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Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime | Categoria: Risarcimento del danno, Sicurezza sul lavoro Numero: 28959 | Data di udienza: 13 Settembre 2023

SICUREZZA SUL LAVORO – Responsabilità del datore di lavoro – Ambiente di lavoro stressogeno fonte di danno per la salute del dipendente – Mobbing – Demansionamento – Violazione art. 2087 c.c. – RISARCIMENTO DEL DANNO – Danno non patrimoniale – Condotta mobbizzante e di dequalificazione – Risarcimento del danno biologico. (Massima a cura di Alessia Riommi)


Provvedimento: ORDINANZA
Sezione: LAVORO
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 18 Ottobre 2023
Numero: 28959
Data di udienza: 13 Settembre 2023
Presidente: DORONZO
Estensore: PONTERIO


Premassima

SICUREZZA SUL LAVORO – Responsabilità del datore di lavoro – Ambiente di lavoro stressogeno fonte di danno per la salute del dipendente – Mobbing – Demansionamento – Violazione art. 2087 c.c. – RISARCIMENTO DEL DANNO – Danno non patrimoniale – Condotta mobbizzante e di dequalificazione – Risarcimento del danno biologico. (Massima a cura di Alessia Riommi)



Massima

 

CORTE DI CASSAZIONE Sez. LAVORO CIVILE, 18 ottobre 2023 (Ud. 13/09/2023), Ordinanza n.28959

 

SICUREZZA SUL LAVORO – Responsabilità del datore di lavoro – Ambiente di lavoro stressogeno fonte di danno per la salute del dipendente – Mobbing – Demansionamento – Violazione art. 2087 c.c. – RISARCIMENTO DEL DANNO – Danno non patrimoniale – Condotta mobbizzante e di dequalificazione – Risarcimento del danno biologico.

In tema di responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente, anche ove non sia configurabile una condotta di “mobbing”, per l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli, è ravvisabile la violazione dell’art. 2087 c.c., nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori ovvero ponga in essere comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi. Nel caso in esame, è stato riferito dai testimoni che la direzione dell’ufficio era stata più volte informata dei gravi comportamenti posti in essere, quindi, non può essere negata la responsabilità del datore di lavoro, sia sotto forma di mancata protezione della lavoratrice ai sensi dell’art. 2087 c.c., sia per aver posto in essere direttamente atti dequalificanti nei suoi confronti (privazione di mansioni, ripetuti spostamenti d’ufficio). Si consideri, nello stesso senso, anche la mancata attivazione in ordine alla domanda di riconoscimento della causa di servizio.

(conferma n. 604/2019 della CORTE D’APPELLO DI FIRENZE) – Pres. DORONZO, Est. PONTERIO, Ric. — S.F.P. (avv.ti Agostino, Leuzzi, e Guarnieri) c. M.G. (avv.ti Pasquini, Cecconi) e c. Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (Avvocatura Generale dello Stato)

 
 

 

 


Allegato


Titolo Completo

CORTE DI CASSAZIONE Sez. LAVORO CIVILE, 18/10/2023 (Ud. 13/09/2023), Ordinanza n.28959

SENTENZA

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

omissis

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso 32245/2019 proposto da:
— S.F.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 34, presso lo studio dell’avvocato ROCCO AGOSTINO, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati STEFANO LEUZZI, GIULIO GUARNIERI;

– ricorrente principale –

CONTRO

M.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BALDO DEGLI UBALDI 112, presso lo studio dell’avvocato LUIGI PEDULLA’, rappresentata e difesa dagli avvocati ELENA PASQUINI, FRANCESCO CECCONI;

– controricorrente –

E CONTRO

MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

E CONTRO

M.G.;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 604/2019 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 11/07/2019 R.G.N. 408/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 13/09/2023 dal Consigliere Dott. CARLA PONTERIO.

RILEVATO CHE:

1. La Corte d’appello di Firenze ha accolto in parte l’appello di M.G. e, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, ha condannato il Ministero delle Infrastrutture e Trasporti e S.F.P. in solido al risarcimento dei danni non patrimoniali causati dalla condotta mobbizzante e di dequalificazione posta in essere da quest’ultimo, danni quantificati in Euro 50.455,62 (da cui detrarre, per il solo S., l’importo di Euro 2.000,00 già liquidato in sede penale), oltre accessori di legge; ha dichiarato che la patologia da cui è affetta la lavoratrice (Disturbo dell’adattamento cronico misto, con ansia e umore depresso e esiti di frattura del soma L1) è dipendente da causa di servizio ed ascrivibile alla tabella B allegata al D.P.R. n. 641 del 2001, ed ha condannato il Ministero al pagamento dell’equo indennizzo in favore della stessa.

2. La Corte territoriale, in difformità rispetto al Tribunale, ha ritenuto che la condotta mobbizzante e demansionante di parte datoriale (condotta posta in essere dallo S. e di cui la direzione era stata più volte informata) fosse dimostrata alla luce delle sentenze in atti (sentenza penale del Tribunale di Lucca n. 454/2005 con cui lo S. è stato condannato per il reato di lesioni personali colpose in danno della dipendente per l’episodio del (omissis); sentenza del Giudice di Pace di Lucca n. 20 del 2007 che ha condannato il predetto per percosse e ingiuria in danno della M., riconoscendo danni per Euro 2.000,00; sentenze entrambe confermate in appello), delle deposizioni testimoniali raccolte e del verbale di ispezione eseguita dal (omissis); ha addebitato a parte datoriale, oltre alla condotta mobbizzante, la violazione dell’art. 2087 c.c.; in base all’esito della c.t.u., ha riconosciuto una lesione dell’integrità psicofisica del 17% ed un danno biologico temporaneo ed ha liquidato il danno differenziale utilizzando le tabelle del Tribunale di Milano e provvedendo a detrarre le somme corrisposte dall’Inail per poste omogenee; ha respinto la domanda di risarcimento del danno patrimoniale relativo alle spese mediche sostenute per difetto di specifiche allegazioni e prove.

3. Avverso tale sentenza S.F.P. ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi. M.G. e il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti hanno resistito con distinti controricorsi; il Ministero ha proposto ricorso incidentale con due motivi. M.G. ha depositato controricorso al ricorso incidentale. Al termine della Camera di consiglio, il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal D.Lgs. n. 149 del 2022.

CONSIDERATO CHE:

Ricorso principale di S.F.P..

4. Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione o falsa applicazione dell’art. 434 c.p.c., nel testo modificato dal D.L. n. 82 del 2012, conv. dalla L. 134 del 2012, per avere la Corte di merito omesso di dichiarare inammissibile l’appello sebbene lo stesso costituisse mera riproposizione delle difese svolte in primo grado.

5. Il motivo è inammissibile per mancato rispetto degli oneri imposti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, atteso che la denuncia di violazione dell’art. 434 c.p.c., è formulata solo attraverso un generico rinvio ai ricorsi di primo e secondo grado, senza alcun riferimento specifico al contenuto degli stessi e senza trascrizione alcuna dei brani dell’atto di appello (e, prima ancora, della sentenza del tribunale), rilevanti al fine di far emergere la violazione denunciata. Come è stato chiarito da questa S.C., il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), è compatibile con il principio di cui all’art. 6, par. 1, della CEDU, qualora, in ossequio al criterio di proporzionalità, non trasmodi in un eccessivo formalismo, dovendosi, di conseguenza, ritenere rispettato ogni qualvolta l’indicazione dei documenti o degli atti processuali sui quali il ricorso si fondi, avvenga, alternativamente, o riassumendone il contenuto, o trascrivendone i passaggi essenziali, bastando, ai fini dell’assolvimento dell’onere di deposito previsto dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, che il documento o l’atto, specificamente indicati nel ricorso, siano accompagnati da un riferimento idoneo ad identificare la fase del processo di merito in cui siano stati prodotti o formati (Cass. n. 12481 del 2022; v. anche Cass., S.U. n. 8950 del 2022; Cass., S.U. n. 8077 del 2012), requisiti del tutto assenti nel caso in esame.

6. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 116 c.p.c., per travisamento delle prove ed errata ricostruzione dei fatti. Si assume che le eventuali condotte inurbane, peraltro non provate, non erano dirette nei confronti della M. ma erano espressione del carattere dello S., che si è sempre comportato nello stesso modo verso tutti i colleghi, senza vessare alcuna persona in particolare. Si denuncia come erronea la sentenza per non aver detratto dall’importo dovuto a titolo risarcitorio anche la somma di Euro 5.000,00 versata dallo S. per l’episodio oggetto della sentenza penale.

7. Anche questo motivo è inammissibile.

La violazione dell’art. 116 c.p.c., presuppone che il giudice abbia valutato una prova legale secondo prudente apprezzamento o un elemento di prova liberamente valutabile come prova legale (cfr. Cass., S.U. n. 20867 del 2020; Cass. n. 11892 del 2016; Cass. n. 25029 del 2015; Cass. n. 25216 del 2014) e la violazione dell’art. 2697 c.c., presuppone una inversione degli oneri probatori. Esula, invece, dall’ambito applicativo delle citate disposizioni ogni questione che involga il modo in cui siano state valutati gli elementi acquisiti, profilo su cui il controllo di legittimità può svolgersi solo con riguardo alla motivazione, in termini di violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, oppure nei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (v. Cass., S.U. n. 8053 e n. 8054 del 2014), attraverso la denuncia di omesso esame di un fatto storico, determinato e avente valore decisivo. Il motivo di ricorso in esame si appunta sull’apprezzamento delle risultanze istruttorie e, ove anche riqualificato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, risulterebbe inammissibile poiché investe non un fatto storico ma plurimi elementi probatori (attraverso ampi riferimenti alle deposizioni testimoniali) e si colloca pertanto all’esterno dello spazio in cui può esercitarsi il sindacato di legittimità. Parimenti inammissibile è la censura concernente la mancata detrazione, dal risarcimento dovuto, dell’importo di Euro 5.000,00, che il ricorrente assume versato a fronte dell’episodio del (omissis), non essendo specificato se e in che termini tale circostanza sia stata dedotta nei gradi di merito, atteso che di essa non si fa cenno nella sentenza d’appello (ove, anzi, è specificato che per tale episodio lo S. è stato “condannato, oltre alla multa, al risarcimento del danno nei confronti della lavoratrice, da liquidarsi in separata sede”, sentenza pag. 4, secondo cpv.); neppure è indicato il tipo di danno a riparazione del quale la somma sarebbe stata versata. Come è noto, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass. n. 23675 del 2013; n. 20703 del 2015; n. 18795 del 2015; n. 11166 del 2018; n. 20694 del 2018). Non potrebbe neanche invocarsi la giurisprudenza sulla rilevabilità d’ufficio della eccezione di pagamento (v. Cass. n. 41474 del 2021; n. 17196 del 2018; n. 14654 del 2015), in difetto di qualsiasi elemento, come la corrispondenza degli importi, idoneo ad evidenziare la relazione tra la pretesa creditoria e l’adempimento (v. Cass. 28779 del 2018; n. 7278 del 1991).

8. Con il terzo motivo si addebita alla sentenza la violazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, dell’art. 116 c.p.c., in relazione agli artt. 1176,2043,2236 e 1218 c.c., per travisamento della c.t.u. e conseguente erronea ricostruzione dei fatti, avendo la Corte di merito condannato lo S. al risarcimento del danno da inabilità temporanea anche se questa è stata collocata dal c.t.u. in data successiva al (omissis), epoca in cui il predetto era già in pensione da oltre un anno (esattamente dall’omissis); si assume che anche la malattia psichica, computata in dieci punti di inabilità, non può che essere sorta dopo il (omissis), quindi dopo il pensionamento del ricorrente. Si contesta l’affermazione contenuta nella sentenza d’appello, secondo cui le condotte dello S. hanno interessato buona parte del periodo dedotto dalla lavoratrice (dal omissis), osservandosi che il predetto è andato in pensione l'(omissis) e che la M. è rimasta assente dal lavoro dal (omissis) e che si è poi assentata per altri sei mesi fino a (omissis).

9. E’ inammissibile la censura di travisamento della c.t.u., basata sul presupposto della avvenuta collocazione della inabilità temporanea in epoca successiva al pensionamento dello S., per mancato rispetto degli oneri di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, posto che non è stata trascritta, neppure nelle parti essenziali, e non è stata depositata la relazione peritale da cui i predetti dati dovrebbero ricavarsi e nessun riferimento utile è contenuto nella sentenza d’appello.

10. Le residue censure sono anch’esse inammissibili perché mirano, nella sostanza, a sovvertire l’accertamento fattuale eseguito dai giudici di merito, al di fuori dei limiti segnati dal citato art. 360 c.p.c., n. 5, dovendosi, peraltro, precisare come, ai fini risarcitori, ciò che rileva è l’esistenza di un nesso causale tra la condotta illegittima e il danno subito dalla vittima, a prescindere dall’epoca di insorgenza e consolidamento delle conseguenze in termini di inabilità temporanea e permanente.

Nel caso di specie, la sentenza d’appello contiene un puntuale accertamento in ordine alla condotta illegittima posta in essere dal superiore gerarchico a partire dal primo episodio del (omissis) e protratta nel tempo, come risultante, oltre che dalla sentenza del Giudice di Pace di Lucca riferita all’episodio del (omissis), dall’esito dell’ispezione datata (omissis) e dalle prove testimoniali raccolte, che hanno riferito di insulti, offese, ripetuti mutamenti di ufficio in vari periodi, tanto da aver indotto i colleghi a segnalare alla direzione la condotta dello S.. In tale quadro, non hanno alcun rilievo, fattuale e logico, l’epoca di pensionamento dello S. e le assenze della lavoratrice, che non coprono l’intero periodo di cui si discute e che la stessa sentenza d’appello riconduce, almeno in parte, “alle patologie” derivanti dalle vicende in esame (v. sentenza d’appello, pag. 5).

11. Con il quarto motivo si deduce, in via subordinata, la violazione o falsa applicazione degli artt. 2043 e 2059 c.c., in combinato disposto con il D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 10, con il D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13, e con il D.M. 12 luglio 2000. Si definiscono errati i conteggi depositati dall’Inail non potendosi avere una rendita a fronte di una inabilità pari al 15%; si afferma che, avendo il c.t.u. individuato l’insorgenza della patologia psichiatrica in epoca successiva al pensionamento dello S., occorreva considerare ai fini del danno solo le residue lesioni (da caduta involontaria), comportanti sette punti percentuali di inabilità, e dall’importo del relativo danno, calcolato in base al decreto sulle lesioni cd. semipermanenti, si sarebbe dovuto detrarre quanto liquidato in capitale dall’Inail; si deduce che la Corte di merito ha detratto dal risarcimento del danno la somma corrisposta dall’Inail nella misura di Euro 13.856,89, relativa alla sola lettera a) di cui al D.Lgs. n. 38 del 2000, citato art. 13, e non anche alla quota capitale di cui alla lett. b); che in base al D.M. 12 luglio 2000, la rendita in capitale del danno biologico rivalutata è pari a Euro 1.328,30 annui e la somma da detrarre sarebbe stata di Euro 18.596,20 (e non di Euro 4.655,49); inoltre, trattandosi di rendita vitalizia e valutata l’aspettativa media di vita di una donna di 85 anni, la somma da decurtare dall’indennizzo dovuto sarebbe stata pari a Euro 47.818,80 (oltre agli importi di Euro 2.000,00 e 5.000,00 già versati, con un totale di Euro 54.818,80), con la conseguenza che nulla avrebbe dovuto pagare il ricorrente (atteso che il danno non patrimoniale è stato calcolato in Euro 49.000,00). Il motivo viene esaminato unitamente al secondo motivo del ricorso incidentale del Ministero.

Ricorso incidentale del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.

12. Con il primo motivo è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione o falsa applicazione degli artt. 2049,2087 e 2697 c.c., sul rilievo della non configurabilità, nel caso di specie, di una ipotesi di mobbing, per cui il Ministero possa essere chiamato a rispondere, in difetto del requisito di sistematicità e continuità delle condotte poste in essere dallo S. (gli episodi esaminati risalgono al (omissis) – lesioni colpose – e al (omissis)) e dell’elemento qualificante costituito dall’intento persecutorio. Si denuncia la violazione dell’art. 2697 c.c., per il difetto di prova, di cui era onerata la lavoratrice, degli elementi costitutivi del mobbing, con conseguente inapplicabilità dell’art. 2087 c.c..

13. Il motivo è infondato.

La Corte di merito ha addossato a parte datoriale la violazione dell’art. 2087 c.c., osservando che “a parte il mobbing – il datore di lavoro ha chiaramente omesso di tutelare la sua dipendente, violando l’art. 2087 c.c., ed esponendola ad una serie di vicissitudini del tutto fuori da uno schema di normali contrasti e incomprensioni che si possono verificare sul posto di lavoro” (sentenza d’appello, pag. 5, terzo cpv.). Ha aggiunto che “nel caso in esame, è stato riferito dai testimoni che la direzione dell’ufficio era stata più volte informata dei gravi comportamenti posti in essere dallo S.: non può quindi essere negata la responsabilità del datore di lavoro, sia sotto forma di mancata protezione della lavoratrice ai sensi dell’art. 2087 c.c., sia per aver posto in essere direttamente atti dequalificanti nei suoi confronti (privazione di mansioni, ripetuti spostamenti d’ufficio). Si consideri, nello stesso senso, anche la mancata attivazione in ordine alla domanda di riconoscimento della causa di servizio presentata dalla M.” (sentenza d’appello, pag. 10). Ciò in linea con quanto affermato da questa S.C. secondo cui “in tema di responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente, anche ove non sia configurabile una condotta di “mobbing”, per l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli, è ravvisabile la violazione dell’art. 2087 c.c., nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori ovvero ponga in essere comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi” (Cass. n. 3692 del 2023; n. 33639 del 2022; n. 33428 del 2022).

14. Con il secondo motivo si imputa alla sentenza d’appello, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione degli artt. 2043 e 2059 c.c., in combinato disposto con il D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 10, del D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13, e del D.M. 12 luglio 2000, in ordine alla quantificazione del danno differenziale, ripetendosi gli argomenti oggetto del quarto motivo del ricorso principale dello S..

15. Il secondo motivo del ricorso incidentale ed il quarto motivo del ricorso principale sono inammissibili.

Le censure si incentrano sulla erroneità del documento trasmesso dall’Inail e recepito dalla Corte d’appello, recante i conteggi delle somme spettanti alla lavoratrice (“i conteggi depositati dall’Inail su ordine di esibizione della Corte sono errati e contra legem, non potendosi avere una rendita in caso di 15 punti di invalidità. Tale documento non doveva quindi essere preso in considerazione nel decidere”, ricorso principale, pag. 19), ma tale documento non è in alcun modo trascritto, localizzato o depositato, come necessario ai sensi degli artt. 366 e 369 c.p.c.. Non solo, il ricorrente principale e quello incidentale in nessun modo indicano se, in quali atti processuali e in che termini abbiano sollevato, nei gradi di merito, i rilievi critici che ora oppongono ai conteggi Inail e che assumono errati (v. Cass. n. 23675 del 2013; n. 20703 del 2015; n. 18795 del 2015; n. 11166 del 2018 cit.). Le censure, peraltro, non considerano che, secondo quanto riportato nella sentenza d’appello (pagg. 6-8), il danno biologico calcolato dal c.t.u. e fatto proprio dalla Corte di merito era pari al 17% e comprendeva l’esito dell’infortunio del (omissis) (esiti disfunzionali di media entità di pregressa frattura di L1) e la malattia professionale (Disturbo dell’adattamento di tipo occupazionale con sindrome ansioso depressiva reattiva ad eventi stressanti presenti nel proprio posto di lavoro) e che l’Inail aveva valutato il danno biologico nella misura complessiva del 21% (7% l’esito dell’infortunio e 15% la malattia professionale), con conseguente liquidazione di una rendita, in conformità al disposto del D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13.

16. Dalle ragioni finora esposte discende il rigetto del ricorso principale e di quello incidentale.

17. Le spese del giudizio di legittimità sono regolate secondo il criterio di soccombenza dei ricorrenti, principale e incidentale, nei confronti della lavoratrice (v. Cass. n. 27476 del 2018; n. 20916 del 2016), con liquidazione come in dispositivo.

18. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, principale e incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per i ricorsi, principale e incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale. Condanna i ricorrenti alla rifusione delle spese processuali in favore di M.G. che liquida, a carico di ciascuna parte, in Euro 5.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge, da distrarsi in favore dell’avv. Elena Pasquini, antistataria. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, principale e incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per i ricorsi, principale e incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Ai sensi del D.Lgs. n. 193 del 2003, art. 52, e succ. mod., in caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi di M.G..

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 13 settembre 2023.

Depositato in Cancelleria il 18 ottobre 2023

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