficace attuazione?) del modello discenderebbe dalle condizioni di lavoro registrate sul cantiere.
Per quanto nel contesto di una più ampia ricostruzione, lo stesso Tribunale è incorso in errori non dissimili. Dopo aver affermato che l’accusa pubblica deve dimostrare “l’esistenza di un sistema organizzativo della società carente in relazione agli obiettivi di garanzia in materia di infortuni sul lavoro” (p. 49), il primo giudice ha sostenuto che l’ente si era dotato “di tutti i documenti previsti per legge ai fini della prevenzione del rischio (Documento Valutazione Rischi, Piano Operativo di Sicurezza) e… indicato i soggetti responsabili della loro attuazione”, ma “le misure adottate in concreto per il controllo dell’applicazione delle prescrizioni previste dai piani di sicurezza, erano in realtà del tutto carenti e inadeguate a far fronte alle singole situazioni di pericolo che avrebbero potuto presentarsi di volta in volta e che le scelte di organizzazione del lavoro effettivamente adottate dalla società erano in vero adottate per privilegiare le esigenze di produttività e di profitto con la minimizzazione dei costi a scapito della sicurezza dei lavoratori”. Una volta di più si sono evocati obblighi facenti capo al datore di lavoro invece che profili di colpa della società incolpata.
2.3. Il quarto motivo resta assorbito.
3. Conclusivamente, la sentenza impugnata va annullata nei confronti di entrambi i ricorrenti, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Firenze per nuovo giudizio.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Firenze.
Così deciso in Roma, il 5 ottobre 2023.