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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Corte di Cassazione Penale Sez. III
del 31 luglio 2003, sent. n. 32235
Pres. Vitalone Est. Postiglione
Ric. Agogliati ed altri
Fatto
Agogliati Bernardo, Agogliati Giovanni e Agogliati Giovanni hanno proposto
ricorso per Cassazione contro l’ordinanza del 21 novembre 2002 del Tribunale di
Genova, deducendo la illegittimità del sequestro dei loro automezzi adottato dal
Gip del Tribunale di Genova il 10 maggio 2002, con riferimento all’ipotesi di
reato di cui all’articolo 51, comma 1 decreto legislativo 22/1997.
Osservano i ricorrenti che il materiale trasportato era destinato al recupero e
non poteva considerarsi rifiuto e che, comunque, essi avevano eseguito il
trasporto in buona fede, del tutto ignari della natura illecita del trasporto.
Motivi della decisione
Ritiene la Corte che l’ordinanza impugnata debba essere annullata con rinvio per
un nuovo esame sotto entrambi i profili dedotti.
Il ricorso dei prevenuti ha riproposto la questione della natura non di rifiuto
degli “slops” trasportati.
Il Tribunale di Genova, con l’ordinanza impugnata, ha ritenuto la natura di
rifiuto, alla luce dell’articolo 6 del decreto legislativo 22/1997 e
dell’orientamento giurisprudenziale della Corte di giustizia della Comunità
Europee (sentenza Tombesi del 25.6.1997), senza prendere in alcuna
considerazione l’articolo 14 del decreto legge 138/02, convertito con la legge
178/02, che reca una norma innovativa nel nostro sistema giuridico, di
“interpretazione autentica della definizione di rifiuto”.
Ad avviso di questa Corte, la nuova normativa esclude la natura di rifiuto per
beni, sostanze o materiali residuali di produzione o di consumo, qualora siano
effettivamente ed oggettivamente riutilizzati, senza alcun trattamento
preventivo od anche dopo un trattamento preventivo, purché non vi sia
pregiudizio all’ambiente.
La norma evidenzia che, quando il riutilizzo avvenga in modo serio (cioè
effettivamente ed oggettivamente) nello stesso ciclo produttivo o di consumo (od
anche in uno analogo o diverso) viene meno lo stesso presupposto soggettivo del
“disfarsi”, in quanto il soggetto economico intende continuare a ricevere
benefici dal bene: questo non è “rifiutato”, ma ulteriormente “utilizzato” come
bene economico e dunque, il rifiuto ab origine non è venuto ad esistenza
giuridica come tale.
In via generale si osserva che è bensì persistente la concezione omnicomprensiva e quasi ideologica di “rifiuto”, sia che esso debba essere smaltito, sia che debba essere riutilizzato,ma questa visione si giustificava in relazione alla prima fase (di giusta preoccupazione sociale, ma di impreparazione professionale e tecnologica del mondo economico interessato), ma non sì può negare che dopo 30 anni dalla prime direttive comunitarie oggi il corpo sociale e lo stesso mondo economico domandano il “riutilizzo” nei limiti massimi possibili e l’economia al riguardo è in grado, di svolgere un ruolo.
Anche in termini giuridici la realtà è cambiata nell’ordinamento italiano.
Un semplice raffronto tra il Dpr 915/82, che basava tutta la regolamentazione
sul concetto di “smaltimento” e di “discarica” ed il decreto legislativo
22/1997, convince del fatto che la nuova normativa è orientata sulla prevenzione
ed il recupero, sicché va valutata con favore la norma citata (articolo 14 legge
172/02) che incoraggia il riutilizzo, purché effettivo ed oggettivo, come
auspicava la Corte Costituzionale con la sentenza 512/90.
Occorre precisare che l’elenco comunitario dei rifiuti non è esaustivo ed
esclude che il rifiuto, se destinato al riutilizzo, sia tale.
Il Sesto Programma di Azione per l’Ambiente dell’Unione Europea, denominato
“Ambiente 2010: il nostro futuro, la nostra scelta”, con (2001) 31 def., insiste
sulla prevenzione, osservando che «i rifiuti rappresentano una perdita di
risorse preziose. anche scarse, che potrebbero essere recuperate e riciclate,
contribuendo così a ridurre la richiesta di materie prime vergini». Perciò
accanto alle tradizionali misure di “command and control” sono previsti ed
incoraggiati anche meccanismi economici e negoziali per la prevenzione ed il
riutilizzo.
Questo problema è particolarmente acuto in Italia dove l’impiego di materiali
poveri o di secondo impiego è tradizionalmente diffuso a causa della difficoltà
di materie prime.
La mancata convergenza nelle definizioni nazionali di rifiuto non sembra dovuta
solo ad “inadempienze”, ma alla mancata soluzione di un problema reale ed
obiettivo a monte, ossia la separazione concettuale e giuridica tra rifiuti non
più riutilizzabili (da destinare ad incenerimento o discariche) e materie prime
secondarie, da riutilizzare, che ab origine non sono rifiuto, purché,tali
materie siano definite con chiarezza e sottoposte a controllo sequenziale ed a
sanzioni economiche adeguate (fideiussioni preventive ed inibizione
dell’attività economica in caso di inadempimento).
La sentenza impugnata fa riferimento alla nozione di “rifiuto” come definita
nella sentenza Tombesi del 25.6.1997 della Corte di giustizia della Comunità
Europee di Lussemburgo (Cause riunite 394/94, 330/94, 342/94, 224/95 e decisioni
20.12.1993, 94/3/CE) la quale affronta il problema essenzialmente in termini
“negativi” (limitandosi ad individuare le condizioni che non consentono di
escludere una sostanza o un oggetto del regime generale dei rifiuti), mentre
recentemente la stessa Corte europea (sezione sesta, 18 aprile 2002, causa
C9/00, punti 35 e 11) ha affrontato la questione anche in termini “positivi”
rilevando che potrebbe essere opposto l’argomento che un bene, un materiale o
una materia prima che deriva da un processo di fabbricazione o di estrazione,
che non è principalmente destinato a produrlo, può costituire non tanto un
residuo, quanto un sottoprodotto, del quale l’impresa non ha intenzione di
“disfarsi” ai sensi dell’articolo 1, lettera a) , comma 1, della direttiva
75/442, ma che essa intende sfruttare o commercializzare a condizioni per lei
favorevoli, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari.
Un’analisi del genere non contrasterebbe con le finalità della direttiva 75/442.
In effetti non vi è alcuna giustificazione per assoggettare alle disposizioni di
quest’ultima, che sono destinate a prevedere lo smaltimento o il recupero dei
rifiuti, beni, materiali o materie prime che dal punto di vista economico hanno
valore di prodotti, indipendentemente da qualsiasi trasformazione. e che, in
quanto tali, sono soggetti alla normativa applicabile a tali prodotti. Tuttavia,
tenuto conto dell’obbligo di interpretare in maniera estensiva la nozione di
rifiuto, per limitare gli inconvenienti o i danni dovuti alla loro natura,
occorre circoscrivere tale argomentazione, relativa ai sottoprodotti, alle
situazioni in cui riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima
non sia solo eventuale, ma certo, senza trasformazione preliminare, e nel corso
del processo di produzione. Appare quindi evidente che, oltre al criterio
derivante dalla natura o meno di residuo di produzione di una sostanza il grado
di probabilità di riutilizzare senza operazioni di trasformazione preliminare,
costituisce un secondo criterio utile ai fini di valutare se essa sia o meno un
rifiuto ai sensi della direttiva 75/442. Se, oltre alla mera possibilità di
riutilizzare la sostanza, il detentore consegue un vantaggio economico nel
farlo, la probabilità di tale riutilizzo è alta. In un’ipotesi del genere la
sostanza va considerata un autentico “prodotto”.
Sì tratta di una prima apertura del l’orientamento comunitario, incentrata sul
concetto di “prodotto” o “sottoprodotto” e non di “residuo” avente una autonoma
rilevanza rispetto al rifiuto, benché i confini siano labili.
In una visione economica integrata, salvo sempre l’esigenza di protezione
ambientale, la valutazione può essere operata caso per caso, sia perché le
categorie di rifiuti di cui all’articolo 6 decreto legislativo 22/1997 hanno
valore puramente indicativo ed il legislatore - come si è già detto - ha già
dato una interpretazione chiarifìcatrice con l’articolo 14 decreto legge 138/02,
sia perché la volontà di “disfarsi” deve essere esaminata in concreto (Corte di
Giustizia Ce in cause riunite C-418/97 e C-419/97 punti 73, 88 e 97).
Deve trattarsi di una valutazione prudente, in attesa della auspicabile adozione
in sede comunitaria e nazionale di specifiche tecniche comuni (uniformi standard
e indici di qualità; omogenei parametri tecnici di valutazione e validazione)
per ciascuna tipologia di sottoprodotto o residuo), valutazione che ricomprende
nella nozione di residuo e non di rifiuto anche quelle materie che abbiano
subito un trattamento preliminare, sempre che esista la prova dell’effettivo ed
univoco riutilizzo (come suggerito dalla Corte costituzionale con la sentenza
512/90).
Nel caso in esame risulta - salvo una più pertinente indagine di merito - che:
a) risulta dagli atti che la Società Porto Petroli spa di Genova importava le
sostanze (slops) pagando un prezzo (tra le 80.000 e le 110.000 a tonnellata) e
con il trattamento scale dell’olio combustibile denso BTZ: è bensì vero che «ai
fini della nozione di rifiuto non appare rilevante che questo provenga
necessariamente da attività produttive, potendo originarsi da attività di
servizi», ma dalla richiesta del decreto di sequestro in contrasto con il dato
di fatto sopra indicato si assume che la ditta è “produttrice” e non
“importatrice” a pagamento. È evidente che chi importa attribuisce un valore
economico specifico al bene da altri prodotto, anche se si rendono necessari
trattamenti di decantazione od altro per ricevere combustibile ad uso
industriale ceduto ad utenti finali.
Questa circostanza andava valutata opportunamente, perché costituisce un
indubbio indice a favore del concetto di “prodotto” e non di “rifiuto” il
notevole valore economico intrinseco del bene e la destinazione finale nel ciclo
della ulteriore produzione e consumo e andava valutato l’integrale riutilizzo in
tempi certi attraverso contratti ed altri accordi.
b) Se la Società Porto petroli spa, oltre che importatrice i e produttrice di “slops”,
occorreva definire quali materiali erano stati in concreto consegnati ai
trasportatori per l’ulteriore trattamento presso la Recol srl di Rosignano
Marittimo in quanto è evidente che la Società stessa - debitamente autorizzata -
almeno per i prodotti importati doveva aver effettuato operazioni di
decantazione, idonee ad influire sulla qualità delle sostanze cedute;
c) Anche la posizione dei trasportatori – attuali ricorrenti - meritava un
approfondimento sotto il profilo della buona fede, data la rilevanza economica
del sequestro dei mezzi per l’attività di una piccola azienda familiare,
peraltro regolarmente iscritta nel Registro Regionale: è bensì vero che
l’articolo 12 del decreto ministeriale 406/98 inserisce ai fini del procedimento
di iscrizione all’albo la documentazione relativa alla idoneità dei mezzi di
trasporto, ma è improprio giuridicamente configurare come carenza di iscrizione
l’utilizzo occasionale di mezzi diversi, ex articolo 51, comma 1, quando lo
stesso articolo 51, comma 4 punisce con autonoma sanzione «l’inosservanza dei
requisiti e delle condizioni richiesti dalle iscrizioni o comunicazioni».
d) Certamente non condivisibile è l’opinione che «le norme sono da ritenersi...
come fattispecie di pericolo presunto», mentre era più semplice e corretto dire
che i mezzi utilizzati in concreto non erano idonei per le loro caratteristiche
tecniche e ciò per evitare che misure cautelari siano adottate secondo un
criterio giurisprudenziale non equilibrato (senza dire che nel provvedimento del
Pm e del Gip si afferma: «le attività poste in essere in elusione della
normativa ambientale consentono alle imprese di titolarità degli indagati di
realizzare profitti derivanti dalla commercializzazione dei residui» (laddove
l’idea del profitto è coessenziale logicamente al riutilizzo) eludendo gli
obblighi relativi alle garanzie finanziarie (che risultano state versate dagli
attuali ricorrenti).
In conclusione la Corte ritiene, che l’ordinanza impugnata vada riesaminata in
via di principio alla luce della nuova normativa introdotta dall’articolo 14
decreto legge 138/02 e dei più recenti indirizzo comunitari; che l’articolo 51,
comma 1 decreto legislativo 22/1997 non è configurabile, ove si ritenga la
natura di rifiuto, ma sia inquadrabile la fattispecie nell’articolo 51, comma 4
stessa legge; che la posizione psicologica dei trasportatori – debitamente
iscritti all’albo – sia valutata secondo i parametri concreti e non di pericolo
presunto.
PQM
La Corte annulla l’ordinanza
impugnata con rinvio al Tribunale di Genova.
1) La mancata convergenza nelle definizioni nazionali di rifiuto con quelle della Comunità Europea - la separazione concettuale e giuridica tra rifiuti non più riutilizzabili e materie prime secondarie, da riutilizzare - fideiussioni preventive ed inibizione dell’attività economica in caso di inadempimento. La mancata convergenza nelle definizioni nazionali di rifiuto con quelle della Comunità Europea non sembra dovuta solo ad “inadempienze”, ma alla mancata soluzione di un problema reale ed obiettivo a monte, ossia la separazione concettuale e giuridica tra rifiuti non più riutilizzabili (da destinare ad incenerimento o discariche) e materie prime secondarie, da riutilizzare, che ab origine non sono rifiuto, purché, tali materie siano definite con chiarezza e sottoposte a controllo sequenziale ed a sanzioni economiche adeguate (fideiussioni preventive ed inibizione dell’attività economica in caso di inadempimento). Corte di Cassazione Penale Sez. III del 31 luglio 2003, Sentenza n. 32235
2) L’obbligo di interpretare in maniera estensiva la nozione di rifiuto - natura o meno di residuo di produzione - autentico “prodotto” - concetto di “prodotto” o “sottoprodotto” - l’esigenza di protezione ambientale - la valutazione operata caso per caso - la volontà di “disfarsi” deve essere esaminata in concreto - la nozione di residuo e non di rifiuto. Tenuto conto dell’obbligo di interpretare in maniera estensiva la nozione di rifiuto, per limitare gli inconvenienti o i danni dovuti alla loro natura, occorre circoscrivere tale argomentazione, relativa ai sottoprodotti, alle situazioni in cui riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia solo eventuale, ma certo, senza trasformazione preliminare, e nel corso del processo di produzione. Appare quindi evidente che, oltre al criterio derivante dalla natura o meno di residuo di produzione di una sostanza il grado di probabilità di riutilizzare senza operazioni di trasformazione preliminare, costituisce un secondo criterio utile ai fini di valutare se essa sia o meno un rifiuto ai sensi della direttiva 75/442. Se, oltre alla mera possibilità di riutilizzare la sostanza, il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, la probabilità di tale riutilizzo è alta. In un’ipotesi del genere la sostanza va considerata un autentico “prodotto”. Sì tratta di una prima apertura del l’orientamento comunitario, incentrata sul concetto di “prodotto” o “sottoprodotto” e non di “residuo” avente una autonoma rilevanza rispetto al rifiuto, benché i confini siano labili. In una visione economica integrata, salvo sempre l’esigenza di protezione ambientale, la valutazione può essere operata caso per caso, sia perché le categorie di rifiuti di cui all’articolo 6 decreto legislativo 22/1997 hanno valore puramente indicativo ed il legislatore - come si è già detto - ha già dato una interpretazione chiarifìcatrice con l’articolo 14 decreto legge 138/02, sia perché la volontà di “disfarsi” deve essere esaminata in concreto (Corte di Giustizia Ce in cause riunite C-418/97 e C-419/97 punti 73, 88 e 97). Deve trattarsi di una valutazione prudente, in attesa della auspicabile adozione in sede comunitaria e nazionale di specifiche tecniche comuni (uniformi standard e indici di qualità; omogenei parametri tecnici di valutazione e validazione) per ciascuna tipologia di sottoprodotto o residuo), valutazione che ricomprende nella nozione di residuo e non di rifiuto anche quelle materie che abbiano subito un trattamento preliminare, sempre che esista la prova dell’effettivo ed univoco riutilizzo (come suggerito dalla Corte costituzionale con la sentenza 512/90). Corte di Cassazione Penale Sez. III del 31 luglio 2003, Sentenza n. 32235
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