* CAVE E MINIERE – Sfruttamento delle cave – Assoggettamento ad un regime autorizzatorio e non concessorio – Ente competente – Regione Lombardia – Competenze attribuite alle Province – Attribuzione ai Comuni di compiti di controllo e proposte – Disponibilità delle aree – Proprietà o detenzione dei terreni – Piano cave – terreni suscettibili di sfruttamento – Appartenenza a privati – Appartenenza ad enti pubblici – Assoggettamento al regime dei beni patrimoniali indisponibili – Art. 826 c.c. – Suddivisione del bacino di cava tra più operatori – Accessibilità e sicurezza degli ambiti – Piani di sicurezza coordinati.
Provvedimento: Sentenza
Sezione: 2^
Regione: Lombardia
Città: Brescia
Data di pubblicazione: 19 Novembre 2018
Numero: 1080
Data di udienza: 7 Novembre 2018
Presidente: Farina
Estensore: Bertagnolli
Premassima
* CAVE E MINIERE – Sfruttamento delle cave – Assoggettamento ad un regime autorizzatorio e non concessorio – Ente competente – Regione Lombardia – Competenze attribuite alle Province – Attribuzione ai Comuni di compiti di controllo e proposte – Disponibilità delle aree – Proprietà o detenzione dei terreni – Piano cave – terreni suscettibili di sfruttamento – Appartenenza a privati – Appartenenza ad enti pubblici – Assoggettamento al regime dei beni patrimoniali indisponibili – Art. 826 c.c. – Suddivisione del bacino di cava tra più operatori – Accessibilità e sicurezza degli ambiti – Piani di sicurezza coordinati.
Massima
TAR LOMBARDIA, Brescia, Sez. 2^ – 19 novembre 2018, n. 1080
CAVE E MINIERE – Sfruttamento delle cave – Assoggettamento ad un regime autorizzatorio e non concessorio – Ente competente – Regione Lombardia – Competenze attribuite alle Province – Attribuzione ai Comuni di compiti di controllo e proposte – Disponibilità delle aree – Proprietà o detenzione dei terreni.
A differenza delle miniere, le cave e le torbiere sono assoggettate a un regime autorizzatorio e non concessorio, in ragione del quale il proprietario o chi abbia la disponibilità del fondo può chiedere all’ente competente l’autorizzazione alla coltivazione. Per l’individuazione di tale ente bisogna fare riferimento alla Costituzione, il cui art. 117 attribuisce alle Regioni la competenza legislativa in materia, da esercitarsi nell’ambito dei principi dettati dalle leggi quadro statali e all’intervenuto trasferimento alle Regioni stesse di tutte le competenze amministrative. Nel caso della Lombardia, le competenze al rilascio delle autorizzazioni sono ora attribuite alle Province, mentre ai Comuni sono stati riservati solo compiti esclusivamente di controllo e proposta. Lo sfruttamento delle cave, dunque, è soggetto a un regime che prevede l’approvazione da parte della Regione di un apposito piano per lo sfruttamento delle risorse, predisposto dalle Province, alle quali è attribuita la competenza al rilascio delle autorizzazioni alla coltivazione, previa presentazione e approvazione di un apposito progetto di gestione. Tale autorizzazione presuppone la disponibilità delle aree, che può essere garantita al richiedente dalla proprietà dei terreni ovvero dalla detenzione degli stessi in ragione di un apposito titolo, che può scaturire da un diverso contratto, a seconda che il terzo proprietario sia un soggetto pubblico o privato.
CAVE E MINIERE – Piano cave – terreni suscettibili di sfruttamento – Appartenenza a privati – Appartenenza ad enti pubblici – Assoggettamento al regime dei beni patrimoniali indisponibili – Art. 826 c.c.
I terreni suscettibili di sfruttamento, così come previsto dal piano cave, possono anche appartenere a privati, che possono essere autorizzati alla coltivazione, ma se appartengono all’ente pubblico, a prescindere da come sono stati acquistati, debbono essere assoggettati al regime dei beni patrimoniali indisponibili in ragione della loro funzione strumentale al perseguimento dell’interesse pubblico, che ne consente anche il loro acquisto coattivo (cfr. l’art. 826 cod. civ., il quale dispone che, in caso di acquisto dei terreni da parte dell’ente pubblico per destinarli alla funzione di cava essi siano qualificati come beni patrimoniali indisponibili proprio in ragione della loro funzionalizzazione)
CAVE E MINIERE – Suddivisione del bacino di cava tra più operatori – Accessibilità e sicurezza degli ambiti – Piani di sicurezza coordinati.
L’accessibilità e la sicurezza degli ambiti possono essere comunque garantiti, pur suddividendo il bacino tra più operatori, grazie ad appositi accordi e piani di sicurezza coordinati. In primo luogo, il progetto d’ambito da presentare alla Provincia per l’autorizzazione deve essere comunque unitario, con la conseguenza che è fisiologico che tutti i soggetti le cui proprietà ricadono al suo interno debbano raggiungere degli accordi per il suo sfruttamento, inoltre, la normativa (derivante dal coordinamento dell’art. 674 del DPR 128/1958, del d. lgs. 25 novembre 1996, n. 624 e del successivo d. lgs. 81/2008) attribuisce al Comune, in quanto autorità preposta alla verifica della sicurezza, il potere di imporre piani della sicurezza coordinati tra i medesimi soggetti coinvolti.
Pres. Farina, Est. Bertagnolli – S. s.r.l. (avv. Bezzi) c. Comune di Botticino (avv.ti Paratico e Cora’)
Allegato
Titolo Completo
TAR LOMBARDIA, Brescia, Sez. 2^ - 19 novembre 2018, n. 1080SENTENZA
TAR LOMBARDIA, Brescia, Sez. 2^ – 19 novembre 2018, n. 1080
Pubblicato il 19/11/2018
N. 01080/2018 REG.PROV.COLL.
N. 00491/2014 REG.RIC.
N. 00493/2014 REG.RIC.
N. 01158/2017 REG.RIC.
N. 01161/2017 REG.RIC.
N. 01160/2017 REG.RIC.
N. 00492/2014 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
sezione staccata di Brescia (Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 491 del 2014, proposto da
Stella del Nord S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Domenico Bezzi, con domicilio eletto presso il suo studio in Brescia, via Diaz, 13/C;
contro
Comune di Botticino, rappresentato e difeso dagli avvocati Guido Paratico, Nadia Cora’, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Claudia Portesi in Brescia, via Solferino 28;
sul ricorso numero di registro generale 492 del 2014, proposto da
Eredi Martinelli Divisione Cave S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Domenico Bezzi, con domicilio eletto presso lo studio Domenico Bezzi in Brescia, via Diaz, 13/C;
contro
Comune di Botticino, rappresentato e difeso dagli avvocati Guido Paratico, Nadia Cora’, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Claudia Portesi in Brescia, via Solferino 28;
sul ricorso numero di registro generale 493 del 2014, proposto da
Q.R. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Domenico Bezzi, con domicilio eletto presso lo studio Domenico Bezzi in Brescia, via Diaz, 13/C;
contro
Comune di Botticino, rappresentato e difeso dagli avvocati Guido Paratico, Nadia Cora’, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Claudia Portesi in Brescia, via Solferino 28;
sul ricorso numero di registro generale 1158 del 2017, proposto da
Eredi Martinelli Divisione Cave S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Domenico Bezzi, con domicilio eletto presso lo studio Domenico Bezzi in Brescia, via Diaz 13/C;
contro
Comune di Botticino, rappresentato e difeso dagli avvocati Guido Paratico, Nadia Cora’, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Claudia Portesi in Brescia, via Solferino 28;
sul ricorso numero di registro generale 1160 del 2017, proposto da
Stella del Nord S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Domenico Bezzi, con domicilio eletto presso lo studio Domenico Bezzi in Brescia, via Diaz 13/C;
contro
Comune di Botticino, rappresentato e difeso dagli avvocati Guido Paratico, Nadia Cora’, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Claudia Portesi in Brescia, via Solferino 28;
sul ricorso numero di registro generale 1161 del 2017, proposto da
Q.R. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Domenico Bezzi, con domicilio eletto presso lo studio Domenico Bezzi in Brescia, via Diaz 13/C;
contro
Comune di Botticino, rappresentato e difeso dagli avvocati Guido Paratico, Nadia Cora’, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Claudia Portesi in Brescia, via Solferino 28;
per l’annullamento
quanto ai ricorsi n. 491, 492 e 493 del 2014:
– del verbale di deliberazione della Giunta comunale n. 9 del 20 gennaio 2014 di approvazione degli indirizzi sulla procedura di assegnazione delle concessioni amministrative delle aree estrattive del bacino marmifero di Botticino;
– del verbale di deliberazione del Consiglio comunale n. 2 del 7 febbraio 2014, di presa d’atto della deliberazione della Giunta comunale n. 9/2014;
– di ogni altro atto presupposto, connesso e/o conseguente;
quanto ai ricorsi n. 1158, n. 1160 e n . 1161 del 2017:
– della deliberazione n.31 del 31 luglio 2017, con la quale il Consiglio Comunale di Botticino ha approvato i criteri per l’affidamento a terzi delle aree di cava di proprietà comunale rientranti nell’ambito dell’A.T.E. 02 (destra Rino) del Piano Cave della Provincia di Brescia, pubblicata all’Albo Pretorio comunale dal 6 settembre 2017 al 21 settembre 2017;
– della comunicazione del Sindaco di Botticino, rubricata al n. 29 della seduta del Consiglio Comunale di Botticino del 31 luglio 2017;
– di ogni altro atto presupposto, connesso e/o conseguente.
Visti i ricorsi e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Botticino;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 7 novembre 2018 la dott.ssa Mara Bertagnolli e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Le società ricorrenti, operatori storici e di rilievo nel commercio del marmo, sono concessionari dell’ATE02 in forza di un’autorizzazione che presuppone la disponibilità delle aree ottenuta grazie alla sottoscrizione di un contratto di concessione con il Comune di Botticino, scaduto il 31 dicembre 2017.
Il bacino di coltivazione dell’ambito ATE02 è, dunque, caratterizzato dalla commistione di aree di proprietà privata e di aree di proprietà delle ricorrenti, le difficoltà derivanti dalla quale sono state superate, fino ad oggi, mediante la suddivisione del bacino in senso verticale, così da ricavarne tre porzioni, in corrispondenza delle diverse proprietà private poste a monte e a valle dei terreni pubblici collocati al centro dell’ambito, rese coltivabili dalla disponibilità della proprietà comunale mediante (come già anticipato), il ricorso all’istituto della concessione.
La descritta situazione di fatto comporta che, laddove ciascuno di tali operatori perdesse la disponibilità dell’area di proprietà comunale, verrebbe messa in grave difficoltà l’organizzazione dell’escavazione, sia da parte dello stesso, che dell’eventuale nuovo concessionario delle aree pubbliche, per ragioni di sicurezza connesse allo sfruttamento della residua proprietà privata, posta a monte.
Secondo parte ricorrente, inoltre, la situazione orografica dei luoghi, la natura scoscesa dei versanti e la presenza del Rio Rino impedirebbero al concessionario delle proprietà pubbliche, se diverso, l’accesso alle aree oggetto della concessione stessa nel rispetto delle disposizioni in materia di polizia idraulica e vincoli ambientali, che precluderebbero la realizzazione del ponte necessario a garantire un nuovo accesso.
Ciononostante, già nel 2013, in sede di approvazione del Piano delle Cave del Botticino, il Consiglio comunale aveva ventilato la necessità del ricorso alla gara pubblica per l’affidamento in concessione delle aree di proprietà comunale. Tale provvedimento era stato allora ritenuto non direttamente lesivo, poiché non stabiliva né le aree interessate (tra le quali vi potevano essere anche ambiti di totale proprietà pubblica), né le modalità per individuare le aree oggetto dell’ipotizzata gara.
Nella deliberazione giuntale n. 9 del 20 gennaio 2014, invece, è stato previsto (illegittimamente, secondo parte ricorrente, in ragione di quanto si evidenzierà nel prosieguo) il ricorso a un’unica procedura di gara per l’individuazione di un unico concessionario per tutte le aree di proprietà comunale ricadenti nello stesso ambito, anche laddove, come nell’ambito ATE02, la situazione di commistione sopra descritta ingenera non poche problematiche, che sono state puntualmente rappresentate dalle ricorrenti..
Il Consiglio comunale, con atto meramente ricognitivo, si è limitato a prendere atto di tale deliberazione.
Entrambi i provvedimenti sono stati, quindi, impugnati, deducendo i seguenti vizi:
1. incompetenza della giunta comunale ad adottare atti di indirizzo, considerato che è stato stravolto un orientamento a lungo precedentemente seguito, con un atto che sarebbe comunque di natura pianificatoria. Tale incompetenza, peraltro, sarebbe stata rilevata dallo stesso Comune che, infatti, ha tentato di sanare il vizio, con un atto, però, che non avrebbe alcun effetto novativo o innovativo e che sarebbe comunque illegittimo, non essendo ammessa la ratifica, da parte del Consiglio comunale, di atti diversi dalle deliberazioni attinenti le variazioni di bilancio;
2. violazione degli artt. 822 e seguenti del codice civile. Secondo la tesi sostenuta in ricorso, le cave rientrerebbero tra i beni patrimoniali indisponibili e, dunque, sarebbero soggette ad affidamento in concessione, solo nel caso in cui la loro disponibilità fosse stata sottratta al proprietario del fondo, mediante espropriazione;
3. eccesso di potere sotto il profilo della abnormità, assurdità, illogicità degli indirizzi, a causa dell’oggettiva impossibilità di sfruttamento delle aree destinate a cava, nel caso della separazione tra proprietà pubblica, affidata a un unico soggetto e proprietà privata;
4. violazione dell’art. 3 della legge n. 241/90, attesa l’errata qualificazione giuridica delle aree, che avrebbe determinato l’illegittimo ricorso alla gara per l’individuazione del soggetto cui affidarne lo sfruttamento, senza, peraltro, prevedere alcun “avviamento” per i gestori uscenti, né alcuna possibilità di riscatto per gli stessi;
5. violazione dell’art. 7 della legge n. 241/90: la partecipazione al procedimento avrebbe consentito di evidenziare le impossibilità di sfruttamento conseguenti alla separazione delle proprietà;
6. violazione della legge n. 180 dell’11 novembre 2011, che imporrebbe all’ente pubblico di “adeguare l’intervento pubblico e l’attività della pubblica amministrazione alle esigenze delle micro, piccole e medie imprese”, prevedendo, a tal fine, la suddivisione in lotti degli appalti e delle lavorazioni.
Con autonomi ricorsi, le parti ricorrenti hanno, quindi, impugnato la deliberazione n.31 del 31 luglio 2017, con la quale il Consiglio Comunale di Botticino, attuando gli indirizzi già censurati, ha approvato i criteri per l’affidamento a terzi delle aree di cava di proprietà comunale rientranti nell’ambito dell’A.T.E. 02 (destra Rino) del Piano Cave della Provincia di Brescia, il quale è stato pubblicato all’Albo Pretorio comunale dal 6 settembre 2017 al 21 settembre 2017.
Il provvedimento, che ha previsto l’indizione di un’unica gara per l’affidamento della coltivazione di tutte le aree pubbliche ricadenti nell’ambito in questione a un solo soggetto, sarebbe, secondo quanto sostenuto dai ricorrenti, illegittimo per i seguenti motivi di diritto:
1.1. Violazione degli artt.822 e ss.gg. del codice civile e conseguente errata qualificazione giuridica della fattispecie, violazione degli artt. 1597, 1615 e ss.gg. del codice civile, degli artt. 1 e 4 del d.lgs n.50 del 2016, della Legge n.392 del 1978, degli art.23 e 36 del Regio decreto 29/07/1927 n. 1443, dell’art.41, R.D. n.827 del 1924 e dell’art.1 della Legge n.241 del 1990. La scelta del ricorso all’evidenza pubblica sarebbe viziata perché le cave sarebbero da qualificarsi quali “beni primari di pubblico interesse o di rilevanza pubblica”. Infatti, una cava, se appartenente ad un Comune, farebbe parte del patrimonio disponibile di quest’ultimo, con la conseguenza che essa potrebbe formare oggetto di negozi di diritto privato, non di concessioni amministrative (T.A.R. Lazio Latina, sez. I, 05. 02.2013 n. 123; Tar Lazio Roma 24 settembre 2014. n. 9963). L’appartenenza al patrimonio indisponibile sarebbe propria esclusivamente delle cave espropriate. L’errata qualificazione della natura dei beni avrebbe determinato, in disparte l’omessa applicazione dell’indennità di avviamento, così come del diritto di prelazione di cui all’art.38 della medesima Legge n.392 del 1978, l’applicazione di discipline del tutte estranee a quelle civilistiche dell’affitto di azienda. In ogni caso, la natura di contratto attivo avrebbe escluso la necessità dell’applicazione del codice dei contratti pubblici;
1.2. Eccesso di potere sotto il profilo della abnormità, assurdità, illogicità degli indirizzi, dal momento che né i proprietari privati, né il concessionario pubblico potrebbero più procedere allo sfruttamento delle cave, per ragioni di sicurezza e accessibilità delle aree, atteso che la soluzione individuata dal Comune (il raggiungimento di un accordo) sarebbe un mero artificio, non essendo possibile imporre il coordinamento tra i diversi soggetti;
1.3. Violazione della legge regionale n.14 del 1998 e del Piano Cave della Provincia di Brescia. In particolare con due successivi atti del 2015 lo stesso Consiglio comunale avrebbe escluso la possibilità della coltivazione delle cave a doppia schiera, mentre con il provvedimento impugnato la impone, peraltro violando la normativa regionale che richiede di tenere conto, nella pianificazione, sia delle caratteristiche dei giacimenti, che delle situazioni di attività già esistenti;
1.4. violazione della legge n. 180 dell’11 novembre 2011, a tutela delle piccole e medie imprese, come già dedotto nel ricorso precedente.
Il Comune si è costituito in giudizio dapprima nei ricorsi più recenti e, poi, nell’imminenza dell’udienza pubblica, ma solo formalmente, anche in quelli del 2014.
Esso ha eccepito, in via preliminare, l’inesistenza delle condizioni per la riunione dei ricorsi e l’improcedibilità dei primi gravami, gli atti impugnati con i quali sarebbero stati superati da quelli successivamente adottati e, in particolare, dalla deliberazione consiliare gravata con il secondo ricorso.
Nel merito, l’applicazione dell’istituto della concessione amministrativa per l’affidamento a terzi della gestione della cava risulterebbe legittimato dal fatto che il bacino di cava sarebbe, a tutti gli effetti, di pubblica utilità ovvero destinato a un pubblico servizio e per ciò stesso rientrante nel patrimonio indisponibile per effetto della previsione del terzo comma dell’art. 826 del codice civile.
In ogni caso, l’art. 12 della direttiva 2006/123/CE, cosiddetta Bolkenstein, imporrebbe il ricorso alla gara per l’affidamento di qualsiasi bene pubblico, senza distinguere tra beni patrimoniali disponibili e indisponibili, con conseguente applicazione del codice dei contratti e a nulla rileverebbe il fatto che trattasi di un contratto attivo, poiché lo stesso art. 97 Cost, prima ancora che l’art. 4 del d. lgs. 50/2016 e la direttiva citata imporrebbero comunque il ricorso all’evidenza pubblica, garantendo la massima partecipazione possibile, trattandosi dell’affidamento di un bene suscettibile di sfruttamento economico.
Nell’operare la scelta dell’affidamento dell’intero ambito di proprietà comunale, inoltre, il Comune avrebbe anteposto l’interesse alla sicurezza dei lavoratori e al miglior sfruttamento dell’ambito ad ogni altro, pur cosciente delle difficoltà derivanti dalla conformazione dei terreni e, dunque, di garantire un adeguato accesso alle aree (realizzando un ponte sul Rio Rino, ovvero imponendo una servitù coattiva, per il superamento dell’interclusione, sulle proprietà private) e la massima sicurezza nella coltivazione delle parti pubblica e private. A tale ultimo proposito, il Comune ha ravvisato la possibilità e l’utilità della redazioni di piani della sicurezza coordinati, che potrebbero comunque essere imposti ai privati in forza del potere dell’autorità preposta alla vigilanza nella coltivazione garantito dall’art. 38 del DPR 128/1959, il quale prevede la possibilità di imporre agli stessi la presentazione di un piano entro un termine fisso, previo affidamento dell’incarico a un topografo scelto tra le parti.
Contrariamente a quanto affermato da parte ricorrente, inoltre, il Comune auspicherebbe e avrebbe operato al fine di perseguire non la lamentata frammentazione, mettendo gli operatori in concorrenza tra di loro, ma la promozione di accordi commerciali tra gli operatori del comparto marmifero del Botticino, prevedendo che, divenendo impossibile la coltivazione in doppia schiera, gli operatori trovino modalità e tempistiche di avanzamento concordate.
Nessuna nuova VIA è stata richiesta, nella fattispecie, in ragione del fatto che quella già ottenuta, avente a oggetto l’intero ambito, consentirebbe la propria efficacia, atteso che essa ha ad oggetto il materiale impatto sull’ambiente, il quale non subirebbe influenza dal mutamento della proprietà del soggetto utilizzatore.
Inoltre, secondo il Comune, non sarebbe dato comprendere come la scelta di mantenere indivise le aree di proprietà comunale potrebbe risultare in contraddizione con la finalità di garantire la continuità produttiva nel bacino estrattivo, tenendo conto delle situazioni preesistenti, così come previsto dalla vigente disciplina.
Infine, nessuna violazione della normativa posta a tutela delle piccole e medie imprese sarebbe ravvisabile, essendo riconosciuta la possibilità e valorizzata la scelta (con l’attribuzione di un maggior punteggio) del raggruppamento per la partecipazione alla gara.
Le ricorrenti hanno, quindi, ribadito quanto già sostenuto in ricorso, sottolineando come l’attuazione degli atti impugnati precluderebbe lo sfruttamento delle aree residue di proprietà privata.
Il Comune ha replicato, evidenziando come le proprietà private riserverebbero solo poche migliaia di metri cubi da scavare ancora, il che potrebbe essere facilmente garantito mediante l’approvazione di piani coordinati e ricordando come i progetti d’ambito siano necessariamente unici e, dunque, in presenza di più proprietari, impongono il raggiungimento di specifici accordi, in primo luogo per il recupero del mercato, che nell’ultimo anno ha subìto una drastica crisi.
Anche le parti ricorrenti hanno replicato, insistendo affinché il Tribunale si pronunci sui ricorsi del 2014 ed evidenziando come la difesa comunale non possa essere considerata al fine della decisione di essi, non essendosi ivi costituito il Comune: la costituzione, infatti, è stata formale e solo successiva al deposito delle memorie di parte ricorrente e alla scadenza del termine per il deposito delle memorie stesse.
Inoltre, la società ha ribadito l’ammissibilità della trattativa privata, nella particolare fattispecie e l’irrilevanza della Bolkenstein in relazione alle rappresentate maggiori esigenze di sicurezza, che hanno improvvisamente indicato come pericolosa e, dunque, non autorizzabile, la coltivazione in doppia schiera.
Alla pubblica udienza del 7 novembre 2018, la causa, su conforme richiesta dei procuratori delle parti, è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. Il Collegio ritiene di dover, preliminarmente, disporre la riunione di tutti i ricorsi in epigrafe indicati.
Infatti, benché le parti ricorrenti abbiano evidenziato come la scelta di ciascuna di esse di procedere alla notificazione di un autonomo ricorso (anziché alla proposizione di un ricorso per motivi aggiunti) avverso i provvedimenti più recentemente adottati dal Comune sia stata motivata dall’assenza di ogni richiamo, nei nuovi provvedimenti, a quelli già censurati, non vi è ragione alcuna per cui non si debba procedere alla trattazione congiunta dei due diversi ricorsi presentati rispettivamente dalla Stella del Nord s.r.l., dalla Eredi Martinelli Divisione Cave S.r.l. e dalla Q.R. s.r.l., previa loro riunione, attesa l’identità dei soggetti coinvolti e il fatto che tutti gli atti impugnati hanno ad oggetto la medesima questione di interesse pubblico e cioè l’affidamento in concessione a terzi dello sfruttamento delle cave di proprietà del Comune di Botticino.
Data, peraltro, la convergenza degli interessi delle ricorrenti e considerato che i provvedimenti impugnati sono i medesimi e le censure identiche, in un’ottica di efficacia ed economicità processuale, il Collegio ritiene opportuna anche la riunione tra di loro dei gravami proposti dai diversi operatori.
2. Così disposta la riunione, si può procedere all’esame dei ricorsi più datati.
Con riferimento ad essi si deve rilevare che, mentre con la deliberazione di Giunta comunale n. 9 del 2014 (e la successiva ratifica del Consiglio comunale) si è genericamente rappresentata l’intenzione dell’Amministrazione di procedere al futuro affidamento della coltivazione – sulla base del “piano delle cave del Botticino per il periodo 2014-2021”, approvato con deliberazione del Consiglio comunale n. 75 del 18 luglio 2013 – mediante ricorso a una procedura di gara ad evidenza pubblica per l’aggiudicazione della possibilità di sfruttamento delle aree di proprietà comunale, la deliberazione n. 31 del 2017, pur addivenendo alle medesime conclusione, ha un contenuto più puntuale e precettivo, che parte dalla qualificazione della proprietà comunale ricadente nel piano cave come beni patrimoniali indisponibili, passa attraverso l’affermazione dell’opportunità di affidamento del loro sfruttamento mediante gara pubblica per l’individuazione del concessionario e conclude individuando gli strumenti di coordinamento necessari per l’attuazione della scelta.
Appare, quindi, piuttosto chiaro come quest’ultimo atto del Comune abbia superato e soppiantato le deliberazioni del 2014, nemmeno citate, in quanto non considerate come atti presupposti rispetto a un esercizio del potere connesso all’affidamento a terzi dello sfruttamento delle cave di proprietà comunale, esercitato integralmente ex novo nel 2017.
Ne consegue che i ricorsi sub RG 491/2014, 492/2014 e 493/2014 debbono essere dichiarati improcedibili, non potendosi più ravvisare alcun interesse, per le ricorrenti, alla caducazione dei provvedimenti con essi impugnati, i quali sono stati, di fatto, soppiantati, nella loro efficacia, da quelli successivamente adottati dal Comune per regolare la medesima fattispecie e cioè la gestione delle cave pubbliche di Botticino.
L’annullamento degli atti impugnati con il ricorso del 2014, infatti, non produrrebbe alcuna utilità per le società ricorrenti, non potendo avere effetto caducante sugli atti successivi, che non ne presuppongono affatto l’efficacia e sono rispetto ad essi totalmente autonomi, rappresentando un nuovo esercizio del potere comunale in ordine alla gestione dei beni in questione.
3. Quanto ai ricorsi successivi, prima di passare al merito della questione, appare opportuno chiarire come lo stesso Comune, nella deliberazione del dicembre 2017 abbia riconosciuto, oltre alla interclusione dovuta in parte alle aree private e in parte alla montagna, nonché alla presenza del Rio Rino e alle difficoltà del suo attraversamento, di avere ben presenti le problematiche dovute alle interferenze e all’esposizione a pericolo che l’operatore economico aggiudicatario della concessione potrebbe subire in considerazione della presenza a monte di proprietà private ricomprese nel piano cave e nell’ATE 02, autonomamente coltivabili.
Ciononostante, in vista della scadenza delle concessioni, il Comune (con deliberazione del Consiglio comunale n. 31 del 31 luglio 2017) ha ritenuto di bandire l’assegnazione di un unico lotto per affidare l’intero comparto a un unico operatore, con lo scopo dichiarato di garantire “più alti livelli di sicurezza anche nel caso di a.t.i. in quanto permette(rebbe) di valutare preventivamente le soluzioni organizzative adottate ed i presidi tecnici di protezione da realizzare”. A fondamento di tale scelta sono stati richiamati l’art.11 della legge n.241 del 1990, il R.D. n. 827/1924, l’art. 30 D.Lgs n. 50/2016 e l’art.12 Direttiva 2006/123/2006.
4. Fatta tale premessa, l’esame del ricorso impone, preliminarmente, di verificare la legittimità della statuizione preliminare e pregiudiziale, posta a fondamento di ogni altra decisione contenuta nella deliberazione n.31 del 31 luglio 2017, con la quale il Comune ha ritenuto di <<qualificare il bene “bacino di cava”, individuato al punto 1, del presente dispositivo, come appartenente al patrimonio indisponibile del comune>> (punto 3 del dispositivo della deliberazione).
4.1. A tale proposito si deve premettere che, a differenza delle miniere, cave e torbiere sono assoggettate a un regime autorizzatorio e non concessorio, in ragione del quale il proprietario o chi abbia la disponibilità del fondo può chiedere all’ente competente l’autorizzazione alla coltivazione.
Per l’individuazione di tale ente bisogna fare riferimento alla Costituzione, il cui art. 117 attribuisce alle Regioni la competenza legislativa in materia, da esercitarsi nell’ambito dei principi dettati dalle leggi quadro statali e all’intervenuto trasferimento alle Regioni stesse di tutte le competenze amministrative.
Nel caso della Lombardia, le competenze al rilascio delle autorizzazioni sono ora attribuite alle Province, mentre ai Comuni sono stati riservati solo compiti esclusivamente di controllo e proposta.
Lo sfruttamento delle cave, dunque, è soggetto a un regime che prevede l’approvazione da parte della Regione di un apposito piano per lo sfruttamento delle risorse, predisposto dalle Province, alle quali è attribuita la competenza al rilascio delle autorizzazioni alla coltivazione, previa presentazione e approvazione di un apposito progetto di gestione.
Tale autorizzazione presuppone la disponibilità delle aree, che può essere garantita al richiedente dalla proprietà dei terreni ovvero dalla detenzione degli stessi in ragione di un apposito titolo, che può scaturire da un diverso contratto, a seconda che il terzo proprietario sia un soggetto pubblico o privato.
4.2. La questione portata all’attenzione del Collegio riguarda proprio il tipo di negozio a ciò necessario, nel caso di beni appartenenti al Comune e le modalità per l’individuazione del soggetto cui concedere la disponibilità delle aree di proprietà pubblica per la coltivazione nell’ambito in cui ricadono.
La soluzione di essa comporta necessariamente la preliminare individuazione del regime giuridico dei terreni di proprietà comunale ricadenti in un ambito di coltivazione di cava, previa sintetica ricostruzione della disciplina generale dei beni pubblici, per quanto qui di interesse.
4.3. I beni patrimoniali disponibili sono posseduti dallo Stato e dagli enti pubblici a titolo di proprietà privata e sono assoggettati alle norme di diritto privato. Essi possono essere venduti o sottratti al loro impiego, qualora gli enti pubblici lo ritengano opportuno, tramite procedure ad evidenza pubblica, mentre, quando non sono destinati a fini istituzionali possono essere concessi in uso a terzi nella forma e con i contenuti dei negozi contrattuali tipici del codice civile, quali la locazione, l’affitto e il comodato.
La loro individuazione è fondata su un criterio di residualità, secondo il quale si considerano beni patrimoniali disponibili tutti quei beni appartenenti a soggetti pubblici, diversi dai beni demaniali (destinati a soddisfare bisogni collettivi in modo diretto, che possono appartenere solo allo Stato e agli enti pubblici territoriali) e dai beni patrimoniali indisponibili (che possono appartenere a qualsiasi ente pubblico e non possono essere sottratti alla loro destinazione se non nei modi previsti dalla legge).
4.4. Ci si deve, dunque, interrogare su quale sia la categoria cui ricondurre le “cave”.
Incontestato che, se i terreni appartengono ai privati e questi provvedono essi stessi alla coltivazione, previa acquisizione della necessaria autorizzazione, i fondi non possono che essere soggetti al regime dei beni di proprietà privata, fermi restando i vincoli derivanti dalla necessità di garantire la loro coltivazione nel rispetto del regime autorizzatorio, pena l’acquisizione al patrimonio indisponibile dell’ente pubblico per il loro sfruttamento in attuazione dell’apposito “Piano cave”, il problema si pone con riferimento ai fondi di proprietà pubblica.
Secondo parte ricorrente, essi sarebbero riconducibili al patrimonio indisponibile solo qualora la loro disponibilità per la coltivazione sia sottratta al proprietario del fondo, così come espressamente previsto dall’art. 826 del codice civile.
Tale disposizione recita: “I beni appartenenti allo Stato, alle provincie e ai comuni, i quali non siano della specie di quelli indicati dagli articoli precedenti, costituiscono il patrimonio dello Stato o, rispettivamente, delle provincie e dei comuni.
Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato le foreste che a norma delle leggi in materia costituiscono il demanio forestale dello Stato, le miniere, le cave e torbiere quando la disponibilità ne è sottratta al proprietario del fondo, le cose d’interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo, i beni costituenti la dotazione della Corona, le caserme, gli armamenti, gli aeromobili militari e le navi da guerra.
Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato o, rispettivamente, delle provincie e dei comuni, secondo la loro appartenenza, gli edifici destinati a sede di uffici pubblici, con i loro arredi, e gli altri beni destinati a un pubblico servizio.”.
L’interpretazione della disposizione nel senso voluto dalle ricorrenti risulta scontare le conseguenze di un errore di impostazione di fondo. E cioè la mancata considerazione, nell’affrontare l’argomento, della necessità di tenere ben presente la distinzione tra proprietà fondiaria del terreno e proprietà del giacimento intesa come possibilità dello sfruttamento del terreno come cava, in quanto inserito da Provincia e Regione all’interno del perimetro di un ambito estrattivo previsto dall’apposito Piano cave. Un terreno in cui vi sia un deposito di materiale escavabile, non compreso in quest’ultimo, è solo un terreno caratterizzato dalla presenza di un giacimento, ma non anche una “cava”. La “cava”, infatti, è un bene a sé stante rispetto al terreno, la cui esistenza è determinata dalla scelta pianificatoria che ha portato all’inclusione del terreno in un ambito estrattivo, il quale può essere oggetto di un autonomo contratto, che ne consenta la coltivazione a un soggetto diverso dal proprietario del nudo terreno.
Tale distinzione è ben evidenziata anche dall’art. 22 della legge regionale della Regione Lombardia n. 14 del 1998, che, in conformità ed attuazione del già ricordato art. 826 del codice civile, disciplina il procedimento attraverso cui la Provincia, su richiesta di un soggetto interessato alla coltivazione di un certo ambito estrattivo in cui ricada anche la proprietà di un soggetto non interessato in tal senso, può sottrarre a quest’ultimo non la proprietà del bene, ma la possibilità dello sfruttamento del giacimento presente sul terreno stesso. Possibilità che potrà essere acquisita coattivamente dalla Provincia e ceduta al richiedente mediante un’apposita concessione, avente ad oggetto il bene (patrimoniale indisponibile ai sensi dell’art. 826 cod. civ.) cava.
4.5. Venendo, quindi, alla disamina delle ricadute di tale ricostruzione giuridica sul regime dei beni appartenenti al Comune, si deve dare atto di come anche il Comune, al pari di qualsiasi proprietario privato di fondi, sia soggetto ai medesimi vincoli derivanti dall’inclusione dei terreni nel “Piano cave”. Inclusione che gli consente di dare in disponibilità il terreno a terzi, affinchè essi chiedano l’autorizzazione all’escavazione e garantiscano la gestione della cava.
4.6. Con quale strumento dipende proprio dalla qualificazione del bene “cava”, rispetto alla quale il Collegio ritiene di poter aderire alla teoria più sopra riportata, che distingue il suolo in sé, appartenente al patrimonio disponibile del Comune, il quale potrebbe essere sempre oggetto di contratti di diritto privato, tra cui l’affitto, e il bene “cava” appartenente al patrimonio indisponibile e suscettibile di affidamento a terzi attraverso la concessione.
È la funzione del bene, quindi, che determina il differente regime giuridico, con la conseguenza che, se ciò che viene dato in disponibilità a un privato è il suolo (ad esempio per esercitarci l’attività agricola o altro, per cui il suolo viene in considerazione come tale), allora lo strumento potrebbe essere il contratto di diritto privato, ma se oggetto di cessione a terzi è la possibilità di sfruttamento del giacimento, allora lo strumento deve essere quello della concessione.
Come si legge nella sentenza del Consiglio di Stato sez. VI, 23 luglio 2003, n. 2992, la cava appartenente all’amministrazione separata dei beni di uso civico (e, quindi, a maggior ragione quella appartenente al Comune) è soggetta al regime dei beni patrimoniali indisponibili, in quanto trattasi di bene «appartenente all’ente pubblico ed in relazione al quale sussiste un immanente interesse pubblico normativamente qualificato ex art. 45 della legge mineraria alla massimizzazione del suo sfruttamento e come tale di per sé sottratto alla disponibilità del proprietario del fondo, anche in assenza di un provvedimento autoritativo di acquisizione. Quale bene pubblico la cava è un bene il cui godimento può essere attribuito a privati solo mediante provvedimenti concessori, sempre che non venga in rilievo l’affitto del suolo, a fini diversi da quello dello sfruttamento della cava».
4.7. Tale lettura non pare entrare in conflitto con il dato letterale dell’art. 826 cod. civ., la cui espressione “fanno parte del patrimonio indisponibile le cave e torbiere quando la disponibilità ne è sottratta al proprietario del fondo” ben potrebbe essere correttamente letta nel senso che, se non appartengono a proprietari privati, le cave rientrano tra i beni patrimoniali indisponibili, proprio in ragione della loro particolare funzione. Del resto, conforme è l’inequivocabile testo del terzo comma dell’art. 826 stesso, che prevede che facciano parte del patrimonio indisponibile dello Stato o degli enti locali cui appartengono, oltre agli edifici destinati a sede di uffici pubblici, con i loro arredi, anche tutti i beni destinati a pubblico servizio.
Il Collegio, dunque, pur non ignorando il diverso orientamento (tra le altre rinvenibile nella sentenza Cons. Stato, sez. VI, 13 giugno 2000, n. 3291), secondo cui tutti i beni “cava” fino al momento in cui non sono avocati all’asse e quindi non entrano, per la realizzazione dell’interesse pubblico insito nella sua stessa struttura, nel patrimonio indisponibile per provvedimento dell’autorità mineraria, possono essere sempre oggetto di contratti di diritto privato tra cui quello di affitto, ritiene maggiormente conforme all’ordinamento quello sin qui rappresentato, per le seguenti ragioni.
L’assoggettare i terreni ricadenti in un ambito di cava a un diverso regime proprietario, a seconda che essi siano ab origine di proprietà pubblica (ritenendoli beni patrimoniali disponibili) o siano stati acquisiti coattivamente da un soggetto privato per il loro sfruttamento (nel qual caso sarebbero patrimoniali indisponibili) e, dunque, in ragione delle diverse modalità di acquisto, anziché in ragione della loro funzione, non trova alcun fondamento nell’ordinamento giuridico. Il ragionare in termini funzionali, invece, ben giustifica e chiarisce il contenuto dell’art. 826 cod. civ., che, come già anticipato, dispone che, in caso di acquisto dei terreni da parte dell’ente pubblico per destinarli alla funzione di cava essi siano qualificati come beni patrimoniali indisponibili proprio in ragione della loro funzionalizzazione. In altre parole, i terreni suscettibili di sfruttamento, così come previsto dal piano cave, possono anche appartenere a privati, che possono essere autorizzati alla coltivazione, ma se appartengono all’ente pubblico, a prescindere da come sono stati acquistati, debbono essere assoggettati al regime dei beni patrimoniali indisponibili in ragione della loro funzione strumentale al perseguimento dell’interesse pubblico, che ne consente anche il loro acquisto coattivo.
4.8. E che le cave di proprietà comunale debbano essere qualificate come beni patrimoniali indisponibili risulta confermato anche dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 228 del 24 ottobre 2016, che, nel dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 32, comma 2, della legge regionale Toscana n. 35/2015, il quale prevedeva l’inclusione nei beni patrimoniali indisponibili del Comune anche delle cave storicamente di proprietà privata, implicitamente dà per scontato che le cave, quando appartengano al Comune, debbano essere qualificate come beni patrimoniali indisponibili.
In ragione di tutto ciò, a prescindere dalla rilevanza dell’acquiescenza prestata dall’odierna ricorrente, che, in occasione del conseguimento dell’ultimo titolo legittimante la disponibilità delle aree, nulla ha opposto rispetto all’uso della concessione amministrativa, che è stata rinnovata sino al 31 dicembre 2017, il ricorso non appare meritevole di positivo apprezzamento in relazione a tale profilo.
5. Ciò anche nella misura in cui tenta di evidenziare come la trattativa privata diretta con i ricorrenti non costituirebbe affatto violazione dei principi comunitari, ma necessità legittimata dalle assolutamente particolari condizioni di fatto.
Tale impostazione non può trovare positivo apprezzamento, dal momento che, nonostante la particolare situazione dei luoghi, non può condividersi la tesi di parte ricorrente, secondo cui essa renderebbe impossibile lo sfruttamento dell’area pubblica, separatamente rispetto a quello delle proprietà private. Esso, infatti, non è precluso, ma richiede il raggiungimento di accordi ovvero il ricorso ad accessi alternativi e piani di sicurezza coordinati.
La questione si pone, quindi, non in termini di impossibilità, ma, semmai di onerosità e tempistiche che possono incidere sulla sostenibilità della scelta e che debbono essere necessariamente considerate all’atto della scelta dello strumento più idoneo a garantire l’affidamento a terzi dello sfruttamento del giacimento, tenuto conto che il ricorso alla trattativa privata è legittimo quando esso sia rispondente all’interesse pubblico (il quale sarebbe evidente laddove le condizioni di gara non fossero ritenute di interesse da parte di alcun operatore) e non anche all’interesse degli operatori privati coinvolti.
Ne deriva il rigetto della prima, articolata doglianza.
6. Quanto alla dedotta (nella seconda censura) abnormità, assurdità e illogicità degli indirizzi assunti dal Comune, va ricordato che accessibilità e sicurezza degli ambiti possono essere comunque garantiti, pur suddividendo il bacino tra più operatori, grazie ad appositi accordi e piani di sicurezza coordinati. In primo luogo, il progetto d’ambito da presentare alla Provincia per l’autorizzazione deve essere comunque unitario, con la conseguenza che è fisiologico che tutti i soggetti le cui proprietà ricadono al suo interno debbano raggiungere degli accordi per il suo sfruttamento, inoltre, la normativa (derivante dal coordinamento dell’art. 674 del DPR 128/1958, del d. lgs. 25 novembre 1996, n. 624 e del successivo d. lgs. 81/2008) attribuisce al Comune, in quanto autorità preposta alla verifica della sicurezza, il potere di imporre piani della sicurezza coordinati tra i medesimi soggetti coinvolti.
Tutto ciò vale sia nel caso che la proprietà comunale sia affidata secondo la prassi consolidata, che nel caso in cui lo sfruttamento della proprietà pubblica sia messo a gara come terreno autonomamente sfruttabile a prescindere dalla disponibilità delle proprietà private limitrofe.
Non appare, dunque, ravvisabile l’illogicità dedotta nei termini suddetti.
6.1. Quanto all’accesso al compendio di proprietà comunale, esso sarebbe comunque garantito, sia dal già avviato procedimento per ottenere l’autorizzazione alla realizzazione di un guado sul torrente Rino (della cui lunga tempistica il Comune ha dichiarato che si terrà conto nella redazione del bando), che dalla possibilità di ottenere, in forza di quanto previsto dal codice civile in relazione ai fondi interclusi, la costituzione di una servitù d’accesso in via coattiva, ancorchè nel rispetto delle esigenze della sicurezza dell’attività svolta sul fondo servente.
Ancora una volta, quindi, il problema si pone in termini di onerosità.
7. In ordine alla VIA (della cui mancata rinnovazione si duole la ricorrente), il Collegio ritiene di poter concordare con il Comune sul fatto che, nella fattispecie, non era necessaria una nuova valutazione, atteso che le geometrie e volumetrie disponibili sono quelle stesse riportate nel progetto d’ambito per il secondo decennio già approvato con giudizio favorevole di compatibilità ambientale.
Pertanto, non essendo stato dimostrato che il progetto subisca, per effetto della diversa ripartizione della disponibilità tra gli operatori dell’ambito, modifiche incidenti sugli specifici profili ambientali, anche tale doglianza non può condurre alla caducazione degli atti impugnati.
8. Così respinta la seconda censura, merita, invece, positivo apprezzamento la terza.
Il provvedimento impugnato appare, infatti, carente sotto il profilo motivazionale della scelta dell’affidamento dell’intera proprietà comunale in un unico lotto. Tale scelta, che va a scardinare un modello organizzativo dell’ambito già sperimentato per un lungo periodo e, quindi, ingenerante l’aspettativa della sua riproposizione anche per il secondo decennio di coltivazione dello stesso ambito estrattivo, risulta sostanzialmente orientata, anche sulla scorta di quanto evidenziato nella difesa comunale, al perseguimento di due obiettivi: la riduzione del numero degli operatori presenti nell’ambito e la volontà di evitare modalità di coltivazione dell’ambito che ingenerino la maggiore pericolosità dovuta alla presenza di coltivazioni a schiera. Nella fattispecie, però, ciò che si realizza è esattamente il contrario. In primo luogo, risulta oggettivamente sconfessata l’affermazione secondo cui “l’assegnazione dell’area comunale indivisa, ad un unico operatore, va proprio nella direzione opposta, ovvero quella di evitare parcellizzazioni ulteriori all’interno di un ambito estrattivo con più operatori”, dal momento che, nella migliore delle ipotesi, gli operatori rimarrebbero gli stessi, se i ricorrenti riuscissero ad aggiudicarsi la concessione, mentre in caso contrario vi sarebbe comunque un operatore in più, con evidenti, maggiori problemi di coordinamento dell’attività di quest’ultimo con quella degli operatori presenti, per la necessità di garantire accesso e sicurezza. A meno che la scelta non celi l’obiettivo non dichiarato di rendere impossibile (come nel caso della Eredi Martinelli, che vedrebbe la minima superficie cavabile, a monte della proprietà pubblica, separata dalla zona a valle in cui sono posti gli impianti per il trattamento e con accesso totalmente precluso) o diseconomica la coltivazione da parte dei privati, con un evidente effetto espulsivo degli stessi dal mercato, in modo che rimanga solo il concessionario pubblico. Allo stato, però, si tratta di una mera ipotesi che non trova conferma nel contenuto espresso degli atti e, quindi, anche se è oggettivo che la riduzione del numero degli operatori nel bacino di coltivazione non potrebbe avvenire solo in tal modo, il perseguimento dell’obiettivo in parola non risulta di per sé garantito dall’atto impugnato.
Inoltre, nella deliberazione del 31 luglio 2017, n. 31 si legge, che le ragioni della scelta di affidare la concessione in un unico lotto sarebbero da ricercarsi nella maggiore garanzia di sicurezza che ciò comporterebbe. A pag. 12, in particolare, il Comune dà conto che, quanto all’ATE 3 si è prescritto il divieto di coltivazione a doppia schiera. Quanto all’ATE02, invece, premesso che “l’organizzazione dell’attività di coltivazione all’interno del bacino di proprietà comunale nell’ATE02 a ditte diverse da quelle proprietarie delle aree sottoposte a valle dell’area di proprietà comunale e poste a monte, produrrebbe come conseguenza immediata un sistema di coltivazione a doppia schiera….L’assetto esporrebbe a un incremento del rischio per la ditta proprietaria del bacino a valle all’attività svolta sull’area di proprietà comunale, posta a monte, svolta da un altro operatore, con un esponenziale pericolo da interferenza accresciuto dall’assenza di diaframmi naturali o artificiali di separazione e, da ultimo, dall’estrema vicinanza delle due aree di coltivazione.”.…Data tale premessa, però, senza alcuna motivazione, la deliberazione prosegue: “Considerato che nel caso di specie, un simile assetto delle zone di coltivazione può trovare una soluzione attraverso piani di sicurezza e coordinamento nell’organizzazione aziendale e produttiva dei due ipotetici diversi operatori economici attraverso piani di sicurezza coordinati”.
In tal modo viene, di fatto, ammessa la coltivazione “a schiera”, ritenendo, senza alcuna specifica motivazione, ma, anzi, pur in presenza della particolare situazione di esposizione al pericolo rappresentata, che la sicurezza che si dichiara di voler perseguire possa essere garantita dal coordinamento dei piani della sicurezza. Pertanto, nell’ATE02, a differenza che nell’ATE03, “la coltivazione dovrà avvenire nel rispetto della regola di disfavore per la doppia schiera tra ditte diverse”, che, però, non è di fatto esclusa, tenuto conto che al concessionario sarà imposto di garantire la possibilità di coltivazione anche agli operatori privati limitrofi e che sarà possibile prevedere il subappalto, che potrà essere autorizzato sempre tenendo conto del suddetto principio.
Nella sostanza, dunque, si impone un’organizzazione della coltivazione che, in nome della perseguita maggiore sicurezza, in realtà ingenera una situazione di maggiore pericolosità, derivante dalla scelta di un criterio di suddivisione dei lotti di competenza dei singoli operatori in senso longitudinale, oltre che verticale, per cui gli stessi non sarebbero solo confinanti ai lati, ma anche sopra e sotto, con necessario ricorso a una coltivazione a schiera molto più complessa dal punto di vista del coordinamento della compresenza di più operatori.
Situazione di pericolosità che si dovrà necessariamente affrontare mediante la redazione di piani della sicurezza coordinati e cioè quelli stessi strumenti che potrebbero ugualmente garantirla nella riproposizione di un’organizzazione dell’ambito analoga a quella già in essere.
L’evidente contraddittorietà delle scelte comunali, che si può inferire da tutto ciò, non è assolutamente smentita alla luce della, sostanzialmente generica e sommaria, relazione del geologo Reguzzi.
Né può rilevare quando eccepito nella memoria di replica del Comune, nella quale si sostiene che le volumetrie residue disponibili per l’escavazione sui terreni di proprietà privata sarebbero ridotte a poche migliaia di metri cubi. Tale circostanza non emerge, infatti, dal provvedimento impugnato e rappresenta, dunque, un’inammissibile integrazione della motivazione, fermo restando che non è escluso che, ove meglio circostanziata e documentata, essa sia potenzialmente idonea a rendere ragionevole ipotizzare una coltivazione coordinata, fissando tempi e modi per consentire lo sfruttamento delle residue disponibilità sui terreni di proprietà privata e giustificare la scelta di individuare un unico operatore sulla proprietà pubblica che, esaurito il materiale escavabile dalla proprietà privata, sarebbe destinato a restare il solo attivo nell’ambito.
Ne deriva, però, allo stato attuale e in ragione di quanto esplicitato nel provvedimento che l’ha disposta (non potendosi considerare l’integrazione della motivazione postuma), la sostanziale illogicità della scelta dell’affidamento della proprietà comunale in un unico lotto, che non appare adeguatamente supportata dalle suddette motivazioni, vista la radicalità del mutamento imposto dall’amministrazione comunale.
Pertanto, il provvedimento impugnato deve essere annullato nella parte relativa all’esplicitazione della scelta dell’affidamento dell’intera proprietà comunale ricadente nell’ambito estrattivo ATE02 in un unico lotto.
9. Quanto alla dedotta violazione dei principi posti a tutela delle piccole e medie imprese, si deve rilevare come, nella fattispecie, a differenza di quanto ravvisato nella definizione dell’incidente cautelare avente a oggetto i provvedimenti connessi all’autorizzazione dell’ambito A03, parte ricorrente non ha né asserito, né tantomeno dimostrato che la creazione di un unico ambito comprendente tutta la proprietà pubblica dell’ATE02 possa in concreto precludere la partecipazione in forma associata dei tre operatori già presenti per la coltivazione dell’intero ambito in forma associata.
Peraltro, la legge 180/2011 chiarisce, in ordine alle politiche pubbliche destinate a favorire le micro, piccole e medie imprese, come lo Stato sia tenuto a creare le condizioni piu’ favorevoli per la ricerca e l’innovazione, l’internazionalizzazione e la capitalizzazione, la promozione del «Made in Italy». Sancisce accorgimenti per la riduzione e la trasparenza degli adempimenti amministrativi e promuove, in generale, la semplificazione amministrativa e soprattutto, introduce la novità della possibilità di suddivisione in lotti degli appalti per favorire l’accesso alle piccole e medie imprese. Lo stesso articolo 13, però, non solo contiene il riferimento alla necessità di dimensionare gli appalti alle effettive necessità della stazione appaltante e degli utenti, destinatari del servizio, ma chiarisce anche come uno degli obiettivi principali sia quello di semplificare l’accesso agli appalti delle aggregazioni fra micro, piccole e medie imprese, privilegiando le loro associazioni temporanee.
Quindi, tenuto conto che la politica pianificatoria delle cave ha, generalmente, fra i suoi capisaldi la creazione di filiere per l’esercizio dell’attività di coltivazione, lavorazione e commercializzazione del porfido e delle pietre, favorendo il ricorso a forme di aggregazione tra imprenditori in risposta alla crisi del settore e alla concorrenza estera, la previsione contenuta nei provvedimenti impugnati non appare, allo stato, in contrasto con la normativa invocata, proprio perché ipotizza un meccanismo premiante di un’eventuale scelta di aggregazione.
Ciò, in particolare, considerato che non è stata fornita alcuna prova, del potenziale effetto espulsivo dal mercato degli operatori gestori uscenti delle cave come correlata alla previsione di requisiti di capacità tecnica e finanziaria proporzionali rispetto alle dimensioni dell’ambito. Solo laddove particolarmente difficili da reperire, anche considerando l’ipotesi della temporanea associazione di tutti i soggetti operanti nell’ambito, la previsione potrebbe ritenersi lesiva dei principi della legge invocata.
10. I ricorsi possono essere, quindi, accolti nei soli limiti del difetto di motivazione evidenziato al punto 8.
Le spese del giudizio possono trovare compensazione tra le parti in causa, attesa la complessità delle questioni dedotte e la loro natura interpretativa.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sui ricorsi riuniti, come in epigrafe proposti:
– dichiara improcedibili i ricorsi sub RG 491/2014, 492/2014 e 493/2014;
– accoglie, nei limiti di cui in motivazione, i ricorsi sub R.G. 1158/2017, 1160/2017 e 1161/2017 e per l’effetto annulla gli atti con essi impugnati, fatti salvi gli ulteriori provvedimenti che l’Amministrazione intenderà adottare;
– dispone la compensazione delle spese del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Brescia nella camera di consiglio del giorno 7 novembre 2018 con l’intervento dei magistrati:
Alessandra Farina, Presidente
Mara Bertagnolli, Consigliere, Estensore
Alessio Falferi, Consigliere
L’ESTENSORE
Mara Bertagnolli
IL PRESIDENTE
Alessandra Farina
IL SEGRETARIO