Legislazione Giurisprudenza Vedi altre: Sentenze per esteso
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la
seguente
ORDINANZA
sul ricorso in appello proposto da Spa Fratelli Martini & C. in persona
del suo Presidente, legale rappresentante pro tempore, dr. Ezio Martini nonché
dalla Cargill srl, in persona del suo Amministratore delegato, legale
rappresentante dr. Silvio Ferrari, rappresentate e difese congiuntamente e
disgiuntamente dall’avv. prof. Fausto Capelli e dall’avv. prof. Eugenio Picozza
ed elettivamente domiciliate in Roma, presso lo studio dell’avv. prof. Picozza
via delle Quattro Fontane n. 16;
contro
Ministero per le Politiche agricole e forestali, della Salute e delle Attività
Produttive, in persona del Ministro pro tempore, rappresentati e difesi
dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliati per legge in Roma alla via
dei Portoghesi n. 12 ;
per l'annullamento
previa provvisoria esecuzione dell’ordinanza del Tribunale Amministrativo
Regionale del Lazio Roma Sez. II Ter n.5313 del 28 ottobre del 2003;
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’appellato;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Alla camera di consiglio del 11 novembre 2003 relatore il Consigliere Giancarlo
Montedoro.
Uditi l’avv. Picozza, l’avv. Capelli e l’avv. dello Stato Aiello;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO
Le società ricorrenti, con il ricorso promosso innanzi al Tar del Lazio
notificato in data 17 settembre 2003 e con i motivi integrativi di ricorso
notificati in data 20 ottobre 2003, hanno chiesto l’annullamento, previa
sospensione della provvisoria esecuzione , di un decreto ministeriale in materia
di etichettatura di mangimi per animali (decreto del Ministro delle Politiche
agricole e forestali del 25 giugno 2003, concernente integrazioni e
modificazioni agli allegati alla legge 15 febbraio 1963 n. 281 sulla disciplina
della preparazione e del commercio dei mangimi, in attuazione della direttiva
“002/CE del 28 gennaio 2002 pubblicata sulla GURI n. 181, del 6/8/2003,
applicabile a partire dal prossimo 6 novembre 2003), perché ritenuto illegittimo
alla luce del diritto comunitario e nazionale.
Tale decreto ministeriale è stato emesso in attuazione di una direttiva
comunitaria, rispetto alla quale le società ricorrenti avanzano dubbi di
legittimità comunitaria, per cui se ne chiede la sospensione con domanda di
rimessione degli atti di causa alla Corte di Giustizia del Lussemburgo in base
all’art. 234 del Trattato CE.
Il Tar ha respinto l’istanza di cautela.
Avverso l’ordinanza di rigetto della domanda di cautela è stato presentato
appello al Consiglio di Stato.
In sede di appello si sono costituite le amministrazioni resistenti, concludendo
per il rigetto del gravame.
Il Consiglio di Stato ha accolto temporaneamente l’istanza di cautela, in
riforma della ordinanza appellata, sospendendo le norme regolamentari impugnate
fino alla definizione innanzi alla Corte di Giustizia di analoga questione
pregiudiziale, di portata sostanzialmente identica a quella sollevata nel corso
del presente giudizio, già pendente in virtù della rimessione operata dalla Alta
Corte inglese, riservando a successiva separata ordinanza la rimessione delle
questioni sollevate nel corso di questo giudizio, anche al fine di non
pregiudicare il diritto di difesa delle appellanti, consentendo la loro
costituzione innanzi ai giudici comunitari.
Con la presente ordinanza si provvede in ordine alla rimessione ed alla
sospensione dell’appello cautelare, non compiutamente definito dal già disposto
accoglimento ad tempus dell’impugnazione cautelare.
DIRITTO
Va accolta l’istanza di rimessione del giudizio di appello cautelare alla Corte
di Giustizia delle Comunità europee.
L’industria dei mangimi.
Occorre premettere un’analisi delle caratteristiche dell’industria mangimistica
al fine di inquadrare la controversia in esame.
Condizione determinante per la migliore performance degli allevamenti è la
validità della razione alimentare degli animali che è in funzione della qualità
del mangime.
Per mangime composto si intende la miscela di materie prime per mangimi,
comprendenti o meno additivi, destinati all’alimentazione degli animali per via
orale sotto forma di completi o di mangimi complementari.
I mangimi completi sono le miscele di materie prime per mangimi che, per la loro
composizione, bastano ad assicurare una razione giornaliera.
I mangimisti studiano i mangimi idonei alle caratteristiche di ciascuna specie
animale, debbono stabilire i bisogni nutritivi di ciascuna specie, in base a
questi bisogni orientano la ricerca e lo studio, utilizzando specifiche unità
operative costituite nell’ambito delle imprese esercenti la produzione di
alimenti per la zootecnia.
Il risultato delle ricerche dei mangimisti è poi utilizzato dal “formulatore”,
il dietologo dell’animale, che, componente essenziale dell’equipe aziendale,
provvede ad elaborare la ricetta del singolo mangime composto, che è “formula
unica” per un dato animale.
La formula di un dato mangime è tenuta segreta, ed è considerata un patrimonio
esclusivo di ogni azienda, sicché, ove non sia oggetto di brevetto, viene
considerata certamente tra quelle informazioni oggetto della tutela commerciale
di cui all’art. 6 bis del r.d. 29 giugno 1939 n. 1127 relativa ai brevetti per
invenzioni.
In sostanza nel settore della produzione e commercializzazione di mangimi il
parametro di concorrenza più importante risiede nella conoscenza dei bisogni
nutrizionali degli animali e nell’elaborazione di una formula alimentare che
richiede tempo, investimenti e creazione di equipe di ricerca altamente
specializzate.
La preparazione ed il commercio dei mangimi nella legislazione interna.
La legge 15 febbraio 1963 n. 281 e successive modificazioni, disciplina la
preparazione ed il commercio dei mangimi nell’ordinamento nazionale.
L’allegato III della precitata legge prevede le denominazioni e le indicazioni
obbligatorie per i mangimi composti.
L’articolo 9 del D.P.R. 31 marzo 1988 n. 152 prevede che alle modifiche agli
allegati alla citata legge 15 febbraio 1963 n. 281 si provvede con decreto del
Ministero delle politiche agricole forestali, di concerto con il Ministero delle
Attività produttive ed il Ministero della Salute.
Secondo la normativa interna – prima delle modifiche che hanno originato la
controversia – e quindi secondo la legge n. 281/63, nel testo adeguato in
attuazione delle direttive 79/373/CEE ( GUCE 1979 n. 086) e n. 90/44 del
Consiglio (GUCE 1990 N. 1 027), per i mangimi composti l’etichetta doveva
contenere l’indicazione delle materie prime presenti in ordine decrescente in
rapporto al peso ma senza l’obbligo di precisarne le quantità.
La direttiva Comunitaria 2002/2/CE.
A seguito della crisi dell’encefalopatia spongiforme bovina e della recente
crisi della diossina, secondo il Parlamento europeo ed il Consiglio, si è
evidenziata l’inadeguatezza delle disposizioni di cui alla direttiva 79/373 /
CEE che prevedeva una formula di dichiarazione flessibile, limitata
all’indicazione delle materie prime, senza specificarne la quantità negli
alimenti destinati ad animali da produzione, ed ammetteva la possibilità di
dichiarare categorie di materie prime anziché le materie prime stesse (3
considerando della direttiva 2002/2/CE ).
Il giudizio di inadeguatezza della normativa formulato alla stregua delle
emergenze sanitarie occorse ed ai correlativi rischi per la salute anche umana,
avrebbe evidenziato la necessità di informazioni più particolareggiate,
qualitative e quantitative, sulla composizione dei mangimi destinati agli
animali da produzione.
In sostanza si assume che indicazioni quantitative più particolareggiate sulla
composizione dei mangimi possono contribuire alla rintracciabilità di materie
prime potenzialmente contaminate, consentendo di risalire a specifiche partite.
Ciò comporterebbe specifici vantaggi per la salute pubblica, e consentirebbe di
evitare la distruzione di prodotti che non presentano rischi sanitari
significativi.
Di qui l’introduzione di una dichiarazione obbligatoria, di tutte le materie
prime contenute nei mangimi composti, destinati ad animali da produzione nonché
delle rispettive quantità, dichiarazioni da far figurare su un’etichetta ad hoc
o in un documento di accompagnamento, nonché l’abrogazione della direttiva
91/357/CEE che stabiliva le categorie di materie prime che possono essere
utilizzate per l’indicazione della composizione degli alimenti composti
destinati ad animali diversi da quelli familiari.
Tale dichiarazione, viene considerata un importante elemento di informazione per
gli allevatori e deve essere – quanto alla sua correttezza – verificabile dalle
autorità competenti in qualsiasi momento, con correlativo obbligo per i
produttori di mangimi di mettere a disposizione delle autorità competenti
qualsiasi documento relativo alla composizione degli alimenti destinati ad
essere immessi in circolazione.
Il D.M. impugnato.
Il Decreto interministeriale impugnato del 25 giugno 2002 contiene “integrazioni
e modificazioni agli allegati alla legge 15 febbraio 1963 n. 281 sulla
disciplina della preparazione e del commercio dei mangimi in attuazione della
direttiva 2002/2/CE del 28 gennaio 2002.
In concreto il decreto impugnato, ai fini che qui rilevano, ha modificato
l’allegato III della legge nella parte B relativa ai mangimi composti
sostituendo il punto 7 ed aggiungendo un numero 7 bis.
Diviene in tal modo obbligatorio, per i produttori di mangimi composti,
riportare in etichetta l’elenco delle materie prime con l’indicazione, in ordine
decrescente, delle loro percentuali rispetto al peso complessivo. Le materie
prime secondo la direttiva 2002/2/CE dovranno indicarsi secondo il nome
specifico sostituibile con quello della categoria a cui la materia prima
appartiene con riferimento alle categorie che raggruppano varie materie prime
stabilite a norma dell’art. 10 lett. a) della direttiva 79/373/CEE a sua volta
attuato con la direttiva n. 91/357/CEE.
Senonché la disciplina comunitaria emanata ai sensi dell’art. 10 lett. a) della
direttiva comunitaria è stata abrogata dalla direttiva n.2002/2/CE con effetto
dal 6 novembre 2002, senza che la Commissione abbia avuto modo di presentare una
proposta di provvedimento con l’elenco positivo delle materie prime
utilizzabili.
Le autorità italiane hanno rinviato all’elenco provvisorio di materie prime
contenuto nell’allegato VII, parte A della legge n. 281/1963 e, per quelle non
comprese, alle denominazioni riportate nella parte B ossia proprio a quelle
categorie generiche a suo tempo fissate dalla direttiva n. 91/357.
La nuova direttiva ha dato incarico alla Commissione Europea di presentare una
nuova proposta di provvedimento con l’elenco della materie prime utilizzabili.
La Commissione Europea ha presentato però, nell’aprile 2003, una relazione in
cui ha constatato l’impossibilità di riunire in un unico elenco migliaia di
sostanze differenti, concludendo che la definizione di una siffatta lista non è
assolutamente determinante per garantire la sicurezza degli alimenti per gli
animali.
Il pregiudizio per le industrie mangimistiche
Le società ricorrenti sottolineano che le norme che obbligano il produttore a
rendere noto in modo dettagliato la composizione di un mangime composto, con
l’elenco delle materie prime e l’esatta percentuale di peso, e cioè le norme che
obbligano rivelare la ricetta o meglio la formula di quel mangime , oltre a
costituire un grave danno per il mangimista, che vede espropriato il suo
know-how, costituiscono una grave forma di discriminazione in danno
dell’industria ed a favore degli allevatori, in quanto la composizione dei
mangimi composti è frutto di importanti studi, di ricerche ed esperienze che
presuppongono un’approndita conoscenza della nutrizione animale, comportando
cospicui investimenti per arrivare alla formula di un dato mangime.
Questo complesso di conoscenze, consacrato nella formula, rappresenta il
know-how dell’industria mangimistica ed un complesso di informazioni aziendali
che hanno un valore economico in quanto segrete e sottoponibili ad autorità per
i legittimi controlli, a loro volta tenute al segreto.
In assenza di tale segreto, gli allevatori potranno copiare le formule senza
oneri per la ricerca.
I presupposti per la rimessione alla Corte di Giustizia.
Come è noto la norma di cui all’art. 177 del trattato Cee non prevede un obbligo
di rimessione alla Corte di giustizia delle comunità europee ai fini della
pronuncia sulla validità ed interpretazione degli atti comunitari quando la
questione venga sollevata dinanzi ad un organo giurisdizionale nazionale di
prima istanza, le cui pronunzie siano suscettibili di ulteriore ricorso;
diversamente, nel caso in cui la questione venga sollevata davanti ad una
giurisdizione nazionale le cui pronunzie non siano più suscettibili di ricorso
interno, la giurisdizione adita ha l’obbligo di rivolgersi alla corte europea
quando sorgano dubbi interpretativi. (T.a.r. Lombardia, 23-07-1997, n. 1285).
Il Consiglio di Stato è obbligato alla rimessione come risulta anche
dall’impossibilità di denunciare alla Corte di Cassazione il vizio di omessa
pronuncia o di violazione dell’obbligo a fronte di richiesta di rimessione
disattesa dal Consiglio di Stato (per Cass., 25-05-1984, n. 3223 è inammissibile
il ricorso proposto avverso pronuncia del Consiglio di Stato che non rispetti
l’obbligo di rimessione alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee delle
questioni pregiudiziali attinenti l’interpretazione di una norma comunitaria,
poiché in tal caso non viene posta in discussione la giurisdizione del Consiglio
di Stato, ma solo l’inosservanza di una regola processuale, che presuppone la
giurisdizione del giudice nazionale).
L’obbligo per il giudice nazionale di sollevare questioni davanti alla Corte di
Giustizia delle Comunità Europee ai sensi dell’art. 177 trattato Cee non
sussiste per il solo fatto che una delle parti del giudizio abbia contestato la
legittimità dell’atto comunitario o abbia chiesto la sospensione del giudizio,
in quanto il giudice stesso deve sempre verificare la serietà della questione,
potendo decidere se essa sia o meno manifestamente infondata (C. Stato, sez. V,
23-04-1998, n. 478).
Nessun dubbio sulla rilevanza delle questioni poste tutte relative a dubbi di
legittimità che investono la direttiva 2002/2/CE, presupposto, sorto
nell’ordinamento sopranazionale, del D.M. impugnato.
La Corte di Giustizia ha chiarito con la sentenza 21 febbraio 1991 in cause
riunite C-143/88 e 92/89 Zuckerfabrick che, quando l’attuazione amministrativa
di atti comunitari sia compito di organi nazionali, la protezione
giurisdizionale garantita dal diritto comunitario implica per i privati il
diritto di agire per ottenere, in via cautelare, tutela innanzi ai giudici
nazionali, competenti per la contestazione della legittimità di detti atti, e
tenuti a sottoporre alla Corte le questioni pregiudiziali. In caso contrario
risulterebbe compromesso l’effetto utile dell’art. 234 CE (ex 177) ove, in
attesa della sentenza della Corte, unico organo competente a valutare la
legittimità degli atti comunitari, il privato non fosse in grado, al verificarsi
di certi presupposti, di ottenere una decisione di sospensione dell’atto
amministrativo basato sull’atto comunitario contestato.
Il potere di sospensione va esercitato in presenza delle condizioni per il
procedimento sommario innanzi alla Corte, vale a dire quando vi sia urgenza,
quando il ricorrente sia minacciato da un danno grave ed irreparabile, e
considerando debitamente l’interesse comunitario.
Il Consiglio di Stato italiano, adito in appello dopo che il giudice di primo
grado (Tar del Lazio) aveva respinto l’istanza di cautela diretta alla
sospensione del D.M. impugnato, ritenuta la serietà delle questioni poste ed in
presenza di analoghi provvedimenti adottati dalla High Court of Justice
britannica e dal Conseil d’Etat francese, ha ritenuto concretati i presupposti
per la concessione della tutela cautelare , con ordinanza datata 11 novembre
2003 con la quale il D.M. impugnato è stato sospeso fino all’intervento della
sentenza della Corte di Giustizia sulla rimessione britannica, riservandosi di
provvedere con separate ordinanze alla rimessione alla Corte del processo di
appello cautelare, al fine di non pregiudicare le appellanti nel loro diritto di
difesa ed al fine di porre alla Corte di Giustizia alcune questioni
pregiudiziali che non trovano compiuta rispondenza nei giudizi svoltisi innanzi
ai giudici inglesi.
Le questioni poste nel presente giudizio appaiono serie e non manifestamente
infondate:
Sospetta violazione dell’art. 152 par. 4 lett. b) del Trattato, mancanza di
base giuridica della direttiva nel campo dei mangimi vegetali.
La prima questione attiene alla lamentata illegittimità comunitaria della
direttiva 2002/2/CE alla luce del Trattato e della base giuridica individuata
per l’adozione dell’atto comunitario di diritto derivato ossia alla luce
dell’art. 152 par. 4 lett. b) del Trattato,che attribuirebbe- secondo gli
appellanti - al legislatore dell’Unione Europea unicamente la competenza ad
adottare , in base alla procedura di codecisione, specifiche misure nei settori
veterinario e fitosanitario, nei quali l’obiettivo primario è la protezione
della salute pubblica. Le misure di cui all’art. 154, par.4 lett. b) sarebbero
solo quelle riguardanti le malattie od il trattamento degli animali, mentre la
materia dell’etichettatura dei mangimi vegetali - notoriamente non pericolosi a
differenza di quelli composti con farine animali il cui uso era all’origine
dell’emergenza dell’encefalopatia spongiforme bovina - non riguarderebbe affatto
le malattie ed il trattamento degli animali, non avendo come obiettivo primario
e diretto la tutela della salute pubblica , tutelabile solo mediante controlli
sulla qualità dei prodotti impiegati nella fabbricazione dei mangimi, garantita
da standard di produzione e di igiene.
Si sottolinea – da parte degli appellanti – l’innocuità dei mangimi vegetali a
differenza della potenziale nocività dei mangimi animali per i quali soltanto
sussisterebbe una effettiva rischiosità.
Va quindi posta alla Corte di Giustizia la seguente questione pregiudiziale:
“Se l’art. 152 par. 4 lett. b) del Trattato CE debba essere interpretato in modo
che possa costituire il fondamento giuridico corretto per l’adozione di
disposizioni in materia di etichettatura, contenute nella direttiva n.
2002/2/CE, ove riferita all’etichettatura dei mangimi vegetali”.
La seconda questione attiene alla violazione dei principi di precauzione e
proporzionalità.
Per quanto attiene il principio di precauzione si rileva che la direttiva
2002/2/CE è stata adottata allo scopo di tutelare la salute pubblica, è da
presumere quindi che il legislatore comunitario abbia ritenuto di dover
impiegare strumenti preventivi, facendo ricorso al principio di precauzione.
Il principio di precauzione è sancito dall’art. 174 (ex art. 130 R) del Trattato
CE ed autorizza la Comunità a porre in essere, per quanto possibile, misure che
siano atte a prevenire il verificarsi di eventi dannosi per l’ambiente.
Nel settore dell’alimentazione costituisce espressione di tale principio l’art.
7 del regolamento n. 178/2002 che disciplina la sicurezza alimentare anche con
riferimento ai mangimi per animali e così recita: “qualora in circostanze
specifiche, a seguito di una valutazione delle informazioni disponibili, venga
individuata la possibilità di effetti dannosi per la salute, ma permanga una
situazione di incertezza sul piano scientifico, possono essere adottate le
misure provvisorie di gestione del rischio necessarie per garantire il livello
elevato di tutela della salute che la Comunità persegue, in attesa di ulteriori
informazioni scientifiche per una valutazione più esauriente del rischio. Le
misure adottate sulla base del paragrafo 1 sono proporzionate e prevedono le
sole restrizioni al commercio che siano necessarie per raggiungere il livello di
tutela della salute perseguito nella Comunità tenendo conto della realizzabilità
tecnica ed economica e di altri aspetti, se pertinenti …”.
Il citato art. 7 tiene conto della giurisprudenza costante della Corte di
Giustizia che ritiene di poter prendere in considerazione soltanto rischi
ragionevolmente prevedibili, non puramente teorici, che per definizione non
possono essere confutati. Ogni provvedimento normativo deve fondarsi su una base
razionale ed obiettiva e proporzionale (Corte di Giustizia 13/11/1990 causa
331/1988 Fedesa ove si afferma che, in forza del principio di proporzionalità,
che fa parte dei principi generali del diritto comunitario, la legittimità del
divieto di un' attività economica – ma il principio può estendersi a qualsiasi
disciplina limitativa - è subordinata alla condizione che il provvedimento sia
idoneo e necessario per il conseguimento degli scopi perseguiti dalla normativa
di cui trattasi, fermo restando che, qualora sia possibile una scelta fra più
misure appropriate, si deve ricorrere alla meno restrittiva e che gli
inconvenienti causati non devono essere sproporzionati rispetto agli scopi
perseguiti) .
Orbene l’impiego delle materie prime vegetali, alle condizioni già prescritte
dalla normativa comunitaria in tema di salute degli animali e degli esseri
umani, è tale da escludere ogni rischio derivante dalla qualità delle materie
utilizzate, sicché nessuna ulteriore tutela deriverebbe dalla indicazione della
percentuale delle materie prime utilizzate,neppure quanto alla rintracciabilità
delle sostanze contaminanti, poiché – si assume dai ricorrenti in appello - per
tali sostanze vi è già un divieto assoluto di utilizzazione.
Ma v’è di più : l’art. 5 del Trattato riconosce il principio di proporzionalità
prevedendo che l’azione della Comunità non possa andare al di là di quanto
necessario per il raggiungimento degli obiettivi del presente Trattato.
Il principio di proporzionalità implica nell’esercizio della scelta
discrezionale del legislatore comunitario, l’adozione, fra più misure
appropriate di quella che impone il minimo sacrificio, per il conseguimento
degli scopi legittimamente perseguiti. Si deve in sostanza ricorrere alla misura
meno restrittiva e che causa inconvenienti non sproporzionati rispetto agli
scopi perseguiti.
In tal senso Corte giustizia Comunità europee, 22-11-2001, n. 110/97, ha
statuito che al fine di stabilire se una norma di diritto comunitario sia
conforme al principio di proporzionalità, si deve accertare se i mezzi da essa
contemplati siano idonei a conseguire lo scopo perseguito e non eccedano quanto
è necessario per raggiungere detto scopo; in tal caso le misure di salvaguardia
adottate in forza del regolamento n. 304/97, che hanno limitato solo
eccezionalmente, parzialmente e temporaneamente la libera importazione nella
comunità del riso originario dei Ptom, sono state giudicate adatte allo scopo
perseguito dalle istituzioni comunitarie quale emerge dal suddetto regolamento e
dalla decisione 91/482, relativa all’associazione dei paesi e territori
d’oltremare.
La misura in esame nel presente giudizio eccederebbe, secondo gli appellanti,
tutti i criteri posti dalla Corte di Giustizia per valutare la proporzionalità
del diritto comunitario, poiché l’indicazione dei quantitativi esatti di materie
prime indicate nei mangimi vegetali sarebbe inidonea a tutelare la salute umana
in quanto i mangimi vegetali non sarebbero dannosi per la salute degli animali e
dei consumatori.
Tale misura sarebbe peraltro anche non necessaria e non rispettosa della regola
del minimo sacrificio possibile, ossia della regola per cui la scelta del
legislatore comunitario dovrebbe essere orientata sempre verso la disciplina che
implichi le minori conseguenze negative per le persone fisiche o giuridiche.
La nuova disciplina dell’etichettatura appare sproporzionata e non necessaria –
a giudizio di questo giudice - anche a paragone alla previsione del citato
decreto ministeriale, allegato I lettera H) secondo cui “i produttori di mangimi
composti sono tenuti a mettere a disposizione delle autorità incaricate ad
effettuare i controlli, su richiesta di queste ultime, qualsiasi documento
relativo alla composizione degli alimenti destinati ad essere messi in
circolazione che consenta di verificare la correttezza delle informazioni
sull’etichetta.”
La circostanza per la quale sarebbero comunque possibili dei controlli da parte
delle autorità competenti sulla composizione quantitativa dei mangimi composti,
ma da parte di personale tenuto al segreto d’ufficio è rilevante al fine di
valutare il manifesto difetto di proporzionalità della disciplina diretta ad
imporre l’indicazione delle percentuali delle materie prime nelle etichette.
Va quindi posta alla Corte di Giustizia delle Comunità europee la seguente
ulteriore questione pregiudiziale, nel caso in cui l’art. 152,par. 4 lett. b)
del Trattato venga ritenuto idonea base giuridica della direttiva 2002/2/CE con
riferimento ai mangimi vegetali: “se la direttiva 2002/2/CE nella parte in cui
impone l’obbligo dell’indicazione esatta delle materie prime contenute nei
mangimi composti, ritenuto applicabile anche ai mangimi su base vegetale, sia
giustificata in base al principio di precauzione, in assenza di un’analisi dei
rischi basata su studi scientifici che imponga detta misura precauzionale in
virtù di un possibile correlazione fra la quantità delle materie prime
utilizzate ed il rischio delle patologie da prevenire, e sia comunque
giustificata alla luce del principio di proporzionalità, in quanto non ritiene
sufficienti al perseguimento degli obiettivi di salute pubblica assunti come
scopo della misura, gli obblighi di informazione delle industrie mangimistiche
nei confronti delle autorità pubbliche, tenute al segreto, e competenti per i
controlli a tutela della salute, imponendo invece una generalizzata disciplina
relativa all’obbligo di indicazione, nelle etichette dei mangimi a base
vegetale, delle percentuali quantitative delle materie prime utilizzate”.
In ultimo viene posta una terza questione relativa alla tutela del diritto
fondamentale di proprietà.
Si assume che l’art. 6 del Trattato sull’Unione stabilisce l’obbligo del
rispetto dei diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del 4 novembre
1950 e dei diritti umani quali risultano dalle tradizioni costituzionali degli
Stati membri.
Si cita la risalente giurisprudenza comunitaria sul punto, proprio relativa al
diritto di proprietà (Corte di Giustizia 13 dicembre 1979 C- 44/1979 Liselotte
Hauer).
L’imposizione, da parte del diritto comunitario, dell’obbligo di indicare la
percentuale esatta delle singole materie prime contenute nei mangimi composti –
secondo gli appellanti – limiterebbe gravemente e senza motivo il loro diritto
ad esercitare liberamente sul mercato l’attività produttiva di mangimi vegetali,
gestendo le proprie aziende in completa autonomia, senza essere costrette a
rivelare agli allevatori ed ai concorrenti le proprie formule industriali ed il
proprio know-how.
I diritti fondamentali rappresenterebbero un limite all’esercizio del potere
istituzionale attribuito, anche agli organi comunitari, di tutela della salute.
Tale limite – osserva il Collegio, che in tal senso ritiene non manifestamente
infondata la questione – non può intendersi di carattere assoluto ma è violato
solo in presenza di una disciplina non rispettosa del principio di
proporzionalità, nel senso prima esaminato.
Il legislatore comunitario deve garantire il giusto equilibrio tra le esigenze
di carattere generale della comunità e gli imperativi della salvaguardia dei
diritti fondamentali dell’individuo; in sostanza vi deve essere un ragionevole
rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito da ogni
misura che priva una persona della sua proprietà (Corte europea dei diritti
dell’uomo 23/9/1998 AKA/Turchia).
Tale proporzionalità è revocata in dubbio per quanto già detto e ciò determina
l’ulteriore conseguenza della non manifesta infondatezza della questione
relativa al sospetto di violazione del diritto di proprietà di cui all’art. 1
del protocollo n. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ripreso
dall’art. 17 della Carta europea dei diritti fondamentali dell’Unione proclamata
a Nizza il 7 ottobre 2000, concernente la proprietà intellettuale, relativamente
al segreto industriale ed al know-how aziendale.
Va quindi posta alla Corte di Giustizia delle Comunità europee il seguente
quesito: “se la direttiva 2002/2/CE, non risultando rispondente al principio di
proporzionalità , non sia in contrasto con il diritto fondamentale di proprietà
riconosciuto ai cittadini degli Stati membri.”
Non si ritiene invece di porre alla Corte la questione relativa alla sospetta
violazione delle norme contenute nell’accordo sugli aspetti dei diritti di
proprietà intellettuale attinenti al commercio (TRIPS).
La Corte giustizia Comunità europee, 22-11-2001, n. 301/97 ha in proposito
statuito che, tenuto conto della loro natura e della loro economia, gli accordi
Omc non figurano in linea di principio tra le normative alla luce delle quali la
Corte controlla la legittimità degli atti delle istituzioni comunitarie;
soltanto nel caso in cui la comunità abbia inteso dare esecuzione ad un obbligo
particolare assunto nell’ambito dell’Omc, ovvero nel caso in cui l’atto
comunitario rinvii espressamente a precise disposizioni degli accordi Omc,
spetta alla Corte controllare la legittimità dell’atto comunitario controverso
alla luce delle norme dell’Omc.
Nella specie la direttiva 2002/2/CE non costituisce atto di attuazione
dell’accordo in sede OMC: ne deriva l’infondatezza manifesta, sul punto, del
dubbio di legittimità comunitaria formulato dagli appellanti, a differenza delle
diverse questioni prima esaminate.
Si precisa che questioni analoghe sono state rimesse alla Corte di Giustizia CE
dalla High Court di Londra in data 6/10/2003 e che la presente ordinanza di
rimessione si giustifica al fine di non pregiudicare il diritto di difesa degli
appellanti innanzi al giudice comunitario .
Da tutto quanto esposto consegue la rimessione del giudizio cautelare di appello
ai giudici comunitari e la sua sospensione fino alla soluzione delle questioni
pregiudiziali.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, non
definitivamente pronunciando sul ricorso in appello indicato in epigrafe,
ritenutane la rilevanza e la serietà, rimette, ai sensi dell’art. 234 del
Trattato CE, alla Corte di Giustizia delle Comunità europee le questioni
pregiudiziali indicate in motivazione:
1. “Se l’art. 152 par. 4 lett. b) del Trattato CE debba essere interpretato in
modo che possa costituire il fondamento giuridico corretto per l’adozione di
disposizioni in materia di etichettatura, contenute nella direttiva n.
2002/2/CE, ove riferita all’etichettatura dei mangimi vegetali”;
2. “se la direttiva 2002/2/CE nella parte in cui impone l’obbligo
dell’indicazione esatta delle materie prime contenute nei mangimi composti,
ritenuto applicabile anche ai mangimi su base vegetale, sia giustificata in base
al principio di precauzione, in assenza di un’analisi dei rischi basata su studi
scientifici che imponga detta misura precauzionale in virtù di un possibile
correlazione fra la quantità delle materie prime utilizzate ed il rischio delle
patologie da prevenire, e sia comunque giustificata alla luce del principio di
proporzionalità, in quanto non ritiene sufficienti al perseguimento degli
obiettivi di salute pubblica assunti come scopo della misura, gli obblighi di
informazione delle industrie mangimistiche nei confronti delle autorità
pubbliche, tenute al segreto, e competenti per i controlli a tutela della
salute, imponendo invece una generalizzata disciplina relativa all’obbligo di
indicazione, nelle etichette dei mangimi a base vegetale, delle percentuali
quantitative delle materie prime utilizzate”;
3. “se la direttiva 2002/2/CE, non risultando rispondente al principio di
proporzionalità, non sia in contrasto con il diritto fondamentale di proprietà
riconosciuto ai cittadini degli Stati membri”.
Sospende il processo in corso fino alla definizione del giudizio sulle questioni
pregiudiziali.
Riserva ogni altra pronuncia sull’istanza di cautela, anche relativamente alle
spese, all’esito dell’ordinanza di rimessione.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, in data 11 novembre 2003 dal Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale - Sez.VI -, riunito in Camera di Consiglio, con l'intervento dei
Signori:
Giorgio GIOVANNINI Presidente
Alessandro PAJNO Consigliere
Chiarenza MILLEMAGGI COGLIANI Consigliere
Giuseppe ROMEO Consigliere
Giancarlo MONTEDORO Consigliere Est.
1) Agricoltura - Encefalopatia spongiforme bovina e recente crisi della diossina - Industria dei mangimi - Preparazione ed il commercio dei mangimi nella legislazione interna - Direttiva Comunitaria 2002/2/CE - Decreto ministeriale in materia di etichettatura di mangimi per animali (decreto del Ministro delle Politiche agricole e forestali del 25 giugno 2003) - Sospensione del giudizio ed invio ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE, alla Corte di Giustizia delle Comunità per definire le questioni pregiudiziali. La preparazione ed il commercio dei mangimi nella legislazione interna. La legge 15 febbraio 1963 n. 281 e successive modificazioni, disciplina la preparazione ed il commercio dei mangimi nell’ordinamento nazionale. L’allegato III della precitata legge prevede le denominazioni e le indicazioni obbligatorie per i mangimi composti. L’articolo 9 del D.P.R. 31 marzo 1988 n. 152 prevede che alle modifiche agli allegati alla citata legge 15 febbraio 1963 n. 281 si provvede con decreto del Ministero delle politiche agricole forestali, di concerto con il Ministero delle Attività produttive ed il Ministero della Salute. Secondo la normativa interna – prima delle modifiche che hanno originato la controversia – e quindi secondo la legge n. 281/63, nel testo adeguato in attuazione delle direttive 79/373/CEE ( GUCE 1979 n. 086) e n. 90/44 del Consiglio (GUCE 1990 N. 1 027), per i mangimi composti l’etichetta doveva contenere l’indicazione delle materie prime presenti in ordine decrescente in rapporto al peso ma senza l’obbligo di precisarne le quantità. La direttiva Comunitaria 2002/2/CE. A seguito della crisi dell’encefalopatia spongiforme bovina e della recente crisi della diossina, secondo il Parlamento europeo ed il Consiglio, si è evidenziata l’inadeguatezza delle disposizioni di cui alla direttiva 79/373 / CEE che prevedeva una formula di dichiarazione flessibile, limitata all’indicazione delle materie prime, senza specificarne la quantità negli alimenti destinati ad animali da produzione, ed ammetteva la possibilità di dichiarare categorie di materie prime anziché le materie prime stesse (3 considerando della direttiva 2002/2/CE ). Il giudizio di inadeguatezza della normativa formulato alla stregua delle emergenze sanitarie occorse ed ai correlativi rischi per la salute anche umana, avrebbe evidenziato la necessità di informazioni più particolareggiate, qualitative e quantitative, sulla composizione dei mangimi destinati agli animali da produzione. In sostanza si assume che indicazioni quantitative più particolareggiate sulla composizione dei mangimi possono contribuire alla rintracciabilità di materie prime potenzialmente contaminate, consentendo di risalire a specifiche partite. Ciò comporterebbe specifici vantaggi per la salute pubblica, e consentirebbe di evitare la distruzione di prodotti che non presentano rischi sanitari significativi. Di qui l’introduzione di una dichiarazione obbligatoria, di tutte le materie prime contenute nei mangimi composti, destinati ad animali da produzione nonché delle rispettive quantità, dichiarazioni da far figurare su un’etichetta ad hoc o in un documento di accompagnamento, nonché l’abrogazione della direttiva 91/357/CEE che stabiliva le categorie di materie prime che possono essere utilizzate per l’indicazione della composizione degli alimenti composti destinati ad animali diversi da quelli familiari. Tale dichiarazione, viene considerata un importante elemento di informazione per gli allevatori e deve essere – quanto alla sua correttezza – verificabile dalle autorità competenti in qualsiasi momento, con correlativo obbligo per i produttori di mangimi di mettere a disposizione delle autorità competenti qualsiasi documento relativo alla composizione degli alimenti destinati ad essere immessi in circolazione. Conf. C.d.S. Sez. VI, - 4 dicembre 2003, Ordinanza n. 7993 CONSIGLIO DI STATO, Sez. VI, - 4 dicembre 2003, Ordinanza n. 7992
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