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Legislazione  Giurisprudenza                                                      Per altre sentenze vedi: Sentenze per esteso


 

 Massime della sentenza

 

 

TAR EMILIA ROMAGNA - BOLOGNA, SEZ. I - 27 ottobre 2003 sentenza n. 2160

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

TAR EMILIA ROMAGNA – BOLOGNA, SEZ. I - 27 ottobre 2003 sentenza n. 2160

 

Pres. Perricone, Est. Calderoni – Della Chiara e altro (Avv. Mantero) c. Comune di Cattolica (Avv. Rossi).


omissis
per l’esecuzione del giudicato
di cui alle decisioni TAR Emilia-Romagna, Bologna, Sez. I, 10.12.1997, n. 806 e Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 95/1999;

omissis


FATTO

I ricorrenti:
agiscono per l’esecuzione del giudicato in epigrafe, con cui sono stati annullati (per intervenuta scadenza quinquennale del vincolo urbanistico, deficit motivazionale dell’atto di reintroduzione del medesimo, illegittimità derivata e travolgimento degli atti consequenziali) i provvedimenti di approvazione del progetto di opera pubblica, variante specifica al PRG, occupazione di urgenza di terreni;

sostengono che detto annullamento comporterebbe, per effetto del giudicato, l’obbligo per il Comune di Cattolica di restituire loro, nello status quo antea, il terreno occupato per la realizzazione dell’opera pubblica di cui si tratta (strada);

chiedono l’accoglimento del ricorso e la conseguente nomina di un Commissario ad acta.

Costituendosi, il Comune:
deduce che – essendo nelle more entrato in vigore il D.P.R. n. 327/2001 – si è avvalso della facoltà prevista dall’art. 43, comma 1 del medesimo T.U., provvedendo (deliberazione consiliare 28 agosto 2003, n. 43) a valutare gli interessi in conflitto e a riconfermare la permanenza dell’interesse pubblico al mantenimento dell’opera;
 

conclude, in conformità al disposto di cui i successivi commi 3 e 4 del medesimo art. 43, chiedendo:

in via principale, che il Giudice amministrativo disponga la condanna al risarcimento del danno, con esclusione della restituzione del bene;

in via subordinata, che il giudizio di ottemperanza sia sospeso fino al decorso del termine per l’eventuale impugnazione della citata deliberazione consiliare n. 43/2003.

All’odierna Camera di Consiglio i difensori delle parti costituite hanno illustrato oralmente le rispettive argomentazioni e rassegnato materiale giurisprudenziale.


D I R I T T O


1. Poiché il Comune resistente riconosce espressamente la fondatezza del ricorso ma chiede, in via principale, al Giudice adito una pronuncia ex art. 43, comma 3 T.U. n. 327/2001, occorre preliminarmente verificare l’ammissibilità di tale domanda.

A tal fine le questioni, squisitamente processali, da risolvere sono, in ordine logico, le seguenti:

a) se la suddetta disposizione sia applicabile ratione temporis al presente ricorso, depositato in data (18 giugno 2003) antecedente a quella (30 giugno 2003) di entrata in vigore del citato T.U.;

b) se essa sia, altresì, invocabile, come nella specie, in sede di giudizio di ottemperanza;

c) in quale forma, la domanda de qua debba essere proposta.

2.1. Circa la prima questione, il Collegio osserva che il citato art. 43, terzo comma riveste natura di norma processuale, in quanto introduce - nell’ambito della giurisdizione esclusiva del G.A., espressamente riaffermata in materia dal successivo art. 53, comma 1, con specifico riferimento alle controversie aventi ad oggetto l’applicazione delle disposizioni del T.U. - un istituto affatto nuovo e del tutto sui generis, il quale attribuisce al convenuto (amministrazione o utilizzatore del bene) la facoltà di chiedere al giudice una pronuncia che, in caso di riconoscimento della fondatezza delle pretesa avversaria, converta la misura risarcitoria-restitutoria chiesta dall’attore in quella risarcitoria per equivalente: in altri termini, una sorta di domanda di "autocondanna" (così già icasticamente definita in dottrina), in funzione del "male minore".

L’evidenziata natura processuale della norma fa sì che essa - in base al noto e consolidato principio giurisprudenziale (cfr. ad es. Consiglio Stato Ad. plen., 14 febbraio 2001, n. 1; T.A.R. Toscana, 8 giugno 2000, n. 1123) dell'immediata applicabilità dello jus superveniens in campo processuale - debba essere prontamente applicata in tutti i giudizi pendenti: e dunque anche al presente ricorso, introdotto prima dell’entrata in vigore del D.P.R. n. 327/2001.

2.2. D’altra parte, la norma persegue, attraverso l’introduzione del particolare meccanismo processuale sopra descritto, una chiara finalità di "regolarizzazione" e "sanatoria" delle procedure ablatorie illegittime e dei comportamenti illeciti dell’Amministrazione in campo espropriativo: tale finalità è pacifica in dottrina ed è stata esplicitamente enunciata nel parere 29 marzo 2001, n. 4/2001 reso sul T.U. dall’Adunanza Generale del Consiglio di Stato, al cui punto 29.4. si afferma che l’art. 43 "mira ad eliminare" le ipotesi di occupazione appropriativa nonché usurpativa.

Ma se così è, esso non può che riferirsi, come ogni disposizione di sanatoria, alla situazione pregressa di illegittimità ed illiceità, storicamente e giudizialmente accumulata, in questo caso, dalla P.A. anziché dai privati.

Anche perché il perseguimento "a regime" dello stesso scopo, in via preventiva e per le evenienze future, è affidato ad altra norma del T.U., quell’art. 23 che semplifica il sistema, ponendo fine, salvo casi eccezionali espressamente previsti per legge, alla duplicazione dei decreti di esproprio e di urgenza e così consentendo ad un altro passo del parere n. 4/2001 (par. 13.2.) di osservare che "in tal modo si torna alla regola per cui la p.a. realizza l’opera sull’area oramai sua, con riduzione delle ipotesi di occupazione appropriativa (o usurpativa)".

In definitiva, l’intento del legislatore risulterebbe in buona parte frustrato, se l’art. 43 potesse trovare applicazione solo in relazione alle controversie proposte successivamente alla sua entrata in vigore.

2.3. Al quesito sub a) occorre, pertanto, dare soluzione positiva.

3.1. In senso altrettanto positivo va sciolto il dubbio sub b), poiché a tale risultato conducono la lettera e la ratio dell’art. 43, terzo comma.

3.2. Sotto il profilo letterale, la disposizione de qua ricorre, invero, ad una dizione quanto mai ampia ("Qualora sia … esercitata una azione volta alla restituzione di un bene utilizzato per scopi di interesse pubblico"), tale da abbracciare qualsiasi domanda e giudizio (cautelare, di merito, ecc.): e che questa sia esattamente l’intenzione del legislatore delegato lo si evince agevolmente dalla constatazione che la prima stesura dell’art. 43 conteneva, invece, un riferimento più circostanziato alla "azione petitoria o d’urgenza", che ha, tuttavia, lasciato il posto, nella versione finale, alla locuzione onnicomprensiva innanzi riportata, nella quale ben può ricomprendersi il giudizio di ottemperanza in cui sia chiesta (come nella specie) la restituzione del bene.

3.3. Questa interpretazione corrisponde perfettamente alla ratio (regolarizzante e sanante) della norma, già individuata al precedente punto 2.2. e tale per cui essa deve abbracciare il più ampio arco spazio-temporale possibile, coinvolgendo nella propria sfera di applicazione così i processi pendenti, come la più vasta gamma possibile di reazioni giudiziali dei privati alle situazioni di illegittimità e/o illiceità provocate dalla P.A.

Da siffatto ambito applicativo non può essere, dunque, sottratto, in via di principio, il giudizio di ottemperanza, come del resto è stato rimarcato, ripetutamente e con forza, da parte di un commento dottrinale, tanto più significativo, in quanto proviene da un autore che, in altra veste, ha fatto parte della Commissione speciale del Consiglio di Stato incaricata – ex art. 7, comma 5 legge n. 50/99 – della redazione dello schema di T.U., nonché della terna di relatori-estensori del più volte citato parere A.G. n. 4/2001.

3.4. Per converso, l’obiezione sollevata, in sede di discussione orale, dalla difesa di parte ricorrente (e cioè che il principio della intangibilità del giudicato potrebbe essere sacrificato unicamente mediante una espressa manifestazione di volontà in tal senso da parte del legislatore, nella specie mancante) può risultare pregnante e condivisibile solo ad una condizione: e cioè che si sia in presenza di un giudicato che esplicitamente riconosca al privato il diritto alla restituzione del bene, diritto che, allora sì, lo ius superveniens non può più rimettere in discussione, a meno di non dichiararlo espressamente.

Ma non è questo il caso di specie, in cui ricorre una semplice ipotesi di attribuzione dell’efficacia di res iudicata esclusivamente alla sanzione di annullamento di una serie di atti, pur se afferenti ad una procedura espropriativa: né poteva essere altrimenti, essendo stata pronunciata la sentenza cassatoria di primo grado (di questa Sezione) anteriormente alle modifiche normative del 1998 e del 2000, che hanno riconosciuto al Giudice amministrativo il potere risarcitorio, dapprima nell’ambito della sua giurisdizione esclusiva (ove rientra la materia degli espropri), poi anche di quella generale di legittimità; ed essendosi la decisione n. 95/1999 del Consiglio di Stato limitata a dichiarare l’irricevibilità per tardività (rispetto al termine breve di notifica, vigente in questa specifica materia) degli appelli principale ed incidentale

La realtà della causa qui in discussione è che la restituzione del bene de quo (rivendicata dai ricorrenti quale naturale esecuzione del giudicato) non costituisce né un dictum né una conseguenza implicita della sentenza, assistiti dalla forza del giudicato e come tale vincolanti per la parte soccombente, giacché, al contrario, come da tempo ha evidenziato la giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr. Sez. IV, 14.6.2001, n. 3169), proprio in una fattispecie identica alla presente (occupazione usurpativa e realizzazione di una strada comunale):

in primo luogo, il risarcimento del danno non è una conseguenza automatica e costante dell'annullamento giurisdizionale, ma richiede la positiva verifica di tutti i requisiti previsti dalla legge ("danno ingiusto"; colpa o dolo dell'amministrazione; nesso causale tra illecito e danno);

secondariamente, la reintegrazione in forma specifica è solo una delle possibili forme di risarcimento;

in particolare, la circostanza che l'opera pubblica sia stata costruita interamente e che i lavori abbiano dato luogo alla strada comunale risulta di ostacolo all'accoglimento della domanda di reintegrazione in forma specifica, essendo in ciò ravvisabili gli estremi contemplati dagli articoli 2058 e 2933 del Cod. civ.;

alla stregua di quest’ultima norma, l’interesse alla conservazione di un bene che sia utile all'economia nazionale è di ostacolo al soddisfacimento in executivis della pretesa e provoca la sostituzione del risarcimento per equivalente.

Si tratta, in altri termini, di una disposizione che sovrappone l'interesse pubblico all'interesse privato e che si riflette sui metodi di protezione diretta dei diritti, che il giudice amministrativo ha già utilizzato al fine di delimitare l'ambito di espansione del giudizio di ottemperanza per la soddisfazione dell'interesse oppositivo, sempre in materia di annullamento di atti espropriativi (Cons. Stato, sez. V, 12 luglio 1996, n. 874).

Venendo, così, a cadere qualsiasi nesso di consequenzialità ed automaticità tra giudicato di cui si tratta e soddisfazione della domanda restitutoria, svolta in executivis dai ricorrenti nell’ambito del presente giudizio di ottemperanza, cade anche qualsiasi ragione ostativa alla applicazione dell’art. 43 T.U. nel medesimo giudizio.

4.1. Infine, quanto all’ultima questione sub c) il Collegio osserva che la sua soluzione non può non tener conto del carattere assolutamente peculiare che contraddistingue la domanda ex art. 43, comma 3 T.U. n. 327/01 e che è stato già evidenziato al punto 2.1.

A ben vedere, infatti, tale domanda non appartiene propriamente né al genus della domanda riconvenzionale, né a quello dell’eccezione riconvenzionale.

4.2. Invero, la domanda riconvenzionale ex articolo 167 c. p. c. ricorre quando il convenuto, traendo occasione dalla domanda contro di lui proposta, opponga una controdomanda, e cioè chieda un provvedimento positivo sfavorevole all'attore, che va oltre il rigetto della domanda principale (così Cassazione civile, II sezione, n. 2860 del 2.4.1997) ovvero chieda un provvedimento giudiziale a sè favorevole, che gli attribuisca beni determinati in contrapposizione a quelli richiesti con la domanda principale (Cassazione civile, sez. I, 21 dicembre 2002, n. 18223).

Viceversa, la domanda ex art. 43, comma 3 T.U., se conserva lo schema formale di quella riconvenzionale (controdomanda), si differenzia dalla sua essenza contenutistica in quanto non mira ad ampliare il thema decidendum, ma si mantiene nell’alveo di quello introdotto dall’attore, limitandosi a sollecitare, per il convenuto, una condanna ad una misura risarcitoria sì meno sgradita, ma sicuramente e potenzialmente già ricompresa nella domanda avversaria, tanto da poter essere disposta anche d’ufficio dal giudice.

Per la Corte di Cassazione è, infatti, pacifico che:

"l'attribuzione al danneggiato del risarcimento per equivalente, in luogo della reintegrazione in forma specifica richiesta, non viola il principio della corrispondenza fra la domanda e la decisione, in quanto costituisce un minus rispetto al secondo, del quale rappresenta il sostitutivo legale mediante la prestazione dello eadem res debita, sicché la richiesta relativa è ricompresa implicitamente nella domanda giudiziale di reintegrazione in forma specifica, così da potere essere disposta dal giudice anche d'ufficio" (Cassazione civile, Sez. I, 10 ottobre 2000, n. 13468);

per contro non è consentito al giudice, senza violare l'art. 112 c.p.c., ove sia stato richiesto il risarcimento per equivalente, disporre la reintegrazione in forma specifica, non compresa, neppure per implicito, in quella domanda così proposta (Cassazione civile, sez. II, 18 gennaio 2002, n. 552).

4.3. Ma, stando alla medesima giurisprudenza della Corte di Cassazione, la domanda ex art. 43 non può neppure essere considerata una eccezione riconvenzionale, il cui elemento distintivo "consiste nel fatto che con quest'ultima vengono avanzate richieste che, pur rimanendo nell'ambito della difesa, ampliano il tema della controversia, senza tuttavia tendere ad altro fine che non sia quello della reiezione della domanda, opponendo al diritto fatto valere dall'attore un diritto idoneo a paralizzarlo, in tutto o in parte (Cassazione civile, sez. III, 20 febbraio 2001, n. 2461): poiché, come già visto, la domanda ex art. 43 non conduce alla reiezione della domanda avversaria e non amplia il thema decidendum della controversia.

4.4. Del resto, proprio sull’elemento decisivo dell’ampliamento del thema decidendum fa leva la giurisprudenza amministrativa per richiedere la previa notifica della domanda riconvenzionale nel processo amministrativo (T.A.R. Toscana, Sez. II, 22 novembre 2000, n. 2362; T.A.R. Umbria, sentenza n. 218 del 23.3.1999), previa notifica che viene comunque ritenuta necessaria, tanto se si ritenga applicabile l’art. 167 C.P.C. (cfr. da ultimo Consiglio di stato, Sez. IV, 25 gennaio 2003, n. 361, ove si afferma, per l’appunto, che nel processo amministrativo la domanda riconvenzionale deve essere contenuta nella prima memoria di costituzione delle parti intimate, da notificarsi a tutte le parti interessate); quanto se si ritenga necessaria l’introduzione nella forma del ricorso incidentale (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 31 gennaio 2001, n. 353).

4.5. Il Collegio concorda con tale giurisprudenza ove essa sia riferita alla domanda riconvenzionale tipica, ma ritiene - in questo caso discostandosi dalla dottrina sopra richiamata sub 3.3. - che una soluzione così rigorosa mal si attagli ad una domanda che riconvenzionale non è, siccome non amplia il thema decidendum e non fuoriesce dal terreno presidiato da poteri d’ufficio del giudice.

Non pare così ravvisarsi l’esigenza (tutta, peraltro, processual-amministrativistica) di notifica della stessa alle controparti, mentre il principio del contraddittorio può ritenersi sufficientemente garantito dall’integrale osservanza del disposto di cui al secondo comma dell’art. 167 CPC, il che comporta che la domanda ex art. 43, comma 3 debba essere proposta, a pena di decadenza, nella prima memoria di costituzione in giudizio della parte intimata (cfr. la citata decisione Cons. Stato n. 361/2003).

Del resto, nei momenti iniziali di attribuzione al Giudice amministrativo della c.d. "nuova" giurisdizione esclusiva, non sono mancate in giurisprudenza voci che hanno ritenuto l’integrale applicabilità del citato art. 167 CPC alla proposizione della domanda riconvenzionale "classica", nel giudizio amministrativo concernente diritti soggettivi (T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. III, 18 luglio 1998, n. 1912).

4.6. Ed anche l’eventuale obiezione che venisse posta (quella di ridurre, sempre nella logica processual-amministrativistica, una domanda di parte ad una mera difesa, seppur azionabile, a pena di decadenza, solo all’atto della costituzione in giudizio) sarebbe nuovamente superabile con il sostegno della giurisprudenza della Corte di cassazione la quale, allorché una questione introdotta da una parte non integri una domanda riconvenzionale né un'eccezione riconvenzionale né un'eccezione in senso stretto o sostanziale (e cioè sia, altresì, rilevabile "officio iudicis") la considera, per l’appunto, una mera difesa (Cassazione civile, sez. II, 18 luglio 2002, n. 10440).

4.7. Così come l’eventuale, ulteriore obiezione evocante la possibile compressione del diritto di replica delle controparti, dovuta al fatto che la costituzione in giudizio con difese scritte (e dunque la proposizione di detta domanda) può essere effettuata - stante l’assenza, nel giudizio amministrativo, di uno specifico termine decadenziale - sino a dieci giorni (liberi) antecedenti la data di discussione del ricorso, trova risposta negli argomenti con cui la Corte Costituzionale (sentenza n. 427/1999, capo 6) – nell’affrontare i delicati temi posti dalla speciale disciplina processuale introdotta nel giudizio amministrativo dal noto art. 19 decreto-legge 25 marzo 1997, n. 67, convertito con modifiche in legge 23 maggio 1997, n. 135 – ha enunciato una serie di principi che rivestono, ad avviso del Collegio, valore generale, con inevitabile ricaduta anche sull’istituto processuale di cui qui si tratta. E cioè che:

il garante dell’equilibrio tra norme processuali speciali e l'imprescindibile salvaguardia dei diritti di difesa "non può che essere il giudice, al quale spetta un potere di direzione del processo, nel rispetto del principio dispositivo e dei diritti di difesa, secondo le regole generali della giustizia amministrativa";

"le parti costituite che vogliono avvalersi di strumenti difensivi rientranti nel loro potere dispositivo (…) avranno l'onere di esternare (…) il loro intento, proponendo apposita e motivata istanza di rinvio (anche semplicemente verbalizzata) ed esternando la volontà di (…) depositare ulteriori documenti o memorie (…) e, più in generale, di esercitare attività di difesa rilevante per la trattazione del merito della controversia";

"l'istanza di rinvio potrà essere disattesa (dal giudice) solo quando risulti irrilevante, ai fini della decisione da adottare, ovvero sia processualmente inammissibile la specifica attività difensiva annunciata dalla parte".

"inoltre, la decisione con cui il giudice disattende l'esplicita richiesta di differimento della parte (…) è suscettibile di essere sindacata nell'eventuale secondo grado di giudizio, essendo sempre salva la facoltà della parte di dedurre quale specifico motivo di gravame il non corretto esercizio dei poteri del giudice di primo grado, comportante la violazione dei diritti di difesa o del principio di integrità del contraddittorio".

4.8. Da ultimo, anche qualora dovesse invece ritenersi inderogabile la necessità di notifica della domanda ex art. 43 comma 3, sussistono, ad avviso del Collegio, gli estremi per la concessione, nel caso di specie, del beneficio dell’errore scusabile, sia perché una siffatto adempimento non è previsto dalla ridetta disposizione, né direttamente ed espressamente, né indirettamente, con il richiamo, ad es., all’istituto del ricorso incidentale; sia perché la materia, non foss’altro per la brevità del lasso di tempo trascorso dall’entrata in vigore del T.U., si presta tuttora a dubbi interpretativi.

Si tratta della medesima ragione che ha indotto il TAR Lombardia a concedere analogo beneficio in occasione della pronuncia n. 1912/1998, sopracitata.

4.9. Facendo, ora, applicazione al caso di specie delle coordinate ermeneutiche sin qui indicate, può, dunque, concludersi che:

- la domanda principale avanzata, ex art. 43 comma 3 D.P.R. n. 327/01, dal Comune di Cattolica risponde ai canoni stabiliti dall’art. 167 CPC, in quanto è contenuta nella prima memoria di costituzione in giudizio, non notificata alle parti e depositata il 15 settembre 2003;

- qualora dovesse, comunque, ritenersi necessaria la notificazione del suddetto atto, al convenuto va concesso il beneficio dell’errore scusabile, per le considerazioni svolte sub 4.8.

4.10. Si può, in conclusione, passare, pertanto, all’esame nel merito della domanda di cui si tratta.

5.1. Occorre, in primo luogo, avere riguardo ai seguenti elementi di fatto:

può ritenersi riconosciuto da entrambe le parti in causa che il terreno di cui si discute risulta destinato, da oltre un quinquennio, a scopi di interesse pubblico (strada pubblica di collegamento). Infatti:

se, per un verso, tale circostanza costituisce l’assunto di fondo tanto della difesa (scritta ed orale) del Comune in questo giudizio, quanto della più volte menzionata deliberazione consiliare 28 agosto 2003, n. 43, le quali collocano (pur con qualche sfasatura temporale) l’ultimazione dei lavori dell’opera comunque entro l’anno 1997 (giugno: odierna dichiarazione a verbale del difensore; ovvero settembre: deliberazione n. 43/03);

nondimeno, per altro verso, l’Ordinanza 31 marzo 2003 del Tribunale di Rimini (prodotta dalla difesa dei ricorrenti all’odierna Camera di Consiglio) dà atto che, nel ricorso ex artt. 1168 c.c. e 703 c.p.c., dagli stessi proposto il 14.1.1998, già si deduceva l’avvenuta trasformazione del terreno di loro proprietà in strada pubblica di collegamento;

altrettanto pacifica è la modestia (mq. 46: indicati nella citata deliberazione n. 43/03; mq. 47: indicati nell’atto di costituzione del Comune; mq. 48: indicati dai ricorrenti nel presente ricorso per ottemperanza) della superficie di terreno, di proprietà dei Sigg. Della Chiara e Pedrini, occupata dalla predetta strada;

è anche pacifico che tale porzione fosse, prima di detta occupazione, fisicamente ricompresa nel giardino dell’albergo dei ricorrenti, ma – mentre questi ultimi si limitano a rivendicare il suo ritorno alla situazione quo antea, senza ulteriormente altro addurre circa la particolare importanza di simile reintegro – la deliberazione consiliare in parola dà atto che la materiale apprensione del bene non ha precluso l’uso della piscina e dell’area scoperta annesse all’albergo, né pregiudicato l’attività economica dei ricorrenti, come risulta dalle dichiarazioni reddituali degli stessi, in progressione dal 1998.

5.2. Ritiene il Collegio che, alla stregua delle suddette risultanze fattuali, la domanda del Comune sia meritevole di accoglimento, poiché le medesime prefigurano, nel loro complesso, una obiettiva prevalenza dell’interesse della collettività a proseguire nella fruizione della pubblica strada rispetto alla non particolare rilevanza quantitativa e qualitativa della porzione di proprietà conseguentemente sottratta al privato, il cui sacrificio sarà, peraltro, integralmente ristorato per equivalente.

5.3. Invero, ai sensi del più volte citato art. 43, comma 3 T.U. n. 327 occorre, in conseguenza del predetto accoglimento, disporre, contestualmente all’esclusione della restituzione del bene senza limiti di tempo, la condanna del Comune di Cattolica al risarcimento del danno economico subìto dai ricorrenti per effetto della condotta non iure del Comune medesimo, danno da determinarsi secondo i parametri indicati dal successivo comma 6 dello stesso art. 43, vale a dire:

corresponsione dell’integrale controvalore del bene perduto dai ricorrenti, che si ricava dalla applicazione ad esso dei prezzi di mercato, rapportati alla sua ubicazione e funzione di complemento e valorizzazione di una struttura alberghiera, correnti al momento del fatto illecito (id est: giorno dell’occupazione sine titulo, che la deliberazione consiliare n. 43/2003 indica come avvenuta il 26.5.1997); cui va aggiunta la rivalutazione monetaria, sulla somma così risultante, sino alla data dell’effettiva liquidazione;

corresponsione degli interessi moratori, da computarsi con decorrenza dalla medesima data di cui sopra e tuttavia calcolati sul solo capitale, alla predetta data determinato e non rivalutato (con consequenziale esclusione, così, di qualsiasi ulteriore rivalutazione della somma dovuta quale rivalutazione; nonché di ulteriore computo di interessi e rivalutazione sulla somma dovuta a titolo di interessi).

5.4. Successivamente alla quantificazione di cui sopra, il Comune dovrà provvedere al materiale pagamento della relativa somma e, quindi, potrà assumere l’atto di acquisizione di cui al quarto comma dell’art. 43.

Il Collegio intende, infatti, a questo punto precisare, per maggior chiarezza, che l’adozione di tale nuovo atto, successivamente alla pubblicazione della presente sentenza, risulta indispensabile sia perché il comma 2 ed il comma 4 individuano, rispettivamente, tipologie tra loro distinte e non sovrapponibili di provvedimenti acquisitivi; sia perché, in ogni caso, la più volte menzionata deliberazione n. 43/2003 non integra il paradigma né dell’uno né dell’altro tipo (stante il suo tenore espressamente "prudenziale", "cautelare"e "subordinato" alla decisione di questo Giudice e la mancanza di pagamento del risarcimento del danno), cosicché i suoi effetti sono destinati a venir meno con la pubblicazione della presente decisione.

5.5. Lo stesso carattere subordinato della deliberazione de qua vale, altresì, ad escludere la fondatezza alla richiesta, proposta in via gradata dal Comune, di sospendere il presente giudizio in attesa della consumazione del termine per la sua impugnazione: richiesta che, comunque, risulta evidentemente superata dal disposto accoglimento della domanda principale.

6. In conclusione, sul ricorso in epigrafe il Collegio deve così provvedere:

I) dichiara la fondatezza del ricorso principale, proposto dai Sigg. Della Chiara e Pedrini e, conseguentemente, lo accoglie;

II) accoglie, altresì, previa concessione del beneficio dell’errore scusabile, la domanda ex art. 43, comma 3 presentata dal Comune di Cattolica e, per l’effetto:

esclude la restituzione del bene di proprietà dei ricorrenti, senza limiti di tempo;

condanna il Comune di Cattolica a risarcire ai ricorrenti il danno per equivalente, determinato secondo quanto stabilito al precedente punto 5.3.;

III) condanna, altresì, il Comune di Cattolica, in applicazione della regola della soccombenza, a rifondere ai ricorrenti le spese del presente giudizio, equitativamente liquidate come in dispositivo.


P. Q. M.


Il Tribunale Amministrativo per l’Emilia-Romagna, Sezione I, così pronuncia sul ricorso in epigrafe:

lo accoglie nei limiti di cui in motivazione;

accoglie, altresì, previa concessione del beneficio dell’errore scusabile, la domanda ex art. 43, comma 3 presentata dal Comune di Cattolica e, per l’effetto:

esclude la restituzione del bene di proprietà dei ricorrenti, senza limiti di tempo;

condanna il Comune di Cattolica a risarcire, ai medesimi, il danno per equivalente, determinato secondo quanto stabilito in motivazione;

condanna, altresì, il Comune di Cattolica a rifondere ai ricorrenti le spese del presente giudizio, equitativamente liquidate nella misura complessiva di € 2.000,00 (duemila/00), oltre a IVA e CPA.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Bologna, il 9 ottobre 2003.
f.to Bartolomeo Perricone Presidente - (Bartolomeo Perricone)
f.to Giorgio Calderoni Cons.rel.est. - (Giorgio Calderoni)

Depositata in Segreteria in data 27 OTT. 2003



 

M A S S I M E

 

Sentenza per esteso

 

1) Espropriazione - la domanda riconvenzionale ex articolo 167 c. p. c e la domanda ex art. 43, comma 3 T.U. - presupposti e differenze - rigetto della domanda principale - misura risarcitoria. La domanda riconvenzionale ex articolo 167 c. p. c. ricorre quando il convenuto, traendo occasione dalla domanda contro di lui proposta, opponga una controdomanda, e cioè chieda un provvedimento positivo sfavorevole all'attore, che va oltre il rigetto della domanda principale (così Cassazione civile, II sezione, n. 2860 del 2.4.1997) ovvero chieda un provvedimento giudiziale a sè favorevole, che gli attribuisca beni determinati in contrapposizione a quelli richiesti con la domanda principale (Cassazione civile, sez. I, 21 dicembre 2002, n. 18223). Viceversa, la domanda ex art. 43, comma 3 T.U., se conserva lo schema formale di quella riconvenzionale (controdomanda), si differenzia dalla sua essenza contenutistica in quanto non mira ad ampliare il thema decidendum, ma si mantiene nell’alveo di quello introdotto dall’attore, limitandosi a sollecitare, per il convenuto, una condanna ad una misura risarcitoria sì meno sgradita, ma sicuramente e potenzialmente già ricompresa nella domanda avversaria, tanto da poter essere disposta anche d’ufficio dal giudice. TAR EMILIA ROMAGNA - BOLOGNA, SEZ. I - 27 ottobre 2003 sentenza n. 2160

2) Espropriazione per pubblica utilità - "regolarizzazione" e "sanatoria" delle procedure ablatorie illegittime e dei comportamenti illeciti dell’Amministrazione in campo espropriativo - giurisdizione esclusiva del G.A. - occupazione acquisitiva senza titolo del bene per scopi di pubblica utilità - natura della norma - la misura risarcitoria-restitutoria - domanda di "autocondanna" immediata applicabilità dello jus superveniens in campo processuale ai giudizi già pendenti al momento dell’entrata in vigore del t.u. n. 327/2001- sussistenza - le ipotesi di occupazione appropriativa nonché usurpativa - interpretazione dell’art. 43. L'art. 43, comma 3 T.U. n. 327/2001 riveste natura di norma processuale, in quanto introduce - nell’ambito della giurisdizione esclusiva del G.A., espressamente riaffermata in materia dal successivo art. 53, comma 1, con specifico riferimento alle controversie aventi ad oggetto l’applicazione delle disposizioni del T.U. - un istituto affatto nuovo e del tutto sui generis, il quale attribuisce al convenuto (amministrazione o utilizzatore del bene) la facoltà di chiedere al giudice una pronuncia che, in caso di riconoscimento della fondatezza delle pretesa avversaria, converta la misura risarcitoria-restitutoria chiesta dall’attore in quella risarcitoria per equivalente: in altri termini, una sorta di domanda di "autocondanna" (così già icasticamente definita in dottrina), in funzione del "male minore". L’evidenziata natura processuale della norma fa sì che essa - in base al noto e consolidato principio giurisprudenziale (cfr. ad es. Consiglio Stato Ad. plen., 14 febbraio 2001, n. 1; T.A.R. Toscana, 8 giugno 2000, n. 1123) dell'immediata applicabilità dello jus superveniens in campo processuale - debba essere prontamente applicata in tutti i giudizi pendenti: e dunque anche al ricorso, introdotto prima dell’entrata in vigore del D.P.R. n. 327/2001. E' evidente la chiara finalità che la norma persegue, attraverso l’introduzione del particolare meccanismo processuale sopra descritto di "regolarizzazione" e "sanatoria" delle procedure ablatorie illegittime e dei comportamenti illeciti dell’Amministrazione in campo espropriativo: tale finalità è pacifica in dottrina ed è stata esplicitamente enunciata nel parere 29 marzo 2001, n. 4/2001 reso sul T.U. dall’Adunanza Generale del Consiglio di Stato, al cui punto 29.4. si afferma che l’art. 43 "mira ad eliminare" le ipotesi di occupazione appropriativa nonché usurpativa. Ma se così è, esso non può che riferirsi, come ogni disposizione di sanatoria, alla situazione pregressa di illegittimità ed illiceità, storicamente e giudizialmente accumulata, in questo caso, dalla P.A. anziché dai privati. Anche perché il perseguimento "a regime" dello stesso scopo, in via preventiva e per le evenienze future, è affidato ad altra norma del T.U., quell’art. 23 che semplifica il sistema, ponendo fine, salvo casi eccezionali espressamente previsti per legge, alla duplicazione dei decreti di esproprio e di urgenza e così consentendo ad un altro passo del parere n. 4/2001 (par. 13.2.) di osservare che "in tal modo si torna alla regola per cui la p.a. realizza l’opera sull’area oramai sua, con riduzione delle ipotesi di occupazione appropriativa (o usurpativa)". TAR EMILIA ROMAGNA – BOLOGNA, SEZ. I - 27 ottobre 2003 sentenza n. 2160

3) Espropriazione - annullamento di atti espropriativi - la reintegrazione in forma specifica - giudizio di ottemperanza per la soddisfazione dell'interesse oppositivo - l'interesse pubblico e l'interesse privato - metodi di protezione. La reintegrazione in forma specifica è solo una delle possibili forme di risarcimento. In particolare, la circostanza che l'opera pubblica sia stata costruita interamente e che i lavori abbiano dato luogo alla strada comunale risulta di ostacolo all'accoglimento della domanda di reintegrazione in forma specifica, essendo in ciò ravvisabili gli estremi contemplati dagli articoli 2058 e 2933 del Cod. civ.. Si tratta, in altri termini, di una disposizione che sovrappone l'interesse pubblico all'interesse privato e che si riflette sui metodi di protezione diretta dei diritti, che il giudice amministrativo ha già utilizzato al fine di delimitare l'ambito di espansione del giudizio di ottemperanza per la soddisfazione dell'interesse oppositivo, sempre in materia di annullamento di atti espropriativi (Cons. Stato, sez. V, 12 luglio 1996, n. 874). Venendo, così, a cadere qualsiasi nesso di consequenzialità ed automaticità tra giudicato di cui si tratta e soddisfazione della domanda restitutoria, svolta in executivis dai ricorrenti nell’ambito del presente giudizio di ottemperanza, cade anche qualsiasi ragione ostativa alla applicazione dell’art. 43 T.U. nel medesimo giudizio. TAR EMILIA ROMAGNA - BOLOGNA, SEZ. I - 27 ottobre 2003 sentenza n. 2160

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