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Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime | Categoria: Danno ambientale Numero: 1959 | Data di udienza: 29 Maggio 2013

* DANNO AMBIENTALE – Nozione – Ordine di bonifica – Misura ripristinatoria  – Differenza.


Provvedimento: Sentenza
Sezione: 1^
Regione: Lombardia
Città: Milano
Data di pubblicazione: 25 Luglio 2013
Numero: 1959
Data di udienza: 29 Maggio 2013
Presidente: Mariuzzo
Estensore: Simeoli


Premassima

* DANNO AMBIENTALE – Nozione – Ordine di bonifica – Misura ripristinatoria  – Differenza.



Massima

 

TAR LOMBARDIA, Milano, Sez. 1^ – 25 luglio 2013, n. 1959


DANNO AMBIENTALE – Nozione – Ordine di bonifica – Misura ripristinatoria  – Differenza.

Il concetto di danno ambientale (sviluppatosi a partire dall’art. 18 della L. 8 luglio 1986, n. 349)  denota un tipo di compromissione, consistente nell’alterazione, deterioramento, distruzione, in tutto o in parte, dell’ambiente; il danno ambientale supera e trascende il danno ai singoli beni che ne fanno parte e con esso l’ordinamento ha voluto tener conto non solo del profilo risarcitorio, ma anche di quello sanzionatorio, che pone in primo piano non solo e non tanto le conseguenze patrimoniali del danno arrecato, ma anche e soprattutto la stessa produzione dell’evento, e cioè l’alterazione, il deterioramento, la distruzione, in tutto o in parte dell’ambiente, e cioè la lesione in sé del bene ambientale. Tale connotato “repressivo” (nella specie, della condotta di chi ha concorso nell’utilizzo di un serbatoio non autorizzato, dal quale fuoriuscivano, come accertato dalla USL, i rifiutati tossici e nocivi che vi erano stati sversati) conferisce al torto ecologico la peculiarità di identificarsi nel puro fatto lesivo del bene ambientale; esso rende evidente l’eterogeneità funzionale del rimedio rispetto all’ordine di bonifica costituente, per contro, una misura prettamente ripristinatoria.


Pres. Mariuzzo, Est. Simeoli – H. s.p.a. in liquidazione (avv. Perli) c. Comune di Senago (avv. Mariotti)


Allegato


Titolo Completo

TAR LOMBARDIA, Milano, Sez. 1^ - 25 luglio 2013, n. 1959

SENTENZA

 

TAR LOMBARDIA, Milano, Sez. 1^ – 25 luglio 2013, n. 1959

N. 01959/2013 REG.PROV.COLL.
N. 04532/2000 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente


SENTENZA

 

sul ricorso numero di registro generale 4532 del 2000, proposto da:
HOECHST ITALIA S.p.A. IN LIQUIDAZIONE, rappresentata e difesa dall’avv. Francesco Perli, presso il cui studio è elettivamente domiciliata in Milano, Galleria S. Babila, n. 4/A

contro

COMUNE DI SENAGO, rappresentato e difeso dall’avv. Giovanni Mariotti, presso il cui studio è elettivamente domiciliato in Milano, largo Schuster, n. 1

per l’annullamento:

– dell’ordinanza n. 18 del 23.6.00, con la quale il Sindaco del Comune di Senago individuava le società ricorrenti tra i “responsabili della contaminazione”;

– (con primo atto per motivi aggiunti) del verbale della Conferenza di servizi del 15.12.00;

– (con secondo atto per motivi aggiunti) della diffida del Responsabile del settore Edilizia e Urbanistica del Comune di Senago del 3.3.03 e del verbale della Conferenza di servizi del 15.12.00;

– (con terzo atto per motivi aggiunti) della nota del Comune di Senago del 7.2.05;

– nonché di ogni altro atto ad essa eventualmente connesso, presupposto o conseguente.

Visti il ricorso, i ricorsi per motivi aggiunti e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Senago;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 29 maggio 2013 il dott. Dario Simeoli e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

I. La società ricorrente, al principio degli anni ‘80, per lo smaltimento dei reflui industriali prodotti dal proprio stabilimento, si era avvalsa della Centro Ecologico Padano S.p.A. Tuttavia, nel febbraio del 1983, le autorità competenti avevano scoperto in Senago (alla via Mascagnì, n. 38) un serbatoio fisso, di proprietà della società COEDE, utilizzato dalla soc. Centro Ecologico Padano S.p.A. per lo stoccaggio di rifiuti speciali industriali (tra cui quelli della ricorrente). Trattandosi di serbatoio privo delle prescritte autorizzazioni di legge, non a tenuta stagna e dove erano stati stoccati rifiuti speciali industriali altamente tossici e nocivi, il Comune di Senago aveva d’ufficio eseguito i lavori di sgombero e bonifica, affidando gli stessi alla ECOLIFE S.a.s., sopportando un costo di £ 124.823.586 (ciò in quanto, la soc. Centro Ecologico Padano S.p.A., nel frattempo fallita, aveva addotto l’impossibilità finanziaria di ottemperare all’ordinanza di ripristino nel frattempo impartita).

I.1. A questo punto, con atto di citazione del 3.12.84, il Comune di Senago aveva convenuto innanzi al Tribunale di Milano la Coede S.a.s., la C.E.P. S.p.A. e le imprese che a quest’ultima avevano demandato lo smaltimento dei propri rifiuti (nel dettaglio: la Zambeletti, oggi Glaxo-Smithkline S.p.A.; la Auschem S.p.A., prima denominata Rol S.p.A.; la Hoechst Italia S.p.A.; la 3M Italia S.p.A.). Il Tribunale di Milano (con sentenza n. 11160/88), dichiarata l’improponibilità della domanda proposta contro la C.E.P. S.p.A. (perché fallita prima della notifica della citazione), aveva dichiarato la responsabilità (ex art. 2055 c.c.) delle altre imprese convenute (compresa l’odierna ricorrente) per l’illecita attività di smaltimento, condannando le stesse al pagamento della somma (già rivalutata) di £ 155.000.000, a titolo di refusione del danno economico derivante dallo smaltimento dei reflui tossici; per contro, aveva rigettato la pretesa avente ad oggetto il risarcimento del danno ambientale, per carenza di prova. La Corte di Appello di Milano, con sentenza n. 2004/92, aveva confermato la pronuncia del giudice di prime cure. Sennonché, la Suprema Corte, con sentenza n. 9211/95 aveva riformato la sentenza della Corte territoriale con esclusivo riguardo al rigetto della domanda risarcitoria del danno ambientale, stante l’erroneità di aver ritenuto non ottemperato il relativo onere della prova (in particolare, motivando nel senso che, essendo la compromissione “in sé” del bene ambientale valutabile solo attraverso accertamenti, eseguiti da qualificati organismi pubblici, in presenza di questi ultimi non avrebbe potuto fondatamente rigettarsi la richiesta del danneggiato di consulenza tecnica di ufficio). In ottemperanza a quanto stabilito dalla Corte Suprema, riassunta la causa, la Corte di Appello di Milano (con sentenza n. 3406/2003, passata in cosa giudicata), accertato tramite CTU l’inquinamento dell’area vicina al serbatoio a causa della presenza di diclorometano superiore al limiti di legge (nel dettaglio, eccedente di 3 volte il limite di accettabilità per terreni ad uso commerciale e industriale stabilito dal D.M. n. 471/99), aveva condannato in solido le convenute al risarcimento del danno ambientale quantificato in ulteriori € 36.000,00. Sulla scorta degli accertamenti compiuti dal CTU nel corso del citato giudizio di rinvio, traggono scaturigine le successive iniziative assunte dal Comune di Senago, che hanno determinato il presente contenzioso davanti al giudice amministrativo.

I.2. Venendo ora dettagliatamente all’oggetto dei ricorsi va premesso che, con il ricorso principale, è stata impugnata l’ordinanza n. 18 del 23.6.2000, con la quale l’amministrazione comunale resistente aveva individuato la società ricorrente tra i responsabili della contaminazione dell’area sita in Senago (catastalmente identificata al foglio 10, mappali 50, 52 e 29), per il superamento della soglia del diclorometano riscontrato in forza della perizia giudiziale svolta dal C.T.U. nell’ambito del giudizio davanti alla Corte d’Appello di Milano (conclusosi con la sentenza n. 3406/2003 passata in giudicato), nonché ha ordinato alla stessa società, in solido alle altre società indicate nel provvedimento e alla società Coede, proprietaria dell’area, di provvedere a presentare progetto di bonifica; che con i primi motivi aggiunti notificati in data 28.2.2001, è stata impugnata la conferenza di servizi del 15.12.2000 nella parte in cui prescrive alla ricorrente, in uno con le altre società intimate di procedere alla presentazione di un progetto di bonifica, statuendo che le responsabilità e gli oneri sarebbero stati solidalmente a carico di tutte le parti; che con i secondi motivi aggiunti, notificati in data 11.6.2003, è stato impugnato anche il provvedimento 3.3.2003 del Responsabile del Settore Edilizia Privata del Comune di Senago, con il quale si era diffidata la società ad eseguire le indagini richieste; che con i terzi motivi aggiunti, notificati in data 15.4.2005, è stata impugnata anche la nota del Comune di Senago del 7.2.2005, nonché la Conferenza di servizi del 29.3.2001. Avverso tali provvedimenti sono state sollevate plurime censure di violazione di legge e sviamento di potere.

I.3. Si è costituita in giudizio l’amministrazione intimata, chiedendo il rigetto del ricorso. Sul contraddittorio così istauratosi, la causa è stata discussa e decisa con sentenza definitiva all’odierna udienza.

II. Il ricorso non può essere accolto in quanto infondato. Possono, pertanto, sin d’ora ritenersi assorbite le eccezioni pregiudiziali sollevate da controparte (la prima, secondo cui, avviato il procedimento di bonifica, non sarebbe stato consentito al soggetto di sottrarsi all’attuazione degli interventi stabiliti nel piano di caratterizzazione; la seconda che argomenta l’inammissibilità del ricorso e dei motivi aggiunti per mancata notifica al Ministero dell’Interno; la terza con cui si eccepisce l’irricevibilità della memoria avversaria).

III. Con un primo ordine di motivi, la società lamenta: – che l’ordinanza sarebbe stata assunta sulla base dell’errato presupposto che le società ricorrenti sarebbero responsabili dell’inquinamento e del superamento della concentrazione del limite di diclorometano, mentre la maggiore concentrazione della sostanza sarebbe stata invece frutto di successive utilizzazioni del serbatoio; – che l’area in questione sarebbe stata oggetto di ben due bonifiche effettuate d’ufficio dal Comune (una nel 1984 e l’altra nel 1989), i cui oneri sarebbero stati interamente corrisposti all’amministrazione, ivi compreso l’onere per il ripristino ambientale del predetto superamento del diclorometano, calcolato in 70 milioni di vecchie lire dal C.T.U. e liquidato in € 36.000,00 nella sentenza della Corte d’Appello di Milano n. 3406/03; – che la pretesa del Comune di una nuova bonifica richiesta con l’impugnata ordinanza sarebbe del tutto illegittima ed illogica, in quanto preordinata a far gravare ingiustamente sulla società ricorrente gli oneri per la bonifica dell’intera area di proprietà della locale società COEDE ai fini della sua utilizzazione ad un uso diverso dall’industriale; – che, all’epoca dei fatti (1982) e delle bonifiche (1984 e 1989) la concentrazione del diclorometano riscontrato nella perizia del maggio 2000 (peraltro in “hot spot” di superficie, “limitata e localizzata” e di “basso tenore di concentrazione” come definita dal C.T.U.) sarebbe rientrata nel limite tabellare per le aree industriali come stabilito al tempo dalla delibera D.G.R. Lombardia 2.8.1996, n. 6/17252, cosicché la pretesa ad anni di distanza di applicare i più restrittivi criteri del d.lgs. n. 471/99 sarebbe illegittima (tanto più che il quadro normativo, nel trentennio intercorso, si sarebbe ulteriormente modificato con l’emanazione del d.lgs. n. 132/06, statuendo nuovi criteri, CSC e CSR, analisi rischio sito specifica); – che il diclorometano, di cui si sarebbe accertato il superamento ai limiti tabellari introdotti con il D .M. 471/99 (nel 2000 a 18 anni di distanza dall’inquinamento attribuito alla Società ricorrente) sarebbe una sostanza volatile alifatica che si disperde nell’aria e non potrebbe essere trattenuta in loco per 18 anni, cosicché il diclorometano accertato nelle analisi del maggio 2000, all’evidenza, non sarebbe riconducibile ai reflui conferiti dal Centro Ecologico Padano nel 1982; – che i provvedimenti impugnati sarebbero affetti da difetto assoluto di motivazione perché non verrebbe fornito alcun elemento sulle ragioni di individuazione della società ricorrente tra destinatari dell’ordinanza.

Tali rilievi non possono essere accolti.

III.1. In termini generali, la responsabilità dell’utilizzatore di un sito contaminato, una volta accertato il nesso di causalità tra la sua attività produttiva e l’avvenuta contaminazione dei luoghi, è disciplinata, per le fattispecie antecedenti l’entrata in vigore del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, dall’art. 17 del D.lgs. 22 aprile 1997, n. 22, il cui comma 2 dispone che: “Chiunque cagiona, anche in maniera accidentale, il superamento dei limiti di cui al comma 1, lettera a), ovvero determini un pericolo concreto ed attuale di superamento dei limiti medesimi, è tenuto a procedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali deriva il pericolo di inquinamento” (per il periodo precedente alla entrata in vigore di tale decreto legislativo, è comunque l’art. 2050 c.c a imporre al responsabile di attivarsi al fine di porre in essere atti e comportamenti unitariamente finalizzati al recupero ambientale del sito). Secondo la giurisprudenza, gli obblighi di bonifica, messa in sicurezza e ripristino ambientale conseguenti alla contaminazione delle aree costituiscono una forma di responsabilità oggettiva dell’autore dell’inquinamento, in quanto l’obbligo di effettuare gli interventi di legge sorge a prescindere dall’esistenza di qualsiasi elemento soggettivo doloso o colposo in capo all’autore dell’inquinamento, sempre che sussista il rapporto di causalità tra l’azione (o l’omissione) dell’autore dell’inquinamento ed il superamento (o pericolo concreto e attuale di superamento) dei limiti di contaminazione, in coerenza col principio comunitario “chi inquina paga”.

III.2. Orbene, la responsabilità della società ricorrente (in solido con altre imprese produttrici) per la contaminazione del suolo di Senago (comprovata dalla presenza di diclorometano eccedente il limite di accettabilità di oltre il 300%, oltre che dal contenuto elevato di metalli, soprattutto zinco, rinvenute nella zona antistante il serbatoio, in concentrazione rientrante nei limiti di legge, ma così elevata da costituire sicuro sintomo di grave danno ambientale) è stata accertata con sentenza civile passata in cosa giudicata. La Suprema Corte di Cassazione (n. 9211/1995) ha, sul punto, precisato che “il soggetto produttore di rifiuti tossici (nella specie, rifiuti industriali speciali) è, comunque, sottoposto alla responsabilità prevista dagli artt. 2043 e 2050 c.c. e non può esimersi da essa, sostenendo di aver affidato completamente a terzi lo stoccaggio e lo smaltimento dei rifiuti stessi, in quanto tutti i soggetti coinvolti nel ciclo di produzione e smaltimento dei rifiuti tossici – e, in particolare, il produttore – sono ugualmente responsabili e solidalmente tenuti ad adottare le idonee misure di sicurezza, anche nella fase di smaltimento, affinché lo sversamento definitivo e lo stoccaggio dei rifiuti avvenga senza danno a terzi”. Ancora, la menzionata pronuncia ha affermato che “è vero che all’epoca dello sversamento … non era ancora entrata in vigore la normativa che impone al produttore di rifiuti il controllo sulla discarica, introdotto con il D.P.R. 10 settembre 1982, n. 915, è altresì vero che, anche prima della normativa di settore, il produttore di rifiuti tossici o nocivi era obbligato, in base ai principi generali, e cioè in base al richiamato art. 2050 c.c., a non cagionare danno nell’esercizio di un’attività indubbiamente pericolosa quale quella che dà luogo alla produzione di rifiuti tossici e nocivi a livello industriale, anzi, di adottare tutte le misure idonee ad evitare ogni possibile danno, anche quello ambientale”.

III.3. Il giudicato civile, è bene osservare, ha radicalmente respinto l’argomento difensivo volto a dimostrare l’interruzione del nesso causale in ragione di una asserita successiva manomissione del serbatoio piombato e dell’inserimento di rifiuti dopo la sigillatura (cfr. la sentenza n. 3406/2003 della Corte di Appello di Milano, passata in giudicato, nella parte in cui ha escluso sia la manomissione del serbatoio, in quanto sempre rimasto piombato, sia l’utilizzo del serbatoio e dell’area da parte di soggetti ulteriori per lo stoccaggio di rifiuti industriali).

III.4. Quanto, poi, all’eccezione, sollevata anche nel presente giudizio, secondo cui la presenza del diclorometano eccedente i limiti stabiliti per un’area ad uso industriale previsti alla Tab. l, colonna b), all. a) del D.M. n. 471/99, non potrebbe imputarsi alla ricorrente dal momento che la normativa appena richiamata è successiva ai fenomeni di contaminazione rilevati, deve replicarsi che non si tratta certo di applicazione retroattiva, bensì concomitante alla rilevazione di una situazione di inquinamento destinata a perdurare fintantoché non venga riportata nei limiti tollerati; alterazione che rendeva attuale l’obbligo di adozione delle misure di risanamento nel momento stesso del suo accertamento.

III.5. Non è, altresì, accoglibile la tesi che assume l’illegittimità dell’ordine di bonifica in commento, paventandosi che quest’ultimo possa risultare, per così dire, “duplicativo” della già disposta condanna al risarcimento del danno ambientale. Difatti, vengono in rilievo dispositivi riconducibili a funzioni del tutto distinte, operanti in via complementare. Sul punto, sono necessarie le seguenti precisazioni.

Secondo condivise acquisizioni giurisprudenziali, il concetto di danno ambientale (sviluppatosi a partire dall’art. 18 della L. 8 luglio 1986, n. 349, applicato ratione temporis nel citato processo civile) denota un tipo di compromissione, consistente nell’alterazione, deterioramento, distruzione, in tutto o in parte, dell’ambiente; il danno ambientale supera e trascende il danno ai singoli beni che ne fanno parte e con esso l’ordinamento ha voluto tener conto non solo del profilo risarcitorio, ma anche di quello sanzionatorio, che pone in primo piano non solo e non tanto le conseguenze patrimoniali del danno arrecato, ma anche e soprattutto la stessa produzione dell’evento, e cioè l’alterazione, il deterioramento, la distruzione, in tutto o in parte dell’ambiente, e cioè la lesione in sé del bene ambientale. Gli spunti di maggiore interesse della disciplina, non a caso, sono quelli in cui si prevede, ove non sia possibile una precisa quantificazione del danno, una determinazione in via equitativa, rapportata non al solito criterio “differenziale”, ma parametrato a criteri del tutto inusitati per il vecchio modello del danno risarcibile nella responsabilità civile; il bene ambiente è, infatti, fuori commercio, e come tale, insuscettibile di una valutazione venale secondo i prezzi di mercato, dovendo essere considerato nel suo valore d’uso. Il giudice deve dunque tener conto: a) della gravità della colpa individuale, b) del costo necessario per il ripristino dell’ambiente; c) del profitto conseguito dal trasgressore, in conseguenza del suo comportamento lesivo dei beni ambientali.

Tale connotato “repressivo” (nella specie, della condotta di chi ha concorso nell’utilizzo di un serbatoio non autorizzato, dal quale fuoriuscivano, come accertato dalla USL, i rifiutati tossici e nocivi che vi erano stati sversati) conferisce al torto ecologico la peculiarità di identificarsi nel puro fatto lesivo del bene ambientale; esso rende evidente l’eterogeneità funzionale del rimedio rispetto all’ordine di bonifica costituente, per contro, una misura prettamente ripristinatoria.

Nel caso di specie, pur avendo il Giudice di appello “ancorato” la liquidazione del danno ambientale alla spesa occorrente per la bonifica del luogo (non avendo questi ritenuto possibile stabilire un nesso tra l’entità del danno e le singole attività produttive, né possibile ricostruire il profitto delle singole ditte, contrariamente alla rilevazioni del CTU), è evidente che tale valore economico è stato utilizzato solo in via parametrica, ovvero al fine di “dimensionare” (attraverso il richiamo ad un dato oggettivo) il danno all’ambiente inteso pur sempre nella sua descritta accezione sanzionatoria, e non certo per trasfigurare la domanda di risarcimento del danno all’ambiente nella mera compensazione del pregiudizio patrimoniale (tale circostanza, del resto si sarebbe posta in contrasto con la pronuncia della Cassazione). In definitiva, sembra indubitabile che il giudicato civile, al di là della formula liquidatoria utilizzata, abbia inteso risarcire non il pregiudizio prettamente patrimoniale arrecato ai beni pubblici, ma quello non patrimoniale (avente anche funzione sanzionatoria) rappresentato dal vulnus all’ambiente in sé e per sé considerato, costituente bene di natura pubblicistica, unitario ed immateriale.

III.6. Alcuna sovrapposizione, altresì, sussiste tra l’ordine di ripristino ambientale qui impugnato e i precedenti interventi di bonifica, con i quali il Comune ha provveduto d’ufficio esclusivamente allo svuotamento ed alla bonifica del serbatoio e dell’area di sedime (quella che, come si è visto, ha dato luogo alla richiesta di rimborso delle spese sostenute per il ripristino ambientale mediante l’azione giudiziaria avanti al giudice civile). Nel presente giudizio, per contro, viene in rilievo la bonifica dell’intera area circostante via Mascagni, risultata alterata dalle perdite e dagli sversamenti del serbatoio: dunque, un pregiudizio ambientale ulteriore, sia pure scaturente dalla medesima azione illecita di stoccaggio dei rifiuti nel serbatoio.

IV. Con ulteriore censura, la ricorrente contesta la legittimità dell’ordinanza sindacale n. 18/2000 nella parte in cui cita sia l’art. 14 che l’art. 17 del D.lgs. n. 22/97, in quanto a suo dire non sarebbe consentito l’indifferenziato richiamo a fattispecie e ad obblighi diversi.

In senso contrario, deve osservarsi che il provvedimento non è affatto ambiguo quanto al fondamento del potere: al di là dei richiami del preambolo, con tutta evidenza essa ordina, ai sensi degli art. 17 del D.lgs. n. 22/97 e dell’art. 8, commi 1, 2 e 3 del D.M. n. 471/99, la presentazione di un progetto di bonifica del terreno, nonché la verifica puntuale delle condizioni del terreno e dell’eventuale stato di contaminazione della falda acquifera.

V. Anche il vizio d’incompetenza dell’ordinanza n. 18/2000, in quanto adottata dal sindaco anziché dal dirigente, è destituito di ogni fondamento.

L’ordine di bonifica è senza dubbio sussumibile nel perimetro del potere sindacale di ordinanza contingibile ed urgente quando, come nella specie, si tratti di azione specificatamente indirizzata (quantomeno) alla elisione dei pericoli per la salute pubblica.

VI. I primi motivi aggiunti hanno a oggetto l’impugnazione del verbale della conferenza di servizi del 15.12.00, nella parte in cui prescrive alla ricorrente, in uno con le altre società intimate, di procedere alla presentazione di un progetto di bonifica, statuendo che le responsabilità e gli oneri saranno solidalmente a carico di tutte le parti.

Orbene, ai fini del rigetto, deve replicarsi che: – del tutto legittimamente la ricorrente è stata invitata non alla prima fase della conferenza dei servizi, riservata agli enti istituzionalmente competenti a assumere le decisioni sulla bonifica (Regione, Provincia, Comune, ARPA), bensì alla seconda, finalizzata ad istituire un contraddittorio con i soggetti individuati come responsabili relativamente alle scelte di progetto; – l’obbligo di predisporre un unico progetto di bonifica era già prescritto nell’ordinanza n. 18/2000, tra l’altro non impugnata sotto questo aspetto (in ogni caso non si comprende il tipo di interesse pregiudicato); – quanto, poi, all’ammonimento che, in mancanza di accordo per la presentazione di un unico progetto di bonifica, si avrebbe avuto riguardo al progetto presentato dalla proprietaria, si tratta di una disposizione prettamente esecutiva del vincolo solidale alla presentazione del progetto, anch’esso già disposto nell’ordinanza n. 18/2000.

VII. Con i secondi motivi aggiunti è stato impugnato anche il provvedimento 3.3.2003 del responsabile del settore edilizia privata del Comune di Senago, con il quale si era diffidata la società ad eseguire le indagini richieste con il verbale della conferenza di servizi del 29 marzo 2001. La ricorrente, in sostanza, contesta la necessità di prelievi in una area diversa da quella dove era collocato il serbatoio e la legittimità stessa dell’indagine prescritta alle ricorrenti.

In disparte il carattere prettamente endoprocedimentale della diffida, anche tale ricorso deve essere respinto, tenuto conto che: – all’esito della seconda Conferenza di servizi (convocata con comunicazione del 6.3.01), esaminati tutti i progetti presentati, è stato disposto che “alla luce dei progetti presentati per la redazione del progetto definitivo si ritiene necessario estendere le indagini a tutta l’area dell’ex serbatoio con l’esecuzione di 4 o 5 trincee esplorative della profondità di m. 2, 5.3 con prelievo in parte a m. 0,5-1,5 e fondo scavo”; – tale richiesta di indagini concerne pur sempre il terreno identificato catastalmente al fg. 10, mappali 50, 52 e 29, corrispondente all’area di Via Mascagni n. 38, di cui all’ordinanza sindacale n. 18/2000; – essa trova ragionevolmente fondamento nella necessità di estendere le indagini a tutta l’area, dove era collocato il serbatoio, considerato che quest’ultimo era risultato forato e quindi erano temibili sversamenti delle sostanze inquinanti nel terreno; – le indagini suppletive, strettamente implicate dalla necessità di realizzare la bonifica integrale del terreno, non potevano considerarsi un adempimento irrealizzabile da parte della ricorrente (per l’impossibilità di accedere ad una area di cui non si era proprietari), in quanto, essendo anche la proprietaria del terreno destinataria in solido della ingiunzione, le società produttrici dei reflui avrebbero senz’altro potuto giovarsi della collaborazione di quest’ultima per lo svolgimento delle indagini (tra l’altro, la ricorrente non ha documentato alcun comportamento ostruzionistico serbato dalla proprietà); – quanto al fatto che la diffida del 27.3.03 accordasse alle destinatarie un nuovo termine per l’effettuazione dei campionamenti, non può certo parlarsi di una “auto” rimessione in termini del Comune (che avrebbe, a questa stregua, dovuto invece procedere d’ufficio) in quanto il potere discendente dall’art. 17 del D.lgs. n. 22/97 non era sottoposto a termine decadenziale (cosicché l’ordinanza avrebbe esaurito i propri effetti solo a seguito della realizzazione della bonifica); – tra l’altro, come osservato da controparte, l’esecuzione di ufficio da parte del Comune avrebbe comunque esposta la ricorrente alla ripetizione delle somma; – la mancata indicazione del termine e dell’autorità avanti alla quale ricorrere, come è noto, incide solo sulla decorrenza del termine per impugnare.

VIII. Con i terzi motivi aggiunti, notificati in data 15.4.2005, è stata impugnata anche la nota del Comune di Senago del 7.2.2005, nonché la Conferenza di servizi del 29.03.2001.

Anche l’ultimo ricorso è infondato.

La nota del 7.2.05 non ha affatto un contenuto generico foriero di perplessità, in quanto: – è un atto endoprocedimentale, dunque privo di autonoma lesività, con il quale il Comune ha diffidato le società al completamento del progetto definitivo di bonifica, avvisandole che, in mancanza di esecuzione spontanea, si sarebbe proceduto alla bonifica di ufficio (iscrivendo onere reale sul bene); – il richiamo ai contenuti degli atti precedenti (noti alle parti) rendeva agevolmente ricostruibile il suo contenuto precettivo; – non poteva la nota (anche qui) mirare alla rimessione in termini del Comune, trattandosi di un potere (come visto sopra) non sottoposto ad un termine finale dì efficacia; – è stata redatta dal responsabile del settore territorio ed ambiente, autore anche della diffida del marzo 2003; – la mancata indicazione (anche qui) del termine e dell’autorità avanti alla quale ricorrere, incide solo sulla decorrenza del termine per impugnare; – il ritardo della bonifica è da addebitare, in massima parte, all’ostruzionismo delle società riconosciute responsabili con giudicato civile.

IX. Dal rigetto integrale dei motivi di ricorso, consegue anche il rigetto della domanda risarcitoria (fondata sull’asserito “accanimento del Comune che pretenderebbe di attribuire il diclorometano rinvenuto nel maggio 2000 in un solo campione di terreno ai rifiuti stoccati ad insaputa delle ricorrenti nel serbatoio della società Coede”).

X. Le spese di lite seguono la soccombenza.

X.1. Non può essere, parimenti, accolta la domanda risarcitoria, proposta dalla amministrazione resistente, ex art. 96 c.p.c., non essendo stato allegato e provato il concreto danno subito (richiesta, secondo i principi generali, anche per l’accertamento della responsabilità processuale).

P.Q.M.

il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (sez. I), definitivamente pronunciando:

– rigetta i ricorsi;

– condanna la società ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore dell’amministrazione resistente che si liquida in € 7.000,00.

Così deciso in Milano nella camera di consiglio del giorno 29 maggio 2013 con l’intervento dei magistrati:

Francesco Mariuzzo, Presidente
Dario Simeoli, Primo Referendario, Estensore
Angelo Fanizza, Referendario

L’ESTENSORE

IL PRESIDENTE
   

DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 25/07/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
 

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