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 Massime della sentenza

  

 

Consiglio di Stato, Sezione IV, 30 luglio 2003, sentenza n. 4407.

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la seguente
 

D E C I S I O N E


sul ricorso in appello n. 9762 del 2002, proposto da

- PRESIDENZA del CONSIGLIO dei MINISTRI,
in persona del Presidente p.t.;
- CONSIGLIO di PRESIDENZA della GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA,
in persona del Presidente p.t.;
ex lege rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliati presso gli ufficii della stessa, in Roma, via dei Portoghesi, 12,
c o n t r o
MAGGIO Alessandro e SCANO Francesco,
costituitisi in giudizio, rappresentati e difesi dall’avv.to Giovanni Contu ed elettivamente domiciliati presso lo studio dello stesso, in Roma, via Massimi, 154,
per l’annullamento
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sez. I, n. 7443 del 27 agosto 2002.
Visto il ricorso, con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio degli appellati;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive domande e difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Data per letta, alla pubblica udienza del 17 giugno 2003, la relazione del Consigliere Salvatore Cacace;
Uditi, alla stessa udienza, l’avv. Gianni De Bellis dello Stato per le Amministrazioni appellanti e l’avv. Giovani Contu per gli appellati;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue;


F A T T O


Con giudizio promosso dinanzi al T.A.R. per il Lazio (ricorso n. 4211/2002 R.G.), gli odierni appellati, magistrati amministrativi in servizio presso il T.A.R. per la Sardegna, chiedevano l’annullamento della deliberazione del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa in data 7 marzo 2002, che aveva negato l’autorizzazione da essi richiesta per assumere un incarico di collaborazione nell’àmbito di uno studio per l’individuazione di norme in vigore nonché per la stesura di testi legislativi presso la Regione Sardegna, impugnando, unitamente al suddetto diniego di autorizzazione, prima l’art. 4, comma 1, lett. f) e poi, con successivi motivi aggiunti, l’art. 16, ultimo comma, delle “Norme generali per il conferimento di incarichi non compresi nei compiti e doveri d’ufficio dei magistrati amministrativi”, approvate dallo stesso Consiglio di Presidenza nella seduta del 18 dicembre 2001, con il quale ultimo, secondo la motivazione posta a base del diniego stesso, l’incarico risultava incompatibile.


Il T.A.R. ha ritenuto, con sent. n. 7443/2002, il ricorso fondato, asserendo, in sostanza, che ( pag. 6 sent. ) “tra le competenze del Consiglio di Presidenza non rientra l’introduzione di nuove ipotesi generali ed astratte di divieto”, quali sarebbero quelle codificate dai menzionati artt. 4, comma 1, lettera f) e 16, ultimo comma.


Dopo aver di conseguenza dichiarato l’illegittimità dell’art. 16, ultimo comma, cit. e dunque “l’inidoneità del richiamo ad esso a giustificare l’impugnato diniego”, il T.A.R. ha poi ritenuto che l’art. 4, comma 1, lett. f) delle stesse “norme generali” recasse “una ulteriore previsione suscettibile di per se stessa di precludere agli interessati il conseguimento della desiderata autorizzazione”, sì che, “benché il diniego di autorizzazione del 7\3\2002 non rinvii espressamente anche all’art. 4 lett. f), il Tribunale [ si è ritenuto ] tenuto a pronunziarsi anche sull’impugnativa esperita avverso tale disposizione” ( pagg. 11 – 12 sent. ), concludendo per l’illegittimità anche della disposizione medesima.


La Presidenza del Consiglio dei Ministri ed il Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa hanno impugnato, con l’appello all’esame, la citata sentenza, chiedendo la declaratoria di inammissibilità del motivo di gravame proposto nel ricorso introduttivo dagli originarii ricorrenti quanto all’art. 4, comma 1, lett. f) delle norme generali e comunque l’annullamento della sentenza stessa, non condividendo le considerazioni ed argomentazioni, su cui il precedente Giudice ha fondato la propria decisione ed ampiamente deducendo in tal senso.


Si sono costituiti in giudizio gli appellati, chiedendo il rigetto delle domande avversarie e comunque riproponendo il terzo motivo del ricorso introduttivo, dichiarato assorbito dal T.A.R.


All’udienza del 17 giugno 2003 la causa è stata chiamata e trattenuta in decisione.


D I R I T T O


1. – Puo’, preliminarmente, prescindersi dall’esame delle eccezioni di inammissibilità, che le appellanti Amministrazioni svolgono riguardo al motivo di gravame proposto dal ricorso introduttivo dagli istanti con riguardo alla norma di cui all’art. 4, comma 1, lett. f) delle “Norme generali per il conferimento di incarichi non compresi nei compiti e doveri d’ufficio dei magistrati amministrativi” approvate dal Consiglio di Presidenza nella seduta del 18 dicembre 2001, in quanto l’appello, come di séguito si vedrà, risulta comunque nel mérito fondato sul punto, non ravvisando il Collegio l’illegittimità di detta norma, erroneamente ritenuta dal T.A.R.


Così come deve precisarsi che nessun esame mérita, in questa sede, l’eccezione di carenza di interesse formulata dagli appellati con la memoria depositata in data 29 marzo 2003, in quanto ivi espressamente riferita e limitata alla sola misura cautelare richiesta dalle appellanti.


2. – Venendo al mérito del giudizio, il provvedimento, con il quale il Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa ha negato ai magistrati amministrativi Alessandro Maggio e Francesco Scano, in servizio presso il T.A.R. per la Sardegna, l’autorizzazione ad accettare un incarico di collaborazione nell’àmbito di uno studio per l’individuazione di norme in vigore nonché per la stesura di testi legislativi presso la Regione Sardegna, si fonda sulla asserita incompatibilità dell’incarico stesso con l’art. 16, ultimo comma, delle “Norme generali per il conferimento o l’autorizzazione di incarichi non compresi nei compiti e nei doveri d’ufficio dei magistrati amministrativi”, come approvate dallo stesso Consiglio di Presidenza nella seduta del 18 dicembre 2001.


Il T.A.R. ha ritenuto il ricorso proposto avverso detto diniego anzitutto fondato sotto il profilo della dedotta illegittimità dell’art. 16, ultimo comma, delle anzidette “norme generali” ( in primo grado impugnato in uno con l’opposto diniego ) e dunque della “inidoneità del richiamo ad esso” a giustificare il diniego medesimo; e, poi, parimenti fondato sotto il profilo della pure invocata illegittimità dell’art. 4, comma 1, lett. f) delle stesse “norme generali”, che, benché il diniego non ne facesse espressa menzione, il Giudice di primo grado ha opinato recasse “una ulteriore previsione suscettibile di per se stessa di precludere agli interessati il conseguimento della desiderata autorizzazione”.


Invero, a mente delle norme della cui legittimità si discute:


a) “Non può essere conferito od autorizzato alcun incarico ai magistrati che: … f) facciano parte di un T.A.R. o di una sezione staccata ovvero del C.G.A., qualora l’amministrazione interessata all’incarico sia un ente od un organo regionale o infraregionale la cui attività ricada nell’ambito della competenza giurisdizionale degli stessi” (art. 4, comma 1, lett. f); previsione, per vero, non esplicitamente posta dall’Amministrazione a base dell’impugnato diniego);


b) “sono comunque vietati incarichi di studio, ricerca e collaborazione presso le regioni nonché presso gli enti territoriali locali” (art. 16, ultimo comma, cit.).


La questione, che qui si pone, del presunto contrasto di tali disposizioni con le norme sovraordinate, richiede una analitica ricostruzione del quadro normativo, che viene in considerazione.


3. - Va, anzitutto, osservato che la disciplina legislativa, che determina la possibilità, i limiti, le condizioni e le modalità per l'attribuzione a magistrati (dell'ordine giudiziario o delle magistrature speciali) di incarichi estranei ai loro compiti di istituto, attiene, secondo la costante interpretazione offertane nella giurisprudenza della Corte costituzionale (cfr. sentt. n. 4 del 1956, n. 81 del 1976, n. 43 del 1982, n. 150 del 1993 e, da ultimo, n. 86 e n. 224 del 1999), allo status del magistrato e rientra dunque nell'ambito della riserva di legge statale sancita dall'art. 108, comma 1, della Costituzione.


Ha sottolineato, infatti, la Corte che, come per tutti i pubblici dipendenti così per i magistrati, i limiti di compatibilità dell'ufficio ricoperto con lo svolgimento di altre attività e con l'assunzione di altri incarichi sono un elemento del loro stato giuridico.


In particolare, poi, per i magistrati, l'assunzione di compiti e lo svolgimento di attività estranee a quelle proprie dell'ufficio ad essi affidato - anche quando non richiedano una sospensione o una riduzione delle funzioni ordinarie del magistrato - sono fattori suscettibili, in astratto, di incidere sulla loro indipendenza ed imparzialità, connotato e condizione essenziale per l'esercizio della funzione loro attribuita: sia in quanto può esservi una interferenza diretta fra compiti propri e ulteriori attività svolte, sia in quanto l'attribuzione stessa, o la possibilità di attribuzione, dell'incarico, per la sua natura e per i vantaggi che possono derivarne, può tradursi in un indiretto condizionamento del magistrato.


Nessun dubbio può dunque sussistere in òrdine al fatto che una tale disciplina deve, in concreto, essere rispettosa delle esigenze di salvaguardia dell'indipendenza e dell'imparzialità e dunque prevedere condizioni e procedure per il conferimento o per l'autorizzazione all'assunzione dell'incarico con esse compatibili.


“Né”, ha aggiunto la Corte costituzionale, “potrebbe esservi ragione per distinguere fra magistrati dell'ordine giudiziario o comunque istituzionalmente investiti solo di funzioni giurisdizionali, e magistrati cui possono essere attribuite anche funzioni diverse, come quelli del Consiglio di Stato e della Corte dei conti” ( sent. n. 224/99 ); ciò in ragione della unicità dello status oggi previsto per questi ultimi, al di là della contingente attribuzione di funzioni giurisdizionali o di altre funzioni.


“Consiglio di Stato e Corte dei conti”, ha concluso la Corte, “sono istituti appartenenti all'ordinamento statale … dei cui componenti la legge statale è tenuta a garantire l'indipendenza dal Governo (art. 100 comma 3 della Costituzione), e a maggior ragione da organi politici territoriali” ( sent. n. 224/99, cit. ).


Invero, poi, per quanto concerne la magistratura amministrativa, essa assume una collocazione del tutto peculiare nell'ordinamento costituzionale italiano, non solo per il suo ruolo di giudice generale dell'esercizio delle funzioni da parte delle Pubbliche amministrazioni, ma anche per la posizione attribuita in sede consultiva al Consiglio di Stato.


Quest'ultimo, composto di magistrati ai quali l'ordinamento assicura, come per tutti i magistrati amministrativi, l'indipendenza (art. 108 Cost.) e la sottoposizione solo alla legge (art. 101), è non solo giudice cui i costituenti riconobbero il merito di essersi storicamente affermato «non sottraendo la propria competenza alla magistratura ordinaria, ma conquistando nuovi campi di diritto e di libertà ai cittadini» (Ass. cost., pp. 2337 s.), bensì anche «organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia nell'Amministrazione» (art. 100, primo comma Cost.).


Il ruolo del Consiglio di Stato si caratterizza, perciò, per la funzione di garanzia, che gli è assegnata a tutela della giustizia formale e sostanziale delle scelte dell'Amministrazione, nell'esercizio di una funzione preventiva, che può ben dirsi sostanzialmente giurisdizionale, perché diretta a ius dicere in modo obiettivo ed imparziale ( cfr. Cons. St., ad. gen., 7 giugno 1993, n. 58).


La particolare posizione della magistratura amministrativa, sia in sede giurisdizionale, che in sede consultiva, rende quindi ragione delle specifiche esperienze e più qualificate professionalità dei magistrati amministrativi, che giustificano l'attribuzione ad essi di incarichi attinenti all'esplicazione di attività amministrative e di interesse pubblico in generale; ciò fermo restando che anche per le giurisdizioni speciali l'indipendenza dei magistrati da ingerenze costrittive degli altri Poteri e di qualsiasi altro soggetto deve comunque risultare garantita dal complesso dell'ordinamento, quale indefettibile valore imposto dalla Costituzione ( cfr. Cons. St., ad. gen., n. 58/93, cit. ).


Con riferimento alla giurisdizione amministrativa, questi principii sono stati accolti dal legislatore con la legge 27 aprile 1982, n. 186, sia per quanto riguarda l'assetto degli organi giudicanti, sia per ciò che attiene alla posizione del singolo magistrato.


A garanzia dell'ordinamento della giurisdizione amministrativa sono state, fra l'altro, disciplinate la composizione e le attribuzioni del Consiglio di presidenza, costituito proprio in attuazione di esigenze d’ordine costituzionale.


Tra tali attribuzioni, per quel che qui più strettamente rileva, v'è la competenza a deliberare « sul conferimento ai magistrati ... di incarichi estranei alle loro funzioni, in modo da assicurare un'equa ripartizione sia degli incarichi, sia dei relativi compensi » ( art. 13, comma 1, legge n. 186/1982, cit. ).


Né si è mai dubitato che in detta materia il Consiglio di presidenza, come altri organi di autogoverno, potesse assumere criterii predeterminati per l'esercizio del potere.


Infatti, nel sistema della Costituzione, non tutta la disciplina dello status del magistrato ordinario è necessariamente e direttamente riservata alla legge ordinaria.


Si fa riferimento, in particolare, a quell'attività di carattere discrezionale, che è esercitata dal C.S.M. e che spesso si estrinseca nell'adozione di atti di carattere generale, talora configurati dai commentatori come meri atti amministrativi generali, talora come attività normativa settoriale o, quanto meno, paranormativa.


Attività, questa, ritenuta ammissibile sul rilievo che lo stesso art. 105 della Costituzione prevede un sistema di garanzie articolato su diversi livelli: quello costituzionale, concernente l'assetto fondamentale della magistratura ordinaria e delle garanzie dei singoli magistrati; quello a livello di legge ordinaria, costituito innanzitutto dalla riserva di legge riguardante la materia dell'ordinamento giudiziario (istituzione e organizzazione della magistratura ordinaria: art. 102); infine quello, ulteriormente subordinato, degli atti generali, con cui il C.S.M. esercita le competenze previste dalla stessa Costituzione.


Deve dunque ammettersi, in conformità del resto a quello che è il « diritto vivente » nella materia de qua, che la riserva di legge prevista dalla Costituzione non implichi che tutta la disciplina riguardante i magistrati ordinari debba essere fissata dalla legge, dovendo riconoscersi quanto meno un compito di integrazione del sistema da parte del C.S.M..


Una tale conclusione parimenti si giustifica per le altre magistrature direttamente contemplate dalla Costituzione (art. 103) e, per quanto qui interessa, per quella amministrativa.


E’ già stato, infatti, osservato ( Ad. gen., n. 58/93, cit. ) come per dette magistrature, al contrario di quanto avviene per la magistratura ordinaria, manchino disposizioni costituzionali direttamente riguardanti l'organizzazione delle relative giurisdizioni e manca altresì il rinvio ad un complesso organico di norme di legge aventi tradizionalmente ad oggetto l'organizzazione della magistratura, cioè l'ordinamento giudiziario, con un contenuto ben definito; ancorché lo stesso costituente abbia poi posto una riserva di legge, concernente i principii generali degli ordinamenti giurisdizionali, anche per dette magistrature.


La Costituzione ha tuttavia posto, con riferimento alle altre magistrature, proprio in considerazione della inesistenza di un corpus normativo idoneo a tratteggiarle come ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere (art. 104), alcuni vincoli al legislatore ordinario.


La legge, infatti, deve assicurare, a norma dell'art. 108, secondo comma, della Costituzione, l'indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali.


E tale obiettivo, che, come si è già osservato, non è in concreto affidato alla sola legge neppure con riguardo alla magistratura ordinaria, ben può intendersi, secondo quanto ritenuto anche da parte di autorevole dottrina, come un obbligo di risultato, perseguibile anche attraverso una serie gradata di principii e norme, nonché con particolari cautele organizzative ( Cons. St., ad. gen. n. 58/93, cit. ).


In conclusione, dovendosi qui ribadire l’orientamento più volte richiamato, la riserva di legge in materia, assoluta con riferimento alla istituzione degli uffici giurisdizionali ed alle modalità di svolgimento della funzione giurisdizionale, non esclude invece l'integrazione del sistema da parte di altre fonti, purché coerenti con i principii costituzionali sulla posizione del giudice, tanto con riferimento all'ordine giudiziario, quanto, e a maggior ragione, per le giurisdizioni che a quello non si ricollegano e per le quali la stessa Costituzione prevede un diverso assetto e diverse modalità di assicurazione delle garanzie di indipendenza; sì che anche in tema di incarichi extraistituzionali ai magistrati del Consiglio di Stato e dei Tribunali Amministrativi Regionali non può non riconoscersi l’esistenza di un còmpito, quantomeno di attività paranormativa funzionalizzata al raggiungimento di quell’obiettivo, in capo al Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa.


4. – La disciplina relativa a tali incarichi, a parte la norma sulla competenza del Consiglio di Presidenza ( contenuta nell’art. 13 della legge n. 186 del 1982, il cui primo comma attribuisce, tra l’altro, a detto Consiglio il còmpito come s’è visto, di deliberare « sul conferimento ai magistrati stessi di incarichi estranei alle loro funzioni >> ), è contenuta nell'art. 58, commi 2 e 3, del D. Lgs. 3 febbraio 1993 n. 29 (oggi trasfuso nell’art. 53 del D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, recante norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), emanato, com’è noto, sulla base della delega, di cui alla legge n. 421 del 1992, che, incentrata sulla c.d. privatizzazione del pubblico impiego ( diretta soprattutto a valorizzare la distinzione tra organizzazione della Pubblica Amministrazione e rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti ), ha, per quanto qui ne occupa, delegato il Governo a prevedere che gli incarichi a dipendenti della Pubblica Amministrazione possano essere conferiti “in casi rigorosamente predeterminati” ( art. 2, comma 1, lett. p) ).


Orbene, il principio generale, affermato dall'art. 58 del D. Lgs. n. 29 del 1993, è quello secondo cui le Pubbliche amministrazioni non possono conferire ai dipendenti incarichi « che non siano espressamente previsti o disciplinati da legge o altre fonti normative, o che non siano espressamente autorizzati » (comma 2).


Per quanto riguarda, in specie, i magistrati, viene demandata ad apposito regolamento l'emanazione di norme «dirette a determinare gli incarichi consentiti e quelli vietati» (comma 3) e si stabilisce che, scaduto invano il termine per l'emanazione del regolamento, « l'attribuzione degli incarichi è consentita nei soli casi espressamente previsti dalla legge o da altre fonti normative >> (comma 4).


Il D.P.R. n. 418 del 1993 ha poi dettato, per i magistrati amministrativi, le norme di cui sopra.


Esso, fra, l’altro, in attuazione di tale previsione legislativa:


a) ha affermato il principio per cui i magistrati amministrativi, fatte “salve le attività che costituiscono espressione delle libertà e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione” ( art. 1, comma 1 ), non possono svolgere incarichi se non nei casi espressamente previsti dalle leggi dello Stato o dal regolamento medesimo (art. 2, comma 1);


b) ha stabilito che “gli incarichi sono attribuiti dal Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa” ( art. 3, comma 1 ): il che risponde alla evidente ratio di accentuazione della garanzia di indipendenza dei magistrati amministrativi, in linea con il ricordato vincolo di risultato posto dalla Costituzione all’art. 108, a garanzia tanto dell’indipendenza e dell’imparzialità dei singoli magistrati, quanto, in fin dei conti, del buon funzionamento del servizio della giustizia amministrativa, così nell’esercizio della funzione consultiva come nell’esercizio di quella giurisdizionale;


c) ha elencato una serie di incarichi consentiti in via generale ( art. 3, comma 3 ), fra cui quelli "di studio, di ricerca e di collaborazione scientifica o culturale” (lettera e)) e quelli “presso la Presidenza della Repubblica, il Parlamento, la Corte costituzionale, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, i Ministeri, altri organi di rilevanza costituzionale” ( lettera a) );


d) ha previsto che “gli incarichi non possono essere conferiti né autorizzati quando l'espletamento degli stessi, tenuto anche conto delle circostanze ambientali, sia suscettibile di determinare una situazione pregiudizievole per l'indipendenza e l'imparzialità del magistrato, o per il prestigio e l'immagine della magistratura amministrativa” ( art. 2, comma 2 );


e) ha elencato alcuni tipi di incarichi vietati ( art. 3, comma 6 ), fra i quali, in particolare, gli “incarichi di consulenza o collaborazione svolte in favore di soggetti privati” ( lettera a ) ) e gli “incarichi di consulenza, conferiti da amministrazioni od enti pubblici, che consistano in prestazioni riconducibili ad attività libero-professionali” ( lettera b );


f) ha stabilito, ancora, per quanto qui interessa, che “il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, sulla base di criteri oggettivi e previamente adottati, valuta la natura e il tipo dell'incarico, il suo fondamento normativo, la compatibilità con l'attività d'istituto, anche sotto il profilo della durata dell'incarico medesimo e dell'impegno richiesto, il numero complessivo dei magistrati amministrativi utilizzati dall'amministrazione richiedente, l'adeguatezza dell'incarico alla qualificazione ed al prestigio del magistrato, il numero e la qualità degli incarichi espletati dal magistrato interessato nell'ultimo quinquennio, avendo speciale riguardo agl'incarichi in corso di svolgimento, nonché all'opportunità che l'incarico venga espletato, in relazione all'eventuale pregiudizio che possa derivarne, anche di fatto, al prestigio e all'immagine del magistrato, a tal fine tenendo particolare conto delle situazioni locali” (art. 2, comma 3): così rendendo espliciti, ad un tempo prevedendone l’integrazione da parte del Consiglio di Presidenza, quei criterii generali previsti dalla legge ai fini del conferimento od autorizzazione di incarichi ( v. comma 5 dell’art. 58 del D. Lgs. N. 29/1993 );


g) ha disposto che gli incarichi sono attribuiti sulla base di una richiesta non nominativa dell’Amministrazione interessata, o anche, in base a motivate ragioni, su indicazione nominativa ( art. 3, commi 2 e 4 ).


5. – Ordunque, alla luce di tale quadro normativo, secondo il T.A.R., “la determinazione delle ipotesi in cui gli incarichi possono essere vietati in via aprioristica ai magistrati amministrativi è rigorosamente riservata dal legislatore alle fonti normative primarie e secondarie, con la conseguenza che si deve escludere che ulteriori divieti di siffatta natura possano essere introdotti in sede di autodeterminazione amministrativa” ( pagg. 7 - 8 sent. ) e dunque la impugnata disposizione, di cui all’ultimo comma dell’art. 16 delle “Norme generali per il conferimento o l’autorizzazione di incarichi”, precludendo incarichi che non appaiono riconducibili ad alcuno dei casi di divieto previsti dal D.P.R. n. 418 del 1993, sarebbe illegittima; così come sarebbe illegittima, secondo lo stesso T.A.R., la disposizione di cui all’art. 4, comma 1, lett. f) delle stesse “Norme generali” (previsione non esplicitamente richiamata come base giuridica dell’opposto diniego, ma ugualmente impugnata con il ricorso originario), che ugualmente integerebbe l’introduzione di un’ipotesi generale ed astratta di divieto, non rientrante tra le competenze del Consiglio di Presidenza.


Le conclusioni del Giudice di primo grado, seppur per certi versi corrette ( nei términi e nei limiti che si vedranno qui di séguito ), non possono, conformemente alle tesi esposte con l’atto di appello dalle Amministrazioni interessate, comunque portare all’accoglimento del ricorso originario proposto dagli odierni appellati.


A parere di questo Collegio, la disciplina legislativa in considerazione ( vòlta, come s’è visto, a determinare le possibilità, i limiti, le condizioni e le modalità per l’attribuzione ai magistrati amministrativi di incarichi estranei ai loro còmpiti di istituto ) va letta tenendo ben presenti i principii costituzionali, che vengono in gioco e, in particolare, quello di indipendenza del plesso della Giustizia Amministrativa e dei suoi componenti ( art. 100, terzo comma, della Costituzione e art. 108, secondo comma, della Costituzione), tanto più pregnanti, oggi, alla stregua del nuovo testo dell’art. 111 della stessa Carta fondamentale, a norma del quale “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale” ( secondo periodo del comma 1 ).


Le esigenze di salvaguardia dell’indipendenza e dell’imparzialità dei magistrati amministrativi ( che costituiscono connotato e condizione essenziale per l’esercizio della funzione loro attribuita ) presiedono, in particolare, a quelle, delle vedute disposizioni:


- che sottolineano, in vario modo, che le “esigenze ambientali” possono essere suscettibili “di determinare una situazione pregiudizievole per l’indipendenza e l'imparzialità del magistrato, o per il prestigio e l'immagine della magistratura amministrativa”, sì che in tal caso “gli incarichi non possono essere conferiti né autorizzati” (comma 2 dell’art. 2 del D.P.R. n. 418 del 1993);


- che prevedono che il Consiglio di Presidenza debba valutare, tra l’altro, la “opportunità che l'incarico venga espletato, in relazione all'eventuale pregiudizio che possa derivarne, anche di fatto, al prestigio e all'immagine del magistrato, a tal fine tenendo particolare conto delle situazioni locali” (art. 2, comma 3);


- che, per quanto riguarda in particolare gli incarichi cc.dd. locali, prescrivono che “l'autorizzazione del Consiglio di presidenza è deliberata avuto riguardo … agli speciali problemi che si possono porre in concreto in relazione allo svolgimento della funzione giurisdizionale nel medesimo ambito territoriale” ( art. 5, comma 1 ).


Tutto ciò in considerazione del significativo profilo teleologico, secondo cui, dalla assunzione di determinati incarichi, può derivare, a giudizio dello stesso legislatore, un vulnus all’esercizio imparziale ed indipendente di determinate, fondamentali, funzioni ( quelle consultive e giurisdizionali attribuite al plesso della Giustizia amministrativa ), connaturato alla stessa essenza di un ordinamento democratico; sì che le disposizioni appena vedute, nel prevedere condizioni e procedure per il conferimento o per l’autorizzazione degli incarichi compatibili con tale imprescindibile presupposto, mirano indubbiamente ad allontanare ogni rischio di intreccio fra gli incarichi conferiti od autorizzati al Magistrato e le funzioni istituzionali dallo stesso svolte: sia in quanto può esservi una interferenza diretta fra compiti proprii ed ulteriori attività svolte, sia in quanto l'attribuzione stessa, o la possibilità di attribuzione, dell'incarico, per la sua natura e per i vantaggi che possono derivarne, può tradursi in un indiretto condizionamento del magistrato ( v. Corte cost., 26 maggio 1999, n. 224, cit. ).


Del resto, che la disciplina di cui al D.P.R. 6 ottobre 1993, n. 418 sugli incarichi ai magistrati amministrativi sia teleologicamente intesa, al pari delle disposizioni di cui agli artt. 51 e 52 cod. proc. Civ., a concretizzare quella auspicabile e doverosa situazione di terzietà e di imparzialità, di recente ribadita nel nuovo testo del comma 2 dell’art. 111 Cost. e da lungo tempo ritenuta coessenziale al nostro ordinamento, non soltanto processuale, è stato di recente posto in adeguato rilievo dall’Adunanza Generale di questo Consiglio con parere 27 febbraio 2003, n. 273.


Il rischio ineludibile di un intreccio tra lo svolgimento dei primi e delle seconde è dallo stesso regolamento presidenziale considerato massimo in relazione agli incarichi cc.dd. locali, “in relazione allo svolgimento della funzione giurisdizionale nel medesimo ambito territoriale” (v. art. 5 cit.), mentre per gli incarichi cc.dd. “centrali” gli analoghi “speciali problemi”, che pur in teoria potrebbero porsi, sono con tutta evidenza ritenuti di minor spessore e comunque superabili con il ricorso all’istituto dell’astensione, più che sufficiente, in tal caso, secondo l’implicito dettato del regolamento, a dissipare ogni dubbio circa l’indipendenza e l’imparzialità del magistrato; sì che la illogicità di “una regolamentazione delle due simili tipologie di incarichi in termini diametralmente opposti”, che il T.A.R. ravvisa nelle “norme generali” di cui si discute, non pare sussistere, atteso il ben diverso “rischio” di condizionamento presente nelle due ipotesi e ferma restando, comunque, la generalizzata prescrizione, valevole per qualsiasi tipologia di incarico, che impone la valutazione, da parte del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, “ai fini del conferimento o dell’autorizzazione”, in particolare della “adeguatezza dell’incarico alla qualificazione ed al prestigio del magistrato” e della “opportunità che l’incarico venga espletato, in relazione all’eventuale pregiudizio che possa derivarne, anche di fatto, al prestigio e all’immagine del magistrato” ( comma 3 dell’art. 2 del D.P.R. n. 418, cit. ).


A questo punto pare al Collegio evidente, da un lato, come il generalizzato divieto, per i magistrati amministrativi, di assumere incarichi di studio, ricerca e collaborazione presso le regioni, nonché presso gli enti territoriali e locali (di cui al contestato ultimo comma dell’art. 16 delle “Norme generali” in considerazione), non trovi riscontro in alcuna delle ipotesi di divieto formulate dal D.P.R. 6 ottobre 1993, n. 418; dall’altro, come tale generalizzato divieto venga anzi chiaramente a confliggere con l’espressa previsione, da parte del D.P.R. medesimo, della possibilità, per i magistrati stessi, di svolgere incarichi anche presso “organi di rilevanza costituzionale” (lettera a) del comma 3 dell’art. 3), fra i quali vanno certamente annoverate le Regioni ( che già negli anni ’70 del XX secolo la dottrina più illuminata configurava come enti, o organi, costituzionali ), cui, oggi, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione ad òpera della legge costituzionale n. 3/2001, vanno opportunamente assimilati, in una visione armonica della complessa realtà ordinamentale costituzionale risultantene, anche Comuni, Province e Città metropolitane, che, unitamente allo Stato, costituiscono la Repubblica ( art. 114 Cost. ); nonché a confliggere con la successiva previsione della lettera a) del comma 6 dell’art. 3 cit., che, nel mentre vieta incarichi di collaborazione da svolgersi in favore di soggetti privati, implicitamente ma chiaramente ammette il conferimento di similari incarichi da parte di soggetti pubblici ( salvo il divieto di esercitare attività libero-professionali in favore di amministrazioni od enti pubblici ).


Così come appare evidente che il divieto stesso, strutturato com’è in termini assoluti rispetto a qualsiasi rapporto instaurabile tra un magistrato amministrativo ed una qualsivoglia regione od ente locale, non sia nemmeno configurabile come fattispecie di integrazione, da parte del Consiglio di Presidenza, del sistema normativo sugli incarichi, che nel sistema stesso trovi, quantomeno in nuce, giustificazione e presupposti.


Ciò non significa che il Consiglio di presidenza della Giustizia Amministrativa, chiamato a conferire o ad autorizzare siffatti incarichi, non abbia il potere/dovere di vegliare perché l'espletamento degli stessi, "tenuto anche conto delle circostanze ambientali", non sia "suscettibile di determinare una situazione pregiudizievole per l'indipendenza e l'imparzialità del magistrato, o per il prestigio e l'immagine della magistratura amministrativa” (art. 2, comma 2, del D.P.R. n. 418 del 1993 ); e che tale potere non possa e non debba esplicarsi in un giudizio sulla compatibilità condotto caso per caso alla luce della specificità della situazione concreta.


Quei criterii oggettivi, ch’esso Consiglio deve preventivamente darsi ai sensi dell’art. 2, comma 3, del D.P.R. n. 418 del 1993 ( e che non differiscono poi da quegli “ulteriori criteri di massima da esso stesso eventualmente fissati”, che devono presiedere all’autorizzazione per gli incarichi “locali”, di cui all’art. 5 dello stesso D.P.R. ), possono dunque legittimamente recare parametri per la valutazione di opportunità ( che caso per caso compete poi allo stesso Consiglio ), i quali, con riguardo alla natura degli interessi coinvolti, al contenuto delle prestazioni da svolgersi dal magistrato autorizzando, alle modalità di erogazione delle stesse, all’ammontare del corrispettivo, valgano a garantire che l‘incarico, di cui di volta in volta si tratti, non ingeneri tra le parti un rapporto tale da compromettere ( almeno potenzialmente ) l’autonomia e la serenità di giudizio del magistrato e quindi, in definitiva, la sua imparzialità.


Non potranno, invece, quegli stessi criterii, rappresentare una integrazione indebita delle vedute fonti primarie e secondarie ( che determinano i limiti e le condizioni di ammissibilità degli incarichi in genere ), qualora l’integrazione stessa non trovi fondamento nel sistema dei principii ricavabile dalle fonti medesime.


Una tale indebita integrazione ha, invece, indubbiamente realizzato l’introduzione del contestato ultimo comma dell’art. 16 delle “norme generali”, nel prevedere, così come indubbiamente prevede, un generalizzato divieto di collaborazione dei magistrati amministrativi con Regioni ed enti locali, non solo non espressamente rinvenibile nelle norme di rango superiore, ma che delle stesse non può nemmeno dirsi logico e consequenziale sviluppo.


Laddove, dunque, esistano, nella materia della assunzione di incarichi da parte dei magistrati amministrativi, spazii di discrezionalità rivenienti dal logico sviluppo delle norme di rango superiore, ben potrà il Consiglio di Presidenza enucleare criterii oggettivi e generali ( rigidi quanto si vuole, ma non per questo necessariamente illegittimi), a salvaguardia di ogni possibile pregiudizio della indipendenza ed imparzialità del magistrato; e ciò nell’àmbito della legittima funzione di integrazione, da parte di fonti diverse dalla legge e riconducibili al potere di auto-organizzazione delle magistrature, del sistema che configura lo status del magistrato, purché trattisi di un’integrazione coerente con le fonti sovraordinate e, soprattutto, con i principii dettati dalla Costituzione sulla posizione del Giudice, tanto con riferimento all’ordine giudiziario, quanto, ed a maggior ragione, per le altre giurisdizioni, che a quello non si ricollegano e per le quali la stessa Costituzione prevede, come s’è già detto, un diverso assetto e diverse modalità di assicurazione delle garanzie di indipendenza ( v. Cons. St., ad. gen., 7 giugno 1993, n. 58, cit. ).


Se, come s’è visto, le norme sovraordinate non prevedono né giustificano il veduto generalizzato divieto di collaborazione dei magistrati amministrativi con Regioni ed enti locali, deve invece ritenersi che le stesse norme contengano indici e principi tali, quanto agli incarichi cc.dd. locali ( quelli attribuiti, cioè, da un ente ricadente nella circoscrizione territoriale, nell’àAmbito della quale il magistrato eserciti le sue funzioni ), da consentire al Consiglio di Presidenza, nella sede generale della predeterminazione dei “criterii” e nell’esercizio della funzione di integrazione del sistema riconosciutagli ( da esplicarsi peraltro con adeguata e calibrata formulazione ), di considerare l’àmbito territoriale dell’incarico come un generalizzato ostacolo all’indipendenza ed imparzialità dei magistrati, così da indurlo a voler impedire che si crei l’accennato rischio di intreccio, pericoloso per l’indipendenza del plesso della Giustizia amministrativa e dei suoi magistrati, non tanto con riguardo a singole occasioni, ma sistematicamente ( in una prospettiva organica, che si imperni sulla peculiarità del contesto, in cui viene a collocarsi la speciale tipologia di tali incarichi ).


Nella sede generale ed astratta dei menzionati criteri ben potrà dunque il Consiglio individuare negli incarichi “locali” una fonte di possibile pregiudizio della indipendenza ed imparzialità del magistrato e dunque ritenere, in via generale ed astratta, l’inopportunità dei medesimi: valutazione, questa, che rientra certamente tra i còmpiti affidati al Consiglio e che un organo particolarmente “attento” ad evitare gli accennati rischi di intreccio e le pressioni delle situazioni contingenti ben può spostare dalla sede del “caso per caso” alla sede generale ed astratta dei criteri.


Ben potranno, così, trovare in quella sede collocazione norme ( quale quella di cui alla lettera f) del comma 1 dell’art. 4 delle “Norme generali” in vigore ), che inibiscano particolare tipologie oggettive di incarichi e cioè solo quelli rivenienti da Amministrazioni il cui rapporto extra-istituzionale con magistrati si rivela ex ante “a rischio”.
Laddove, in sostanza, il criterio inibitorio dettato dal Consiglio di Presidenza costituisca da una parte diretta attuazione dei veduti principi costituzionali e dall’altra logico sviluppo di quella particolare attenzione alle “situazioni locali”, sulla quale lo stesso D.P.R. n. 418 richiama più volte l’attenzione ai fini della autorizzabilità dell’incarico ( v. art. 2, comma 3 ed art. 5 ), allora esso costituisce, in definitiva, legittimo ( e lodevole ) esercizio dei compiti di salvaguardia della indipendenza e della imparzialità dei magistrati, ogni possibile menomazione delle quali rischia di tradursi in un vulnus al nostro ordinamento costituzionale; ed una tale “norma generale” non potrà che considerarsi legittima.


Se ciò non può dirsi, come s’è visto, della disposizione di cui al terzo comma dell’art. 16 delle stesse “Norme”, il quale, proprio in virtù della sua formulazione per così dire “assoluta”, vieta indifferenziatamente tutti gli incarichi attribuiti da qualunque Regione od ente locale alla generalità dei magistrati amministrativi ( e ciò, si ribadisce, perché un tale divieto indifferenziato non trova rispondenza né nelle norme di rango immediatamente superiore né nei principi generali degli ordinamenti giurisdizionali rinvenibili nella Costituzione ), diversamente deve dirsi della citata lettera f) del comma 1 dell’art. 4 delle “Norme generali” in vigore, che reca proprio uno specifico divieto di conferimento od autorizzazione di incarichi ai magistrati che facciano parte di un T.A.R. o di una sezione staccata ovvero del C.G.A., qualora l’amministrazione interessata all’incarico sia un ente od un organo regionale od infraregionale la cui attività ricada nell’ambito della competenza giurisdizionale degli stessi ( disposizione di cui, peraltro, è stata proprio di recente riconosciuta la legittimità: cfr. Cons. St., ad. gen., n. 273/03 ).


L’appartenenza ad un ufficio giudiziario con limitata competenza territoriale crea infatti nel magistrato, a parere di questo Collegio, un inevitabile radicamento territoriale, sì che l’affidamento, in suo favore, di un incarico da parte di un ente pubblico operante nell’ambito della stessa circoscrizione, è suscettibile di compromettere sia l’apparenza che la sostanza di indipendenza del magistrato stesso, che si troverebbe presente in un Collegio giudicante composto di membri, che hanno assunto ( o potranno assumere ) il ministero di consulente o collaboratore di quella stessa parte pubblica, di cui devono poi giudicare in sede di controversia dinanzi al giudice amministrativo.


Né a tali inconvenienti ( sui quali, si ripete, è lo stesso D.P.R. n. 418 ad invitare il Consiglio di Presidenza ad una speciale valutazione ) si può ritenere che si possa rimediare facendo ricorso al solo istituto della astensione del magistrato, la cui applicazione sistematica, in relazione ai rapporti “professionali” intercorrenti tra magistrati ed enti anche di notevole rilevanza ( quali le Regioni o certi Comuni e Province ) e semmai con più magistrati dello stesso T.A.R. che si trovino in cotali rapporti con lo stesso ente, è suscettibile di arrecare un vulnus non indifferente alla efficienza del sistema della giustizia amministrativa.


In conclusione, la disposizione dell’art. 16 delle “Norme generali”, di cui si discute, deve considerarsi illegittima, atteso che preclude a qualunque magistrato amministrativo il conferimento di incarichi da parte di qualsivoglia Regione od ente locale; mentre legittima si appalesa, invece, la specifica disposizione dettata dalla citata lettera f) del comma 1 dell’art. 4 delle “Norme generali”, laddove prevede un divieto operante in relazione ai soli incarichi ricevuti dal magistrato T.A.R. o del Consiglio di giustizia amministrativa della Regione siciliana da parte di un ente operante nell’àmbito della sede dell’ufficio giudiziario medesimo.


E ciò, si ripete, in diretta applicazione dei principi costituzionali, oltre che degli artt. 2 e 5 del D.P.R. n. 418/93, che, nel richiamare l’attenzione del Consiglio di presidenza sulla particolare delicatezza delle “situazioni locali”, ben consentono ad esso, nell’esercizio del potere di integrazione del sistema riconosciutogli, di far assurgere quelle “situazioni” ad elemento potenzialmente deflagrante per il prestigio della magistratura amministrativa, tale da giustificare un sistematico diniego delle relative autorizzazioni e dunque, in definitiva, un criterio inibitorio, che, pur rimanendo circoscritto, precluda valutazioni del “caso per caso”, di cui il Consiglio di Presidenza stesso, nel dettare il criterio, ha ravvisato la sostanziale insufficienza a garantire i valori tutelati dalla norma; giacché la dipendenza, anche economica, che si verrebbe in tal modo ad instaurare tra magistrato ed ente, è tale da rendere palese il rischio di un intreccio fra i due ordini di funzioni, suscettibile di tradursi in una menomazione dell’indipendenza e della imparzialità dei magistrati, tutelate dall’art. 100, comma 3 e dall’art. 108, comma 2, Cost. ( v. Corte Cost., n. 229 del 1994, cit. ).


Né ciò, per finire, pare poter realizzare una qualche disparità di trattamento tra magistrati operanti in ambito territoriale locale e magistrati operanti in ambito centrale, stante la sostanziale differenza delle situazioni in considerazione, atteso che per i secondi la “contaminazione” tra funzioni istituzionali ed incarichi conferiti da Regioni ed enti locali operanti nell’àmbito della circoscrizione territoriale di appartenenza del magistrato appare di molto attenuata dal ben differente ( per non dire nullo ) radicamento territoriale della istituzione giudiziaria e del singolo magistrato, oltre che dalla problematicità assai minore del ricorso, laddove ve ne sia bisogno, all’istituto dell’astensione del magistrato.


6. - Facendo applicazione dei principii di cui sopra al caso di specie, in cui gli odierni appellati sono magistrati amministrativi in servizio presso il T.A.R. per la Sardegna ed aspirano al conferimento di un incarico di collaborazione da parte della Regione Sardegna, verificandosi la “connessione” territoriale di cui si è detto, idonea a sorreggere la determinazione assunta dall’Amministrazione si appalesa la “norma generale”, di cui all’art. 4), comma 1, lett. f), di cui è stata sopra riconosciuta la legittimità per essere essa priva dei vizi dedotti in primo grado, atteso che la stessa appare non solo “suscettibile … di precludere”, ma effettivamente preclusiva del conseguimento della autorizzazione, cui aspirano gli odierni appellati.


L’appello spiegato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dal Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa è, in conclusione, fondato, nei términi di cui sopra.


7. – La fondatezza dell’appello obbliga peraltro il Collegio all’esame del motivo sub 3 dei motivi aggiunti del ricorso di primo grado, che, assorbito dalla favorevole sentenza del T.A.R., è stato dagli appellati espressamente riproposto con la memoria difensiva depositata in data 29 marzo 2003.
Lamentavano i ricorrenti, con quella censura, eccesso di potere per difetto di motivazione, violazione dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, nonché violazione dei principii generali che disciplinano l’attività degli organi collegiali.


La doglianza è da respingere.


Con la contestata determinazione, infatti, il Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa ha denegato l’assenso alla richiesta di autorizzazione approvando la proposta negativa della I Commissione sulle richieste designazioni da parte della Regione Sardegna; e tale proposta era ( come risulta dalla relazione del Consigliere Nicolosi ) quella “di non assentire alla richiesta perché in contrasto con l’art. 16 dei vigenti criteri, in quanto individua magistrati in servizio presso il T.A.R. Sardegna”.


Rispetto a tale proposta, il dibattito consiliare risulta essersi svolto lungo una direttrice di interpretazione delle “Norme generali” e di opportunità od inopportunità di consulenze “locali” da parte dei magistrati T.A.R., senza nulla aggiungere o togliere alla proposta medesima, che infatti risulta posta in votazione, al términe della discussione, nella sua formulazione proveniente dalla Commissione, senz’alcuna integrazione o modifica conseguente all’andamento del dibattito.


Risultando, poi, la proposta stessa congruamente motivata mediante l’espresso richiamo del contrasto tra la richiesta ed il disposto dell’art. 16 dei criterii, alcun vizio della motivazione appare nella fattispecie ravvisabile, atteso peraltro che poi gli stessi ricorrenti hanno fin dal ricorso di primo grado individuato nella norma di cui all’art. 4, comma 1, lett. f) dei criterii medesimi la disposizione effettivamente preclusiva dell’agognato incarico e l’hanno, infatti, opportunamente impugnata.


8. - In definitiva, in accoglimento dell’appello proposto, la sentenza del Giudice di primo grado va annullata e, per l’effetto, il ricorso di primo grado deve essere respinto.


Sussistono giusti motivi per compensare integralmente tra le parti le spese di entrambi i gradi di giudizio.


P.Q.M.


il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso di primo grado.
Spese compensate.


Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, addì 17 giugno 2003, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sezione Quarta – riunito in Camera di consiglio con l’intervento dei seguenti Magistrati:
Paolo Salvatore - Presidente
Livia Barberio Corsetti - Consigliere
Anna Leoni - Consigliere
Bruno Mollica - Consigliere
Salvatore Cacace - Consigliere, rel. est.

 

M A S S I M E

 

Sentenza per esteso

 

1) Conferimento ai magistrati di incarichi estranei alle loro funzioni - la disciplina legislativa - i limiti, le condizioni e le modalità per l'attribuzione - opportunità od inopportunità di consulenze “locali” da parte dei magistrati - la “contaminazione” tra funzioni istituzionali ed incarichi conferiti da Regioni ed enti locali operanti nell’àmbito della circoscrizione territoriale di appartenenza del magistrato. La disciplina legislativa, che determina la possibilità, i limiti, le condizioni e le modalità per l'attribuzione a magistrati (dell'ordine giudiziario o delle magistrature speciali) di incarichi estranei ai loro compiti di istituto, attiene, secondo la costante interpretazione offertane nella giurisprudenza della Corte costituzionale (cfr. sentt. n. 4 del 1956, n. 81 del 1976, n. 43 del 1982, n. 150 del 1993 e, da ultimo, n. 86 e n. 224 del 1999), allo status del magistrato e rientra dunque nell'ambito della riserva di legge statale sancita dall'art. 108, comma 1, della Costituzione. Ha sottolineato, infatti, la Corte che, come per tutti i pubblici dipendenti così per i magistrati, i limiti di compatibilità dell'ufficio ricoperto con lo svolgimento di altre attività e con l'assunzione di altri incarichi sono un elemento del loro stato giuridico. In particolare, poi, per i magistrati, l'assunzione di compiti e lo svolgimento di attività estranee a quelle proprie dell'ufficio ad essi affidato - anche quando non richiedano una sospensione o una riduzione delle funzioni ordinarie del magistrato - sono fattori suscettibili, in astratto, di incidere sulla loro indipendenza ed imparzialità, connotato e condizione essenziale per l'esercizio della funzione loro attribuita: sia in quanto può esservi una interferenza diretta fra compiti propri e ulteriori attività svolte, sia in quanto l'attribuzione stessa, o la possibilità di attribuzione, dell'incarico, per la sua natura e per i vantaggi che possono derivarne, può tradursi in un indiretto condizionamento del magistrato. Nessun dubbio può dunque sussistere in òrdine al fatto che una tale disciplina deve, in concreto, essere rispettosa delle esigenze di salvaguardia dell'indipendenza e dell'imparzialità e dunque prevedere condizioni e procedure per il conferimento o per l'autorizzazione all'assunzione dell'incarico con esse compatibili. “Né”, ha aggiunto la Corte costituzionale, “potrebbe esservi ragione per distinguere fra magistrati dell'ordine giudiziario o comunque istituzionalmente investiti solo di funzioni giurisdizionali, e magistrati cui possono essere attribuite anche funzioni diverse, come quelli del Consiglio di Stato e della Corte dei conti” ( sent. n. 224/99 ); ciò in ragione della unicità dello status oggi previsto per questi ultimi, al di là della contingente attribuzione di funzioni giurisdizionali o di altre funzioni. “Consiglio di Stato e Corte dei conti”, ha concluso la Corte, “sono istituti appartenenti all'ordinamento statale … dei cui componenti la legge statale è tenuta a garantire l'indipendenza dal Governo (art. 100 comma 3 della Costituzione), e a maggior ragione da organi politici territoriali” (sent. n. 224/99, cit.). Conforme: Consiglio di Stato, Sezione IV, 30 luglio 2003, sentenza n. 4406. Consiglio di Stato, Sezione IV, 30 luglio 2003, sentenza n. 4407

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