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Massime della sentenza

 

 

CORTE DI CASSAZIONE Sez. III del 24 settembre 2003 (Ud. 15.07.2003), Sentenza n. 36627

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


Corte di Cassazione Sez. III del 24 settembre 2003 (ud. 15
/07/2003), sentenza n. 36627
Pres. Grassi - Est. Franco - P.M. Siniscaichi - Ric. Chiareio.

 


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE III PENALE

 

Omisis

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

 

Con la sentenza in epigrafe è stata confermata la sentenza del giudice del Tribunale di Lecce, sezione distaccata di Tricase, emessa il 22 gennaio 2002, che aveva dichiarato Chiarello Luigi colpevole dei reati di cui:

a) agli artt. 28 e 51 D.L.vo 5 febbraio 1997, n; 22, per avere, quale titolare di una industria per la produzione di mattoni, realizzato e gestito una discarica abusiva dove venivano depositati i fanghi provenienti dalla detta industria;

b) all’art. 25 D.P.R. 203/1988 per avere immesso nell’atmosfera le polveri derivanti dall’attività di produzione dei mattoni, senza la prescritta autorizzazione.


L’imputato propone ricorso per cassazione deducendo:
a) violazione degli artt. 51 e14 D.L.vo 5febbraio 1997, n. 22, e vizio di motivazione. Lamenta che è carente ed illogica la motivazione con la quale la corte d’appello ha ritenuto che nella specie fosse configurabile l’ipotesi di cui all’art. 51 D.L.vo 5 febbraio 1997, n. 22, e non quella di abbandono di rifiuti di cui al precedente art. 14, stante anche l’occasionalità del fatto;
b) vizio di motivazione nella parte in cui è stato ritenuto sussistente il reato di cui all’art. 25 D.P.R. 203/1988;
c) violazione degli artt. 129 c.p.p. e 157 c.p. non avendo erroneamente la corte d’appello dichiarato prescritti i reati. Non può infatti condividersi il principio enunciato dalle sezioni unite secondo cui il decorso della prescrizione è sospeso nel caso di rinvii disposti su richiesta dell’imputato o del difensore.


Motivi della decisione

 

Il primo motivo è innanzitutto generico, perché non tiene affatto conto della motivazione della sentenza impugnata e si risolve in critiche che non hanno appunto nulla a che vedere con tale motivazione. Non si comprendono invero le considerazioni in fatto svolte circa le buche che si troverebbero sulla strada che porta al sito di discarica, dal momento che i giudici del merito non hanno fatto alcun riferimento a tale circostanza. In secondo luogo, il motivo stesso si risolve in una censura in punto di fatto della decisione impugnata, con la quale si richiede una nuova e diversa valutazione delle risultanze processuali riservata al giudice del merito e non consentita in questa sede di legittimità. In ogni caso il motivo è anche manifestamente infondato perché i giudici del merito hanno fornito congrua, specifica ed adeguata motivazione delle ragioni per le quali hanno ritenuto che non si potesse parlare di un semplice abbandono di rifiuti ma fosse ravvisabile una vera e propria attività di realizzazione e di gestione di una discarica abusiva, in quanto era rimasto indubbiamente accertato che l’imputato aveva utilizzato in maniera esclusiva e continuativa il terreno in questione per depositarvi senza alcun controllo i rifiuti fangosi che residuavano dalla sua attività produttiva.


Il secondo motivo è anch’esso generico, dal momento che nemmeno esso tiene in alcun conto la motivazione della sentenza impugnata risolvendosi in affermazioni del tutto generiche o in critiche che non hanno nulla a che vedere con la detta motivazione. Anche qui, infatti, non si comprende il significato del riferimento alla deposizione del dipendente della Asl, che non avrebbe avuto le cognizioni necessarie per esprimere un giudizio tecnico sul punto. I giudici del merito, infatti, hanno ritenuto, con un apprezzamento di fatto adeguatamente e congruamente motivato, e quindi non censurabile in questa sede, che la sussistenza del reato in esame fosse rimasta provata sulla base della considerazione che il tipo di processo produttivo svolto dall’industria dell’imputato (fabbricazione di mattoni e quindi levigatura e lucidamente degli stessi) comportava necessariamente che le polveri provenienti da tale levigatura si diffondessero nell’atmosfera e ciò in assenza della prescritta autorizzazione. Il giudice di primo grado, poi, ha esattamente messo in rilievo che l’imputato svolgeva l’attività produttiva in questione fin dal 1971, sicché, al momento dell’entrata in vigore del D.P.R. 203/1988, avrebbe dovuto munirsi, ai sensi dell’art. 12, della prescritta autorizzazione regionale ad immettere polveri nell’atmosfera, appartenendo la sua impresa alla categoria indicata nella lett. a) dell’art. 1 del citato D.P.R. 203/1988 (circostanza questa non contestata dall’imputato).


Il motivo è manifestamente infondato anche perché il giudice di primo grado aveva esattamente posto in evidenza come fosse del tutto irrilevante la circostanza che gli agenti avessero visto o meno nel momento del sopralluogo l’impianto in funzione e la concreta immissione delle polveri nell’atmosfera. E ciò perché, secondo la costante giurisprudenza di questa Suprema Corte, «il reato punito dall’art. 25 del D.P.R. 24 maggio 1988 n. 203 per l’omessa richiesta dell’autorizzazione per gli impianti già esistenti, ha natura di reato formale di pericolo, perché prescinde dalla effettiva produzione di un evento dannoso, perché mira a realizzare, a scopo di prevenzione, un controllo anticipato da parte delle autorità competenti» (sez. 1, 12 aprile 1996, Mazzi, m. 205.269; sez. III, 8 novembre 1995, Candeloro, m. 203.902); «il reato di cui all’art. 25, comma 1, del D.P.R. 24 maggio 1988 n. 203 (sull’inquinamento atmosferico) ha natura formale, poiché attiene all’esercizio di un impianto esistente anteriormente all’entrata in vigore dello stesso D.P.R. senza che l’interessato abbia presentato all’autorità regionale competente la domanda di autorizzazione prescritta. Trattasi altresì di reato di pericolo che prescinde dalla verificazione di un danno concreto» (sez. III, 7 ottobre 1999, Cipriani, m. 214.988). Il ricorrente, con il suo ricorso, non ha tenuto in alcun conto tale assorbente e decisiva motivazione.


Il terzo motivo è anch’esso viziato, come gli altri due, di genericità, perché anch’esso non tiene alcun conto della motivazione delle sentenze di merito, le quali hanno escluso la prescrizione per il motivo che il reato di cui all’art. 25 D.P.R. 203/1988 ha carattere di reato omissivo permanente. Ed infatti, secondo la costante giurisprudenza di questa Suprema Corte, «in tema di inquinamento atmosferico, il reato di cui all’art. 25, comma 1, del D.P.R. 24 maggio 1988 n. 203 (mancata presentazione della domanda di autorizzazione alle emissioni) ha natura permanente, atteso che l’autor ha la possibilità di fare cessare la situazione lesiva del bene giuridico protetto richiedendo la prescritta autorizzazione» (sez. III, 27 marzo 2002, Pinori, m. 221.954); il reato in questione «ha natura di reato omissivo permanente, e la condotta criminosa persiste sino a quando non intervenga l’atto formale di controllo con le relative prescrizioni, atteso che trattasi di reato di pericolo che prescinda dalla effettiva produzione dell’inquinamento» (sez. III, 1 febbraio 2002, Magliulo, m. 221.267); «il reato di cui all’art. 25, comma 1, del D.P.R. 24 maggio 1988 n. 203, consistente nella mancata presentazione della domanda di autorizzazione alla Regione competente, è reato permanente. La permanenza dura fino alla effettiva presentazione della domanda di autorizzazione» (sez. III, 7 ottobre 1999, Cipriani, m. 214.989).


Nella specie, poiché non risulta, e nemmeno è stato dedotto, che l’imputato abbia presentato la domanda di autorizzazione o che sia intervenuto un atto formale di controllo con le relative prescrizioni, deriva che il reato di cui al suddetto art. 25 D.P.R. 203/1988 deve ritenersi consumato alla data di emissione della sentenza di primo grado, ossia il 22 gennaio 2002, e che da tale data è iniziato a decorrere il termine prescrizionale. Poiché poi è stata riconosciuta la continuazione tra detto reato e quello di cui al capo a), ai sensi dell’art. 158 c.p. anche per quest’ultimo reato la prescrizione è iniziata a decorrere dal giorno in cui è cessata la continuazione, e cioè dal 22 gennaio 2002.


In ogni caso, quand’anche dovesse ritenersi per ipotesi che i reati si fossero consumati alla data dell’accertamento dell’11 giugno 1998, ugualmente gli stessi non sarebbero ancora prescritti (e tanto meno erano prescritti alla data di emissione della sentenza di appello, l’unica che nella specie potrebbe venire in rilievo in quanto, data l’inammissibilità del ricorso per la manifesta infondatezza dei motivi, questa Corte non potrebbe comunque rilevare cause di estinzione sopravvenute dopo l’emissione della sentenza impugnata). Ed infatti, nella specie il corso della prescrizione è rimasto sospeso dal 14 dicembre 1999 all’8 maggio 2000, dal 16 gennaio al 23 febbraio 2001, e dal 23 ottobre al 4 dicembre 2001, e cioè per un periodo di sette mesi e dodici giorni, a causa di rinvii disposti a richiesta della difesa. E ciò in applicazione del principio enunciato dalle sezioni unite di questa Suprema Corte con la sentenza n. 1021 dell’11gennaio 2002 (ud. del 28 novembre 2001), ric. Cremonese, m. 220.509 in tema di prescrizione del reato - e costantemente seguito dalla giurisprudenza successiva - (cfr. sez. III, 19 aprile 2002, Mangiacotti, m. 221.981; sez. III, 8 maggio 2002, Locatelli, m. 221.509), principio dal quale non sono stati forniti motivi validi per discostarsi.

 

P.Q.M.


Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile per genericità e manifesta infondatezza dei motivi.


In applicazione dell’art. 616 c.p.p., segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi che possano far ritenere non colpevole la causa di inammissibilità del ricorso, al pagamento in favore della Cassa delle ammende di una somma, che, in considerazione delle ragioni di inammissibilità del ricorso stesso, si ritiene congruo fissare in euro cinquecento.

 

Così deciso in Roma, 15 luglio 2003.

Deposito in cancellleria il 24 settembre 2003.

 

M A S S I M E

 

Sentenza per esteso

1) Inquinamento atmosferico - Autorizzazione regionale ad immettere polveri nell’atmosfera - Artt. 12 e 25, D.P.R. 24 n. 203/1988 - Reato omissivo permanente - Configurabilità - Fondamento - Fattispecie: polveri provenienti da un’industria di fabbricazione e lavorazioni di mattoni. In assenza della prescritta autorizzazione, anche nel caso di processo produttivo esistente anteriormente all’entrata in vigore del D.P.R. 24 maggio 1988 n. 203, si configurano i reati ai sensi degli artt. 12 e 25 del citato D.P.R., per lo svolgimento dell’attività industriale di fabbricazione di mattoni comportante la levigatura e lucidazione degli stessi implicando, tale lavorazione, necessariamente che le polveri provenienti dalla levigatura si diffondano nell’atmosfera. Pres. Grassi - Est. Franco - P.M. Siniscaichi - Ric. Chiareio. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III del 24 settembre 2003 (ud. 15/07/2003), sentenza n. 36627

2) Inquinamento atmosferico - Autorizzazione - Omissione - Reato di cui all’art. 25 D.P.R. n. 203/1988 - Configurabilità - Reato formale di pericolo - Reato omissivo permanente - Classificazione - Condotta criminosa - Giurisprudenza. In tema d’inquinamento atmosferico, il reato punito dall’art. 25 del D.P.R. 24 maggio 1988 n. 203 per l’omessa richiesta dell’autorizzazione per gli impianti già esistenti, ha natura di reato formale di pericolo, perché prescinde dalla effettiva produzione di un evento dannoso, in quanto mira a realizzare, a scopo di prevenzione, un controllo anticipato da parte delle autorità competenti (Cass. sez. 1, 12 aprile 1996, Mazzi; Cass. sez. III, 8 novembre 1995, Candeloro; Cass. sez. III, 7 ottobre 1999, Cipriani). Inoltre, il reato in questione ha natura di reato omissivo permanente, e la condotta criminosa persiste sino a quando non intervenga l’atto formale di controllo con le relative prescrizioni, (Cass. sez. III, 27 marzo 2002, Pinori; Cass. sez. III, 1 febbraio 2002, Magliulo, m. 221.267, Cass. sez. III, 7 ottobre 1999, Cipriani, m. 214.989). Pres. Grassi - Est. Franco - P.M. Siniscaichi - Ric. Chiareio. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III del 24 settembre 2003 (ud. 15/07/2003), sentenza n. 36627

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