AmbienteDiritto.it                                                                                

Legislazione  Giurisprudenza                                           Vedi altre: Sentenze per esteso


    Copyright © Ambiente Diritto.it

 Massime della sentenza

  

 

Consiglio di Stato, Sez. IV, 17 ottobre 2003, Sentenza n. 6335.

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la seguente


D E C I S I O N E


sul ricorso in appello N.9089/2002, proposto da Spagnolo Vigorita Vincenzo, Di Martino Paolo, Cancrini Arturo, Di Falco Sandro, Mastelloni Ugo, Migliarotti Luigi, Mussari Francesco, Pallottino Michele, Piselli Luigi, Salvi Mario e Sanino Mario, rappresentati e difesi da se stessi e dagli avv.ti Vincenzo Spagnolo Vigorita e Paolo Di Martino ed elettivamente domiciliati presso il secondo in Roma, via dell’Orso n. 74;
nonché da Imprese ICLA Costruzioni generali s.p.a., Fondedile Costruzioni s.p.a., I.Co.Mez. s.p.a., A. & I. Della Morte s.p.a., in persona dei rispettivi rappresentanti legali, rappresentate e difese dagli avv.ti Vincenzo Spagnuolo Vigorita e Paolo Di Martino, elettivamente domiciliati presso il secondo in Roma, via dell’Orso n. 74;
contro
Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente p.t., rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso la stessa domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, Ministero dell’Ambiente e del territorio, Ministero dei beni e delle attività culturali, Ministero della giustizia, in persona dei Ministri p.t., n.c.;
per l'annullamento
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, Sez. III, n. 5432 dell’11 giugno 2002:
nonché
sul ricorso n. 162 del 2003, proposto da Alpa Guido, Cesaro Ernesto, Cilento Andrea, D’Angelo Amdrea, D’Angelo Guido, Grasso Biagio, Olivieri Giuseppe, Recchia Giorgio e Spagna Michele, tutti rappresentati e difesi da se stessi e anche disgiuntamente dall’avv. Paolo Di Martino, presso il quale sono elettivamente domiciliati in Roma, via dell’Orso n. 74;
contro
Ministero delle infrastrutture e dei trasporti;
Ministero della giustizia, entrambi costituitisi in giudizio, rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, presso la stessa domiciliati ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
per l’annullamento e riforma
della sentenza n. 5437 dell’11 giugno 2002 del T.A.R. del Lazio, Sez. III;
Visti i ricorsi con i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio delle Amministrazioni intimate;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti delle cause;
Relatore alla pubblica udienza del 27 maggio 2003 il Consigliere Anna Leoni;
uditi l'Avvocato
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:


FATTO


(Ricorso n.9089/2002) . Con ricorso notificato il 26 giugno 2000 gli attuali appellanti, professionisti ed imprese che operano da tempo nel settore dei lavori pubblici, impugnavano davanti al TAR del Lazio le norme regolamentari che, nell’ambito della riforma dell’ordinamento dei lavori pubblici attuata in esecuzione della L. 11 febbraio 1994 n. 109, avevano disciplinato il procedimento arbitrale(in particolare, gli artt. 149, 150 e 151 del D.P.R. n. 554/99 e l’art. 34 del capitolato generale approvato con D.M. n. 145 del 2000).


Con successivi motivi aggiunti, gli stessi soggetti impugnavano, sostenendone l’illegittimità derivata, il D.M. 2 dicembre 2000 n. 398, contenente le norme di procedura del giudizio arbitrale ai sensi dell’art. 32 della L.n. 109/94.


Sostenevano, in estrema sintesi, i ricorrenti che il nuovo sistema di definizione delle controversie si sarebbe posto in contrasto con la disciplina regolante l’istituto dell’arbitrato nel nostro ordinamento; che, sul piano strettamente giuridico avrebbe ecceduto dai limiti della delega legislativa; che avrebbe violato i principi generali in tema di disciplina processuale dell’arbitrato; che si sarebbe posto in contrasto con una molteplicità di principi costituzionali.


Le Amministrazioni intimate si costituivano in giudizio, eccependo, da un lato, l’inammissibilità del ricorso relativamente ad alcune censure per mancanza di interesse giuridicamente rilevante da parte dei ricorrenti e, dall’altro, l’infondatezza nel merito delle rimanenti censure.


Con sentenza n. 5432 dell’11 giugno 2002 il TAR del Lazio dichiarava in parte inammissibile ed in parte respingeva il ricorso, compensando tra le parti le spese di giudizio.


Contro tale sentenza è stato proposto il ricorso in appello oggi all’esame del Collegio, notificato in data 22 ottobre 2002, con il quale gli appellanti, dopo aver riportato integralmente il testo del ricorso introduttivo di I grado(in quanto, a loro avviso il TAR avrebbe ignorato e pretermesso gran parte delle considerazioni in diritto svolte nel corso del giudizio ed in particolare quelle contenute nella memoria collegiale, da cui la necessità della loro integrale trascrizione nell’atto di appello affinché se ne tenga, in questa sede, la dovuta considerazione), hanno dedotto i seguenti motivi di appello:


6.1. Error in iudicando sul primo motivo di ricorso, in quanto il TAR, dopo aver qualificato le norme impugnate come regolamento autorizzato e conseguentemente sottratto le stesse al sindacato di costituzionalità delle leggi, avrebbe omesso di operare lo stesso sindacato nei confronti delle norme di cui alla legge n. 109/94 attuate dal regolamento.


La delega di cui all’art.32 della legge citata, infatti, operando un mero rinvio ai principi limite di trasparenza, imparzialità e correttezza in una materia in cui sembrerebbe pacifica la riserva di legge, si porrebbe in contrasto con gli artt. 24, 76, 103 e 108 Cost.


Né varrebbe, in contrario, richiamare la disciplina dell’arbitrato contenuta nel codice di procedura civile, che non consentirebbe comunque al Governo di esercitare illegittime opzioni in una materia coperta da riserva di legge(quantomeno relativa)quale sarebbe, ad avviso degli appellanti, l’aver irragionevolmente rimesso ad un “arbitrato amministrato” un intero blocco di arbitrati ratione materiae e cioè quelli legati alla materia dei lavori pubblici.


In tal modo, infatti, la scelta se ricorrere o no all’arbitrato sarebbe solo formalmente facoltativa, essendo rimesso all’Amministrazione se fare o meno ricorso a tale strumento, inserendo nello schema di contratto da inserire nel progetto a base di gara le modalità di risoluzione delle controversie(art.45 comma 1, lett.m) DPR n. 554 del 1999).


Gli appellanti, poi, ripropongono le tesi già esposte in I grado circa i criteri di individuazione e le incompatibilità dei componenti all’Albo, ritenendo la sentenza impugnata affetta da perplessità sul punto. Ripropongono, altresì, le censure relative alla determinazione del compenso agli arbitri, sottratta alla competenza degli ordini professionali.


6.2.Error in iudicando sul secondo motivo di ricorso.


Gli appellanti censurano il rigetto del secondo motivo di ricorso da parte del TAR ( a proposito di differenza tra legge delegata e regolamento autorizzato) richiamando le argomentazioni svolte con il primo motivo di appello.


6.3.Error in iudicando sul III motivo di ricorso.


Il TAR avrebbe errato nel respingere la censura con cui i ricorrenti, in I grado, avevano sostenuto la violazione dell’art.32 della legge n. 109/94, che prevedeva che le norme di procedura dei collegi arbitrali fossero affidate al Ministero dei lavori pubblici di concerto, con quello della Giustizia, dimenticando che la nomina del Presidente del Collegio arbitrale è una tipica norma della procedura arbitrale.


6.4. Error in iudicando sul IV motivo di ricorso.


Si propugna la tesi della non imparzialità della Autorità di vigilanza per i lavori pubblici e della Camera arbitrale presso la stessa istituita, in quanto promananti dall’Amministrazione dei lavori pubblici.


6.5. Error in iudicando sul V motivo di ricorso.


Si censura la sentenza nella parte in cui ha ritenuto che la materia delle incompatibilità potesse essere oggetto di regolamento, in quanto avente valore di legge in virtù della delega ricevuta dal Governo.


6.6. Error in iudicando sui motivi aggiunti I, II, III e IV.


Il TAR avrebbe errato nel rigettare le censure rivolte avverso il D.M. n. 398/2000, che detta regole di procedura del giudizio arbitrale de quo, per non essere le stesse in contrasto con i principi del c.p.c.: invero, il regime delle nullità e delle preclusioni(non conforme al c.p.c.) non è stato liberamente scelto dalle parti, ma sancito dal Ministero dei lavori pubblici, di concerto con quello di giustizia, mediante un decreto ministeriale.


Avrebbe, inoltre, errato nel ritenere che le norme richiamate a sostegno delle censure(artt. 164, 180. 183 e 189 del c.p.c.)non siano capisaldi del diritto processuale, bensì frutto di una innovazione del 1990.


6.7. Error in iudicando sul IV motivo aggiunto.


Il TAR avrebbe errato nel ritenere che il C:T.U., se vuole contestare i compensi ricevuti, può autonomamente impugnare il lodo, in quanto l’organo deputato alla liquidazione (Camera arbitrale) non è”giudice”, ma un organo amministrativo e la liquidazione avviene con ordinanza camerale.


6.8. Error in iudicando sul VI motivo aggiunto.


Il TAR avrebbe errato nel respingere il ricorso relativamente alla censura relativa alla disciplina della determinazione del valore della controversia ai fini della liquidazione delle spese di lite, utilizzando argomentazioni non conferenti.


7.Si sono costituite in giudizio le Amministrazioni appellate che, con articolata memoria, hanno contestato in parte l’ammissibilità ed in parte l’infondatezza delle proposte censure di appello.


8.Gli appellanti hanno prodotto una ampia memoria difensiva, con la quale hanno riaffermato le proprie tesi e controdedotto alle eccezioni dell’Avvocatura dello Stato.


Hanno, in particolare, fatto rilevare che:
- la disciplina introdotta in tema di arbitrato sui lavori pubblici avrebbe di fatto creato un giudice speciale, in spregio agli artt. 102 e 25 co.1 Cost,;
- le norme che attribuiscono alla Camera arbitrale il compito di nominare il terzo arbitro con funzioni di Presidente del collegio sarebbero affette da illegittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 3, 41 e 101 Cost., in quanto la facoltà di scelta degli arbitri riservata esclusivamente alle parti sarebbe l’unico metodo idoneo per garantire l’imparzialità;
- l’eccezione di inammissibilità del ricorso per carenza di legittimazione a ricorrere, ribadita dalla difesa erariale anche in sede di giudizio di appello, sarebbe inammissibile in quanto coperta da giudicato, essendosi il giudice di I grado già pronunciato in materia e non avendo la difesa erariale appellato in parte qua la sentenza.


9. (Ricorso n. 162/2003) . Con ricorso notificato il 5 marzo 2001 gli attuali appellanti, professionisti ed imprese che operano da tempo nel settore dei lavori pubblici, impugnavano davanti al TAR del Lazio il decreto 2 dicembre 2000 n. 398 che, nell’ambito della riforma dell’ordinamento dei lavori pubblici attuata in esecuzione dell’art.32 della L. 11 febbraio 1994 n. 109, avevano dettato le norme di procedura per lo svolgimento del giudizio arbitrale.


10.Sostenevano, in estrema sintesi, i ricorrenti l’illegittimità delle norme regolamentari in questione, che avrebbero introdotto nullità e preclusioni incompatibili con i principi generali in materia di processo civile e, quindi, avrebbero violato sia le norme del codice di procedura civile sia la norma di legge che vincolava il regolamento al rispetto di quei principi.


11.Le Amministrazioni intimate si costituivano in giudizio, eccependo, da un lato, l’inammissibilità del ricorso per mancanza di interesse giuridicamente rilevante da parte dei ricorrenti e, dall’altro, l’infondatezza nel merito delle rimanenti censure.


12.Con sentenza n. 5437 dell’11 giugno 2002 il TAR del Lazio respingeva il ricorso, compensando tra le parti le spese di giudizio.


13.Contro tale sentenza è stato proposto il ricorso in appello oggi all’esame del Collegio, notificato in data 17 dicembre 2002, con il quale gli appellanti, dopo aver riportato integralmente il testo del ricorso introduttivo di I grado(in quanto, a loro avviso il TAR avrebbe ignorato e pretermesso gran parte delle considerazioni in diritto svolte nel corso del giudizio ed in particolare quelle contenute nella memoria collegiale, da cui la necessità della loro integrale trascrizione nell’atto di appello affinché se ne tenga, in questa sede, la dovuta considerazione), hanno dedotto i seguenti motivi di appello:


13.1.Error in iudicando sui motivi I, II, III e V di ricorso, in quanto il TAR, rigettando le censure con le quali si era dedotto il contrasto fra diverse disposizioni del D.M. n. 398/2000 ed il codice di procedura civile, nel presupposto della libertà delle parti di dettare la disciplina delle modalità di svolgimento del procedimento, ivi compreso il regime delle nullità che intendessero introdurre, avrebbe dimenticato che il regime delle libertà e delle preclusioni non è stato liberamente stabilito dalle parti, ma sancito dal Ministero dei lavori pubblici, di concerto con quello della Giustizia, mediante un decreto ministeriale.


Avrebbe, inoltre, errato nel ritenere che le norme richiamate a sostegno delle censure(artt. 164, 180. 183 e 189 del c.p.c.)non siano capisaldi del diritto processuale, in quanto frutto di una innovazione del 1990.


13.2.Error in iudicando sul IV motivo di ricorso.


Il TAR avrebbe errato nel ritenere che il C:T.U., se intende contestare i compensi ricevuti, può autonomamente impugnare il lodo, in quanto l’organo deputato alla liquidazione (Camera arbitrale) non è”giudice”, ma un organo amministrativo e la liquidazione avviene con ordinanza camerale.


13.3. Error in iudicando sul VI motivo di ricorso.


Il TAR avrebbe errato nel respingere il ricorso relativamente alla censura relativa alla disciplina della determinazione del valore della controversia ai fini della liquidazione delle spese di lite, utilizzando argomentazioni non conferenti.


14.Si sono costituite in giudizio le Amministrazioni appellate che, con articolata memoria, hanno contestato in parte l’ammissibilità ed in parte l’infondatezza delle proposte censure di appello.


15.Gli appellanti hanno prodotto una ampia memoria difensiva, con la quale hanno riaffermato le proprie tesi e controdedotto alle eccezioni dell’Avvocatura dello Stato.


Hanno, in particolare, fatto rilevare che:
- la sentenza sarebbe errata nella parte in cui ha ritenuto che nessuna delle disposizioni censurate andasse a collidere con principi inderogabili, dal momento che gli artt. 816, co.2 e 829, co.7 del c.p.c. ammettono per le sole parti la possibilità di disciplinare la procedura arbitrale, mentre nella fattispecie si sarebbe in presenza di una disciplina imposta e non scelta liberamente;
- la sentenza non avrebbe tenuto conto del principio di unità del rapporto processuale, determinato dalla domanda processuale, inteso come possibilità di fisiologico sviluppo del processo in relazione alla domanda proposta, di talchè sarebbe illegittimo l’art. 2 del Decreto impugnato che inibisce nuove o diverse domande, aggiornamenti od ampliamenti della stessa domanda originaria in corso di causa.


16. Entrambi gli appelli sono stati inseriti nel ruolo d’udienza del 27 maggio 2003.


DIRITTO


1. Attesi gli evidenti motivi di connessione, i due appelli vanno riuniti ai fini di un’unica decisione.


Il primo appello (n.9089/2002) è diretto avverso la sentenza n.5432 dell’11 giugno 2002 del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, Sez. III, che ha in parte respinto ed in parte dichiarato inammissibile il ricorso proposto dagli attuali appellanti avverso le norme regolamentari che, nell’ambito della riforma dell’ordinamento dei lavori pubblici attuata in esecuzione della L. 11 febbraio 1994, n.109, hanno disciplinato il giudizio arbitrale e la relativa procedura.


2. Va, anzitutto, respinta l’eccezione di inammissibilità dell’appello per carenza di legittimazione a ricorrere relativamente al primo motivo proposto, reiterata anche in questa fase di giudizio dalla difesa erariale, atteso che, come correttamente osservato dagli appellanti, sulla eccezione si è pronunciato, ritenendola infondata, il giudice di primo grado nella sentenza appellata, non impugnata in parte qua dall’Avvocatura dello Stato, determinando con ciò il verificarsi di una preclusione processuale sul punto, derivante da giudicato cd. interno, che non può non essere rilevata dal giudice del grado successivo (cfr. Cass. n.2388/98).


3. Prima di passare all’esame del merito è opportuno delineare sinteticamente l’evoluzione legislativa che ha interessato l’istituto dell’arbitrato in materia di lavori pubblici a partire dalla c.d. legge quadro (L.11 febbraio 1994, n.109).


Il testo originario dell’art. 32 di tale legge, dopo aver previsto, al primo comma, la conciliazione in via amministrativa delle controversie, al secondo comma, per il mancato raggiungimento dell’accordo, da un lato, devolveva le controversie alla competenza del giudice ordinario e, dall’altro, vietava che nei capitolati generali o speciali fosse previsto il deferimento delle controversie ai collegi arbitrali.


Tale disposizione fu contestata sia per il suo possibile contrasto con numerose disposizioni della Costituzione (artt.24, 113, 3 e 97) sia perchè privava il settore di un istituto avente una crescente rilevanza, in dipendenza del mutamento in atto nell’assetto dello Stato: nella struttura amministrativa, nell’organizzazione giudiziaria, nei rapporti con i cittadini. Ciò in relazione all’aumento del valore dell’autonomia privata ed alla luce della moderna concezione del diritto amministrativo, fondata sul pluralismo istituzionale e sull’esercizio di compiti pubblici non in forza del principio dell’autorità dell’amministrazione bensì con la collaborazione dei soggetti interessati e con il ricorso ad istituti convenzionali e paritari.


Il Governo, con numerosi decreti-legge, via via reiterati fino al D.L. 31 gennaio 1995, n.26, sospese, fino al 30 giugno 1995, l’applicazione di quasi tutte le disposizioni della legge n.109/1994, fra cui quelle contenute nell’art.32.


Con l’art. 9 bis del D.L. 3 aprile 1995, n.101, convertito in legge, con modificazioni, dalla L.2 giugno 1995, n.216, si ebbe il capovolgimento della previsione in materia, in quanto esso disponeva, al comma 1, che, qualora non si fosse raggiunto l’accordo bonario previsto dall’articolo precedente, la definizione delle controversie “è attribuita ad un arbitrato ai sensi delle norme del titolo VIII del libro quarto del codice di procedura civile”.


Anche questa disposizione diede luogo a problemi, soprattutto in relazione alla sua formulazione che sembrava prevedere un arbitrato obbligatorio, istituto, questo, ritenuto incostituzionale (come si vedrà in seguito) dalla costante giurisprudenza della Corte costituzionale.


L’art. 10 della L.18 novembre 1998, n.415 contiene un testo interamente sostitutivo dell’art. 32 della legge n.109/1994 ed è quello vigente (salvo modificazioni, che in questa sede non interessano, introdotte dall’art. 7 della L.1° agosto 2002, n.166).


Tre sono gli aspetti salienti dell’attuale disciplina legislativa che incidono particolarmente sulla presente controversia:
a) la natura facoltativa, volontaria o consensuale dell’arbitrato. L’adozione dell’espressione “Possono essere deferite ad arbitri” (comma 1), vale a fugare ogni dubbio di illegittimità della previsione dell’arbitrato, alla luce dell’orientamento della Corte costituzionale innanzi richiamato;
b) la previsione di un procedimento arbitrale c.d. amministrato, che si svolge sotto l’egida della camera arbitrale istituita presso l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici (comma 3, prima parte);
c) l’attribuzione ad un regolamento, adottato con decreto interministeriale (lavori pubblici – grazia e giustizia), della fissazione delle norme di procedura del giudizio arbitrale “nel rispetto dei principi del codice di procedura civile” (comma 2, seconda parte), intendendosi ovviamente per tali quelli che costituiscono i capisaldi del processo, perché altrimenti verrebbe ad attribuirsi ad una fonte di pari grado (il Codice di Procedura Civile)una durevolezza che proprio la specificità e fluidità delle materie de qua esclude in radice.


Alla disciplina primaria ha fatto seguito la disciplina secondaria, contenuta negli artt. 150 e 151 del D.P.R. 21 dicembre 1999, n.554, recante il regolamento di attuazione della legge quadro, nel D.M. 2 dicembre 2000, n.398, recante le norme di procedura del giudizio arbitrale, e negli artt. 33 e 34 del D.M. 19 aprile 2000, n.145, recante il capitolato generale d’appalto dei lavori pubblici.


4. Ciò premesso la questione che va preliminarmente esaminata è quella di legittimità costituzionale, già sollevata in primo grado e riproposta in questa sede, dell’art.32 della legge n.109/1994 e successive modificazioni, nonché delle norme regolamentari che riservano alla camera arbitrale la nomina del presidente del collegio, la determinazione dei compensi dovuti agli arbitri, la tenuta di un albo l’iscrizione al quale condiziona lo svolgimento delle funzioni arbitrali e determina situazioni di incompatibilità, e pongono, inoltre, una disciplina procedurale che si assume ampiamente divergere rispetto ai principi del codice di procedura civile, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 25, 41, 76 e 77 Cost.


4.1. In quanto rivolte avverso l’art. 32 della legge n.109/1994 talune delle censure di illegittimità costituzionale sono inammissibili.


Ciò vale per quelle completamente fuori centro, come quella concernente la violazione dell’art. 77, che disciplina la decretazione d’urgenza, del tutto estranea alla presente materia, nonché quella proposta in relazione all’art. 76, che concerne la delegazione legislativa, mentre nella specie viene in rilievo l’istituto – del tutto differente – dell’autorizzazione legislativa all’esercizio della potestà regolamentare da parte del Governo o di singoli Ministri.


Le altre censure sono manifestamente infondate. Infatti, nell’art. 32 non è ravvisabile – neanche prima facie, nell’ambito del potere di delibazione attribuito al giudice a quo – alcun profilo di illegittimità costituzionale, in quanto esso non prevede un arbitrato c.d. obbligatorio e risulta per questo aspetto rispettoso dei principi affermati dalla Corte costituzionale circa il fondamento dell’arbitrato sull’accordo delle parti; attribuisce all’arbitrato il carattere di “amministrato” il che – qualora esso sia correttamente inteso ed applicato – non appare in contrasto con nessuna delle disposizioni della Costituzione asseritamente violate; dispone, infine, un'ampia delegificazione, in coerenza con la filosofia cui è improntata tutta la legge 109 del 1994 (cfr., in particolare, l’art. 3, in ordine al quale la Corte costituzionale, con la sentenza 7 novembre 1995, n.482, si è pronunciata sostanzialmente in senso favorevole), e con l’indicazione, sintetica ma sufficiente, dei criteri (rispetto dei principi del codice di procedura civile per il procedimento arbitrale [co.2]; principi di trasparenza, imparzialità e correttezza per la camera arbitrale [co. 3]), cui l’esercizio della potestà regolamentare deve attenersi.


4.2. In quanto rivolte avverso le disposizioni regolamentari in precedenza richiamate (retro, n.3), le proposte censure di illegittimità costituzionale sono inammissibili, alla stregua del costante insegnamento della Corte costituzionale, secondo cui il giudizio di legittimità costituzionale di norme aventi natura regolamentare eccede i limiti della giurisdizione della Corte, secondo la definizione che di questa è data dall’art. 134 Cost., il quale la limita al caso dell’illegittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge (C.cost. 14 giugno 2001, n.194 [ord.]; 18 ottobre 2000, n.427; 25 luglio 1997, n.273; 27 giugno 1997, n.208 [ord.]; 23 aprile 1993, n.199).


Peraltro, il pieno esplicarsi della garanzia della Costituzione nel sistema delle fonti – con particolare riferimento a quelle di valore regolamentare adottate, come nella specie, in sede di delegificazione – non è pregiudicato dall’anzidetta limitazione della giurisdizione del giudice costituzionale, in quanto la relativa garanzia è da ricercare (nei casi in cui, come si è innanzi rilevato, non sia configurabile un vizio di costituzionalità delle legge abilitante all’adozione del regolamento), nel controllo di legittimità del regolamento, ove il vizio sia proprio ed esclusivo dello stesso, demandato al giudice ordinario ed al giudice amministrativo, nell’ambito dei poteri ad essi spettanti, controllo che può condurre, rispettivamente, alla disapplicazione o all’annullamento del regolamento.


5. Alla luce di tali principi, pienamente condivisi dalla Sezione (cfr. IV, 17 aprile 2000, n.2292; 24 giugno 1980, n.692), debbono ora esaminarsi le censure, oltre che di violazione delle richiamate disposizioni della Costituzione, di violazione e falsa applicazione dell’art. 32 della L. n.109 del 1994, di violazione e falsa applicazione del Titolo VIII del c.p.c., di eccesso di potere sotto vari profili, vizi riferiti al regolamento n.554 del 1999 nella parte in cui attribuisce alla camera arbitrale costituita presso l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici il potere di designare il terzo membro dei collegi arbitrali con funzioni di presidente. Il regolamento, inoltre, imporrebbe ingiustificate incompatibilità e priverebbe illegittimamente gli ordini professionali e i consigli nazionali dei propri poteri in materia di tariffe professionali, attribuendo alla camera arbitrale la fissazione dei compensi degli arbitri.


Le censure, disattese dalla sentenza impugnata, sono fondate, nei limiti di seguito indicati.


5.1. Lo scrutinio di legittimità delle norme regolamentari impugnate deve essere condotto, innanzitutto, alla luce del principio, affermato dalla Corte costituzionale, della volontarietà dell’arbitrato.


Riveste fondamentale rilievo al riguardo la sentenza 14 luglio 1977, n.127, seguita da numerose altre, assolutamente costanti nell’affermare i medesimi principi (cfr. C.cost. 27 dicembre 1991, n.488; 10 giugno 1994, n.232; 27 febbraio 1996, n.54; 9 maggio 1996, n.152; 11 dicembre 1997, n.381; 24 luglio 1998, n.325; 21 aprile 2000, n.115), la quale ha ritenuto che chi vuol far valere un diritto in giudizio non può rivolgersi che ai giudici ordinari di cui all’art. 102 Cost. oppure ai giudici speciali elencati nell’art. 103 o comunque contemplati dalla VI disp. trans.; con la sola alternativa del ricorso all’arbitrato , come descritto dal codice di rito e caratterizzato dalla libera scelta delle parti, unica valida deroga al principio della giurisdizione statuale.


Resta così confermata la prospettiva che la moderna dottrina ha utilizzato per ricomporre ad unità il sistema dell’arbitrato. Esiste cioè una pluralità di modelli arbitrali, i quali, tuttavia, sono sussumibili in uno schema unitario caratterizzato da elementi comuni e, in primo luogo, dalla libertà delle parti di optare per il giudizio arbitrale.


5.2. Così delineato il quadro di riferimento costituzionale, dal quale resta del tutto esclusa la figura dell’arbitrato obbligatorio, si può passare a verificare l’effettivo rispetto dei suindicati principi da parte delle disposizioni regolamentari che disciplinano l’arbitrato di cui trattasi.


Viene innanzitutto in rilievo l’art. 150 del regolamento di attuazione di cui al D.P.R. n.554 del 1999, secondo cui (comma 2) ciascuna delle parti, nella domanda di arbitrato o nell’atto di resistenza alla domanda, nomina l’arbitro di propria competenza tra professionisti di particolare esperienza nella materia dei lavori pubblici e, se la parte nei cui confronti è diretta la domanda di arbitrato omette di provvedervi, alla nomina procede il Presidente del Tribunale ai sensi del’art, 810, comma 2, del c.p.c.; inoltre (comma 3), ad iniziativa della parte più diligente, gli atti di nomina dei due arbitri sono trasmessi alla camera arbitrale per il lavori pubblici affinchè provveda alla nomina del terzo arbitro, con funzioni di presidente del collegio, scelto nell’ambito del’albo camerale sulla base di criteri oggettivi e predeterminati.


La prima di tali disposizioni trova un puntuale riferimento nell’art.810 c.p.c. (Nomina degli arbitri) e deve perciò considerarsi legittima.


Non lo sarebbe stato se fossero state accolte le proposte, che pure erano state avanzate in sede di predisposizione del regolamento, di attribuire alla camera arbitrale la nomina dell’intero collegio (il che avrebbe snaturato l’arbitrato in questione, privandolo del carattere della volontarietà e riconducendolo ad una giurisdizione speciale), o di rimettere alla camera la nomina dell’arbitro di parte, nel caso di omissione della parte stessa (in contrasto con i principi, inderogabili, del codice di procedura civile attinenti alla costituzione del giudice).


La seconda delle predette disposizioni, contenuta nell’art. 150, comma 3, del regolamento, introduce una rilevante novità, consistente nella sottrazione alle parti della possibilità di nominare direttamente, d’accordo fra loro, il terzo arbitro o di individuare, per detta nomina, un meccanismo diverso, ma pure sempre fondato sulla loro volontà (cfr. art. 810 c.p.c., cit.).


Questa disposizione è illegittima per un triplice, concorrente ordine di ragioni.


Al riguardo va, innanzitutto, rilevato che la norma primaria (art. 32, comma 3, della legge n.109/1994) attribuisce al regolamento la definizione della composizione e delle modalità di funzionamento della camera arbitrale per i lavori pubblici, la disciplina dei criteri cui la camera arbitrale dovrà attenersi nel fissare i requisiti soggettivi e di professionalità per assumere l’incarico di arbitro, nonché la durata dell’incarico stesso. La norma non contiene alcuna previsione, che comunque sarebbe dovuta essere espressa, circa l’attribuzione alla potestà regolamentare del Governo della fissazione dei criteri per la composizione dei collegi arbitrali e, tanto meno, della sottrazione alle parti del potere di scegliere d’accordo fra di loro il terzo arbitro, che sovente costituisce l’ago della bilancia del giudizio arbitrale.


Sotto tale profilo la norma regolamentare è illegittima in quanto esorbita dai limiti fissati dalla normativa primaria.


Ma quand’anche volesse ammettersi la sussistenza della potestà regolamentare, la norma in esame sarebbe illegittima perché in contrasto con i principi sanciti dagli artt. 809 e ss. c.p.c. che rientrano tra quelli fondamentali il cui rispetto è prescritto dall’art. 32, comma 2, della legge n.109/1994.


I predetti articoli del codice di procedura civile, in materia di arbitrato rituale (qual è, per espressa previsione dell’art. 150, comma 1, ult. p., del regolamento, quello in materia di lavori pubblici), prevedono che il potere di stabilire il numero e le modalità di nomina degli arbitri è rimesso alle parti, con il solo limite del rispetto dell’ordine pubblico: le regole dettate dall’ordinamento con disposizioni di carattere generale hanno, quindi, la sola funzione di garantire la libera espressione della volontà delle parti.


E’ chiaro, pertanto, come non possa considerarsi legittima una disposizione regolamentare – e quindi di livello secondario – che contrasti con quelle regole che, in relazione alla natura volontaria dell’arbitrato, assurgono al rango di veri e propri principi di carattere essenziale e strutturale.


Da ultimo – ma è il rilievo più consistente, di per sé assorbente - , nel richiamare l’orientamento della Corte costituzionale, in virtù del quale l’arbitrato non può che essere facoltativo e volontario, deve ritenersi – sulla scorta di autorevoli opinioni dottrinarie – che l’arbitrato è tale sia per la scelta di esso compiuta dalle parti in luogo dei rimedi ordinari che per la scelta degli arbitri fatta liberamente dalle parti stesse, tanto che, se i componenti di un collegio siano designati con criteri diversi da quelli della libera scelta delle parti, si tratterebbe di un vero e proprio organo di giurisdizione speciale (come tale, illegittimo).


Consegue che la nomina degli arbitri, compreso – a fortiori – il presidente del collegio, non può che essere attribuita alle parti, alla stregua del principio fondante, contenuto nel codice di procedura civile (art. 810), secondo il quale la nomina è compiuta dal presidente del tribunale soltanto nei casi in cui una parte abbia omesso di nominare il proprio arbitro ovvero le parti non abbiano trovato l’accordo entro una dato termine ovvero abbiano demandato ad un terzo che non vi abbia provveduto o al presidente stesso la nomina di uno o più arbitri.


Questi principi sono indefettibili in quanto attengono alla natura stessa dell’istituto arbitrale, quale riconosciuta dalla Corte costituzionale. Ma quand’anche si potesse configurare una deroga allorchè la nomina sia attribuita ad un organo giurisdizionale (presidente di corte d’appello, presidente del Consiglio di Stato), come avveniva nel precedente capitolato generale, ciò non sarebbe sicuramente consentito allorchè l’organo che procede alla nomina – come nel caso della camera arbitrale – sia un organo che, pur operando in piena autonomia ed indipendenza, è pur sempre amministrativo, facente parte della pubblica amministrazione, che nella maggioranza dei casi è parte in causa nel giudizio arbitrale. Trattasi comunque di un organo che non risponde a quei requisiti di terzietà che il titolo IV della parte seconda della Costituzione richiede per tutti i giudici e per tutti i giudizi.


Un siffatto sistema potrebbe far sorgere problemi, anche sul piano comunitario, circa la effettiva terzietà degli arbitri così nominati e quindi sulla obiettività del giudizio che essi sono chiamati ad esprimere (cfr., per riferimenti circa la composizione dei collegi arbitrali, Corte cost. 13 febbraio 1995, n.33).


5.3. Da quant’innanzi deriva che l’art. 150, comma 3, del regolamento, nella parte in cui sottrae alla libera determinazione delle parti la scelta del terzo arbitro con funzioni di presidente, attribuendola alla camera arbitrale, è illegittimo e deve essere annullato.


L’annullamento di tale disposizione comporta il venir meno di quelle relative alla formazione dell’albo degli arbitri della camera arbitrale (art. 151, commi 5 e 7, quest’ultimo limitatamente agli arbitri), nonché alla durata dell’iscrizione ed alle incompatibilità conseguenti all’iscrizione stessa (art. 151, comma 8, sempre limitatamente agli arbitri; restano, invece, salve le incompatibilità previste dal successivo comma 9, che appare legittimo in quanto meramente specificativo di ipotesi di incompatibilità già presenti nel nostro ordinamento [cfr. art. 51 c.p.c.] e che comunque non risulta impugnato).


In conseguenza, debbono considerarsi assorbite le censure riguardanti i requisiti per l’iscrizione all’albo tenuto dalla camera arbitrale, nonché le incompatibilità (conseguenti all’iscrizione e, in particolare, quelle di cui al secondo motivo di appello (error in iudicando sul secondo motivo di ricorso) ed al terzo motivo di appello (error in iudicando sul terzo motivo di ricorso), attinenti alla questione, già decisa, concernente la nomina del presidente del collegio arbitrale, nonché quella di cui al quarto motivo (error in iudicando sul quarto motivo di ricorso), con cui si deduce la non imparzialità dell’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici e della camera arbitrale istituita presso la stessa, giacchè tale censura non ha una valenza propria, ma è strumentale rispetto alla questione della nomina del presidente del collegio. Ugualmente deve considerarsi assorbita la censura di cui al quinto motivo (error in iudicando sul quinto motivo di ricorso), concernente la previsione di talune incompatibilità contenuta nel regolamento, in quanto tale questione, nei limiti dell’impugnativa, è stata già risolta per effetto della innanzi rilevata caducazione, in parte qua, dell’art. 151, comma 8, del regolamento.


6.1. Con il sesto motivo di ricorso (error in iudicando sui motivi aggiunti I, II, III, e IV), si sostiene l’erroneità della sentenza di primo grado nella parte in cui ha rigettato le censure dirette contro numerose disposizioni contenute nel regolamento che detta la disciplina della procedura del giudizio arbitrale (D.M. 2 dicembre 2000, n. 398).


Questo regolamento – come già detto – trova la sua base normativa nell’art. 32, comma 2, seconda parte, dell’art. 32 della legge n. 109/1994, che attribuisce al Ministro dei lavori pubblici, di concerto con il Ministro di grazia e giustizia, il relativo potere.


6.2. Si è detto che l’arbitrato di cui trattasi pur richiamandosi al modello ordinario, è volontario, come debbono essere, in forza del più volte richiamato orientamento della Corte costituzionale, tutti gli arbitrati; è un arbitrato rituale e tale è espressamente qualificato dall’art.150, comma 1, ult. p., del regolamento di attuazione di cui al D.P.R. n.554/1999; è, infine, un arbitrato amministrato, che si richiama al modello ordinario pur avendo delle sue peculiarità e che si caratterizza per il fatto che il collegio arbitrale è costituito presso la camera arbitrale per i lavori pubblici (art.32, comma 2, legge n.109/1994).


Alla luce di tali caratteri deve valutarsi la legittimità delle norme di procedura contenute nel D.M. 2 dicembre 2000, n. 398, legittimità contestata dai ricorrenti sotto svariati profili.


Da un punto di vista generale deve ammettersi la possibilità che l’emanazione delle disposizioni in questione sia demandata ad un atto di normazione secondaria. Infatti, da un lato, trattasi di un regolamento di delegificazione, per il quale sono previsti dalla legge i criteri cui deve attenersi (rispetto dei principi del codice di procedura civile); dall’altro, è da escludere che la materia in questione sia coperta da riserva assoluta di legge, come è dimostrato dal rilievo che anche la procedura dinanzi alla Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato è stata disciplinata a suo tempo con un regolamento che è tuttora vigente (R.D. 17 agosto 1907, n.642, cui la Corte costituzionale, con sentenza 18 maggio 1898, n.251, ha espressamente riconosciuto natura regolamentare).


6.3. Prima di procedere all’esame delle censure proposte avverso le singole disposizioni del regolamento in questione, è utile richiamare talune considerazioni espresse da questo Consiglio nel parere sullo schema di regolamento in questione (Sez. consultiva per gli atti normativi 17 aprile 2000, n. 65/2000).


In quella occasione fu osservato che il “recupero” al settore dei lavori pubblici dello strumento arbitrale (in precedenza affrettatamente accantonato), ritenuto finalisticamente più idoneo a garantire le esigenze di rapidità e di specializzazione intrinsecamente connesse al contenzioso in materia, è stato, in certo senso, mitigato, nel disegno della legge n. 415/1998, dalla previsione di una procedura che, seppure prende a modello quello dell’arbitrato ordinario (come attesta il richiamo ai principi del codice di procedura civile che sostanzialmente si traduce nell’imporre il rispetto dei capisaldi strutturali del sistema processuale), tenga conto delle esigenze connesse alla gestione di un settore, per sua natura e per specifiche contingenze, particolarmente “sensibile” e quindi naturalmente possibile oggetto di un corrispondente modello di disciplina particolare nei sensi precisati.


6.4. Sulla base delle varie premesse in precedenza illustrate, può procedersi all’esame delle varie censure dedotte.


Viene in primo luogo in rilievo la censura che investe le regole procedurali del giudizio arbitrale in materia di lavori pubblici che vengono dagli appellanti ritenute in contrasto con i principi del c.p.c. (tra le altre : art. 2 del D.M. 398/2000; art. 150, commi 5° e 6°; art. 151, comma 11 del D.P.R. n. 554/1994).


La censura non può trovare accoglimento.


Invero, la individuazione delle norme che devono essere osservate nel procedimento arbitrale appartiene alla disponibilità delle parti(art. 816 comma 2 c.p.c.), salva la facoltà degli arbitri, in caso di mancanza di tali norme, di regolare lo svolgimento del giudizio nel modo che ritengono più opportuno (art. 816 co.3), fatti salvi il diritto di difesa delle parti o il principio del contraddittorio(Cass. 29 gennaio 1992 n. 923 e 4 giugno 1992 n. 6866).


Ne consegue, in virtù di tale disponibilità, la insussistenza di principi inderogabili in materia, eccezion fatta per quello della parità di diritto di difesa tra le parti, che però nella fattispecie non viene posto in discussione, anche perché estranei all’ambito delle censure dedotte.


Quanto, poi, ai principi di diritto processuale generale che costituiscono l’intelaiatura fondamentale dell’intero codice di procedura civile, essi come tali sono applicabili anche al procedimento arbitrale e, quindi, non possono costituire oggetto di discussione, anche perché estranei all’ambito delle censure dedotte.


Quanto, infine, alle disposizioni che sono frutto di scelta legislativa per il solo processo ordinario, esse non possono assurgere al rango di capisaldi del diritto processuale e, come tali, sono derogabili attraverso una scelta legislativa di pari rango qual è quella effettuata dall’art.32 della L.n. 109/94(“…con decreto del Ministro dei lavori pubblici di concerto con il Ministero di grazia e giustizia … sono fissate le norme di procedura del giudizio arbitrale nel rispetto dei principi del codice di procedura civile”).


Né può ritenersi che tale scelta violi la libertà delle parti, atteso che il ricorso all’arbitrato in materia di lavori pubblici è facoltativo e, quindi, rimesso alla libera scelta delle parti, che sono consapevoli, in quanto previsto ex lege, che, per volontà del legislatore, in questa materia si opera con procedura predefinita, adottata con scelta insindacabile, in quanto attinente al merito dell’azione amministrativa, con l’unico limite della non violazione dei principi inderogabili del c.p.c.


6.5. Nel novero delle censure rivolte contro il regolamento assume particolare rilievo quella con la quale i ricorrenti denunciano l’illegittimità dell’art. 10, comma 2, del D.M. n. 398/2000, il quale attribuisce alla camera arbitrale il potere di determinare i corrispettivi dovuti dalle parti a titolo di compenso al collegio arbitrale e a titolo di spese di consulenza tecnica, con ordinanza che costituisce titolo esecutivo e non è impugnabile.


Per quanto concerne le spese di consulenza tecnica, non può trovare accoglimento il settimo motivo di ricorso (error in iudicando sul quarto motivo aggiunto), con il quale si sostiene l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha accolto la tesi della illegittimità delle norme regolamentari che affidano alla camera arbitrale la loro liquidazione.


E’ infatti fondata l’eccezione di inammissibilità avanzata dalla difesa erariale, in quanto materia del tutto estranea all’interesse protetto di cui sono titolari i ricorrenti.


Sono, invece, ammissibili, ma peraltro infondate, le censure concernenti la determinazione, ad opera della camera arbitrale, dei compensi per gli arbitri.


Al riguardo è appena il caso preliminarmente di osservare che i cd arbitrati amministrati, altro non sono che forme assistite da un’istituzione a ciò preposta, che provvede ad una serie di incombenze pratiche, svolgendo sostanzialmente una funzione di controllo dell’intero processo arbitrale, al fine di rendere meno litigioso lo svolgimento della procedura arbitrale, senza che ciò comporti alcun rapporto tra gli arbitri e l’istituzione, arbitri che nel momento in cui accettano, si impegnano esclusivamente nei confronti delle parti.


Alla luce di tale premessa sembra che la previsione di cui all’art. 150 comma sesto del Regolamento, attuativo di quanto disposto nell’art. 32 comma secondo della legge n. 109/94, in materia di poteri della camera arbitrale di determinare i compensi spettanti agli arbitri si pongono in una linea di coerenza con l’impianto generale previsto dalla normazione primaria.


Ed invero dal momento che la Camera è soggetto preposto allo svolgimento della procedura arbitrale e limitatamente alla liquidazione dei compensi sfornito di qualsiasi interesse, non essendo previsto che una parte degli stessi sia da essa trattenuta, appare del tutto legittimo e corrispondente a criteri di garanzia delle parti, secondo i principi di trasparenza, imparzialità e correttezza fissati dall’art. 32 della L.n. 109/94, affidare alla stessa il compito di stabilire, in modo vincolante per le parti ed in base a tariffe prefissate con decreto interministeriale, la determinazione della prestazione dedotta nell’arbitrato.


6.6. Le censure proposte avverso altre disposizioni contenute nel regolamento non meritano accoglimento.


Appaiono, infatti, da un lato rispondenti a peculiari esigenze del procedimento arbitrale in questione e, dall’altro, non in contrasto con i principi fondamentali del sistema civilprocessualistico (ma solo, in certi casi, con particolari disposizioni del codice di rito che, per l’appunto non rivestono siffatti connotati) e rientrano quindi nel legittimo esercizio della potestà regolamentare, conferita dalla norma primaria di cui all’art. 32, comma 2, della legge n.109/1994, la previsione della litispendenza collegata alla costituzione del collegio (art. 3, comma 5); la previsione del termine per la conciliazione (art. 5, comma 3), giacchè essa si riferisce evidentemente alla conciliazione dinanzi al collegio e non impedisce che le parti addivengano, anche successivamente, alla transazione della controversia; l’esclusione, dal novero dei mezzi di prova ammissibili, del giuramento in tutte le sue forme (art. 7, comma 2, prima parte), il che, trattandosi di giudizi che vedono, prevalentemente se non esclusivamente, quale parte una pubblica amministrazione, vale a conformare, sotto questo aspetto, il giudizio arbitrale al processo amministrativo, nel quale, come è noto, il giuramento non è ammesso.


Infine, l’art. 8, concernente l’udienza di discussione, l’art. 9, comma 1, che dispone che il lodo si ha per pronunciato con il suo deposito presso la camera arbitrale, l’art. 10, commi 4-6, che dettano i criteri per la determinazione del valore della controversia ai fini della liquidazione del compenso per il collegio, e comma 7, che prevede la solidarietà tra le parti anche per il pagamento delle spese di consulenza tecnica, sono tutte disposizioni che trovano logica giustificazione nelle peculiarità del giudizio arbitrale in questione.


7. Il secondo appello(n. 162/2003) è rivolto avverso la sentenza n. 5437/2002 con cui il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sez. III, ha respinto il ricorso proposto dagli attuali appellanti avverso il decreto n. 398/2000 che ha dettato le norme di procedura per lo svolgimento del giudizio arbitrale nel settore dei lavori pubblici.


Va anzitutto respinta l’eccezione di inammissibilità del gravame per assenza di interesse tutelabile in capo a chi agisce proposta anche nel secondo appello dalla difesa erariale, richiamando, al riguardo, le considerazioni già svolte


Riguardo al merito non resta, pertanto, che rinviare alle considerazioni già svolte ed in particolare:
va respinto il primo motivo di appello (error in iudicando sui motivi I, II, III e V di ricorso: vedasi retro sub 6.4); 6.5); 6.6);
va altresì respinto il terzo motivo di appello (Error in iudicando sul IV motivo di ricorso vedesi retro sub 6.4),6.5); 6.6);
va infine dichiarata inammissibile la censura contenuta nel secondo motivo di appello (vedasi retro sub 6.5).


In conclusione in base alle suesposte considerazioni il secondo appello va respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata.


8. La disamina della normativa sovracompiuta sollecitata dai ricorsi sopraesaminati, anche se necessariamente circoscritta agli spazi propri delle censure dedotte, rende doveroso, in chiusura, l’auspicio di un intervento del legislatore per una aggiornata sistemazione della materia, che certamente si gioverà della considerazione della riforma del titolo quinto della parte seconda della Costituzione operata con la legge cost. 18 ottobre 2001 n. 3 e delle sentenze della Corte Costituzionale 1° ottobre 2003 n. 302 e 303.


9. In entrambi gli appelli, le spese e gli onorari della presente fase di giudizio possono trovare equa compensazione tra le parti.


P.Q.M.


Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sezione IV – definitivamente pronunciando in ordine ai ricorsi in appello indicati in epigrafe, previa riunione dei medesimi, accoglie in parte il primo ricorso, con conseguente riforma della sentenza di primo grado; rigetta il secondo, con conseguente conferma della sentenza impugnata.


Spese del grado compensate in entrambi.
Così deciso in Roma il 27 maggio 2003 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, nella Camera di Consiglio con l’intervento dei Signori:
Paolo SALVATORE -Presidente
Livia BARBERIO CORSETTI -Consigliere
Giuseppe BARBAGALLO -Consigliere
Antonino ANASTASI -Consigliere
Anna LEONI -Consigliere est.


DEPOSITATA IN SEGRETERIA
17/10/2003


 

M A S S I M E

 

Sentenza per esteso

 

1) L’alternativa del ricorso all’arbitrato - deroga al principio della giurisdizione statuale - lo schema unitario dell’arbitrato - dottrina. Chi vuol far valere un diritto in giudizio non può rivolgersi che ai giudici ordinari di cui all’art. 102 Cost. oppure ai giudici speciali elencati nell’art. 103 o comunque contemplati dalla VI disp. trans.; con la sola alternativa del ricorso all’arbitrato, come descritto dal codice di rito e caratterizzato dalla libera scelta delle parti, unica valida deroga al principio della giurisdizione statuale. Sentenza 14 luglio 1977, n.127, seguita da numerose altre, assolutamente costanti nell’affermare i medesimi principi (cfr. C.cost. 27 dicembre 1991, n.488; 10 giugno 1994, n.232; 27 febbraio 1996, n.54; 9 maggio 1996, n.152; 11 dicembre 1997, n.381; 24 luglio 1998, n.325; 21 aprile 2000, n.115). Resta così confermata la prospettiva che la moderna dottrina ha utilizzato per ricomporre ad unità il sistema dell’arbitrato. Esiste cioè una pluralità di modelli arbitrali, i quali, tuttavia, sono sussumibili in uno schema unitario caratterizzato da elementi comuni e, in primo luogo, dalla libertà delle parti di optare per il giudizio arbitrale. Consiglio di Stato, Sez. IV, 17 ottobre 2003, Sentenza n. 6335

 

2) Il giudizio di legittimità costituzionale di norme aventi natura regolamentare - limiti della giurisdizione della Corte Costituzionale - il controllo di legittimità di un regolamento è demandato al giudice ordinario ed al giudice amministrativo - poteri di disapplicazione o annullamento del regolamento illegittimo. Il giudizio di legittimità costituzionale di norme aventi natura regolamentare eccede i limiti della giurisdizione della Corte Costituzionale, secondo la definizione che di questa è data dall’art. 134 Cost., il quale la limita al caso dell’illegittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge (C.cost. 14 giugno 2001, n.194 [ord.]; 18 ottobre 2000, n.427; 25 luglio 1997, n.273; 27 giugno 1997, n.208 [ord.]; 23 aprile 1993, n.199). Peraltro, il pieno esplicarsi della garanzia della Costituzione nel sistema delle fonti – con particolare riferimento a quelle di valore regolamentare adottate, come nella specie, in sede di delegificazione – non è pregiudicato dall’anzidetta limitazione della giurisdizione del giudice costituzionale, in quanto la relativa garanzia è da ricercare (nei casi in cui, come si è innanzi rilevato, non sia configurabile un vizio di costituzionalità delle legge abilitante all’adozione del regolamento), nel controllo di legittimità del regolamento, ove il vizio sia proprio ed esclusivo dello stesso, demandato al giudice ordinario ed al giudice amministrativo, nell’ambito dei poteri ad essi spettanti, controllo che può condurre, rispettivamente, alla disapplicazione o all’annullamento del regolamento. Consiglio di Stato, Sez. IV, 17 ottobre 2003, Sentenza n. 6335

Per ulteriori approfondimenti ed altre massime vedi il canale:  Giurisprudenza