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 Massime della sentenza

  

 

Consiglio di Stato, Sez. V, 7 novembre 2003, sentenza n. 7127.

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Quinta Sezione ANNO 2002 ha pronunciato la seguente


decisione


sul ricorso in appello n.1241/2002 proposto dalla Valente Costruzioni s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Luigi Paccione ed elettivamente domiciliata presso il Dr. A. Placidi in Roma, Lungotevere Flaminio n.46;
CONTRO
il Comune di Bisceglie, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avv. Massimo F. Ingravalle ed elettivamente domiciliato presso lo studio Nanna in Roma, Viale Giulio Cesare n.71;
per l’annullamento
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, Sez. II, n.1192/2001 in data 17.4.2001;
Visto l’atto di appello con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione del Comune di Bisceglie;
Viste le memorie difensive depositate da entrambe le parti;
Visti gli atti tutti della causa;
Alla pubblica udienza dell’8 luglio 2003, relatore il consigliere Carlo Deodato, e uditi altresì gli avvocati M. Sanino, su delega dell’avv. Paccione e D. Resta, su delega dell’avv. Ingravalle;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:


FATTO


Con la sentenza appellata veniva respinto il ricorso, proposto dalla Valente Costruzioni s.r.l. dinanzi al T.A.R. Puglia, inteso ad ottenere l’annullamento della prescrizione apposta alla concessione edilizia n.91 in data 9.12.1999, rilasciata dal Comune di Bisceglie alla ricorrente per la realizzazione di un edificio di cinque piani destinato a civile abitazione, con la quale veniva negato l’assenso alla costruzione del piano attico.


Avverso la predetta decisione proponeva rituale appello l’originaria ricorrente, criticando la correttezza dell’interpretazione della disciplina regolamentare di riferimento assunta dai primi giudici a sostegno della pronuncia reiettiva, della quale domandava l’annullamento.


Resisteva il Comune di Bisceglie, difendendo, di contro, la correttezza della decisione gravata, ribadendo la legittimità della clausola controversa e domandando la reiezione dell’appello.


Le parti illustravano ulteriormente le loro tesi mediante il deposito di memorie difensive.


Alla pubblica udienza dell’8 luglio 2003 il ricorso veniva trattenuto in decisione.


DIRITTO


1.- Le parti controvertono circa la legittimità della prescrizione apposta alla concessione edilizia n.91 in data 9.12.1999, rilasciata dal Comune di Bisceglie alla Valente Costruzioni s.r.l. per la realizzazione di un edificio di cinque piani destinato a civile abitazione, con la quale è stato negato l’assenso alla costruzione del piano attico e della sua compatibilità con la disciplina regolamentare relativa alle altezze massime degli edifici, contenuta nel combinato disposto degli artt.16, 32, commi 14 e 15, e 35 delle n.t.a. del P.R.G. vigente.


La questione può essere illustrata e riassunta nei termini che seguono.


Il comma 14 dell’art.32 delle n.t.a. concede il beneficio di un’altezza aggiuntiva pari a mt. 2,25, rispetto a quella massima stabilita dagli artt.16 e 35, nei casi in cui il piano terra sia destinato completamente a porticato (come nell’edificio progettato dalla Valente).


Il comma successivo ammette la realizzazione di un piano attico in arretrato, “qualora l’altezza dell’edificio sia inferiore, sulla facciata, a quella massima stabilita, di una quantità inferiore ad un piano (mt.3,25), e non è sfruttata tutta la cubatura ammissibile…”.


Il Comune ha negato l’assenso alla realizzazione del piano attico sulla base del rilievo che la concessione del beneficio di cui al coma 14, che già consentiva il superamento dell’altezza massima, impediva la contestuale applicazione dell’ulteriore ipotesi derogatoria di cui al comma 15 dell’art.32.


Sostiene, di contro, la ricorrente che il riferimento, contenuto nel comma 15, all’altezza massima stabilita, ai fini della realizzabilità in deroga del piano attico, comprende anche l’altezza ottenuta per effetto del beneficio di cui al comma 14 (pacificamente spettante ala società interessata) e che, quindi, la clausola limitativa impugnata si rivela confliggente con la disciplina regolamentare sulle altezze massime degli edifici.


Il Tribunale adìto ha, tuttavia, giudicato legittima la prescrizione impugnata, ritenendola coerente con la normativa di piano di riferimento, contestualmente intesa nel senso della non cumulabilità delle previsioni di deroga all’altezza massima contenute nei commi 14 e 15 dell’art.32 delle n.t.a. o, meglio, della non computabilità dell’altezza aggiuntiva concessa ai sensi del comma 14, ai fini del calcolo di quella “massima stabilita” per l’applicazione del comma 15.


2.- La società appellante critica la correttezza dell’interpretazione della disciplina di riferimento preferita in prima istanza, riproponendo e sostenendo la diversa esegesi che ammette l’applicazione congiunta delle disposizioni citate, nel senso prima indicato, e che consente, in definitiva, l’edificazione, nel caso di specie, del piano attico.


Si sostiene, in particolare, che la locuzione “altezza massima stabilita” contenuta nel comma 15 debba essere riferita alla relativa misura comunque consentita dalla normativa di piano (in tutte le sue articolazioni), con la conseguenza che l’altezza aggiuntiva ammessa dal comma 14 deve concorrere a determinare il parametro di riferimento indicato dal comma 15, senza che rilevi che il primo beneficio implica già una deroga all’altezza massima stabilita in via generale dagli artt.16 e 35 (di 16 metri).


L’assunto è infondato.


Come, invero, correttamente rilevato dai primi giudici, il dato testuale del comma 14 indica una soluzione contraria a quella prospettata dalla ricorrente ed impedisce di aderire all’esegesi dalla stessa suggerita.


Là dove, infatti, la disposizione citata utilizza la locuzione “altezza totale”, invece di quella di “altezza massima”, intende evidentemente indicare una dimensione non solo maggiore di quella consentita, ma assoluta e non più superabile per effetto di qualsivoglia altra previsione del piano.


La relativa deroga alle altezze massime previste per le singole tipologie di edifici e per le diverse zone si atteggia, in sintesi, come ultimativo e definitivo beneficio che consente, per quella esclusiva e peculiare fattispecie e nei vincolati e rigidi margini ivi previsti, l’edificazione del fabbricato oltre i limiti estremi stabiliti in via generale.


La nozione di “altezza totale” appena definita comporta, inoltre, che il relativo limite non può essere ulteriormente superato e che, conseguito quel beneficio, non se ne possono cumulare altri, che consentirebbero inammissibilmente di derogare ulteriormente ad un margine di altezza che, per il suo carattere dichiarato “totale”, non tollera altre eccezioni.


Ogni altra opzione esegetica va, in particolare, rifiutata, siccome contraria all’insuperabile dato letterale appena analizzato ed in quanto confliggente con il noto canone ermeneutico che impedisce di assegnare ad una disposizione un significato che preclude alla stessa di produrre qualsiasi effetto e che la priva di ogni senso ed utilità.


Ragionando come vuole la ricorrente, si perviene, infatti, alla inaccettabile conseguenza di svuotare l’espressione “altezza totale” di qualsiasi utile significato e si finisce per parificare la ridetta locuzione a quella di “altezza massima”, nonostante che il Comune abbia inteso distinguere i due concetti (usando dizioni differenti) e, quindi, la portata precettiva delle disposizioni che li esprimono.


Né il criterio interpretativo assunto a base della lettura sopra compiuta dell’art.32 può ritenersi arbitrario, come pretende la ricorrente, posto che, anzi, lo stesso risulta puntualmente riferito alla lettera delle disposizioni interpretate nonché fondato sull’analisi della presupposta e coerente intenzione dell’amministrazione di assegnare valenza assoluta al beneficio di cui al comma 14.


Ne consegue, in definitiva, che la prescrizione limitativa impugnata dalla ricorrente si rivela conforme alla disciplina regolamentare sulle altezze massime degli edifici e, quindi, immune dal vizio denunciato con il primo motivo di ricorso.


3.- Con la seconda censura la ricorrente deduce una disparità di trattamento nell’applicazione delle disposizioni in questione, segnalando che in passato il Comune ha (diversamente) inteso ed attuato il regime delle altezze massime proprio nel senso qui prospettato dall’appellante, ma in favore di altri soggetti.


Il motivo è palesemente infondato.


E’ sufficiente, al riguardo, rilevare che, secondo un costante ed univoco insegnamento giurisprudenziale (cfr. ex multis C.S., Sez. V, 7 settembre 2001, n.4670), il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento non è configurabile nei riguardi di determinazioni corrette e sulla sola base della denunciata adozione di precedenti provvedimenti illegittimi nella medesima materia ed in favore di altri soggetti.


Va, quindi, negato ogni pregio alla doglianza considerata, sulla base del duplice rilievo della già riscontrata illegittimità della diversa esegesi che ammette il cumulo dei benefici e, quindi, della irrilevanza, ai fini della verifica della validità della clausola impugnata sotto il profilo in esame, di precedenti determinazioni attuative di tale erronea interpretazione.


4.- Alle considerazioni che precedono conseguono, in definitiva, la reiezione dell’appello e la conferma della decisione appellata.


5.- Le difficoltà interpretative sottese alla questione principalmente dibattuta giustificano la compensazione delle spese del grado.


P.Q.M.


Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, respinge il ricorso indicato in epigrafe e compensa le spese processuali;
ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.


Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 8 luglio 2003, con l'intervento dei signori:
ALFONSO QUARANTA - Presidente
RAFFAELE CARBONI - Consigliere
PAOLO BUONVINO - Consigliere
FRANCESCO D’OTTAVI - Consigliere
CARLO DEODATO - Consigliere Estensore

L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
f.to Carlo Deodato f.to Alfonso Quaranta

IL SEGRETARIO
f.to Francesco Cutrupi

DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 7 novembre 2003
(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)

IL DIRIGENTE
f.to Antonio Natale
 

M A S S I M E

 

Sentenza per esteso

 

1) Variante al piano di lottizzazione - l’adozione di una variante al piano di lottizzazione ostativa al rilascio della concessione edilizia - effetti - applicazione delle misure di salvaguardia - temporanea sospensione delle determinazioni sulla domanda di concessione - diniego della concessione - illegittimità. L’adozione di una variante al piano di lottizzazione ostativa al rilascio della concessione comporterebbe, non già il diniego della concessione, bensì l’applicazione delle misure di salvaguardia, ossia la temporanea sospensione delle determinazioni sulla domanda di concessione (legge 3 novembre 1952 n. 1902, modificata dall’articolo 4 della legge 21 dicembre 1955 n. 1357). (Nella specie, il giudice di primo grado, ha dichiarato improcedibile il ricorso semplicemente perché il comune aveva dichiarato di aver approvato una variante al piano di lottizzazione, senza che risultasse in qual modo la variante fosse ostativa alla concessione edilizia). Consiglio di Stato, Sez. V, 30 ottobre 2003, sentenza n. 6763

 

2) Urbanistica - provvedimento del diniego di concessione edilizia - obbligo di indicare la norma ostativa al rilascio. E' necessario che nel provvedimento di diniego venga indicata la norma ostativa al rilascio della concessione edilizia. (Nella specie, il comune, costituendosi in giudizio, ha apertamente ammesso d’aver negato la concessione perché non sapeva quale normativa fosse applicabile; ossia di non conoscere norme ostative al rilascio). Consiglio di Stato, Sez. V, 30 ottobre 2003, sentenza n. 6763

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