Legislazione Giurisprudenza Vedi altre: Sentenze per esteso
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la seguente
D E C I S I O N E
sul ricorso in appello N.9089/2002, proposto da Spagnolo Vigorita
Vincenzo, Di Martino Paolo, Cancrini Arturo, Di Falco Sandro, Mastelloni Ugo,
Migliarotti Luigi, Mussari Francesco, Pallottino Michele, Piselli Luigi, Salvi
Mario e Sanino Mario, rappresentati e difesi da se stessi e dagli avv.ti
Vincenzo Spagnolo Vigorita e Paolo Di Martino ed elettivamente domiciliati
presso il secondo in Roma, via dell’Orso n. 74;
nonché da Imprese ICLA Costruzioni generali s.p.a., Fondedile Costruzioni s.p.a.,
I.Co.Mez. s.p.a., A. & I. Della Morte s.p.a., in persona dei rispettivi
rappresentanti legali, rappresentate e difese dagli avv.ti Vincenzo Spagnuolo
Vigorita e Paolo Di Martino, elettivamente domiciliati presso il secondo in
Roma, via dell’Orso n. 74;
contro
Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente p.t.,
rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso la stessa
domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, Ministero dell’Ambiente e del
territorio, Ministero dei beni e delle attività culturali, Ministero della
giustizia, in persona dei Ministri p.t., n.c.;
per l'annullamento
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, Sez. III, n.
5432 dell’11 giugno 2002:
nonché
sul ricorso n. 162 del 2003, proposto da Alpa Guido, Cesaro Ernesto, Cilento
Andrea, D’Angelo Amdrea, D’Angelo Guido, Grasso Biagio, Olivieri Giuseppe,
Recchia Giorgio e Spagna Michele, tutti rappresentati e difesi da se stessi e
anche disgiuntamente dall’avv. Paolo Di Martino, presso il quale sono
elettivamente domiciliati in Roma, via dell’Orso n. 74;
contro
Ministero delle infrastrutture e dei trasporti;
Ministero della giustizia, entrambi costituitisi in giudizio, rappresentati e
difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, presso la stessa domiciliati ex
lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
per l’annullamento e riforma
della sentenza n. 5437 dell’11 giugno 2002 del T.A.R. del Lazio, Sez. III;
Visti i ricorsi con i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio delle Amministrazioni intimate;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti delle cause;
Relatore alla pubblica udienza del 27 maggio 2003 il Consigliere Anna Leoni;
uditi l'Avvocato
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO
(Ricorso n.9089/2002) . Con ricorso notificato il 26 giugno 2000 gli attuali
appellanti, professionisti ed imprese che operano da tempo nel settore dei
lavori pubblici, impugnavano davanti al TAR del Lazio le norme regolamentari
che, nell’ambito della riforma dell’ordinamento dei lavori pubblici attuata in
esecuzione della L. 11 febbraio 1994 n. 109, avevano disciplinato il
procedimento arbitrale(in particolare, gli artt. 149, 150 e 151 del D.P.R. n.
554/99 e l’art. 34 del capitolato generale approvato con D.M. n. 145 del 2000).
Con successivi motivi aggiunti, gli stessi soggetti impugnavano, sostenendone
l’illegittimità derivata, il D.M. 2 dicembre 2000 n. 398, contenente le norme di
procedura del giudizio arbitrale ai sensi dell’art. 32 della L.n. 109/94.
Sostenevano, in estrema sintesi, i ricorrenti che il nuovo sistema di
definizione delle controversie si sarebbe posto in contrasto con la disciplina
regolante l’istituto dell’arbitrato nel nostro ordinamento; che, sul piano
strettamente giuridico avrebbe ecceduto dai limiti della delega legislativa; che
avrebbe violato i principi generali in tema di disciplina processuale
dell’arbitrato; che si sarebbe posto in contrasto con una molteplicità di
principi costituzionali.
Le Amministrazioni intimate si costituivano in giudizio, eccependo, da un lato,
l’inammissibilità del ricorso relativamente ad alcune censure per mancanza di
interesse giuridicamente rilevante da parte dei ricorrenti e, dall’altro,
l’infondatezza nel merito delle rimanenti censure.
Con sentenza n. 5432 dell’11 giugno 2002 il TAR del Lazio dichiarava in parte
inammissibile ed in parte respingeva il ricorso, compensando tra le parti le
spese di giudizio.
Contro tale sentenza è stato proposto il ricorso in appello oggi all’esame del
Collegio, notificato in data 22 ottobre 2002, con il quale gli appellanti, dopo
aver riportato integralmente il testo del ricorso introduttivo di I grado(in
quanto, a loro avviso il TAR avrebbe ignorato e pretermesso gran parte delle
considerazioni in diritto svolte nel corso del giudizio ed in particolare quelle
contenute nella memoria collegiale, da cui la necessità della loro integrale
trascrizione nell’atto di appello affinché se ne tenga, in questa sede, la
dovuta considerazione), hanno dedotto i seguenti motivi di appello:
6.1. Error in iudicando sul primo motivo di ricorso, in quanto il TAR, dopo aver
qualificato le norme impugnate come regolamento autorizzato e conseguentemente
sottratto le stesse al sindacato di costituzionalità delle leggi, avrebbe omesso
di operare lo stesso sindacato nei confronti delle norme di cui alla legge n.
109/94 attuate dal regolamento.
La delega di cui all’art.32 della legge citata, infatti, operando un mero rinvio
ai principi limite di trasparenza, imparzialità e correttezza in una materia in
cui sembrerebbe pacifica la riserva di legge, si porrebbe in contrasto con gli
artt. 24, 76, 103 e 108 Cost.
Né varrebbe, in contrario, richiamare la disciplina dell’arbitrato contenuta nel
codice di procedura civile, che non consentirebbe comunque al Governo di
esercitare illegittime opzioni in una materia coperta da riserva di
legge(quantomeno relativa)quale sarebbe, ad avviso degli appellanti, l’aver
irragionevolmente rimesso ad un “arbitrato amministrato” un intero blocco di
arbitrati ratione materiae e cioè quelli legati alla materia dei lavori
pubblici.
In tal modo, infatti, la scelta se ricorrere o no all’arbitrato sarebbe solo
formalmente facoltativa, essendo rimesso all’Amministrazione se fare o meno
ricorso a tale strumento, inserendo nello schema di contratto da inserire nel
progetto a base di gara le modalità di risoluzione delle controversie(art.45
comma 1, lett.m) DPR n. 554 del 1999).
Gli appellanti, poi, ripropongono le tesi già esposte in I grado circa i criteri
di individuazione e le incompatibilità dei componenti all’Albo, ritenendo la
sentenza impugnata affetta da perplessità sul punto. Ripropongono, altresì, le
censure relative alla determinazione del compenso agli arbitri, sottratta alla
competenza degli ordini professionali.
6.2.Error in iudicando sul secondo motivo di ricorso.
Gli appellanti censurano il rigetto del secondo motivo di ricorso da parte del
TAR ( a proposito di differenza tra legge delegata e regolamento autorizzato)
richiamando le argomentazioni svolte con il primo motivo di appello.
6.3.Error in iudicando sul III motivo di ricorso.
Il TAR avrebbe errato nel respingere la censura con cui i ricorrenti, in I
grado, avevano sostenuto la violazione dell’art.32 della legge n. 109/94, che
prevedeva che le norme di procedura dei collegi arbitrali fossero affidate al
Ministero dei lavori pubblici di concerto, con quello della Giustizia,
dimenticando che la nomina del Presidente del Collegio arbitrale è una tipica
norma della procedura arbitrale.
6.4. Error in iudicando sul IV motivo di ricorso.
Si propugna la tesi della non imparzialità della Autorità di vigilanza per i
lavori pubblici e della Camera arbitrale presso la stessa istituita, in quanto
promananti dall’Amministrazione dei lavori pubblici.
6.5. Error in iudicando sul V motivo di ricorso.
Si censura la sentenza nella parte in cui ha ritenuto che la materia delle
incompatibilità potesse essere oggetto di regolamento, in quanto avente valore
di legge in virtù della delega ricevuta dal Governo.
6.6. Error in iudicando sui motivi aggiunti I, II, III e IV.
Il TAR avrebbe errato nel rigettare le censure rivolte avverso il D.M. n.
398/2000, che detta regole di procedura del giudizio arbitrale de quo, per non
essere le stesse in contrasto con i principi del c.p.c.: invero, il regime delle
nullità e delle preclusioni(non conforme al c.p.c.) non è stato liberamente
scelto dalle parti, ma sancito dal Ministero dei lavori pubblici, di concerto
con quello di giustizia, mediante un decreto ministeriale.
Avrebbe, inoltre, errato nel ritenere che le norme richiamate a sostegno delle
censure(artt. 164, 180. 183 e 189 del c.p.c.)non siano capisaldi del diritto
processuale, bensì frutto di una innovazione del 1990.
6.7. Error in iudicando sul IV motivo aggiunto.
Il TAR avrebbe errato nel ritenere che il C:T.U., se vuole contestare i compensi
ricevuti, può autonomamente impugnare il lodo, in quanto l’organo deputato alla
liquidazione (Camera arbitrale) non è”giudice”, ma un organo amministrativo e la
liquidazione avviene con ordinanza camerale.
6.8. Error in iudicando sul VI motivo aggiunto.
Il TAR avrebbe errato nel respingere il ricorso relativamente alla censura
relativa alla disciplina della determinazione del valore della controversia ai
fini della liquidazione delle spese di lite, utilizzando argomentazioni non
conferenti.
7.Si sono costituite in giudizio le Amministrazioni appellate che, con
articolata memoria, hanno contestato in parte l’ammissibilità ed in parte
l’infondatezza delle proposte censure di appello.
8.Gli appellanti hanno prodotto una ampia memoria difensiva, con la quale hanno
riaffermato le proprie tesi e controdedotto alle eccezioni dell’Avvocatura dello
Stato.
Hanno, in particolare, fatto rilevare che:
- la disciplina introdotta in tema di arbitrato sui lavori pubblici avrebbe di
fatto creato un giudice speciale, in spregio agli artt. 102 e 25 co.1 Cost,;
- le norme che attribuiscono alla Camera arbitrale il compito di nominare il
terzo arbitro con funzioni di Presidente del collegio sarebbero affette da
illegittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 3, 41 e 101 Cost., in
quanto la facoltà di scelta degli arbitri riservata esclusivamente alle parti
sarebbe l’unico metodo idoneo per garantire l’imparzialità;
- l’eccezione di inammissibilità del ricorso per carenza di legittimazione a
ricorrere, ribadita dalla difesa erariale anche in sede di giudizio di appello,
sarebbe inammissibile in quanto coperta da giudicato, essendosi il giudice di I
grado già pronunciato in materia e non avendo la difesa erariale appellato in
parte qua la sentenza.
9. (Ricorso n. 162/2003) . Con ricorso notificato il 5 marzo 2001 gli attuali
appellanti, professionisti ed imprese che operano da tempo nel settore dei
lavori pubblici, impugnavano davanti al TAR del Lazio il decreto 2 dicembre 2000
n. 398 che, nell’ambito della riforma dell’ordinamento dei lavori pubblici
attuata in esecuzione dell’art.32 della L. 11 febbraio 1994 n. 109, avevano
dettato le norme di procedura per lo svolgimento del giudizio arbitrale.
10.Sostenevano, in estrema sintesi, i ricorrenti l’illegittimità delle norme
regolamentari in questione, che avrebbero introdotto nullità e preclusioni
incompatibili con i principi generali in materia di processo civile e, quindi,
avrebbero violato sia le norme del codice di procedura civile sia la norma di
legge che vincolava il regolamento al rispetto di quei principi.
11.Le Amministrazioni intimate si costituivano in giudizio, eccependo, da un
lato, l’inammissibilità del ricorso per mancanza di interesse giuridicamente
rilevante da parte dei ricorrenti e, dall’altro, l’infondatezza nel merito delle
rimanenti censure.
12.Con sentenza n. 5437 dell’11 giugno 2002 il TAR del Lazio respingeva il
ricorso, compensando tra le parti le spese di giudizio.
13.Contro tale sentenza è stato proposto il ricorso in appello oggi all’esame
del Collegio, notificato in data 17 dicembre 2002, con il quale gli appellanti,
dopo aver riportato integralmente il testo del ricorso introduttivo di I
grado(in quanto, a loro avviso il TAR avrebbe ignorato e pretermesso gran parte
delle considerazioni in diritto svolte nel corso del giudizio ed in particolare
quelle contenute nella memoria collegiale, da cui la necessità della loro
integrale trascrizione nell’atto di appello affinché se ne tenga, in questa
sede, la dovuta considerazione), hanno dedotto i seguenti motivi di appello:
13.1.Error in iudicando sui motivi I, II, III e V di ricorso, in quanto il TAR,
rigettando le censure con le quali si era dedotto il contrasto fra diverse
disposizioni del D.M. n. 398/2000 ed il codice di procedura civile, nel
presupposto della libertà delle parti di dettare la disciplina delle modalità di
svolgimento del procedimento, ivi compreso il regime delle nullità che
intendessero introdurre, avrebbe dimenticato che il regime delle libertà e delle
preclusioni non è stato liberamente stabilito dalle parti, ma sancito dal
Ministero dei lavori pubblici, di concerto con quello della Giustizia, mediante
un decreto ministeriale.
Avrebbe, inoltre, errato nel ritenere che le norme richiamate a sostegno delle
censure(artt. 164, 180. 183 e 189 del c.p.c.)non siano capisaldi del diritto
processuale, in quanto frutto di una innovazione del 1990.
13.2.Error in iudicando sul IV motivo di ricorso.
Il TAR avrebbe errato nel ritenere che il C:T.U., se intende contestare i
compensi ricevuti, può autonomamente impugnare il lodo, in quanto l’organo
deputato alla liquidazione (Camera arbitrale) non è”giudice”, ma un organo
amministrativo e la liquidazione avviene con ordinanza camerale.
13.3. Error in iudicando sul VI motivo di ricorso.
Il TAR avrebbe errato nel respingere il ricorso relativamente alla censura
relativa alla disciplina della determinazione del valore della controversia ai
fini della liquidazione delle spese di lite, utilizzando argomentazioni non
conferenti.
14.Si sono costituite in giudizio le Amministrazioni appellate che, con
articolata memoria, hanno contestato in parte l’ammissibilità ed in parte
l’infondatezza delle proposte censure di appello.
15.Gli appellanti hanno prodotto una ampia memoria difensiva, con la quale hanno
riaffermato le proprie tesi e controdedotto alle eccezioni dell’Avvocatura dello
Stato.
Hanno, in particolare, fatto rilevare che:
- la sentenza sarebbe errata nella parte in cui ha ritenuto che nessuna delle
disposizioni censurate andasse a collidere con principi inderogabili, dal
momento che gli artt. 816, co.2 e 829, co.7 del c.p.c. ammettono per le sole
parti la possibilità di disciplinare la procedura arbitrale, mentre nella
fattispecie si sarebbe in presenza di una disciplina imposta e non scelta
liberamente;
- la sentenza non avrebbe tenuto conto del principio di unità del rapporto
processuale, determinato dalla domanda processuale, inteso come possibilità di
fisiologico sviluppo del processo in relazione alla domanda proposta, di talchè
sarebbe illegittimo l’art. 2 del Decreto impugnato che inibisce nuove o diverse
domande, aggiornamenti od ampliamenti della stessa domanda originaria in corso
di causa.
16. Entrambi gli appelli sono stati inseriti nel ruolo d’udienza del 27 maggio
2003.
DIRITTO
1. Attesi gli evidenti motivi di connessione, i due appelli vanno riuniti ai
fini di un’unica decisione.
Il primo appello (n.9089/2002) è diretto avverso la sentenza n.5432 dell’11
giugno 2002 del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, Sez. III, che ha
in parte respinto ed in parte dichiarato inammissibile il ricorso proposto dagli
attuali appellanti avverso le norme regolamentari che, nell’ambito della riforma
dell’ordinamento dei lavori pubblici attuata in esecuzione della L. 11 febbraio
1994, n.109, hanno disciplinato il giudizio arbitrale e la relativa procedura.
2. Va, anzitutto, respinta l’eccezione di inammissibilità dell’appello per
carenza di legittimazione a ricorrere relativamente al primo motivo proposto,
reiterata anche in questa fase di giudizio dalla difesa erariale, atteso che,
come correttamente osservato dagli appellanti, sulla eccezione si è pronunciato,
ritenendola infondata, il giudice di primo grado nella sentenza appellata, non
impugnata in parte qua dall’Avvocatura dello Stato, determinando con ciò il
verificarsi di una preclusione processuale sul punto, derivante da giudicato cd.
interno, che non può non essere rilevata dal giudice del grado successivo (cfr.
Cass. n.2388/98).
3. Prima di passare all’esame del merito è opportuno delineare sinteticamente
l’evoluzione legislativa che ha interessato l’istituto dell’arbitrato in materia
di lavori pubblici a partire dalla c.d. legge quadro (L.11 febbraio 1994, n.109).
Il testo originario dell’art. 32 di tale legge, dopo aver previsto, al primo
comma, la conciliazione in via amministrativa delle controversie, al secondo
comma, per il mancato raggiungimento dell’accordo, da un lato, devolveva le
controversie alla competenza del giudice ordinario e, dall’altro, vietava che
nei capitolati generali o speciali fosse previsto il deferimento delle
controversie ai collegi arbitrali.
Tale disposizione fu contestata sia per il suo possibile contrasto con numerose
disposizioni della Costituzione (artt.24, 113, 3 e 97) sia perchè privava il
settore di un istituto avente una crescente rilevanza, in dipendenza del
mutamento in atto nell’assetto dello Stato: nella struttura amministrativa,
nell’organizzazione giudiziaria, nei rapporti con i cittadini. Ciò in relazione
all’aumento del valore dell’autonomia privata ed alla luce della moderna
concezione del diritto amministrativo, fondata sul pluralismo istituzionale e
sull’esercizio di compiti pubblici non in forza del principio dell’autorità
dell’amministrazione bensì con la collaborazione dei soggetti interessati e con
il ricorso ad istituti convenzionali e paritari.
Il Governo, con numerosi decreti-legge, via via reiterati fino al D.L. 31
gennaio 1995, n.26, sospese, fino al 30 giugno 1995, l’applicazione di quasi
tutte le disposizioni della legge n.109/1994, fra cui quelle contenute
nell’art.32.
Con l’art. 9 bis del D.L. 3 aprile 1995, n.101, convertito in legge, con
modificazioni, dalla L.2 giugno 1995, n.216, si ebbe il capovolgimento della
previsione in materia, in quanto esso disponeva, al comma 1, che, qualora non si
fosse raggiunto l’accordo bonario previsto dall’articolo precedente, la
definizione delle controversie “è attribuita ad un arbitrato ai sensi delle
norme del titolo VIII del libro quarto del codice di procedura civile”.
Anche questa disposizione diede luogo a problemi, soprattutto in relazione alla
sua formulazione che sembrava prevedere un arbitrato obbligatorio, istituto,
questo, ritenuto incostituzionale (come si vedrà in seguito) dalla costante
giurisprudenza della Corte costituzionale.
L’art. 10 della L.18 novembre 1998, n.415 contiene un testo interamente
sostitutivo dell’art. 32 della legge n.109/1994 ed è quello vigente (salvo
modificazioni, che in questa sede non interessano, introdotte dall’art. 7 della
L.1° agosto 2002, n.166).
Tre sono gli aspetti salienti dell’attuale disciplina legislativa che incidono
particolarmente sulla presente controversia:
a) la natura facoltativa, volontaria o consensuale dell’arbitrato. L’adozione
dell’espressione “Possono essere deferite ad arbitri” (comma 1), vale a fugare
ogni dubbio di illegittimità della previsione dell’arbitrato, alla luce
dell’orientamento della Corte costituzionale innanzi richiamato;
b) la previsione di un procedimento arbitrale c.d. amministrato, che si svolge
sotto l’egida della camera arbitrale istituita presso l’Autorità per la
vigilanza sui lavori pubblici (comma 3, prima parte);
c) l’attribuzione ad un regolamento, adottato con decreto interministeriale
(lavori pubblici – grazia e giustizia), della fissazione delle norme di
procedura del giudizio arbitrale “nel rispetto dei principi del codice di
procedura civile” (comma 2, seconda parte), intendendosi ovviamente per tali
quelli che costituiscono i capisaldi del processo, perché altrimenti verrebbe ad
attribuirsi ad una fonte di pari grado (il Codice di Procedura Civile)una
durevolezza che proprio la specificità e fluidità delle materie de qua esclude
in radice.
Alla disciplina primaria ha fatto seguito la disciplina secondaria, contenuta
negli artt. 150 e 151 del D.P.R. 21 dicembre 1999, n.554, recante il regolamento
di attuazione della legge quadro, nel D.M. 2 dicembre 2000, n.398, recante le
norme di procedura del giudizio arbitrale, e negli artt. 33 e 34 del D.M. 19
aprile 2000, n.145, recante il capitolato generale d’appalto dei lavori
pubblici.
4. Ciò premesso la questione che va preliminarmente esaminata è quella di
legittimità costituzionale, già sollevata in primo grado e riproposta in questa
sede, dell’art.32 della legge n.109/1994 e successive modificazioni, nonché
delle norme regolamentari che riservano alla camera arbitrale la nomina del
presidente del collegio, la determinazione dei compensi dovuti agli arbitri, la
tenuta di un albo l’iscrizione al quale condiziona lo svolgimento delle funzioni
arbitrali e determina situazioni di incompatibilità, e pongono, inoltre, una
disciplina procedurale che si assume ampiamente divergere rispetto ai principi
del codice di procedura civile, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 25, 41, 76 e
77 Cost.
4.1. In quanto rivolte avverso l’art. 32 della legge n.109/1994 talune delle
censure di illegittimità costituzionale sono inammissibili.
Ciò vale per quelle completamente fuori centro, come quella concernente la
violazione dell’art. 77, che disciplina la decretazione d’urgenza, del tutto
estranea alla presente materia, nonché quella proposta in relazione all’art. 76,
che concerne la delegazione legislativa, mentre nella specie viene in rilievo
l’istituto – del tutto differente – dell’autorizzazione legislativa
all’esercizio della potestà regolamentare da parte del Governo o di singoli
Ministri.
Le altre censure sono manifestamente infondate. Infatti, nell’art. 32 non è
ravvisabile – neanche prima facie, nell’ambito del potere di delibazione
attribuito al giudice a quo – alcun profilo di illegittimità costituzionale, in
quanto esso non prevede un arbitrato c.d. obbligatorio e risulta per questo
aspetto rispettoso dei principi affermati dalla Corte costituzionale circa il
fondamento dell’arbitrato sull’accordo delle parti; attribuisce all’arbitrato il
carattere di “amministrato” il che – qualora esso sia correttamente inteso ed
applicato – non appare in contrasto con nessuna delle disposizioni della
Costituzione asseritamente violate; dispone, infine, un'ampia delegificazione,
in coerenza con la filosofia cui è improntata tutta la legge 109 del 1994 (cfr.,
in particolare, l’art. 3, in ordine al quale la Corte costituzionale, con la
sentenza 7 novembre 1995, n.482, si è pronunciata sostanzialmente in senso
favorevole), e con l’indicazione, sintetica ma sufficiente, dei criteri
(rispetto dei principi del codice di procedura civile per il procedimento
arbitrale [co.2]; principi di trasparenza, imparzialità e correttezza per la
camera arbitrale [co. 3]), cui l’esercizio della potestà regolamentare deve
attenersi.
4.2. In quanto rivolte avverso le disposizioni regolamentari in precedenza
richiamate (retro, n.3), le proposte censure di illegittimità costituzionale
sono inammissibili, alla stregua del costante insegnamento della Corte
costituzionale, secondo cui il giudizio di legittimità costituzionale di norme
aventi natura regolamentare eccede i limiti della giurisdizione della Corte,
secondo la definizione che di questa è data dall’art. 134 Cost., il quale la
limita al caso dell’illegittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi
forza di legge (C.cost. 14 giugno 2001, n.194 [ord.]; 18 ottobre 2000, n.427; 25
luglio 1997, n.273; 27 giugno 1997, n.208 [ord.]; 23 aprile 1993, n.199).
Peraltro, il pieno esplicarsi della garanzia della Costituzione nel sistema
delle fonti – con particolare riferimento a quelle di valore regolamentare
adottate, come nella specie, in sede di delegificazione – non è pregiudicato
dall’anzidetta limitazione della giurisdizione del giudice costituzionale, in
quanto la relativa garanzia è da ricercare (nei casi in cui, come si è innanzi
rilevato, non sia configurabile un vizio di costituzionalità delle legge
abilitante all’adozione del regolamento), nel controllo di legittimità del
regolamento, ove il vizio sia proprio ed esclusivo dello stesso, demandato al
giudice ordinario ed al giudice amministrativo, nell’ambito dei poteri ad essi
spettanti, controllo che può condurre, rispettivamente, alla disapplicazione o
all’annullamento del regolamento.
5. Alla luce di tali principi, pienamente condivisi dalla Sezione (cfr. IV, 17
aprile 2000, n.2292; 24 giugno 1980, n.692), debbono ora esaminarsi le censure,
oltre che di violazione delle richiamate disposizioni della Costituzione, di
violazione e falsa applicazione dell’art. 32 della L. n.109 del 1994, di
violazione e falsa applicazione del Titolo VIII del c.p.c., di eccesso di potere
sotto vari profili, vizi riferiti al regolamento n.554 del 1999 nella parte in
cui attribuisce alla camera arbitrale costituita presso l’Autorità per la
vigilanza sui lavori pubblici il potere di designare il terzo membro dei collegi
arbitrali con funzioni di presidente. Il regolamento, inoltre, imporrebbe
ingiustificate incompatibilità e priverebbe illegittimamente gli ordini
professionali e i consigli nazionali dei propri poteri in materia di tariffe
professionali, attribuendo alla camera arbitrale la fissazione dei compensi
degli arbitri.
Le censure, disattese dalla sentenza impugnata, sono fondate, nei limiti di
seguito indicati.
5.1. Lo scrutinio di legittimità delle norme regolamentari impugnate deve essere
condotto, innanzitutto, alla luce del principio, affermato dalla Corte
costituzionale, della volontarietà dell’arbitrato.
Riveste fondamentale rilievo al riguardo la sentenza 14 luglio 1977, n.127,
seguita da numerose altre, assolutamente costanti nell’affermare i medesimi
principi (cfr. C.cost. 27 dicembre 1991, n.488; 10 giugno 1994, n.232; 27
febbraio 1996, n.54; 9 maggio 1996, n.152; 11 dicembre 1997, n.381; 24 luglio
1998, n.325; 21 aprile 2000, n.115), la quale ha ritenuto che chi vuol far
valere un diritto in giudizio non può rivolgersi che ai giudici ordinari di cui
all’art. 102 Cost. oppure ai giudici speciali elencati nell’art. 103 o comunque
contemplati dalla VI disp. trans.; con la sola alternativa del ricorso
all’arbitrato , come descritto dal codice di rito e caratterizzato dalla libera
scelta delle parti, unica valida deroga al principio della giurisdizione
statuale.
Resta così confermata la prospettiva che la moderna dottrina ha utilizzato per
ricomporre ad unità il sistema dell’arbitrato. Esiste cioè una pluralità di
modelli arbitrali, i quali, tuttavia, sono sussumibili in uno schema unitario
caratterizzato da elementi comuni e, in primo luogo, dalla libertà delle parti
di optare per il giudizio arbitrale.
5.2. Così delineato il quadro di riferimento costituzionale, dal quale resta del
tutto esclusa la figura dell’arbitrato obbligatorio, si può passare a verificare
l’effettivo rispetto dei suindicati principi da parte delle disposizioni
regolamentari che disciplinano l’arbitrato di cui trattasi.
Viene innanzitutto in rilievo l’art. 150 del regolamento di attuazione di cui al
D.P.R. n.554 del 1999, secondo cui (comma 2) ciascuna delle parti, nella domanda
di arbitrato o nell’atto di resistenza alla domanda, nomina l’arbitro di propria
competenza tra professionisti di particolare esperienza nella materia dei lavori
pubblici e, se la parte nei cui confronti è diretta la domanda di arbitrato
omette di provvedervi, alla nomina procede il Presidente del Tribunale ai sensi
del’art, 810, comma 2, del c.p.c.; inoltre (comma 3), ad iniziativa della parte
più diligente, gli atti di nomina dei due arbitri sono trasmessi alla camera
arbitrale per il lavori pubblici affinchè provveda alla nomina del terzo
arbitro, con funzioni di presidente del collegio, scelto nell’ambito del’albo
camerale sulla base di criteri oggettivi e predeterminati.
La prima di tali disposizioni trova un puntuale riferimento nell’art.810 c.p.c.
(Nomina degli arbitri) e deve perciò considerarsi legittima.
Non lo sarebbe stato se fossero state accolte le proposte, che pure erano state
avanzate in sede di predisposizione del regolamento, di attribuire alla camera
arbitrale la nomina dell’intero collegio (il che avrebbe snaturato l’arbitrato
in questione, privandolo del carattere della volontarietà e riconducendolo ad
una giurisdizione speciale), o di rimettere alla camera la nomina dell’arbitro
di parte, nel caso di omissione della parte stessa (in contrasto con i principi,
inderogabili, del codice di procedura civile attinenti alla costituzione del
giudice).
La seconda delle predette disposizioni, contenuta nell’art. 150, comma 3, del
regolamento, introduce una rilevante novità, consistente nella sottrazione alle
parti della possibilità di nominare direttamente, d’accordo fra loro, il terzo
arbitro o di individuare, per detta nomina, un meccanismo diverso, ma pure
sempre fondato sulla loro volontà (cfr. art. 810 c.p.c., cit.).
Questa disposizione è illegittima per un triplice, concorrente ordine di
ragioni.
Al riguardo va, innanzitutto, rilevato che la norma primaria (art. 32, comma 3,
della legge n.109/1994) attribuisce al regolamento la definizione della
composizione e delle modalità di funzionamento della camera arbitrale per i
lavori pubblici, la disciplina dei criteri cui la camera arbitrale dovrà
attenersi nel fissare i requisiti soggettivi e di professionalità per assumere
l’incarico di arbitro, nonché la durata dell’incarico stesso. La norma non
contiene alcuna previsione, che comunque sarebbe dovuta essere espressa, circa
l’attribuzione alla potestà regolamentare del Governo della fissazione dei
criteri per la composizione dei collegi arbitrali e, tanto meno, della
sottrazione alle parti del potere di scegliere d’accordo fra di loro il terzo
arbitro, che sovente costituisce l’ago della bilancia del giudizio arbitrale.
Sotto tale profilo la norma regolamentare è illegittima in quanto esorbita dai
limiti fissati dalla normativa primaria.
Ma quand’anche volesse ammettersi la sussistenza della potestà regolamentare, la
norma in esame sarebbe illegittima perché in contrasto con i principi sanciti
dagli artt. 809 e ss. c.p.c. che rientrano tra quelli fondamentali il cui
rispetto è prescritto dall’art. 32, comma 2, della legge n.109/1994.
I predetti articoli del codice di procedura civile, in materia di arbitrato
rituale (qual è, per espressa previsione dell’art. 150, comma 1, ult. p., del
regolamento, quello in materia di lavori pubblici), prevedono che il potere di
stabilire il numero e le modalità di nomina degli arbitri è rimesso alle parti,
con il solo limite del rispetto dell’ordine pubblico: le regole dettate
dall’ordinamento con disposizioni di carattere generale hanno, quindi, la sola
funzione di garantire la libera espressione della volontà delle parti.
E’ chiaro, pertanto, come non possa considerarsi legittima una disposizione
regolamentare – e quindi di livello secondario – che contrasti con quelle regole
che, in relazione alla natura volontaria dell’arbitrato, assurgono al rango di
veri e propri principi di carattere essenziale e strutturale.
Da ultimo – ma è il rilievo più consistente, di per sé assorbente - , nel
richiamare l’orientamento della Corte costituzionale, in virtù del quale
l’arbitrato non può che essere facoltativo e volontario, deve ritenersi – sulla
scorta di autorevoli opinioni dottrinarie – che l’arbitrato è tale sia per la
scelta di esso compiuta dalle parti in luogo dei rimedi ordinari che per la
scelta degli arbitri fatta liberamente dalle parti stesse, tanto che, se i
componenti di un collegio siano designati con criteri diversi da quelli della
libera scelta delle parti, si tratterebbe di un vero e proprio organo di
giurisdizione speciale (come tale, illegittimo).
Consegue che la nomina degli arbitri, compreso – a fortiori – il presidente del
collegio, non può che essere attribuita alle parti, alla stregua del principio
fondante, contenuto nel codice di procedura civile (art. 810), secondo il quale
la nomina è compiuta dal presidente del tribunale soltanto nei casi in cui una
parte abbia omesso di nominare il proprio arbitro ovvero le parti non abbiano
trovato l’accordo entro una dato termine ovvero abbiano demandato ad un terzo
che non vi abbia provveduto o al presidente stesso la nomina di uno o più
arbitri.
Questi principi sono indefettibili in quanto attengono alla natura stessa
dell’istituto arbitrale, quale riconosciuta dalla Corte costituzionale. Ma
quand’anche si potesse configurare una deroga allorchè la nomina sia attribuita
ad un organo giurisdizionale (presidente di corte d’appello, presidente del
Consiglio di Stato), come avveniva nel precedente capitolato generale, ciò non
sarebbe sicuramente consentito allorchè l’organo che procede alla nomina – come
nel caso della camera arbitrale – sia un organo che, pur operando in piena
autonomia ed indipendenza, è pur sempre amministrativo, facente parte della
pubblica amministrazione, che nella maggioranza dei casi è parte in causa nel
giudizio arbitrale. Trattasi comunque di un organo che non risponde a quei
requisiti di terzietà che il titolo IV della parte seconda della Costituzione
richiede per tutti i giudici e per tutti i giudizi.
Un siffatto sistema potrebbe far sorgere problemi, anche sul piano comunitario,
circa la effettiva terzietà degli arbitri così nominati e quindi sulla
obiettività del giudizio che essi sono chiamati ad esprimere (cfr., per
riferimenti circa la composizione dei collegi arbitrali, Corte cost. 13 febbraio
1995, n.33).
5.3. Da quant’innanzi deriva che l’art. 150, comma 3, del regolamento, nella
parte in cui sottrae alla libera determinazione delle parti la scelta del terzo
arbitro con funzioni di presidente, attribuendola alla camera arbitrale, è
illegittimo e deve essere annullato.
L’annullamento di tale disposizione comporta il venir meno di quelle relative
alla formazione dell’albo degli arbitri della camera arbitrale (art. 151, commi
5 e 7, quest’ultimo limitatamente agli arbitri), nonché alla durata
dell’iscrizione ed alle incompatibilità conseguenti all’iscrizione stessa (art.
151, comma 8, sempre limitatamente agli arbitri; restano, invece, salve le
incompatibilità previste dal successivo comma 9, che appare legittimo in quanto
meramente specificativo di ipotesi di incompatibilità già presenti nel nostro
ordinamento [cfr. art. 51 c.p.c.] e che comunque non risulta impugnato).
In conseguenza, debbono considerarsi assorbite le censure riguardanti i
requisiti per l’iscrizione all’albo tenuto dalla camera arbitrale, nonché le
incompatibilità (conseguenti all’iscrizione e, in particolare, quelle di cui al
secondo motivo di appello (error in iudicando sul secondo motivo di ricorso) ed
al terzo motivo di appello (error in iudicando sul terzo motivo di ricorso),
attinenti alla questione, già decisa, concernente la nomina del presidente del
collegio arbitrale, nonché quella di cui al quarto motivo (error in iudicando
sul quarto motivo di ricorso), con cui si deduce la non imparzialità
dell’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici e della camera arbitrale
istituita presso la stessa, giacchè tale censura non ha una valenza propria, ma
è strumentale rispetto alla questione della nomina del presidente del collegio.
Ugualmente deve considerarsi assorbita la censura di cui al quinto motivo (error
in iudicando sul quinto motivo di ricorso), concernente la previsione di talune
incompatibilità contenuta nel regolamento, in quanto tale questione, nei limiti
dell’impugnativa, è stata già risolta per effetto della innanzi rilevata
caducazione, in parte qua, dell’art. 151, comma 8, del regolamento.
6.1. Con il sesto motivo di ricorso (error in iudicando sui motivi aggiunti I,
II, III, e IV), si sostiene l’erroneità della sentenza di primo grado nella
parte in cui ha rigettato le censure dirette contro numerose disposizioni
contenute nel regolamento che detta la disciplina della procedura del giudizio
arbitrale (D.M. 2 dicembre 2000, n. 398).
Questo regolamento – come già detto – trova la sua base normativa nell’art. 32,
comma 2, seconda parte, dell’art. 32 della legge n. 109/1994, che attribuisce al
Ministro dei lavori pubblici, di concerto con il Ministro di grazia e giustizia,
il relativo potere.
6.2. Si è detto che l’arbitrato di cui trattasi pur richiamandosi al modello
ordinario, è volontario, come debbono essere, in forza del più volte richiamato
orientamento della Corte costituzionale, tutti gli arbitrati; è un arbitrato
rituale e tale è espressamente qualificato dall’art.150, comma 1, ult. p., del
regolamento di attuazione di cui al D.P.R. n.554/1999; è, infine, un arbitrato
amministrato, che si richiama al modello ordinario pur avendo delle sue
peculiarità e che si caratterizza per il fatto che il collegio arbitrale è
costituito presso la camera arbitrale per i lavori pubblici (art.32, comma 2,
legge n.109/1994).
Alla luce di tali caratteri deve valutarsi la legittimità delle norme di
procedura contenute nel D.M. 2 dicembre 2000, n. 398, legittimità contestata dai
ricorrenti sotto svariati profili.
Da un punto di vista generale deve ammettersi la possibilità che l’emanazione
delle disposizioni in questione sia demandata ad un atto di normazione
secondaria. Infatti, da un lato, trattasi di un regolamento di delegificazione,
per il quale sono previsti dalla legge i criteri cui deve attenersi (rispetto
dei principi del codice di procedura civile); dall’altro, è da escludere che la
materia in questione sia coperta da riserva assoluta di legge, come è dimostrato
dal rilievo che anche la procedura dinanzi alla Sezioni giurisdizionali del
Consiglio di Stato è stata disciplinata a suo tempo con un regolamento che è
tuttora vigente (R.D. 17 agosto 1907, n.642, cui la Corte costituzionale, con
sentenza 18 maggio 1898, n.251, ha espressamente riconosciuto natura
regolamentare).
6.3. Prima di procedere all’esame delle censure proposte avverso le singole
disposizioni del regolamento in questione, è utile richiamare talune
considerazioni espresse da questo Consiglio nel parere sullo schema di
regolamento in questione (Sez. consultiva per gli atti normativi 17 aprile 2000,
n. 65/2000).
In quella occasione fu osservato che il “recupero” al settore dei lavori
pubblici dello strumento arbitrale (in precedenza affrettatamente accantonato),
ritenuto finalisticamente più idoneo a garantire le esigenze di rapidità e di
specializzazione intrinsecamente connesse al contenzioso in materia, è stato, in
certo senso, mitigato, nel disegno della legge n. 415/1998, dalla previsione di
una procedura che, seppure prende a modello quello dell’arbitrato ordinario
(come attesta il richiamo ai principi del codice di procedura civile che
sostanzialmente si traduce nell’imporre il rispetto dei capisaldi strutturali
del sistema processuale), tenga conto delle esigenze connesse alla gestione di
un settore, per sua natura e per specifiche contingenze, particolarmente
“sensibile” e quindi naturalmente possibile oggetto di un corrispondente modello
di disciplina particolare nei sensi precisati.
6.4. Sulla base delle varie premesse in precedenza illustrate, può procedersi
all’esame delle varie censure dedotte.
Viene in primo luogo in rilievo la censura che investe le regole procedurali del
giudizio arbitrale in materia di lavori pubblici che vengono dagli appellanti
ritenute in contrasto con i principi del c.p.c. (tra le altre : art. 2 del D.M.
398/2000; art. 150, commi 5° e 6°; art. 151, comma 11 del D.P.R. n. 554/1994).
La censura non può trovare accoglimento.
Invero, la individuazione delle norme che devono essere osservate nel
procedimento arbitrale appartiene alla disponibilità delle parti(art. 816 comma
2 c.p.c.), salva la facoltà degli arbitri, in caso di mancanza di tali norme, di
regolare lo svolgimento del giudizio nel modo che ritengono più opportuno (art.
816 co.3), fatti salvi il diritto di difesa delle parti o il principio del
contraddittorio(Cass. 29 gennaio 1992 n. 923 e 4 giugno 1992 n. 6866).
Ne consegue, in virtù di tale disponibilità, la insussistenza di principi
inderogabili in materia, eccezion fatta per quello della parità di diritto di
difesa tra le parti, che però nella fattispecie non viene posto in discussione,
anche perché estranei all’ambito delle censure dedotte.
Quanto, poi, ai principi di diritto processuale generale che costituiscono
l’intelaiatura fondamentale dell’intero codice di procedura civile, essi come
tali sono applicabili anche al procedimento arbitrale e, quindi, non possono
costituire oggetto di discussione, anche perché estranei all’ambito delle
censure dedotte.
Quanto, infine, alle disposizioni che sono frutto di scelta legislativa per il
solo processo ordinario, esse non possono assurgere al rango di capisaldi del
diritto processuale e, come tali, sono derogabili attraverso una scelta
legislativa di pari rango qual è quella effettuata dall’art.32 della L.n.
109/94(“…con decreto del Ministro dei lavori pubblici di concerto con il
Ministero di grazia e giustizia … sono fissate le norme di procedura del
giudizio arbitrale nel rispetto dei principi del codice di procedura civile”).
Né può ritenersi che tale scelta violi la libertà delle parti, atteso che il
ricorso all’arbitrato in materia di lavori pubblici è facoltativo e, quindi,
rimesso alla libera scelta delle parti, che sono consapevoli, in quanto previsto
ex lege, che, per volontà del legislatore, in questa materia si opera con
procedura predefinita, adottata con scelta insindacabile, in quanto attinente al
merito dell’azione amministrativa, con l’unico limite della non violazione dei
principi inderogabili del c.p.c.
6.5. Nel novero delle censure rivolte contro il regolamento assume particolare
rilievo quella con la quale i ricorrenti denunciano l’illegittimità dell’art.
10, comma 2, del D.M. n. 398/2000, il quale attribuisce alla camera arbitrale il
potere di determinare i corrispettivi dovuti dalle parti a titolo di compenso al
collegio arbitrale e a titolo di spese di consulenza tecnica, con ordinanza che
costituisce titolo esecutivo e non è impugnabile.
Per quanto concerne le spese di consulenza tecnica, non può trovare accoglimento
il settimo motivo di ricorso (error in iudicando sul quarto motivo aggiunto),
con il quale si sostiene l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha
accolto la tesi della illegittimità delle norme regolamentari che affidano alla
camera arbitrale la loro liquidazione.
E’ infatti fondata l’eccezione di inammissibilità avanzata dalla difesa
erariale, in quanto materia del tutto estranea all’interesse protetto di cui
sono titolari i ricorrenti.
Sono, invece, ammissibili, ma peraltro infondate, le censure concernenti la
determinazione, ad opera della camera arbitrale, dei compensi per gli arbitri.
Al riguardo è appena il caso preliminarmente di osservare che i cd arbitrati
amministrati, altro non sono che forme assistite da un’istituzione a ciò
preposta, che provvede ad una serie di incombenze pratiche, svolgendo
sostanzialmente una funzione di controllo dell’intero processo arbitrale, al
fine di rendere meno litigioso lo svolgimento della procedura arbitrale, senza
che ciò comporti alcun rapporto tra gli arbitri e l’istituzione, arbitri che nel
momento in cui accettano, si impegnano esclusivamente nei confronti delle parti.
Alla luce di tale premessa sembra che la previsione di cui all’art. 150 comma
sesto del Regolamento, attuativo di quanto disposto nell’art. 32 comma secondo
della legge n. 109/94, in materia di poteri della camera arbitrale di
determinare i compensi spettanti agli arbitri si pongono in una linea di
coerenza con l’impianto generale previsto dalla normazione primaria.
Ed invero dal momento che la Camera è soggetto preposto allo svolgimento della
procedura arbitrale e limitatamente alla liquidazione dei compensi sfornito di
qualsiasi interesse, non essendo previsto che una parte degli stessi sia da essa
trattenuta, appare del tutto legittimo e corrispondente a criteri di garanzia
delle parti, secondo i principi di trasparenza, imparzialità e correttezza
fissati dall’art. 32 della L.n. 109/94, affidare alla stessa il compito di
stabilire, in modo vincolante per le parti ed in base a tariffe prefissate con
decreto interministeriale, la determinazione della prestazione dedotta
nell’arbitrato.
6.6. Le censure proposte avverso altre disposizioni contenute nel regolamento
non meritano accoglimento.
Appaiono, infatti, da un lato rispondenti a peculiari esigenze del procedimento
arbitrale in questione e, dall’altro, non in contrasto con i principi
fondamentali del sistema civilprocessualistico (ma solo, in certi casi, con
particolari disposizioni del codice di rito che, per l’appunto non rivestono
siffatti connotati) e rientrano quindi nel legittimo esercizio della potestà
regolamentare, conferita dalla norma primaria di cui all’art. 32, comma 2, della
legge n.109/1994, la previsione della litispendenza collegata alla costituzione
del collegio (art. 3, comma 5); la previsione del termine per la conciliazione
(art. 5, comma 3), giacchè essa si riferisce evidentemente alla conciliazione
dinanzi al collegio e non impedisce che le parti addivengano, anche
successivamente, alla transazione della controversia; l’esclusione, dal novero
dei mezzi di prova ammissibili, del giuramento in tutte le sue forme (art. 7,
comma 2, prima parte), il che, trattandosi di giudizi che vedono,
prevalentemente se non esclusivamente, quale parte una pubblica amministrazione,
vale a conformare, sotto questo aspetto, il giudizio arbitrale al processo
amministrativo, nel quale, come è noto, il giuramento non è ammesso.
Infine, l’art. 8, concernente l’udienza di discussione, l’art. 9, comma 1, che
dispone che il lodo si ha per pronunciato con il suo deposito presso la camera
arbitrale, l’art. 10, commi 4-6, che dettano i criteri per la determinazione del
valore della controversia ai fini della liquidazione del compenso per il
collegio, e comma 7, che prevede la solidarietà tra le parti anche per il
pagamento delle spese di consulenza tecnica, sono tutte disposizioni che trovano
logica giustificazione nelle peculiarità del giudizio arbitrale in questione.
7. Il secondo appello(n. 162/2003) è rivolto avverso la sentenza n. 5437/2002
con cui il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sez. III, ha respinto
il ricorso proposto dagli attuali appellanti avverso il decreto n. 398/2000 che
ha dettato le norme di procedura per lo svolgimento del giudizio arbitrale nel
settore dei lavori pubblici.
Va anzitutto respinta l’eccezione di inammissibilità del gravame per assenza di
interesse tutelabile in capo a chi agisce proposta anche nel secondo appello
dalla difesa erariale, richiamando, al riguardo, le considerazioni già svolte
Riguardo al merito non resta, pertanto, che rinviare alle considerazioni già
svolte ed in particolare:
va respinto il primo motivo di appello (error in iudicando sui motivi I, II, III
e V di ricorso: vedasi retro sub 6.4); 6.5); 6.6);
va altresì respinto il terzo motivo di appello (Error in iudicando sul IV motivo
di ricorso vedesi retro sub 6.4),6.5); 6.6);
va infine dichiarata inammissibile la censura contenuta nel secondo motivo di
appello (vedasi retro sub 6.5).
In conclusione in base alle suesposte considerazioni il secondo appello va
respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata.
8. La disamina della normativa sovracompiuta sollecitata dai ricorsi
sopraesaminati, anche se necessariamente circoscritta agli spazi propri delle
censure dedotte, rende doveroso, in chiusura, l’auspicio di un intervento del
legislatore per una aggiornata sistemazione della materia, che certamente si
gioverà della considerazione della riforma del titolo quinto della parte seconda
della Costituzione operata con la legge cost. 18 ottobre 2001 n. 3 e delle
sentenze della Corte Costituzionale 1° ottobre 2003 n. 302 e 303.
9. In entrambi gli appelli, le spese e gli onorari della presente fase di
giudizio possono trovare equa compensazione tra le parti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sezione IV – definitivamente
pronunciando in ordine ai ricorsi in appello indicati in epigrafe, previa
riunione dei medesimi, accoglie in parte il primo ricorso, con conseguente
riforma della sentenza di primo grado; rigetta il secondo, con conseguente
conferma della sentenza impugnata.
Spese del grado compensate in entrambi.
Così deciso in Roma il 27 maggio 2003 dal Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale, Sezione Quarta, nella Camera di Consiglio con l’intervento dei
Signori:
Paolo SALVATORE -Presidente
Livia BARBERIO CORSETTI -Consigliere
Giuseppe BARBAGALLO -Consigliere
Antonino ANASTASI -Consigliere
Anna LEONI -Consigliere est.
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
17/10/2003
1) L’alternativa del ricorso all’arbitrato - deroga al principio della giurisdizione statuale - lo schema unitario dell’arbitrato - dottrina. Chi vuol far valere un diritto in giudizio non può rivolgersi che ai giudici ordinari di cui all’art. 102 Cost. oppure ai giudici speciali elencati nell’art. 103 o comunque contemplati dalla VI disp. trans.; con la sola alternativa del ricorso all’arbitrato, come descritto dal codice di rito e caratterizzato dalla libera scelta delle parti, unica valida deroga al principio della giurisdizione statuale. Sentenza 14 luglio 1977, n.127, seguita da numerose altre, assolutamente costanti nell’affermare i medesimi principi (cfr. C.cost. 27 dicembre 1991, n.488; 10 giugno 1994, n.232; 27 febbraio 1996, n.54; 9 maggio 1996, n.152; 11 dicembre 1997, n.381; 24 luglio 1998, n.325; 21 aprile 2000, n.115). Resta così confermata la prospettiva che la moderna dottrina ha utilizzato per ricomporre ad unità il sistema dell’arbitrato. Esiste cioè una pluralità di modelli arbitrali, i quali, tuttavia, sono sussumibili in uno schema unitario caratterizzato da elementi comuni e, in primo luogo, dalla libertà delle parti di optare per il giudizio arbitrale. Consiglio di Stato, Sez. IV, 17 ottobre 2003, Sentenza n. 6335
2) Il giudizio di legittimità costituzionale di norme aventi natura regolamentare - limiti della giurisdizione della Corte Costituzionale - il controllo di legittimità di un regolamento è demandato al giudice ordinario ed al giudice amministrativo - poteri di disapplicazione o annullamento del regolamento illegittimo. Il giudizio di legittimità costituzionale di norme aventi natura regolamentare eccede i limiti della giurisdizione della Corte Costituzionale, secondo la definizione che di questa è data dall’art. 134 Cost., il quale la limita al caso dell’illegittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge (C.cost. 14 giugno 2001, n.194 [ord.]; 18 ottobre 2000, n.427; 25 luglio 1997, n.273; 27 giugno 1997, n.208 [ord.]; 23 aprile 1993, n.199). Peraltro, il pieno esplicarsi della garanzia della Costituzione nel sistema delle fonti – con particolare riferimento a quelle di valore regolamentare adottate, come nella specie, in sede di delegificazione – non è pregiudicato dall’anzidetta limitazione della giurisdizione del giudice costituzionale, in quanto la relativa garanzia è da ricercare (nei casi in cui, come si è innanzi rilevato, non sia configurabile un vizio di costituzionalità delle legge abilitante all’adozione del regolamento), nel controllo di legittimità del regolamento, ove il vizio sia proprio ed esclusivo dello stesso, demandato al giudice ordinario ed al giudice amministrativo, nell’ambito dei poteri ad essi spettanti, controllo che può condurre, rispettivamente, alla disapplicazione o all’annullamento del regolamento. Consiglio di Stato, Sez. IV, 17 ottobre 2003, Sentenza n. 6335
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