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 Massime della sentenza

  

 

Consiglio di Stato, Sez. V, 15 ottobre 2003, Sentenza n. 6307.

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Quinta Sezione ANNO 1998 ha pronunciato la seguente


DECISIONE


Sul ricorso n. 619/1998 R.G. proposto da Caramuscio Martina, rappresentata e difesa dall’Avv. Franco Carrozzo ed elettivamente domiciliata in Roma, V.le G. Cesare n. 95, presso lo studio dell’Avv. E.Bruno,
CONTRO
- Comune di Monteroni di Lecce, in persona del sindaco p.t.;
PER LA PARZIALE RIFORMA
Della sentenza resa dal T.A.R. per la Puglia, sede di Lecce, sezione seconda, n. 503/1997, pubblicata in data 27.10.1997
Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;
Viste la memoria prodotta dalla ricorrente a sostegno della propria difesa;
Visti gli atti tutti della causa;
Nominato relatore il Consigliere Michele Corradino;
Udito alla pubblica udienza del 16/5/2003 Biagetti per delega dell’avv. Carrozzo;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:


F A T T O


Con ricorso ritualmente notificato e depositato adiva il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, sezione seconda di Lecce, unitamente a Mancarella Nadia, Caramuscio Martina, odierna appellante, la quale, avendo prestato servizio per vari anni alle dipendenze dell’IPAB “Asilo S.Giuseppe”, in qualità di insegnante di scuola materna, dal 1/9/82 al 23/2/83, dal 3/10/83 al 30/6/84, dal 20/9/84 al 30/6/85, dal 1/10/85 al 21/7/86, dal 27/10/86 al 30/6/87, dal 21/9/87 al 30/6/88, dal 19/9/88 al 30/6/89, e non avendo mai percepito una retribuzione superiore alle trecentomilalire mensili, esclusa ogni altra componente retributiva, chiedeva al Comune di Monteroni di Lecce, subentrato, dopo lo scioglimento dell’IPAB, a titolo universale nei rapporti dell’Istituzione, l’accertamento ed il riconoscimento dei propri diritti patrimoniali a percepire le differenze retributive tra quanto corrisposto e quanto previsto dai diversi contratti nazionali di categoria succedutisi nel tempo, oltre al trattamento di fine servizio ed all’indennità sostitutiva delle ferie non godute, con interessi e rivalutazione monetaria dalla maturazione al soddisfo.


L’adito Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, sede di Lecce, seconda sezione, dopo aver ritenuto sussistenti, nella Camera di Consiglio del 20/9/95, i presupposti per la concessione, nei limiti della parte di credito non prescritta, dell’invocata tutela cautelare, ha accolto parzialmente il ricorso, riconoscendo le pretese patrimoniali dell’appellante, ritenendo, però operante la prescrizione quinquennale, negando efficacia ad alcuni atti interruttivi della prescrizione ed escludendo la rivalutazione monetaria sulle somme dovute.


Avverso la predetta decisione proponeva rituale appello Martina Caramuscio, limitatamente al mancato riconoscimento dei rivendicati diritti patrimoniali per tutti i periodi di servizio prestati, anche anteriormente al 2/4/87, ed alla esclusione di ogni rivalutazione monetaria sulle somme dovute, deducendo, nel merito, l’erroneità di tali capi della sentenza.


Il Comune di Monteroni di Lecce non si è costituito per resistere all’appello.


Con memoria depositata in vista dell'udienza l’appellante ha insistito nelle proprie conclusioni.


Alla pubblica udienza del 16/5/2003 la causa è stata chiamata e trattenuta per la decisione, come da verbale.


D I R I T T O


1. L’appello proposto da Caramuscio Martina è articolato su più capi di domanda. La ricorrente lamenta l’erroneità della decisione di primo grado nelle parti in cui ha ritenuto operante la prescrizione quinquennale, ha negato efficacia ad alcuni atti interruttivi della prescrizione ed ha escluso la rivalutazione monetaria sulle somme dovute.


2. Il ricorso è fondato solo nella parte in cui l’appellante ha eccepito il mancato riconoscimento della rivalutazione monetaria.


2.1.. Non merita accoglimento, anzitutto, la doglianza con la quale la ricorrente sostiene che, in materia di prescrizione delle spettanze retributive del pubblico dipendente, è applicabile il termine decennale nelle ipotesi in cui le pretese avanzate risultino oggettivamente contestate dalla pubblica amministrazione di guisa che il credito non sarebbe già liquido o immediatamente liquidabile in base a norme di legge o regolamentari, essendo ancora necessario un atto formale di riconoscimento da parte dell’amministrazione.


Ritiene, infatti, il Collegio che la sentenza impugnata ha correttamente stabilito che i crediti vantati dalla ricorrente trovano fonte, sia nell’an che nel quantum, direttamente nella legge, o, comunque, in un atto normativo, come gli accordi collettivi, e, quindi, non richiedono un atto di riconoscimento da parte dell'Amministrazione.


Oltre a ciò va peraltro messo in rilievo che risulta ormai superato l'orientamento che, con riferimento ai rapporti di lavoro subordinato pubblico, riteneva applicabile l’ordinario termine di prescrizione decennale nell'ipotesi in cui il credito retributivo fosse contestato, o, comunque, richiedesse un formale atto di accertamento da parte dell'Amministrazione.


Argomentando in tal modo si determinerebbe un’ingiusta disparità di trattamentocon le analoghe pretese dei dipendenti privati, soggette certamente al suddetto termine quinquennale dopo che, a seguito della dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 2, comma 1 del R.D.L. 19 gennaio 1939 n. 295 (Corte Cost. n. 50/81), l’articolo 2 della legge 7 agosto 1985, n. 428 ha elevato da due a cinque anni il termine prescrizionale delle rate di stipendio e delle differenze arretrate dei medesimi, equiparando il regime dei crediti dei dipendenti statali alla disciplina generale dettata dall’art. 2948 n. 4 c.c.. Norma quest'ultima che non prevede distinzioni nell’ambito dei crediti di lavoro (cfr., fra le tante, Cons. Stato, sez. V, 3 febbraio 2000, n. 647; Cons. Stato, sez. VI, n. 5257 del 2001; Cons. Stato, sez. IV, n. 1788 del 2003).


Nel caso in esame, quindi, il regime prescrizionale da applicare, ex art. 2948 c.c., è quello quinquennale, riferibile a tutte le pretese patrimoniali riconosciute all’appellante, compresa l’indennità per ferie non godute.


Su quest’ultimo punto vale notare che la decisione di questo Consiglio citata in memoria dalla Caramuscio (Cons. Stato, sez. VI, 5.5.98, n. 625), volta a riconoscere natura risarcitoria e non retributiva al credito per ferie non godute, con conseguente prescrizione decennale del diritto, è da ritenersi un isolato precedente, come espressamente riconosciuto dalla successiva giurisprudenza della medesima Sezione (vedi Cons. Stato, sez. VI, n. 8 del 2001), secondo la quale, in tali casi, la prescrizione è, a giusto titolo, quinquennale, come quella degli altri emolumenti periodici e paraperiodici del rapporto lavorativo.


2.2. Parimenti infondata è la seconda censura proposta dalla ricorrente, subordinatamente al mancato accoglimento della prima, con riguardo alla irrilevanza attribuita dal giudice di primo grado ad alcuni atti interruttivi della prescrizione precedenti all’atto di diffida del 2.4.92, preso, invece, in considerazione ai fini della decisione.


Rileva, infatti, il Collegio che non può essere dato rilievo, come atto interruttivo della prescrizione, né alla deliberazione del 28.1.91 della Giunta di Monteroni, poiché ad essa è stata negata l’approvazione tutoria da parte dell’organo di controllo, né all’atto di diffida del 6.10.87. Con riferimento a quest’ultimo, la semplice intimazione, ivi contenuta, di procedere alla “regolarizzazione della posizione giuridica, amministrativa ed economica”, è stata giustamente giudicata ininfluente dal T.A.R. per la Puglia “stante la sua assoluta genericità”, in quanto non è da ritenersi sufficiente l’individuazione dei propri diritti patrimoniali in forma onnicomprensiva, richiedendosi la specificazione delle singole voci retributive.


2.3. Merita adesione, invece, la doglianza dell’appellante in ordine al diniego della rivalutazione monetaria decisa dal giudice di primo grado.


Si rileva, in primo luogo, che il regime dei crediti retributivi dei pubblici dipendenti è stato sostanzialmente assimilato a quello dettato per i lavoratori privati dall’art. 429, comma 3, c.p.c. già nella decisione dell’Adunanza Plenaria 30 ottobre 1981, n. 7, la quale ha stabilito che “pur in costanza del principio nominalistico sul quale si fondano le prestazioni retributive a favore dei pubblici dipendenti, ove sussistano il ritardo o l’inadempimento di tali prestazioni da parte dell’Amministrazione, viene senz’altro meno il principio dell’insensibilità delle obbligazioni pecuniarie alla svalutazione monetaria, dovendo trovare questa automatica applicazione in forza del rischio che il ritardo o l’inadempimento comportano a carico dell’Amministrazione debitrice”. La disciplina dettata dal’art. 429, comma 3, c.p.c. riferito, secondo la giurisprudenza, a tutti i crediti connessi ad un rapporto di lavoro, prevede l’applicazione del principio della cumulabilità fra gli interessi legali e la rivalutazione monetaria, fino all’entrata in vigore dell’art. 16, comma 6, L. 30 dicembre 1991, n. 412, e dell’art. 22, comma 36, L. 23 dicembre 1994, n. 724, norme che hanno stabilito, rispettivamente per i crediti previdenziali e per quelli retributivi tardivamente corrisposti, che l’importo degli interessi sia portato in detrazione dalle somme eventualmente spettanti a titolo di rivalutazione monetaria. Il divieto del cumulo tra interessi e rivalutazione, sancito, come appena visto, dalle suindicate disposizioni, non si applica, infatti, per giurisprudenza pacifica e costante (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 1062 del 2001; Cons. Stato, sez. VI, n. 5091 del 2002; Cons. Stato, sez. IV, 21.5.02, n. 5948), ai crediti maturati prima dell’entrata in vigore di dette norme, ed in particolare, con riguardo al caso di specie relativo a crediti di natura retributiva, della L. 724 del 1994, in vigore dal 1/1/95.


Conseguentemente, nella questione sottoposta all’esame del Collegio, in cui le pretese patrimoniali dell’appellante riguardano un periodo che si conclude nel 1989, quindi in epoca largamente precedente all’entrata in vigore della L. 724 del 1994, trova applicazione la disciplina dettata dall’art. 429 c.p.c., che, come detto, consente la cumulabilità tra interessi e rivalutazione monetaria, la quale è quindi da riconoscere, contrariamente a quanto statuito dal giudice di primo grado. Non sono, infatti, da condividere le argomentazioni con cui il T.A.R. per la Puglia perviene ad escludere la rivalutazione monetaria sulle somme dovute alla ricorrente. Il giudice di primo grado valuta di dover “evitare, opportunamente, ingiustificati arricchimenti da parte del creditore”, basandosi sull’applicazione dell’art. 1224 c.c., sul presupposto che “nella fattispecie in esame, l’interesse legale, pari alla misura del 10% annuo, copre integralmente il danno subito dalle ricorrenti, che non possono certo aver patito un ulteriore danno derivante dalla svalutazione monetaria, atteso che il tasso attuale di questa è di gran lunga inferiore alla percentuale del 10%”, e considerando tale conclusione più rispettosa del disposto del terzo comma dell’art. 429 c.p.c..


Il Collegio ritiene, invece, conformandosi a consolidata giurisprudenza, che l’applicazione dell’art. 429 c.p.c., non in dubbio nel caso in esame, comporta il riconoscimento, sulle somme spettanti al lavoratore, sia della rivalutazione monetaria che degli interessi annui al tasso legale. Il presupposto argomentativo del T.A.R., che ritiene che nel periodo preso in considerazione fosse in vigore l’interesse legale pari al 10% annuo, è, per di più errato, in quanto, come esattamente rilevato dall’appellante, il tasso legale del 10% è operante solo per i periodi successivi al 15.12.90, a seguito della legge 26.11.90, mentre per il periodo precedente è vigente il tasso del 5%. In ogni caso, comunque, la giurisprudenza di questo Consiglio ha precisato che gli interessi legali si cumulano con la rivalutazione del credito anche dopo che il loro importo è stato portato al 10% annuo (cfr. Cons. Stato, sez. V, del 4.4.02., n. 1861; Cons. Stato, sez. VI, 30.10.01 n. 5663).


L’esigenza di evitare ingiustificati arricchimenti da parte del creditore, tenuta in considerazione nella sentenza impugnata per escludere la rivalutazione monetaria, viene, semmai, in evidenza nella determinazione dei criteri sulla base dei quali calcolare sia gli interessi che la rivalutazione. Quanto alle modalità di computo, infatti, si è pronunciata l’Adunanza Plenaria con la decisione n. 3 del 15 giugno 1998, alla quale si è adeguata la più recente giurisprudenza amministrativa, uniformandosi al principio secondo cui, in tema di crediti da lavoro e previdenziali ancora sottratti al divieto di cumulo introdotto dalla legislazione del 1991 e del 1994, la rivalutazione monetaria costituisce un credito accessorio al capitale, ma non ad esso compenetrato come sua componente inscindibile, cosicché gli interessi vanno calcolati sulla sorte capitale. E’ stato ritenuto, coerentemente con le innovazioni introdotte con le leggi n. 412 del 1991 e n. 724 del 1994, nonché con i principi desumibili dalle pronunce della Corte costituzionale che, a partire dal 1991 hanno orientato l’ordinamento nel senso della non cumulabilità delle prestazioni accessorie nella materia della quale si tratta, la rivalutazione monetaria debba essere tenuta distinta dal credito al quale viene applicata e vada ricondotta, con gli interessi legali, non già al contenuto del diritto, ma, come tecnica liquidatoria del danno, agli effetti del ritardato pagamento, con l’ulteriore conseguenza che il credito di lavoro non ha un contenuto diverso da quello dei comuni crediti pecuniari, diversi essendo solo le conseguenze dell’inadempimento. Rivalutazione ed interessi, quindi, non possono essere inglobati ab origine nel contenuto del credito. In particolare, la rivalutazione monetaria del credito di lavoro assolve, rispetto alla prestazione dovuta, ad una funzione accessoria, parallela a quella degli interesi, con i quali concorre nella funzione globalmente riparatoria. Detti elementi accessori devono, dunque, essere computati separatamente sulla somma capitale, in quanto l’opposto criterio del calcolo degli interessi sul capitale rivalutato comporterebbe un’inammissibile duplicazione (così, Cons. Stato, sez. VI, n. 996 del 2002; cfr. anche Cons. Stato, sez. V, 20.5.2002, n. 2715).


Pertanto, nei limiti temporali correttamente individuati dal giudice di primo grado, sulle somme dovute alla ricorrente va aggiunta anche la rivalutazione monetaria, da computare secondo i criteri sopra evidenziati.


3. Il ricorso in appello va, quindi, accolto nei limiti del riconoscimento della rivalutazione monetaria sulle somme dovute all’appellante; va rigettato per il resto.


4. Sussistono, comunque, giusti motivi per compensare tra le parti le spese del secondo grado di giudizio.


P.Q.M.


Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione V) accoglie l’appello in epigrafe nei limiti di cui in motivazione e, per l’effetto, riforma in parte la sentenza impugnata; rigetta l’appello nella restante parte.


Compensa le spese di giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato, nella camera di consiglio del 16 maggio 2003, con l'intervento dei sigg.ri:
Agostino Elefante Presidente,
Paolo Buonvino Consigliere,
Goffredo Zaccardi Consigliere,
Francesco D'Ottavi Consigliere,
Michele Corradino Consigliere estensore.



L'ESTENSORE                          IL PRESIDENTE                           IL SEGRETARIO                                IL DIRIGENTE
f.to Michele Corradino                 f.to Agostino Elefante                    f.to Antonietta Fancello                       f.to Antonio Natale


DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 15 Ottobre 2003
(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)

 

M A S S I M E

 

Sentenza per esteso

 

1) Rapporti di lavoro subordinato pubblico - equiparazione dipendenti privati - credito retributivo contestato - ordinario termine di prescrizione decennale - disparità di trattamento - termine quinquennale. Va messo in rilievo che risulta ormai superato l'orientamento che, con riferimento ai rapporti di lavoro subordinato pubblico, riteneva applicabile l’ordinario termine di prescrizione decennale nell'ipotesi in cui il credito retributivo fosse contestato, o, comunque, richiedesse un formale atto di accertamento da parte dell'Amministrazione. Argomentando in tal modo si determinerebbe un’ingiusta disparità di trattamento con le analoghe pretese dei dipendenti privati, soggette certamente al suddetto termine quinquennale dopo che, a seguito della dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 2, comma 1 del R.D.L. 19 gennaio 1939 n. 295 (Corte Cost. n. 50/81), l’articolo 2 della legge 7 agosto 1985, n. 428 ha elevato da due a cinque anni il termine prescrizionale delle rate di stipendio e delle differenze arretrate dei medesimi, equiparando il regime dei crediti dei dipendenti statali alla disciplina generale dettata dall’art. 2948 n. 4 c.c.. Norma quest'ultima che non prevede distinzioni nell’ambito dei crediti di lavoro (cfr., fra le tante, Cons. Stato, sez. V, 3 febbraio 2000, n. 647; Cons. Stato, sez. VI, n. 5257 del 2001; Cons. Stato, sez. IV, n. 1788 del 2003). Consiglio di Stato, Sez. V, 15 ottobre 2003, Sentenza n. 6307

 

2) Rivalutazione ed interessi - rivalutazione monetaria del credito di lavoro. Rivalutazione ed interessi, non possono essere inglobati ab origine nel contenuto del credito. In particolare, la rivalutazione monetaria del credito di lavoro assolve, rispetto alla prestazione dovuta, ad una funzione accessoria, parallela a quella degli interesi, con i quali concorre nella funzione globalmente riparatoria. Detti elementi accessori devono, dunque, essere computati separatamente sulla somma capitale, in quanto l’opposto criterio del calcolo degli interessi sul capitale rivalutato comporterebbe un’inammissibile duplicazione (così, Cons. Stato, sez. VI, n. 996 del 2002; cfr. anche Cons. Stato, sez. V, 20.5.2002, n. 2715). Consiglio di Stato, Sez. V, 15 ottobre 2003, Sentenza n. 6307

 

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