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 Massime della sentenza

  

 

Consiglio di Stato Sezione V, 24 settembre 2003 - sentenza n. 5456 .

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Quinta Sezione ANNO 1998 ha pronunciato la seguente
 

decisione


sul ricorso in appello n. 4307/1998 proposto dal Comune di Grottaferrata, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avv. Guglielmo Boazzelli ed elettivamente domiciliato presso la Segreteria del Consiglio di Stato in Roma, Piazza Capo di Ferro n.13;
CONTRO
Cadeddu Massimo, rappresentato e difeso dall’Avv. Luigi Manzi ed elettivamente domiciliato presso lo stesso in Roma, Via F. Confalonieri n.5;
per l’annullamento
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio n.1605/97 in data 20.10.1997;
Visto l’atto di appello con i relativi allegati;
Visti l’atto di costituzione in giudizio e la memoria difensiva di Cadeddu Massimo;
Visti gli atti tutti della causa;
Alla pubblica udienza del 27 maggio 2003, relatore il consigliere Carlo Deodato, uditi gli avvocati C. Manzi e C. Boazzelli per delega dell’avv. G. Boazzelli;


Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
 

FATTO


Con la sentenza impugnata veniva annullato, in accoglimento del ricorso proposto dall’Ing. Cadeddu Massimo dinanzi al T.A.R. del Lazio, il provvedimento prot. n.171/6092 in data 23 dicembre 1992 con il quale il Comune di Grottaferrata aveva negato la concessione edilizia per la realizzazione di lavori di ristrutturazione ed ampliamento di un villino di proprietà del ricorrente.


Avverso la predetta decisione proponeva rituale appello il Comune di Grottaferrata, difendendo la legittimità del proprio operato e domandando l’annullamento della sentenza impugnata.


Resisteva l’Ing. Cadeddu, sostenendo la correttezza della pronuncia gravata e contestando la fondatezza dell’appello, del quale domandava la reiezione.


Alla pubblica udienza del 27 maggio 2003 il ricorso veniva trattenuto in decisione.


DIRITTO


1.- Le parti controvertono sulla legittimità del provvedimento con il quale il Comune di Grottaferrata ha negato la concessione edilizia richiesta dall’Ing. Massimo Cadeddu per la realizzazione di lavori di ristrutturazione e di ampliamento di un villino di sua proprietà, sulla base del duplice rilievo che non erano stati approvati i piani particolareggiati di esecuzione prescritti per i comprensori di espansione dal p.r.g. entro il termine di cinque anni dall’approvazione di quest’ultimo e che la sopravvenuta inefficacia, ai sensi dell’art.2 legge 19 novembre 1968, n.1187, delle previsioni dello strumento urbanistico generale pertinenti la zona ove insiste l’immobile del ricorrente comportava la soggezione dell’intervento edilizio alle restrittive prescrizioni dettate dagli artt. 4 ultimo comma legge 28 gennaio 1977, n.10 e 1 della legge regionale del Lazio 24 novembre 1990, n.86.
Il T.A.R. del Lazio, adìto dall’Ing. Cadeddu, ha giudicato errata la motivazione assunta a sostegno dell’atto negativo impugnato, rilevando, in particolare, che l’omessa approvazione dei piani particolareggiati non implicava, come erroneamente affermato dal Comune, l’applicazione degli artt. 4, ultimo comma, l. n.10/77 e 1 l.r. n.86/90, che presuppongono la mancanza assoluta di strumenti urbanistici generali, ma imponeva, comunque, all’amministrazione di formulare la valutazione di compatibilità sulla base dei parametri edilizi contenuti nel p.r.g., la cui disciplina veniva contestualmente ritenuta sufficientemente puntuale.


L’appellante Comune ribadisce le ragioni assunte a sostegno del diniego, continuando a sostenere che l’omessa approvazione dei piani particolareggiati relativi alla localizzazione delle zone verdi precludeva ogni intervento edilizio nella zona, ed invoca l’annullamento della pronuncia gravata.


L’appellato Cadeddu difende, invece, la correttezza del convincimento espresso dai primi giudici e conclude per la reiezione del ricorso.


2.- Rileva, innanzitutto, il Collegio che l’appellante, lungi dal criticare il decisum gravato e dall’esporre, quindi, specifiche ragioni di doglianza della correttezza dell’iter logico-giuridico che ha condotto i giudici di prima istanza a pronunciare il giudizio impugnato, si limita a ribadire e a sviluppare gli argomenti addotti a sostegno dell’atto negativo annullato in prime cure, senza neanche tentare di censurare il percorso argomentativo sulla cui base il T.A.R. ha giudicato erronea la motivazione del diniego (qui meramente ripetuta).


Mentre, infatti, il Tribunale laziale ha spiegato le ragioni per le quali ha escluso l’applicabilità al procedimento controverso del combinato disposto degli artt. 4, ultimo comma, l. n.10/77 e 1 l.r. n.86/90 ed ha, di contro, affermato la necessità di assumere il vigente p.r.g. quale parametro di verifica della compatibilità del progetto presentato dall’istante, l’appellante ha omesso (come, invece, avrebbe dovuto) di confutare e di criticare la correttezza di tale motivazione e ha circoscritto il contenuto delle doglianze formulate con l’appello alla mera (ma insufficiente) ripetizione delle difese svolte in primo grado.


Deve, in proposito, affermarsi che costituisce specifico onere dell’appellante formulare una critica puntuale della motivazione della sentenza impugnata, posto che l’oggetto del giudizio d’appello è costituito da quest’ultima e non dal provvedimento gravato in primo grado, e che il suo assolvimento esige la deduzione di specifici motivi di contestazione della correttezza del percorso argomentativo che ha fondato la decisione appellata (cfr. ex multis C.S., Sez. V, 12 novembre 2002, n.6243).


Il rilevato mancato assolvimento di tale onere, con le modalità appena precisate, determina, quindi, l’inammissibilità dell’appello.


3.- Quand’anche, tuttavia, si intendesse procedere all’esame del merito dell’appello, prescindendo dall’assorbente rilievo di inammissibilità sopra esposto, si perverrebbe, in ogni caso, alle medesime conclusioni reiettive, alla stregua delle sintetiche considerazioni di seguito svolte.


Se, invero, appare già dubbia la configurabilità nella vicenda dedotta in giudizio degli estremi della fattispecie regolata dal disposto dell’art.2 legge 1187/68 (ritenuto, peraltro, applicabile al caso di specie dagli stessi primi giudici), non può, tuttavia, dubitarsi che la portata delle conseguenze dell’omessa approvazione degli strumenti attuativi del p.r.g. è diversa da quella ipotizzata, applicata e sostenuta dal Comune.


A fronte, infatti, della riscontrata (e non contestata) sussistenza di una disciplina generale sufficientemente dettagliata (siccome comprensiva di puntuali indicazioni in merito alla tipologia degli interventi assentibili, agli indici di edificabilità, alle zone di rispetto ecc.) e della portata limitata dell’intervento in questione (ristrutturazione ed ampliamento di un edificio residenziale esistente), la qualificazione dell’area come “zona bianca” (nella specie operata dal Comune) e l’assoggettamento dell’intervento alle rigorose prescrizioni contenute nell’ultimo comma dell’art.4 della legge n.10/77 si appalesano del tutto irragionevoli ed errati, in quanto postulano l’inesistente presupposto dell’assenza di un regime urbanistico di per sé sufficiente a consentire la valutazione della compatibilità edilizia dell’edificazione richiesta e poichè trascurano di considerare la ridotta incidenza di quest’ultima sulla conformazione della zona (di talchè anche l’omessa localizzazione delle zone verdi si appalesa del tutto insufficiente a legittimare il controverso diniego).


La sanzione dell’inefficacia dei vincoli in questione (quand’anche configurabile) non implica, invero, la decadenza di tutta la disciplina urbanistica ed edilizia concernente la zona considerata (e non direttamente connessa alle prescrizioni, espropriative o conformative, decadute) ed impone, pertanto, all’amministrazione comunale di assumere quest’ultima quale paradigma valutativo della compatibilità del progetto presentato dall’interessato con il vigente regime generale.


Diversamente opinando si perverrebbe, peraltro, all’inaccettabile conseguenza di ritenere compresso sine die lo jus aedificandi a causa della colpevole inerzia del Comune nell’approvazione dei piani particolareggiati ed in presenza di una disciplina urbanistica generale (non direttamente connessa alla prescrizione, di localizzazione degli spazi verdi, rimasta inattuata) che, per la permanente efficacia dei suoi contenuti precettivi e per la sufficienza di questi ultimi, consente all’amministrazione di valutare, alla stregua degli standards vigenti, la compatibilità degli interventi edilizi progettati e le impedisce, al contempo, di applicare la disciplina prevista per le c.d. zone bianche.


4.- Alle predette considerazioni conseguono, in definitiva, la reiezione dell’appello e la conferma della decisione impugnata.


5.- Sussistono, tuttavia, giusti motivi per la compensazione tra le parti delle spese processuali.


P.Q.M.


Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, respinge il ricorso indicato in epigrafe; dichiara compensate le spese processuali;
ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.


Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 27 maggio 2003, con l'intervento dei signori:
EMIDIO FRASCIONE - Presidente
FRANCESCO D’OTTAVI - Consigliere
CLAUDIO MARCHITIELLO - Consigliere
ANIELLO CERRETO - Consigliere
CARLO DEODATO - Consigliere Estensore



L'ESTENSORE                          IL PRESIDENTE                                 IL SEGRETARIO                            IL DIRIGENTE
F.to Carlo Deodato                     F.to Emidio Frascione                         F.to Antonietta Fancello                  F.to Antonio Natale


DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 24 settembre 2003
(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)

 

M A S S I M E

 

Sentenza per esteso

 

1) Approvazione dei piani particolareggiati - compressione sine die lo jus aedificandi - standards vigenti - le c.d. zone bianche. E’ inaccettabile la conseguenza di ritenere compresso sine die lo jus aedificandi a causa della colpevole inerzia del Comune nell’approvazione dei piani particolareggiati ed in presenza di una disciplina urbanistica generale (non direttamente connessa alla prescrizione, di localizzazione degli spazi verdi, rimasta inattuata) che, per la permanente efficacia dei suoi contenuti precettivi e per la sufficienza di questi ultimi, consente all’amministrazione di valutare, alla stregua degli standards vigenti, la compatibilità degli interventi edilizi progettati e le impedisce, al contempo, di applicare la disciplina prevista per le c.d. zone bianche. Consiglio di Stato Sez. V, 24 settembre 2003 - sentenza n. 5456

2) Assenza di un regime urbanistico - indici di edificabilità - zone di rispetto - zona bianca - omessa localizzazione delle zone verdi - ristrutturazione ed ampliamento di un edificio residenziale esistente - l’assoggettamento dell’intervento alle rigorose prescrizioni - compatibilità edilizia dell’edificazione - la sanzione dell’inefficacia dei vincoli - la decadenza di tutta la disciplina urbanistica ed edilizia - prescrizioni, espropriative o conformative, decadute - compatibilità del progetto presentato dall’interessato con il vigente regime generale. A fronte, della riscontrata (e non contestata) sussistenza di una disciplina generale sufficientemente dettagliata (siccome comprensiva di puntuali indicazioni in merito alla tipologia degli interventi assentibili, agli indici di edificabilità, alle zone di rispetto ecc.) e della portata limitata dell’intervento in questione (ristrutturazione ed ampliamento di un edificio residenziale esistente), la qualificazione dell’area come “zona bianca” (nella specie operata dal Comune) e l’assoggettamento dell’intervento alle rigorose prescrizioni contenute nell’ultimo comma dell’art.4 della legge n.10/77 si appalesano del tutto irragionevoli ed errati, in quanto postulano l’inesistente presupposto dell’assenza di un regime urbanistico di per sé sufficiente a consentire la valutazione della compatibilità edilizia dell’edificazione richiesta e poichè trascurano di considerare la ridotta incidenza di quest’ultima sulla conformazione della zona (di talchè anche l’omessa localizzazione delle zone verdi si appalesa del tutto insufficiente a legittimare il controverso diniego). La sanzione dell’inefficacia dei vincoli in questione (quand’anche configurabile) non implica, invero, la decadenza di tutta la disciplina urbanistica ed edilizia concernente la zona considerata (e non direttamente connessa alle prescrizioni, espropriative o conformative, decadute) ed impone, pertanto, all’amministrazione comunale di assumere quest’ultima quale paradigma valutativo della compatibilità del progetto presentato dall’interessato con il vigente regime generale. Consiglio di Stato Sez. V, 24 settembre 2003 - sentenza n. 5456


 

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