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 Massime della sentenza

Annotazioni e allegati

 

Tribunale di Messina

comp.ne monocratica sez. II -  sentenza 16/12/2003 sentenza n. 2712

 

Giudice De Marco

 

Inquinamento - rifiuti - nozione di rifiuto - Impianto di smaltimento - modifiche - necessità di autorizzazione - nuove fasi di smaltimento - necessità di autorizzazione - Scarico industriale - modifiche alla tipologia dei rifiuti trattati - necessità di autorizzazione - Scarico industriale - scarico occasionale - depenalizzazione - nozione di scarico occasionale - Prelievo di campioni di reflui - necessità di avviso - esclusione - atto irripetibile - Inquinamento - danneggiamento - concorso di reati - Emissioni in atmosfera - autorizzazione - necessità per ogni singola fonte di emissione.


Necessita l’autorizzazione regionale di cui all’art. 27 d.lv. 22/97 per ogni intervento di modifica di un impianto di gestione di rifiuti, per tale dovendosi intendere sia le modifiche alla struttura, sia quelle al processo tecnologico quando incidano sulla capacità dell’impianto con riferimento alla quantità o alla tipologia generale dei rifiuti. Così è necessaria l’autorizzazione a norma dell’art. 28 per l’introduzione di qualunque nuova fase di smaltimento, quale è, per esempio, il deposito temporaneo prima della raccolta. È necessaria una nuova autorizzazione a norma dell’art. 46 d.lv. 152/99 in caso di modifica dell’impianto, della natura dei rifiuti trattati o delle procedure di trattamento. La modifica dell’art. 59 d.lv. 152/99 da parte dell’art. 23 c. 1 lett. e) d.lv. 258/2000 ha determinato la depenalizzazione del superamento dei limiti negli scarichi occasionali. Per tali, tuttavia, devono ritenersi solo dagli sversamenti episodici, e non i superamenti occasionali di scarichi stabili. In caso di scarichi l’avviso all’interessato è previsto esclusivamente con riferimento alla realizzazione delle analisi e non all’esecuzione dei prelievi i quali, comunque, sono assimilabili alle attività di sequestro e, in generale, alle attività irripetibili. Né incide sulla validità del prelievo la mancata rispondenza di questo alle normative tecniche, circostanza che può rilevare solo ai fini della valutazione del risultato delle analisi. Il reato di danneggiamento può concorrere con quelli in materia di inquinamento ambientale, vendo i reati diverse oggettività giuridiche. In caso di impianti che possono dare luogo ad emissioni in atmosfera l’autorizzazione è necessaria con riferimento ad ogni singola fonte di emissione all’interno dell’impianto.
 

Tribunale di Messina

in composizione monocratica sezione II -  sentenza 16/12/2003 n. 2712- Giudice De Marco

    omissis


    Nel corso dell’anno 2000 nei pressi dello stabilimento ** ubicato in località S. Raineri della Zona Falcata di Messina si diffondevano odori molesti. Par tale ragione venivano disposte dai competenti uffici della Provincia Regionale e delle autorità sanitarie una serie di indagini che, a quanto pare, restavano senza esito.


    In tale contesto il giorno 22/9/2000, intorno alle ore 10,30, come riferito dal m.llo F. S., personale del Comando Stazione Navale della Guardia di Finanza di Messina, transitando a mezzo gommone nello specchio d’acqua antistante l’impianto di trattamento rifiuti **, rilevava la presenza di un’ampia chiazza di colore scuro ed odore intenso, nauseante, simile a g.p.l., che, proveniente dalla riva, si estendeva in mare per un ampio tratto, malgrado le correnti nella zona fossero particolarmente forti. La chiazza appariva costituita da materiale oleoso, in gran parte galleggiante, che impregnava profondamente anche il bagnasciuga. Si constatava, quindi, che la stessa promanava dallo stabilimento in questione, ed in particolare da una condotta, parzialmente nascosta, ubicata nella zona di approdo delle navi della degassifica, recapitante direttamente in mare. Da questa, infatti, fuoriusciva un consistente flusso di acque reflue di colore marrone intenso e dalle esalazioni maleodoranti. Contemporaneamente nello spiazzo dello stabilimento, dove era visibile un movimento di camion, risultavano aperti gli idranti del sistema antincendio che sversavano acqua in mare contribuendo a diluire i predetti reflui. Malgrado venisse azionata la sirena, nessuno dello stabilimento si avvicinava all’imbarcazione. Si decideva, pertanto, di prelevare, a circa mt. 2 dallo scarico, un campione di acqua di mare contaminata dal liquido in questione, con contestuale effettuazione di rilievi fotografici, depositati in atti. In particolare per il prelievo del campione veniva impiegato un mezzo di fortuna consistente in una bottiglia di acqua minerale – ovviamente vuota – che era presente a bordo. Il campione veniva, successivamente, consegnato a personale dell’ASL per le analisi.


    Nel pomeriggio dello stesso giorno – come riferito sempre dal m.llo S. – personale della Finanza si portava nuovamente sul posto, dove, tuttavia, si constatava che la zona era interamente ripulita, anche se la spiaggia si presentava ancora impregnata del materiale di scarico.


    Tanto premesso il dott. G. P., chimico dell’Asl, riferiva di avere effettuato l’analisi su un’aliquota del campione raccolto dalla Guardia di Finanza, mentre la parte residua era stata sigillata e consegnata all’autorità giudiziaria per eventuali nuove analisi, le quali, tuttavia, avrebbero dato verosimilmente un valore alterato a favore della parte, nel senso che i componenti inquinanti, in ragione del degradamento del campione, sarebbero verosimilmente risultati in quantità percentualmente inferiori.


    Aggiungeva, quindi, di non avere dato alcun avviso formale in ordine alle analisi, benchè fosse stato informalmente contattato il dott. M. C., che egli sapeva essere consulente della **, il quale, tuttavia, pur affermandosi a conoscenza del prelievo e delle analisi, aveva risposto che la cosa non lo interessava.


    L’analisi del campione aveva permesso di evidenziare: odore molesto, pH 6,8, elevata quantità di fenoli, pari a 23,7 mg/l.


    Il livello di fenoli, dunque, si presentava particolarmente elevato per un campione di acqua marina. Infatti il livello normale in acque di mare sarebbe pari a 0,01 mg./l, mentre il campione presentava un livello di 23,7 mg/l. Tale misura era eccessiva non solo per un corpo recettore, ma anche per uno scarico, dal momento che il limite di legge è fissato in 0,50 mg/l.


    In proposito precisava che il prelievo (e quindi l’analisi) dovrebbe essere effettuato direttamente sui reflui prima dell’immissione nel liquido recettore. Nel caso in esame, invece, il prelievo era stato effettuato direttamente dal corpo recettore, dopo, cioè, che il liquido inquinante era stato ampiamente diluito. Se ne poteva desumere che tale liquido, prima dell’immissione, avesse un livello di fenoli assai superiore a quello riscontrato.


    Quanto al ph era stato riscontrato un livello di 6,80. Tale valore rientrerebbe nei limiti di legge per uno scarico, essendo tale limite compreso tra 5,5 e 9,5. Nel caso in esame, tuttavia, il valore era stato riscontrato sui reflui già diluiti in acqua di mare, mentre, non essendo stato effettuato prelievo prima dell’immissione, non era possibile stabilire il livello di ph ivi presente. Precisava, tuttavia, che l’acqua di mare, in condizioni normali, ha un valore di ph oscillante tra 8,0 e 8,3.


    In conclusione, pur non potendo determinare con precisione la natura dello scarico, sosteneva che un simile livello di fenoli fosse compatibile esclusivamente con scarichi di origine industriale, verosimilmente relativi alla lavorazione di prodotti petroliferi, e del tutto incompatibile, invece, con scarichi civili (fognari).


    Riferiva, infine, di avere avuto, prima di tali fatti, rapporti con la ** relativamente alla effettuazione di altri controlli. In tali circostanze aveva appreso che direttore tecnico era il dott. S. e consulente era il dott. C.. Quanto a tale dott. D. questi era, verosimilmente, l’amministratore delegato.


    Il successivo 23/10/2000 il pubblico ministero, con le procedure di cui all’art. 360 c.p.p., previo avviso a L. L. (ma non anche a S. M.), conferiva incarico peritale ai tecnici dott. M. S., ing. Giuseppe M., dott. Massimo F. e ing. Vincenzo S., onde verificare l’adeguatezza dell’impianto e la natura degli scarichi e delle emissioni (1).


    Procedendo all’esame dello stabilimento, al momento fermo per interventi di ristrutturazione e modifica, peraltro non autorizzati, gli stessi constatavano come questo fosse stato attivato, originariamente, con progetto del 1976, come impianto di degassificazione delle petroliere e trattamento delle relative acque di zavorra, ed in particolare per la produzione e la distribuzione dei fluidi di servizio che devono essere forniti alle petroliere per le necessarie operazioni di bonifica prima dell’accesso ai bacini di riparazione (raggiungimento delle condizioni “gas free”), e per effettuare le operazioni di ricezione e trattamento delle acque di zavorra, delle acque di lavaggio e degli slops in modo da garantire complessivamente il degassaggio e la bonifica delle cisterne delle navi.


    A tal fine l’impianto, nella sua struttura originaria, era composto essenzialmente da: un pontile a T per l’ormeggio delle navi; due serbatoi di stoccaggio e prima polmonazione delle acque di lavaggio e slop aventi una capacità complessiva di 18.000 m3; due serbatoi di trattamento e stoccaggio dei prodotti petroliferi recuperati, della capacità complessiva di 3.500 m3; un impianto chimico-fisico (TPI) per il trattamento delle acque di lavaggio, costituito da decantatore e flocculatore; una centrale termica con tre caldaie e quattro serbatoi per lo stoccaggio dell’olio combustibile e del gasolio; un impianto per la produzione di acqua calda; due serbatoi di stoccaggio slop aventi capacità di 1.800 m3; un impianto per la produzione di aria compressa; uno scarico a mare, in una zona, peraltro, sottoposta a correnti di notevoli entità, quindi capaci di disperdere velocemente qualsiasi tipo di scarico.


    Il lavaggio delle cisterne avveniva mediante acqua di mare, fornita da una coppia di elettropompe, riscaldata e spruzzata in pressione mediante turbinette posizionate all’interno delle cisterne collegate all’impianto tramite braccio di carico. Poiché nella fase di lavaggio, sotto l’azione del getto d’acqua, dalle pareti della cisterna verrebbero rimossi residui di prodotto idonei a sviluppare idrocarburi gassosi, per evitare i rischi di combustione, l’operazione veniva accompagnata dal riempimento della cisterna mediante gas inerte, cioè, praticamente, privo di ossigeno. Gas ottenuto da apposito impianto, mediante combustione di gasolio.


    Quindi le acque provenienti dal lavaggio delle cisterne, le acque di zavorra e gli slops venivano raccolti e inviati in appositi impianti per la successiva separazione delle sostanze solide dalle liquide e, quindi dei vari componenti di cui sono costituite le acque sporche, con conseguente produzione di vari fanghi che, ridotti, dovevano essere avviati per il trattamento finale; mentre gli oli recuperati nelle varie fasi del ciclo, venivano raccolti in un serbatoio di smiscelazione e le acque depurate scaricate in mare.


    Le acque depurate, in particolare, come risulta da una relazione in atti (verosimilmente a corredo del progetto originario del 1983), dovevano essere scaricate in mare con un contenuto massimo di oli di 5 mg/lt (5 ppm) ed un contenuto massimo di sostanze solide sospese di 80 mg/lt. Sempre da tale relazione si evince che l’impianto di scarico doveva essere dotato di apposito pozzetto di prelievo continuo per analisi e registrazione del contenuto dell’olio residuo, dotato di apposito sistema di allarme idoneo ad avvertire sia dell’approssimarsi della concentrazione di olio al limite di 5 mg/lt, sia del superamento di tale limite, con attivazione, in tal caso, del meccanismo di chiusura della valvola pneumatica per il blocco della linea di trattamento, conseguente chiusura dello scarico a mare e ripetizione del ciclo di trattamento.


    Per contro tutti i fanghi prodotti durante il ciclo di trattamento, dopo essere stati compattati con corrispondente riduzione del loro volume, dovevano essere raccolti in apposita vasca di accumulo per essere poi avviati allo smaltimento definitivo, non meglio specificato nella relazione che porta la data del 18/1/83. Solo nella relazione allegata al decreto di autorizzazione della Regione Siciliana del 29/3/2000 (di cui si dirà in seguito) si precisa che tali fanghi dovevano essere avviati al trattamento mediante l’impianto di termodistruzione, all’epoca da poco installato, ma, da quanto riferito dai consulenti, mai avviato.


    In definitiva, pertanto, l’impianto, in conseguenza del trattamento dei rifiuti, avrebbe dovuto generare: acque depurate da scaricare in mare; oli recuperati e, quindi, riutilizzabili; fanghi non recuperabili, destinati, dunque alla termodistruzione o alla eliminazione in discarica.


    Per tale originaria struttura l’Ente Autonomo Portuale di Messina, e per esso la ** incaricata della gestione, aveva conseguito provvedimento di autorizzazione, appunto, per il trattamento e lo smaltimento delle acque di zavorra e dei rifiuti liquidi prodotti dalle navi petroliere, con decreto assessoriale n. 510 del 19/10/1983. Atto che veniva rilasciato con la precisazione che lo stesso era separato dalle autorizzazioni relative all’installazione, da concedersi in sanatoria, e da quelle relative all’esercizio.


    L’impianto previsto in tale autorizzazione risultava, dunque, costituito da:


    impianto di separazione di oli;
    impianto di trattamento fanghi;
    impianto di produzione vapore;
    tre serbatoi fuori terra per acque oleose della capacità rispettivamente di 10.000, 8.000 e 2.000 m3;
    un serbatoio fuori terra a tetto galleggiante da 1.500 m3 per olio combustibile;
    tubazione di collegamento tra la stazione ed il deposito acque oleose di cui al D.A. 1087 del 21/12/82;
    oli lubrificanti in confezioni sigillate fino a 2.000 l.


    Con altro provvedimento n. 4181/83 del 8/7/83 il Sindaco di Messina autorizzava, in via provvisoria, il Presidente dell’Ente Autonomo Portuale ad immettere in mare gli scarichi provenienti dalla stazione di degassifica per navi petroliere sita nella Zona Falcata.


    A seguito di convenzione tra l’Ente Autonomo Portuale di Messina e la **, in data 15/11/1983 l’impianto veniva consegnato a tale ultima società in persona dei consiglieri delegati L. L. e R. C..


    Infine, successivamente, in conseguenza dell’entrata in vigore del d.p.r. 203/88, in data 30/6/89, veniva presentata istanza di autorizzazione per la continuazione delle emissioni in atmosfera degli impianti esistenti.


    A fronte di tale istanza, in data 9/6/92, l’Assessorato regionale Territorio e Ambiente emanava il decreto n. 937 con il quale, a norma dell’art. 12 d.P.R. 203/88, senza nulla dire con riferimento ai suddetti serbatoi, venivano autorizzate le emissioni in atmosfera derivanti dall’impianto riparazione e costruzione navi e degassificazione petroliere realizzato in Messina nel Comune di Messina, fissandosi i limiti di emissione per singoli punti di emissione indicati nella planimetria (non in atti) con le lettere E1, E2, E3, E4, E5 (i primi quattro relativi agli impianti termici di generazione di vapore, il quinto relativo all’impianto di generazione di acqua calda):

punti E1, E2, E3

Inquinante

valore in mg/Nm3

polveri totali

100

ossidi di azoto

500

ossidi di zolfo

1700

 

punti E4, E5

Inquinante

valore in mg/Nm3

polveri totali

150

ossidi di azoto

500

ossidi di zolfo

1700

    Questo, secondo la documentazione in atti e l’analisi dei consulenti del pubblico ministero, lo stato originario dell’impianto. Tuttavia, come emerso nel corso delle ispezioni e come si evince dai registri di carico e scarico, l’impianto, così originariamente concepito, è stato nel tempo radicalmente trasformato: l’originaria impostazione, infatti, è stata modificata, abbandonandosi la vocazione alla degassifica delle petroliere. Ed infatti, come rilevato tra l’altro dai consulenti del pubblico ministero, mentre l’impianto di produzione del gas inerte, necessario alla fase del lavaggio delle cisterne, non sarebbe stato più impiegato, la complessiva struttura sarebbe stata convertita al trattamento dei rifiuti conferiti anche dall’esterno, via terra, indipendentemente dalle operazioni di bonifica delle navi cisterna.


    Invero, come risulta anche dalle annotazioni dei registri di carico e scarico relativi al periodo 2/11/99-1/11/2000, venivano fatti confluire presso l’impianto, via terra, sostanze a base oleosa destinate al trattamento ed al recupero, ed in particolare i rifiuti indicati nei registri con il seguente codice CER (2) e nella seguente consistenza:

 cod.

Denominazione

n.mov.

quantità in kg.

050101 

fanghi da trattamento sul posto degli effluenti, ad alto contenuto acquoso a condizione che contengano oli recuperabili

64

1.767.340

050105  

perdite di olio

7

173.380



050106

fanghi pompabili da impianti, apparecchiature e operazioni di manutenzione a condizione che contengano oli recuperabili (non pericolosi)

360

10.003.860

130505

 altre emulsioni oleose

84

2.072.338

130601 

altri rifiuti oleosi non specificati altrimenti

46

1.108.911

160702 

rifiuti della pulizia di cisterne di navi contenenti oli

3

 1.532.107

160705  

rifiuti della pulizia di serbatoi di stoccaggio contenenti prodotti chimici

3

75.660

160706  

rifiuti della pulizia di serbatoi di stoccaggio contenenti oli

56

1.228.478

    Rifiuti che, a parere dei consulenti sarebbero costituiti in prevalenza da fanghi oleosi, aventi matrice oleosa a prevalente base idrocarburica, con presenza ammoniacale e fenolica, e contenuto variabile di metalli e di composti aromatici alchilati e clorurati.


    Rifiuti, dunque, in gran parte strutturalmente diversi dalle acque di degassifica delle navi petroliere le quali, come chiarito dai consulenti del pubblico ministero, potrebbero contenere, ma in via eventuale, residui anche semisolidi dei prodotti petroliferi, ma non certo di prodotti chimici, ed inoltre con una concentrazione di sostanze oleose significativamente superiore a quella propria delle acque di zavorra. Tanto più che le stesse acque di zavorra, le acque di sentina e gli slop, come riferito dal consulente della difesa ing. C., prima dell’avvento del decreto Ronchi (d.lv. 22/97) non erano nemmeno classificate come rifiuti (3).


    L’originario complesso, destinato alla degassifica delle navi, dunque veniva di fatto trasformato per eseguire la gestione di rifiuti prevalentemente a base oleosa conferiti da terzi, con conseguente, necessaria, modifica, anche strutturale, dell’originario impianto, quale, per esempio, la realizzazione/attivazione della vasca MS117 in CLS, del volume di circa 30 m3, destinata a ricevere i rifiuti liquidi scaricati dalle autobotti e non esistente nell’impianto originariamente assentito o, comunque, avente in origine diversa finalità; la trasformazione del serbatoio TK106 che, in origine impiegato per lo stoccaggio delle acque di alimento delle caldaie, veniva successivamente destinato a serbatoio polmone delle acque trattate, prima dello scarico; l’impiego di parte degli spazi liberi dell’impianto quale area di stoccaggio dei fusti, contenenti rifiuti, senza, peraltro, che tali spazi venissero adeguatamente attrezzati con aree ad hoc, coperte e munite di rete di drenaggio convogliata al trattamento (ed infatti sul luogo venivano rinvenuti diversi fusti provenienti da stabilimenti petroliferi di Priolo contenenti rifiuti classificati come perdite di olio); o, infine, la realizzazione di altre modifiche, quali un sistema di filtri a carbone (finalizzati a favorire la separazione della frazione oleosa residua ed all’abbattimento dell’ammoniaca) o di un reattore per la polmonazione dei reflui, questi ultimi in corso di installazione al momento del sopralluogo, e , quindi, di fatto mai utilizzati.


    Inoltre risultava realizzato, ma mai entrato in funzione, anche un impianto di termocombustione dei residui liquidi, solidi e semisolidi non altrimenti trattabili e/o riutilizzabili – mai collaudato dall’Assessorato Regionale – destinato alla eliminazione di terre contaminate e rifiuti speciali e/o oleosi, ed adattato anche alla combustione delle morchie oleose provenienti dalle navi.


    Per tali modifiche – salvo che per l’impianto di termodistruzione – non risulterebbero né comunicazioni, né espresse autorizzazioni da parte degli enti competenti, sicchè, con riferimento a tale riconversione la ** non può considerarsi in possesso di autorizzazioni alla installazione degli impianti a norma dell’art. 27 d.lv. 22/97.
Risultano, invece, rilasciate un insieme di autorizzazioni, in maniera piuttosto disorganica e frammentaria e dalla discutibile legittimità.


    Innanzitutto con riferimento all’impianto di termodistruzione dei rifiuti, a seguito di richiesta della ** volta ad ottenere autorizzazione per la modifica delle emissioni derivanti dalla termodistruzione delle morchie oleose risultanti dall’attività della stazione di degassifica ubicata nell’area portuale di Messina, in data 11/8/1998 l’assessorato regionale territorio e ambiente emanava il decreto n. 399/18 (rettificato il 23/9/98 con il decreto n. 494/18) con cui si approvava l’impianto a norma dell’art. 27 d.lv. 22/97; si autorizzavano le emissioni in atmosfera derivanti dall’impianto a norma dell’art. 15 d.P.R. 203/88; si dava nulla-osta allo stesso a norma dell’art. 5 l.r. 181/81; quindi si autorizzava l’esercizio dell’impianto, a norma degli artt. 27 e 28 d.lv. 22/97 esclusivamente per la termodistruzione di:

cod.

denominazione

quantità (t/anno)

 p/np

----

morchie oleose provenienti dalla stazione di degassifica

10000

--

        con tassativa esclusione, non essendo stato l’impianto sottoposto alle procedure di V.I.A. di cui all’art. 6 l. 8/7/96 n. 349, di rifiuti classificati come tossici e nocivi ai sensi del d.p.r. 915/82.


    Tale autorizzazione promanava, tra l’altro, sul presupposto, costituito dalla documentazione tecnica prodotta dalla **, che le morchie oleose provenienti dalla stazione di degassifica … che dovranno essere trattate nell’impianto di termodistruzione, sono classificabili come rifiuti speciali non tossici e nocivi ai sensi del d.p.r. 915/82, malgrado, contestualmente, si riconoscesse che tali rifiuti sono classificati ai sensi del d.lv. 22/97 come rifiuti pericolosi.


    Successivamente, a seguito di istanza della ** volta ad ottenere, a norma dell’art. 28 d.lv. 22/97, l’autorizzazione anche allo smaltimento conto terzi ed al recupero dei rifiuti compatibili con il ciclo produttivo della stazione di degassificazione, sul presupposto che non sarebbe variata la potenzialità dell’impianto, né la qualità e la quantità degli scarichi liquidi e gassosi, né quella dei rifiuti solidi, e che non sarebbero stati trattati rifiuti classificati come tossici e nocivi, in data 27/7/99, il medesimo assessorato emanava il decreto n. 320/18 con cui si autorizzava la termodistruzione anche dei rifiuti:

cod.  denominazione quantità(t/anno) p/np
050103   morchie e fondi di serbatoio 6000 p
050105   perdite di olio 100 p
130401   oli di cala da navigazione interna 100 p
130402  oli di cala derivanti dalle fognature dei moli 100 p
130403 oli di cala da altre navigazioni 600 p
130501 solidi di separazione olio/acqua 100 p
130502 fanghi pompabili di separazione olio (acqua, a condizione che contengano oli recuperabili  200 p
130503 fanghi pompabili da colettori, a condizione che contengano oli recuperabili 50 p
130504 fanghi pompabili o emulsioni oleose da dissalatori, a condizione che contengano oli recuperabili 200 p
130505 altre emulsioni oleose 550 p
130601 altri rifiuti oleosi non specificati altrimenti 300 p
160701 rifiuti della pulizia di cisterne di navi contenenti prodotti chimici 400 p
160702 rifiuti della pulizia di cisterne di navi contenenti oli 400 p
160703 rifiuti della pulizia di vagoni cisterne ed autocisterne contenenti oli 100 p
160704 rifiuti della pulizia di vagoni cisterne ed autocisterne contenenti oli 100 p
160705 rifiuti della pulizia di serbatoi di stoccaggio contenenti prodotti chimici 200 p
160706 rifiuti della pulizia di serbatoi di stoccaggio contenenti oli 500 p


                  p= pericolosi – np = non pericolosi


    Si stabiliva, però, che l’avvio delle operazioni di termodistruzione di rifiuti che rientrano nell’elenco 1.3 della delibera del comitato interministeriale 27/7/84 e successive modifiche ed integrazioni, dovesse essere subordinato alla preventiva effettuazione di analisi previste dalla normativa vigente per verificare che i rifiuti in questione non siano classificati come “tossici e nocivi” ai sensi del d.p.r. 915/82. In ogni caso la ** avrebbe dovuto avvisare preventivamente la Provincia Regionale in caso di termodistruzione di tali rifiuti onde consentire eventuali controlli.

    Quanto all’impianto di trattamento risultano altre autorizzazioni che estendono la tipologia di rifiuti suscettibili di trattamento o consentono lo scarico in mare.


    In primo luogo, in data 28/7/99 la Ripartizione Igiene Cittadina – divisione ecologia e ambiente del comune di Messina, su richiesta della ** a nome di L. L., emanava il provvedimento n. 2283 con cui autorizzava a recapitare in mare i reflui depurati nell’impianto di trattamento delle acque di zavorra della stazione di degassifica per navi petroliere per un quantitativo di m3 400.000 l’anno a condizione che venissero rispettati i limiti di accettabilità previsti dalla tabella A allegata alla l. 319/76, con obbligo di notificare agli enti competenti ogni variazione relativa al ciclo tecnologico, natura delle materie prime utilizzate, ampliamento e/o ristrutturazione dello scarico e mutamenti di destinazione o di proprietà, e con obbligo di richiedere nuova autorizzazione allo scarico per ogni diversa destinazione dell’insediamento, in caso ampliamento e/o ristrutturazione e/o trasferimento dello stesso.


    L’autorizzazione promanava, tuttavia, a norma della l. 319/76 che, ormai, era stata sostituita dal d.lv. 152/99.


    A tale autorizzazione si aggiungeva, in data 2/8/99, il decreto n. 560/99 della Provincia Regionale di Messina che, a norma dell’art. 36 d.lv. 152/99 autorizzava il trattamento per conto terzi dei seguenti rifiuti:

cod.   Denominazione quantità (t/anno) p/np
130401 oli di cala da navigazione interna 2000 p
130402 oli di cala derivanti dalle fognature dei moli 2000 p
130403 oli di cala da altre navigazioni 8000 p
130505 altre emulsioni oleose 50000 p
130601  altri rifiuti oleosi non specificati altrimenti 50000 p
160701 rifiuti della pulizia di cisterne di navi contenenti prodotti chimici 40000 p
160702 rifiuti della pulizia di cisterne di navi contenenti oli 260000 p
160703 rifiuti della pulizia di vagoni cisterne ed autocisterne contenenti oli 5000 p
160704 rifiuti della pulizia di vagoni cisterne ed autocisterne contenenti oli 10000 p
160705 rifiuti della pulizia di serbatoi di stoccaggio contenenti prodotti chimici 8000 p
160706 rifiuti della pulizia di serbatoi di stoccaggio contenenti oli 100000 p

        p= pericolosi – np = non pericolosi


    L’autorizzazione, tuttavia, faceva riferimento all’art. 36 d.lv. 152/99 che riguarda i depuratori comunali o intercomunali, e non gli impianti privati di recupero rifiuti pericolosi, benchè nella parte motiva si affermi che le caratteristiche dell’impianto della suddetta Stazione di degassificazione permettono il trattamento di rifiuti liquidi pericolosi.


    Con tale incomprensibile provvedimento si stabiliva, altresì, che i fanghi prodotti dal trattamento dei predetti rifiuti liquidi dovranno essere sottoposti ad analisi chimico-fisiche, ed in funzione dei risultati andrà curato lo smaltimento e/o il recupero nel rispetto delle norme vigenti.


    Solo, in epoca successiva agli accertamenti, in data 1/12/2000, il settore ambiente del Comune di Messina emanava il provvedimento n. 30/AC con il quale si autorizzava, provvisoriamente, il recapito in mare dei reflui trattati nell’impianto di degassifica di cui alla predetta autorizzazione n. 2283, purchè fossero rispettati i parametri di cui alla tabella n. 3 dell’allegato 5 del d.lv. 152/99 e salvo il controllo periodico dell’efficienza dello scarico.

    Nel frattempo, in data 15/11/99, veniva inoltrata alla Provincia, a norma dell’art. 28 d.lv. 22/97, richiesta di autorizzazione al trattamento e recupero per conto terzi di diverse tipologie di rifiuti, con la precisazione che la stazione di degassifica aveva regolarmente funzionato.


    Analoga istanza firmata dal L., come risulta dalla documentazione in atti, veniva presentata all’Assessorato Regionale Territorio e Ambiente, con la quale si premetteva che la stazione di degassifica era stata ultimata nel 1983 e che la stessa aveva regolarmente funzionato.


    Circostanza non esattamente corrispondente al vero, secondo i consulenti del pubblico ministero, i quali avrebbero appreso che, in realtà, la stazione era ferma, almeno con riferimento alla produzione di gas inerte, da 15 anni, e che solo in data 28/7/99 il Comune di Messina aveva rilasciato un’autorizzazione allo scarico in mare.


    In ogni caso veniva emanato in data 29/3/2000 il decreto n. 39/18 dell’assessorato regionale Territorio e Ambiente, con il quale, considerato, tra l’altro, che in data 11/8/98 la ** era stata autorizzata alla termodistruzione di rifiuti speciali e pericolosi, si autorizzava la **, a norma dell’art. 28 d.lv. 22/97, per il periodo di anni cinque dalla data del presente decreto, ad esercitare le operazioni di recupero dei rifiuti sottoelencati, a condizione che gli stessi possano essere effettivamente ed utilmente sottoposti alle modalità di trattamento descritte nella relazione tecnica che costituisce, insieme agli allegati, parte integrante del presente decreto, e comunque per i quantitativi eccedenti quelli già conferiti dalle navi che effettuano la degassifica ed entro la potenzialità dell’impianto. Ed in particolare per i seguenti rifiuti:

cod.   denominazione quantità (t/anno) p/np
050101 fanghi da trattamento sul posto degli effluenti, ad alto contenuto acquoso a condizione che contengano oli recuperabili 100000 np
050105 perdite di olio 1000 p
050106 fanghi pompabili da impianti, apparecchiature e operazioni di manutenzione a condizione che contengano oli recuperabili 50000 np
050199 rifiuti non specificati altrimenti, a condizione che contengano oli recuperabili 15000 np
130401 oli di cala da navigazione interna 500 p
130402 oli di cala derivanti dalle fognature dei moli 500 p
130403 oli di cala da altre navigazioni 500 p
130502 fanghi pompabili di separazione olio(acqua, a condizione che contengano oli recuperabili 2000 p
130503 fanghi pompabili da collettori, a condizione che contengano oli recuperabili 2000 p
130504 fanghi pompabili o emulsioni oleose da dissalatori, a condizione che contengano oli recuperabili 2000 p
130505 altre emulsioni oleose 50000 p
130601 altri rifiuti oleosi non specificati altrimenti 5000 p
160702 rifiuti della pulizia di cisterne di navi contenenti oli 70000 p
160704 rifiuti della pulizia di vagoni cisterne ed autocisterne contenenti oli 10000 p
160706 rifiuti della pulizia di serbatoi di stoccaggio contenenti oli 20000 p

                  p= pericolosi – np = non pericolosi


    L’autorizzazione veniva rilasciata subordinatamente al rispetto delle altre norme contenute nel d.lv. 22/97 e delle relative norme di attuazione, nonché facendo salve le altre autorizzazioni e prescrizioni di competenza di altri enti.


    Con tale provvedimento l’ing. M. S., su indicazione scritta rilasciata dallo stesso il 3/12/99, veniva individuato come direttore tecnico dell’impianto, con obbligo per la società di comunicare ogni variazione del relativo nominativo.

    Tale complesso di autorizzazioni, a parere dei consulenti del pubblico ministero, come sopra anticipato, non sarebbe idoneo a consentire, in generale, l’esercizio dell’impianto nel modo in cui esso è stato trasformato e per la destinazione che gli è stata conferita, ed a svolgere all’interno dello stesso tutte le operazioni concretamente effettuate.


    A ciò si aggiunge, secondo i consulenti del pubblico ministero, che l’impianto, comunque, non sarebbe né adeguatamente attrezzato alla ricezione ed allo stoccaggio delle frazioni solide (in fusti e in container) in attesa di trattamento mediante aree ad hoc, coperte e munite di rete di drenaggio convogliata al trattamento; né, comunque, idoneo per la formazione di fanghi palabili da smaltire in discarica e per il raggiungimento dei parametri fissati dalla legge per lo scarico della acque depurate in mare, tanto più che non risulterebbe alcuna documentazione analitica circa la caratterizzazione dei reflui idrici dopo trattamento nella stazione di degassifica.


    In particolare inadeguato appariva il sistema di pretrattamento, evidentemente realizzato in carenza delle normali condizioni di sicurezza per gli operatori e per l’ambiente. I fusti contenenti i rifiuti semisolidi, infatti, venivano svuotati senza precauzioni e senza idonea attrezzatura, nella vasca di raccolta (MS 117).


    Poi la parte relativa al trattamento delle acque di zavorra non sembrava in grado di giungere ad una separazione spinta degli idrocarburi totali fino al limite di 5 mg/l, e, quindi, in generale fino a raggiungere i limiti di legge, in considerazione della possibile presenza di emulsioni, le cui componenti acquosa ed idrocarburica sono difficilmente separabili a meno di un intervento di riscaldamento o l’aggiunta di prodotti disemulsionanti.


    L’impianto, inoltre, non appariva idoneo a garantire alcun soddisfacente trattamento di qualsiasi tipologia di rifiuto che non sia strettamente a matrice acquosa o comunque in presenza di inquinanti in elevata concentrazione allo stato di particolato o in forma colloidale o disciolta. Per la gestione di tali rifiuti, infatti, secondo i consulenti, l’impianto avrebbe dovuto essere completamente ristrutturato con inserimento di un chiariflocculatore e probabilmente di una sezione finale di trattamento biologico.


    In assenza di idonea copertura e di sistema di raccolta, inoltre, potevano diffondersi i gas, originariamente presenti allo stato disciolto nell’acqua di zavorra, ed in parte separati nel corso della flottazione.


    Parimenti appariva inidonea la sezione relativa al trattamento dei fanghi residui, che consiste essenzialmente nell’ispessimento degli stessi, cioè nella concentrazione di solidi della corrente trattata, per l’estrazione di fanghi destinati all’incenerimento o allo smaltimento in discarica. L’inefficienza deriverebbe dalla scarsa capacità di ispessimento che caratterizzerebbe l’impianto esistente, tale da restituire fanghi eccessivamente liquidi ed ancora consistenti in quantità e pericolosità, come tali non idonei, a norma della direttiva CE 99/31, allo stoccaggio in discarica. Al punto che tutto l’impianto acque ubicato nella stazione di degassifica … dovrebbe essere considerato un impianto primario di pretrattamento fisico…


    Limiti dei quali la società doveva essere consapevole se ha avviato, pur in mancanza di specifica autorizzazione degli Enti competenti, una serie di modifiche impiantistiche, peraltro ritenute dai consulenti del pubblico ministero non ancora adeguate.


    Lo stesso impianto di incenerimento, infine, malgrado di più recente realizzazione, anche se mai utilizzato, appariva non conforme al disposto del d.m. 25/2/2000 n. 124 dal momento che non consentiva il raggiungimento dei limiti concernenti le polveri e gli ossidi di azoto e, verosimilmente, anche l’HCL, gli ossidi di zolfo, nonché i microinquinanti organici.


    Nel corso del sopralluogo, inoltre, veniva rilevato un gran numero di fusti contenenti rifiuti, accatastati alla rinfusa e senza precauzioni, e tra di essi materiale contenuto in big bags descritto come materiale solido adsorbente, non trattabile nell’impianto in quanto lo stesso concepito esclusivamente per il trattamento di rifiuti liquidi o semiliquidi.


    Infine i consulenti rilevavano come nessuna procedura di accertamento preventiva fosse stata effettuata al fine di operare la Valutazione di Impatto Ambientale. Per contro ritenevano che questa fosse obbligatoria per gli impianti di stoccaggio, recupero e termodistruzione. Invero a tale impianto risultavano conferiti rifiuti, oltre che pericolosi a norma del d.lv. 22/97, anche tossici e nocivi ai sensi del d.p.r. 915/82 essendo ricompresi nella tabella 1.3 della delibera del comitato inteministeriale 27/7/1984 (4). Secondo la stessa, infatti, sono da considerare tossici e nocivi tutti i rifiuti provenienti da attività di produzione o di servizi, a meno che il produttore dei rifiuti non dimostri che gli stessi non siano classificabili in tal senso a norma del punto 1.2. Ed in particolare, a tal fine, sono considerati rifiuti tossici e nocivi tutti quelli che contengono una o più delle sostanze indicate nella tabella 1.1 in concentrazioni superiori ai valori di concentrazione limite (CL) indicati nella tabella stessa, ovvero una o più delle altre sostanze appartenenti ai 28 gruppi di cui all’allegato al d.p.r. 915/82 in concentrazioni superiori ai valori di CL ricavati dall’applicazione dei criteri generali desunti dalla tabella 1.2. E, nel caso in cui siano presenti più sostanze di cui a tale allegato, ai fini della classificazione, occorrerà procedere alla sommatoria dei rapporti tra la concentrazione effettiva di ciascuna sostanza, dovendosi classificare il rifiuto come tossico e nocivo ove tale sommatoria dia un risultato superiore a 1.


    Nel caso in esame rientrerebbero, pertanto, nella categoria predetta almeno una parte dei rifiuti trattati nello stabilimento, ed in particolare quelli di cui ai codici di classificazione 16.07 e 05.01, riconducibili alla classificazione di cui alla citata tabella 1.3, ed in particolare alle seguenti tipologie: 2.5, fanghi di processo provenienti da stoccaggio di prodotti petroliferi; 6, residui catramosi derivanti da operazioni di distillazione e da processi di raffinazione del petrolio; 7, sostanze chimiche di laboratorio non identificabili; 9, sostanze chimiche fuori specifica; 11, fanghi derivanti dalla depurazione delle acque reflue dei processi, dei trattamenti e delle operazioni compresi nella tabella 1.3.


    In assenza di caratterizzazione dei rifiuti, dunque, gli stessi andrebbero considerati tossico-nocivi e l’impianto soggetto a valutazione di impatto ambientale. Senza che possa assumere alcuna rilevanza la circostanza che i rifiuti, come sostenuto dalla difesa, sarebbero provenienti, per la maggior parte, dalla Erg, dall’Enichem e da altre grandi imprese, e che gli stessi fossero muniti di analisi effettuate da primari laboratori come la Ecocontrol Sud di Siracusa, dal momento che la caratterizzazione dei rifiuti era comunque onere della ditta ricevente ove ne avesse voluto escludere la natura tossico-nociva.


    Per tali ragioni, pertanto, in base al disposto dell’art. 57 d.lv. 22/97(5), l’impianto, ad avviso dei consulenti, avrebbe dovuto essere preventivamente assoggettato alle procedure di valutazione di impatto ambientale. A ciò aggiungasi che tale procedura è necessaria a livello nazionale per gli stabilimenti che trattano rifiuti tossici e nocivi, ma è comunque necessaria a livello regionale per gli stabilimenti che trattano rifiuti genericamente pericolosi, quali certamente quelli conferiti presso l’impianto in esame. Categoria, quella dei rifiuti pericolosi, più ampia di quella dei rifiuti tossici e nocivi, essendo quest’ultima sostanzialmente limitabile, all’interno della prima, ai gruppi H4, H5 e H6.


    L’adozione della procedura di valutazione, pertanto, sarebbe stata comunque necessaria a norma del d.p.r. 12/4/96, recepito in Sicilia con d.p. 17/5/99 pubblicato sulla G.U.R.S. il 8/10/99, e del d.p.c.m. 3/9/99 indipendentemente dalla natura tossico-nociva dei rifiuti trattati, e quindi anche nell’ipotesi – sostenuta dal consulente della difesa ing. Bruno C. – che i rifiuti trattati non potessero classificarsi come tossico-nocivi, non essendo necessaria, secondo buon senso, una puntuale caratterizzazione dei rifiuti ricevuti per dimostrarne la non nocività-tossicità(6).


    Per contro nessuna valutazione d’impatto ambientale sarebbe stata effettuata nel caso di specie(7).

    In definitiva, pertanto, i consulenti del pubblico ministero ritenevano che l’impianto, rispetto a quello realizzato in origine, avesse subito delle modifiche, stravolgendo integralmente l’originaria vocazione. La nuova attività di gestione dei rifiuti, infatti, appare sostanzialmente diversa da quella originaria, la quale era caratterizzata dalla degassifica delle petroliere, dunque dallo svolgimento di un servizio di ripristino delle navi, rispetto al quale la gestione del rifiuto assumeva una funzione meramente conseguenziale e secondaria. La nuova attività intrapresa dalla ** costituisce, invece, una forma di trattamento in esclusiva del rifiuto, per di più di un rifiuto solo eventualmente ed occasionalmente paragonabile a quello delle acque di lavaggio. In relazione a tali modifiche detto impianto, pertanto, doveva ritenersi sprovvisto di autorizzazione:


    a norma del d.lv. 152/99, quanto agli scarichi provenienti dall’impianto di termodistruzione, nonché quanto agli scarichi derivanti dal modificato impianto di smaltimento e recupero rifiuti, essendo autorizzato solo l’originario impianto di degassificazione, autorizzazione, peraltro, emanata in base a normativa preesistente e ormai abrogata. La stessa autorizzazione rilasciata dalla Provincia appariva non pertinente, in quanto emanata in base a normativa concernente le acque di scarico di depuratori comunali e intercomunali, e comunque promanante da organo incompetente, dal momento che in Sicilia organi delegati dalle Regioni sono i Comuni e non le Province, in virtù dell’art. 40 della l.r. 27/86.


    a norma del d.p.r. 203/88, quanto alle emissioni provenienti dagli impianti (serbatoi, separatore TPI, flottatori e nuove sezioni impiantistiche costituite da filtrazione, strippaggio, sedimentazione, ossidazione). Tra l’altro le emissioni dell’impianto di termodistruzione non erano state autonomamente autorizzate, essendo state considerate, a norma dell’art. 15 d.p.r. 203/88, come una variazione qualitativa di quelle già autorizzate per l’impianto di degassificazione, piuttosto che emissioni derivanti da un nuovo impianto.


    a norma del d.lv. 22/97, in quanto l’impianto era stato solo autorizzato per l’attività di recupero e di termodistruzione, ma non per le altre attività, pure esercitate, di stoccaggio e smaltimento. Inoltre l’attività di recupero sarebbe stata autorizzata esclusivamente a norma dell’art. 28 d.lv. 22/97 limitatamente all’esercizio, senza che questa fosse stata preceduta dalle necessarie autorizzazioni relative alle modifiche dell’impianto a norma dell’art. 27, benchè, in realtà, la struttura preesistente, fino al 15/11/99 non fosse mai stata destinata al recupero dei rifiuti, ma solo alla degassifica. L’impianto, quindi, non risultava essere in possesso di alcuna autorizzazione per le attività di gestione rifiuti, pur esercitate, R1, R9, R13, D8(8).

    Gli elementi sopra esposti ed analizzati evidenziano un quadro fortemente deteriore dell’impianto di degassifica in oggetto. A prescindere dalle specifiche contestazioni che verranno di seguito esaminate, gli accertamenti compiuti dai tecnici e la cospicua documentazione acquisita fanno emergere una gestione dell’impianto alquanto scadente ed effettuata nella sostanziale illegalità, favorita, peraltro, da un contesto istituzionale assai carente e latitante. È emerso, infatti che i responsabili dell’impianto, nel corso del tempo, avrebbero operato interventi di modifica, sia nelle strutture che nella reale destinazione dello stesso, operandone una radicale rinconversione, senza che tali interventi fossero supportati da idonei provvedimenti autorizzativi. L’impianto, originariamente concepito – e verosimilmente anche allora non pienamente in regola con le autorizzazioni e nemmeno pienamente efficiente – per la degassifica delle navi, è stato nel tempo, di fatto, riconvertito alla gestione di altri rifiuti, conferiti da terzi via terra, al punto che l’attività di degassifica è divenuta, di fatto, del tutto marginale, se non addirittura inesistente, come, del resto, appare evidente dall’esame dei rifiuti conferiti e sottoposti a trattamento nell’arco dell’ultimo anno di vita dell’impianto, tra il novembre 1999 ed il novembre 2000, come evidenziato a pag. 5. Ulteriori importanti modifiche erano in corso anche all’atto dell’accesso dei consulenti del pubblico ministero, senza che le stesse fossero state preventivamente comunicate agli Enti competenti e, tanto meno, autorizzate a norma dell’art. 27 d.lv. 22/97.


    Non solo. L’impianto, infatti, è stato utilizzato benchè lo stesso fosse assolutamente inadeguato al trattamento di tali tipologie di rifiuti (v. pagg. 11 e ss.): non idoneo al raggiungimento dei limiti fissati per lo scarico delle acque in mare, ma neppure idoneo ad ottenere fanghi non recuperabili idonei allo smaltimento in discarica.


    Sul punto devono effettuarsi due considerazioni.


    Per un verso la conferma della inadeguatezza dell’impianto si trae da alcune analisi rinvenute dai consulenti, effettuate in epoca antecedente ai fatti per cui è processo, dal locale LIP.


    A quanto pare, infatti, in data 3/10/2000 personale del LIP su richiesta della Provincia avrebbe effettuato il prelievo di campioni di rifiuti liquidi da trattare durante le fasi del trattamento, dal momento iniziale alla fine dello stesso, con prelievo effettuato nel pozzetto subito prima dello scarico. Si riportano di seguito alcuni parametri rilevati sui campioni:

 

campioni del 3/10/2000

 

acque da trattare

parzialmente trattate

dopo trattamento

ODORE molesto Molesto molesto

AZOTO AMMONIACALE MG/L

 1.360,8

1.134

352,8

COD MG/L

 51.300

47.800

15.900

FENOLI MG/L

121

77,3

9,7

    L’esame di tali dati, come peraltro confermato dai consulenti del pubblico ministero, evidenzia in maniera inequivocabile come le acque residue alla fine del trattamento, destinate, quindi, all’immissione in mare, presentassero, per tali parametri, valori di oltre venti volte superiori ai limiti di legge stabiliti dalla tabella 3, la quale, infatti, prevede:

parametro u.m. valore limite tab. 3
Odore sdp non molesto
azoto ammoniacale mg/l  ≤ 15
C.O.D. come O2 mg/l  ≤ 160
fenoli tot. mg/l  ≤ 0,5

    con conseguente rendimento dell’impianto tale da non permetterne lo scarico.


    A prescindere dalle considerazioni che potrebbero essere formulate circa il ruolo e l’attività esplicata dalle autorità di controllo, e dalla singolare omessa adozione di qualunque provvedimento, quanto esposto conferma la correttezza della valutazione operata dai consulenti del pubblico ministero circa l’inadeguatezza dell’impianto, ed evidenzia la gravità della condotta dei gestori, i quali, pur nella evidente consapevolezza della scarsa capacità di trattamento, hanno continuato nell’attività di gestione dei rifiuti, ponendo gravemente a rischio l’integrità dell’ambiente, oltre che la salute pubblica.


    Un secondo aspetto è rappresentato dalla gestione dei residui non recuperabili del trattamento, costituiti, essenzialmente, da fanghi, la cui unica destinazione avrebbe dovuto essere o la termodistruzione o lo stoccaggio definitivo in discarica.


    Sul punto, tuttavia, i consulenti del pubblico ministero hanno evidenziato come l’impianto non sarebbe stato in grado di ottenere fanghi adeguatamente compatti da essere smaltiti in discarica, mentre l’impianto di termodistruzione non sarebbe stato mai attivato. Ci si domanda, dunque, che fine abbiano fatto tali fanghi. Tanto più che, dal registro di carico e scarico, la relativa destinazione non appare chiara, nel senso che nessuna precisa annotazione è stata fatta in proposito.


    In proposito occorre evidenziare l’assoluta anomalia che emerge dai registri di carico e scarico presi in esame dai consulenti del pubblico ministero e presenti in copia agli atti.


    Come evidenziato da questi ultimi (e sopra riassunto), nel periodo di un anno compreso tra il 2/11/99 ed il 1/11/2000, sarebbero stati annotati, in carico, n. 623 movimenti di rifiuti per complessive 17.962 t.


    A fronte di tali movimenti in carico, dall’esame delle copie dei registri di carico e scarico presenti in atti, si evince, in maniera assai singolare, che le uniche operazioni di scarico, con indicazione recupero codice R1, per un ammontare complessivo di t. 3.357,2, sono state registrate in data 8/8/2000, relativamente a:

kg. 1.888.820 fanghi da pulizia acque di zavorra asseritamente recuperati il 18/7/2000 e destinati alla Erg di Priolo
kg. 382.390 oli pulizia serbatoi asseritamente recuperati il 24/7/2000 e destinati alla AMG di Palermo
kg. 742.540 altre emulsioni e destinati alla SIM –Pozzilli
kg. 135.640 altre emulsioni e destinati alla nuova ESA s.r.l.
kg. 181.730 altri rifiuti oleosi e destinati alla Decoindustria s.r.l.
kg. 26.080 altri rifiuti oleosi e destinati a Servizi Costieri

    Per un totale, appunto, di kg. 3.357.200. Sul punto i consulenti del pubblico ministero, in sede di istruttoria dibattimentale, non hanno fatto altro che aumentare lo stato di confusione, ritenendo che tali annotazioni sarebbero relative a rifiuti conferiti alla ** – e non, invece, ceduti da quest’ultima – e che l’indicazione della voce “scarico” sarebbe frutto di un errore.


    Nessuna annotazione chiara, comunque, si evince in ordine alla parte residua, ponderalmente non recuperata e non scaricata. Con la conseguenza che – come osservano i consulenti del pubblico ministero – tale parte dovrebbe costituire ancora un mix non di sicura identificazione all’interno della stazione di degassifica (serbatoi polmone, vasche e stadi di trattamento, contenitori e fusti depositati nei piazzali). Sicchè non si comprenderebbe quale sia stato il destino finale dei residui del trattamento delle acque di zavorra e degli altri rifiuti recuperati sulla piattaforma.


    In un certo senso è come se tali fanghi fossero rimasti nelle vasche dell’impianto, sebbene la loro presenza non sia stata evidenziata dai consulenti del pubblico ministero al momento dell’accesso, malgrado, come riferito dagli stessi, in tale occasione il flocculatore fosse in manutenzione. Tale ipotesi, peraltro, è stata anche sostenuta dal consulente della difesa ing. C., il quale ha affermato che, dall’esame dei registri di carico e scarico, risulterebbero conferimenti a ditte specializzate, ed in particolare alla Bodein, di fanghi residuati dal trattamento solo fino agli anni 1993 e 1994. Successivamente, invece, essendosi ridotto il volume dei rifiuti trattati, i fanghi residui non sarebbero stati più conferiti, e sarebbero rimasti provvisoriamente in deposito nei serbatoi dell’impianto in attesa dello smaltimento finale(9). Sicchè, secondo tale ricostruzione, ancora oggi residuerebbero all’interno dell’impianto i fanghi relativi al trattamento dei rifiuti effettuato negli ultimi otto – dieci anni.


    Per la verità tale ricostruzione lascia assai perplessi. Invero solo nel corso dell’ultimo anno di attività, dall’esame dei registri di carico e scarico, risultano trattati dalla ** circa 17.000 t di rifiuti, con la conseguenza che il quantitativo di fanghi residuati al trattamento doveva essere piuttosto cospicuo e, verosimilmente, incompatibile con lo spazio a disposizione nelle apparecchiature e nei serbatoi.


    Ma se anche tali fanghi fossero ivi custoditi tale condotta darebbe luogo ad ulteriori evidenti profili di irregolarità: sia sostanziale, sotto il profilo di stoccaggio in condizioni non adeguate; sia formale, sotto il profilo di stoccaggio (temporaneo o definitivo) non autorizzato. In particolare è evidente che i fanghi residuati al trattamento ed al recupero dei rifiuti conferiti, costituiscono a loro volta rifiuti prodotti nell’impianto di trattamento (cod. 19 dell’all. D al d.lv. 22/97) (10), con la conseguenza che il loro deposito temporaneo deve avvenire alle condizioni stabilite dall’art. 6 c. 1 lett. m) d.lv. 22/97, potendosi configurare, in caso contrario, illeciti penalmente sanzionati.


    In tal senso è palesemente infondata la tesi rappresentata dalla difesa secondo la quale il trattamento delle acque oleose avrebbe come prodotto finale non dei rifiuti, ma dei semilavorati di origine petrolifera, in quanto si tratterebbe di morchie ed idrocarburi, aventi apprezzabile contenuto energetico e valore di mercato e, pertanto, riutilizzabili mediante incenerimento e recupero del loro contenuto energetico. Nel caso di specie, infatti, non si tratta di residui della lavorazione di un prodotto, ma di residui del trattamento di rifiuti: dunque essi stessi rifiuti per antonomasia. Peraltro, in generale, qualunque residuo di processo industriale costituisce rifiuto ai sensi del d.lv. 22/97, come emblematicamente precisato dal punto Q8 dell’allegato A al medesimo decreto, a nulla rilevando la eventuale recuperabilità o riutilizzabilità – a meno che questa non avvenga nel medesimo ciclo produttivo – costituendo le operazioni di recupero niente altro che una forma di gestione del rifiuto stesso, come chiaramente indicato all’art. 6 lett. d) e nell’allegato C del decreto, che, tra l’altro, al punto R1 espressamente indica come una delle possibili operazioni di recupero la utilizzazione principale come combustibile o come altro mezzo per produrre energia. Ne consegue che l’eventuale possibilità di impiegare i residui del trattamento dei rifiuti in questione come fonte di energia, non toglie che gli stessi restino dei rifiuti il cui deposito o stoccaggio è soggetto a particolari discipline e deve essere preventivamente autorizzato.


    Resta, dunque, l’interrogativo circa la destinazione finale di tali rifiuti, non trattabili all’interno dello stabilimento, che non può essere evinta dai registri di carico e scarico, come anche confermato dai consulenti del pubblico ministero.


    Anche tale insieme di circostanze evidenzia una gestione dell’impianto quanto meno irregolare, con una assai anomala tenuta dei registri di carico e scarico, tale da impedire una corretta ricostruzione dei movimenti.


    Inevitabilmente in tale prospettiva può essere letto l’episodio verificatosi il giorno 30/9/2000: i reflui provenienti dallo stabilimento ed abusivamente recapitati in mare, infatti, avevano un elevatissimo contenuto di inquinanti come è dato desumere dal fatto che i corrispondenti parametri, come si dirà meglio di seguito, erano ancora estremamente elevati malgrado il prelievo sia stato effettuato con reflui già diluiti. Appare, pertanto, altamente probabile che tali reflui non costituissero solamente il risultato di un trattamento di rifiuti consapevolmente inadeguato; ma, addirittura, rappresentassero l’eliminazione di quei fanghi non recuperabili, residuati al trattamento, e che l’impianto non era in grado di smaltire, se non mediante conferimento a terzi con conseguenti costi estremamente rilevanti. Non può escludersi, cioè, che il reale meccanismo di smaltimento dei residui del trattamento adottato nell’impianto fosse quello di scaricarli in mare, in tutto o in parte, a prescindere dalla natura e dal rispetto dei parametri fissati dalla legge. Tanto più che lo scarico avveniva in un punto in cui le correnti sono particolarmente forti e tali da fare disperdere rapidamente le immissioni, con conseguente impossibilità di rintraccio. Circostanza che risulta ancora più verosimile alla luce dell’espediente adottato nel giorno in questione, quando presso lo stabilimento era attivato l’impianto antincendio, con l’unico possibile scopo di agevolare ulteriormente la diluizione e la dispersione dei reflui altamente inquinati. Sul punto, per vero, occorre evidenziare come R. G., dipendente della ** con la qualifica di impiegato tecnico, abbia sostenuto, sia pure genericamente, che nel periodo di settembre del 2000 sarebbero state effettuate delle prove dell’impianto antincendio con conseguente attivazione dello stesso. Malgrado tali dichiarazioni, ed a prescindere dalla attendibilità delle stesse, deve ritenersi che l’attivazione dell’impianto antincendio il giorno 22/9/2000 non costituisse un’attività meramente casuale, ma specificamente funzionale alla ulteriore diluizione dei reflui provenienti dallo scarico, costituendo, altrimenti, la coincidenza dei due eventi, una circostanza oltremodo singolare. Tanto più che, come è evidente dalla documentazione fotografica in atti, il getto dell’acqua dell’impianto antincendio era diretto verso il mare.


    Tale situazione, peraltro, fa il paio con altra circostanza, pur essa fortemente sintomatica di una gestione estremamente irregolare della struttura. Come sopra evidenziato (v. pag. 12), infatti, nel corso del sopralluogo condotto dai consulenti del pubblico ministero è stato rinvenuto del materiale in big bags, consistente in materiale solido adsorbente. Sul punto i consulenti del pubblico ministero hanno chiarito trattarsi sostanzialmente di materiale assorbente utilizzato nella manutenzione degli impianti industriali per recuperare le fuoriuscite dei liquidi impiegati nei cicli produttivi. Tale rifiuto, come specificato dai consulenti, non sarebbe stato trattabile nell’impianto di smaltimento della **. Infatti, a prescindere dalla classificazione del rifiuto medesimo, lo stesso ha struttura sostanzialmente solida, mentre l’impianto della ** tecnicamente sarebbe stato idoneo – e peraltro in maniera non particolarmente efficiente – solo alla gestione di rifiuti allo stato liquido.


    Del resto l’atipicità di tali rifiuti appare dimostrata anche dal fatto che, come risulta dalla documentazione in atti, dopo il sequestro gli imputati avrebbero vanamente tentato di trovare altra ditta disposta a riceverli per lo smaltimento.


    Se tali rifiuti non potevano essere tecnicamente smaltiti nell’impianto ** e, malgrado ciò, vennero ugualmente ricevuti dai gestori dell’impianto, ancora una volta non ci si può che interrogare circa le effettive modalità di eliminazione dei rifiuti stessi. Né, in proposito, giova quanto riferito dall’ing. C., il quale sostiene che tali rifiuti, verosimilmente, sarebbero trattabili nell’impianto di incenerimento. Si da il caso, però, che come sostenuto dallo stesso C., l’impianto di termodistruzione non venne mai attivato, né vennero attivate le procedure amministrative prodromiche alla sua attivazione. Sicchè deve escludersi che tali rifiuti potessero essere ricevuti in funzione della termodistruzione all’interno della **, a meno di non volere ritenere che tale impianto venisse attivato in violazione della legge, in quanto in assenza delle procedure di collaudo e delle altre, prodromiche, dalla legge.

    Tanto premesso, prima di procedere all’esame delle singole contestazioni, occorre osservare come, in materia di rifiuti, il d.lv. 22/97 costituisca una normativa di cornice, a carattere generale, trovando applicazione per tutte le attività inerenti i rifiuti, rispetto alla quale le altre norme costituiscono disciplina speciale, applicabile esclusivamente con riferimento allo specifico settore, come accade, per esempio, per il d.lv. 152/99 in materia di scarichi.


    Il d.lv. 22/97 è entrato in vigore il 3/3/1997 e, in base al disposto dell’art. 57 tutte le autorizzazioni rilasciate sotto la vigenza del d.p.r. 915/82 restano valide fino alla loro scadenza, ma non oltre quattro anni dall’entrata in vigore della nuova normativa, salvo l’aggiornamento da apportare a cura delle Regioni. In base a tale disposto, dunque, la nuova normativa deve trovare attuazione per tutte le vicende inerenti la gestione dei rifiuti successive al 3/3/97, con la sola eccezione delle autorizzazioni già in essere. Con la conseguenza che la realizzazione di nuovi impianti o la modifica di quelli esistenti viene ad essere regolata dal d.lv. 22/97.


    Sempre l’art. 57 stabilisce che tutte le norme regolamentari e tecniche già in essere, continuano a restare in vigore anche con la nuova disciplina, sino all’adozione delle nuove normative. Ai fini dell’applicazione delle vecchie disposizioni, tuttavia, essendo stata eliminata la voce rifiuti tossici e nocivi, ogni riferimento a questi ultimi si deve intendere effettuato ai rifiuti pericolosi. Tali rifiuti, in particolare, a norma dell’art. 7 c. 4, sono quelli precisati negli elenchi di cui agli allegati D, G, H, ed I.


    Sempre in base all’art. 57, in attesa dell’adozione della nuova disciplina organica in materia di impatto ambientale la procedura di cui all’art. 6 della l. 8/7/86 n. 349 continua ad applicarsi ai progetti delle opere rientranti nella categoria di cui all’art. 1 lett. i) del d.p.c.m. 10/8/88 n. 377… relativa ai rifiuti classificati tossici e nocivi.


    Secondo l’art. 6 c. 1, poi, si intende per rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi. Quindi, secondo l’art. 14 d.l. 138/02, convertito con l. 178/02, non si verte in materia di rifiuti per beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo ove sussista una delle seguenti condizioni:


    a) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all’ambiente;


    b) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell’allegato C del decreto legislativo n. 22.


    Sempre il menzionato d.lv. 22/97 definisce per gestione dei rifiuti le attività di raccolta, trasporto, recupero e smaltimento, compreso il controllo di queste operazioni, nonché il controllo delle discariche e degli impianti di smaltimento dopo la chiusura.


    Tra le attività che costituiscono smaltimento, a norma dell’all. B, vanno annoverate:


    D1) il deposito sul o nel suolo; D6) lo scarico dei rifiuti solidi nell’ambiente idrico eccetto l’immersione; D8) il trattamento biologico non specificato altrove nel presente allegato, che dia origine a composti o a miscugli eliminati secondo uno dei procedimenti elencati nei punti da D1 a D12; D9) il trattamento fisico chimico non specificato altrove nel presente allegato che dia origine a composti o a miscugli eliminati secondo uno dei procedimenti elencati nei punti da D1 a D12; D10) l’incenerimento in terra; D12) il deposito permanente; D13) il raggruppamento preliminare prima di una delle operazioni di cui ai punti da D1 a D12; D14) il ricondizionamento preliminare prima di una delle operazioni di cui ai punti da D1 a D13; D15) il deposito preliminare prima di una delle operazioni di cui ai punti da D1 a D14 (escluso il deposito temporaneo, prima della raccolta, nel luogo in cui sono prodotti).


    Tra le operazioni che danno luogo al recupero, a norma dell’all. C, deve indicarsi: R1) la utilizzazione principale come combustibile o come altro mezzo per produrre energia.


    Fatte queste premesse occorre ora esaminare le singole contestazioni.


    A – Con riferimento all’ipotesi di cui al capo a)
viene contestata la violazione dell’art. 51 c. 1 lett. b) del d.lv. 22/97 in relazione all’esercizio … in assenza di preventiva approvazione di un progetto ai sensi dell’art. 27 e dunque di idonea autorizzazione ex art. 28 d.lv. 22/97 attività qualificabili come stoccaggio e smaltimento – in forza dei punti R1, R9, D8 per quanto concerne lo smaltimento, ed R13 per quanto concerne lo stoccaggio, previsti dall’all. B di cui all’art. 5 c. 6 d.lv. 22/97 di rifiuti pericolosi ai sensi del d.lv. 22/97, parte dei quali tossici e nocivi ai sensi dell’elenco 1.3 indicato dal n. 2 del punto 1.2 della delibera Com. Interm. 27/7/84, disposizione non abrogata ex art. 56 d.lv. 22/97, e precisamente in forza dei sottonumeri 2.5, 6, 7, 9, 11 del citato elenco 1.3, la cui presenza richiedeva altresì la preventiva valutazione di impatto ambientale ai sensi dell’art. 1 DPCM n. 377 del 10/8/88, adottato in forza dell’art. 6 l. 349/86.


    Come sopra si è osservato la struttura in esame è stata concretamente destinata ad un’attività di trattamento di rifiuti articolata sugli impianti di recupero oli, trattamento acque, trattamento fanghi, incenerimento e scarico (industriale) in mare. Rispetto all’installazione originaria sono stati attivati nuovi e differenti impianti, nonché eseguite, sui rifiuti, operazioni nuove e diverse rispetto a quelle originariamente assentite, con conseguenti emissioni liquide e gassose sostanzialmente diverse dal passato, quando l’impianto era destinato alla sola degassificazione delle cisterne delle navi (basti, in proposito, fare riferimento a quanto evidenziato alle pagg. 5 e ss. e 17 e ss.). Può concludersi che l’impianto concretamente esercitato sia sostanzialmente difforme da quello in origine autorizzato perché funzionale ad una tipologia di trattamento di rifiuti diversa da quella originaria, e, pertanto, diverso esso stesso sia per le modalità di gestione del rifiuto, sia per gli elementi dell’impianto concretamente utilizzati.


    Per tali nuove attività, che hanno modificato l’impianto sia nella struttura che nella destinazione, e per la stessa modifica delle procedure di trattamento dei rifiuti conseguente alla diversa tipologia di rifiuti trattati, però, la società non ha ottenuto preventivamente gli specifici titoli autorizzativi, benchè gli stessi, come ampiamente chiarito dai consulenti del pubblico ministero, fossero necessari, non solo prima dell’attivazione dell’impianto nella nuova configurazione, ma addirittura prima dell’avvio dei lavori di modifica, i quali, implicando interventi strutturali, avrebbero richiesto una preliminare validazione da parte degli Enti competenti a norma dell’art. 27 d.lv. 22/97, prodromica al rilascio della ulteriore autorizzazione alla gestione a norma dell’art. 28.


    Va osservato, in proposito, come, a norma dell’art. 27 d.lv. 22/97, l’autorizzazione regionale, con la procedura ivi descritta, debba essere richiesta sia per la realizzazione di ogni nuovo impianto di smaltimento o di recupero di rifiuti, sia per la realizzazione di varianti sostanziali in corso di esercizio, che comportano modifiche a seguito delle quali gli impianti non sono più conformi all’autorizzazione rilasciata.


    Correttamente deve ritenersi – come, peraltro, incidentalmente osservato dalla difesa – che non ogni modifica costituisce nuovo impianto, ma solo le varianti di carattere sostanziale che rendono l’impianto stesso non più conforme all’autorizzazione rilasciata. Restano dunque esenti da nuova autorizzazione solo quelle variazioni del processo tecnologico di trattamento dei rifiuti che non modifichino le capacità dell’impianto con riferimento alla quantità e tipologia generale dei rifiuti. Una nuova autorizzazione e, invece, necessaria ogniqualvolta vengano posti in essere interventi di ristrutturazione che implichino: l’introduzione di una diversa fase di gestione, o di una diversa tipologia di rifiuti da trattare, o, infine, di una diversa procedura di trattamento dei rifiuti medesimi (cfr. C. Stato IV, 6/11/98, 1440).


    Nel caso di specie appare evidente come si verta proprio in tali ultime ipotesi, dal momento che gli interventi effettuati sull’impianto – sia quelli che hanno determinato l’introduzione di nuovi elementi strutturali, sia quelli che hanno implicato la modifica del ciclo di trattamento dei rifiuti con estensione a nuove tipologie – come più volta sopra ribadito, hanno comportato una radicale trasformazione dello stesso sia nella tipologia di rifiuti trattati, sia nelle procedure impiegate, sia negli elementi strutturali dell’impianto, non potendosi, dunque, parlare di meri adeguamenti del processo tecnologico.


    La stessa difesa ammette che sull’originario impianto, costituito da: sezione di polmonazione, sezione di disoleazione con vasche TPI e sezione di flottazione ad aria; sono intervenute modifiche con integrazione di: sezione di filtrazione a sabbia; ulteriore sezione di disoleazione; sezione di filtrazione a carboni attivi; sezione di ossidazione chimica; sezione di stripping dell’ammoniaca; sezione di sedimentazione fanghi.


    Tutte dette modifiche, però, come evidenziato dai consulenti del pubblico ministero, non risultano supportate da alcuna autorizzazione.


    Ma già prima di tali modifiche altre ed altrettanto pregnanti erano state abusivamente effettuate, come, del resto, sopra evidenziato (vv. le già richiamate pp. 5 e 17), consistenti nella realizzazione di nuove vasche di raccolta (quali la più volte menzionata MS117), o la modifica di serbatoi preesistenti (quali il TK106), o la utilizzazione di aree dell’impianto come zone di stoccaggio rifiuti, o, più in generale, nella estensione della tipologia di rifiuti trattati.


    Del resto, in ordine agli interventi strutturali abusivamente realizzati, ed alla conseguente trasformazione dell’intera filosofia dell’impianto, è sufficiente richiamare la descrizione che dello stesso ne fa il consulente della difesa.


    In particolare nella relazione a firma di quest’ultimo, depositata all’udienza del 4/11/2003, l’impianto originario viene descritto in questi termini: n. 2 serbatoi fuori terra per acque oleose della capacità rispettiva di mc. 10.000 e 8.000 (TK 101 e TK102); disoleatore a pacchi lamellari (TPI); vasca di aggiunta polielettrolita (disemulsionante); n. 2 flottatori ad aria indotta; n. 1 serbatoio fuori terra dotato di serpentina di riscaldamento della capacità di mc. 1.500 (TK 103); n. 1 serbatoio fuori terra della capacità di mc. 2.000 per lo stoccaggio degli oli minerali recuperati (TK 104); impianto di ispessimento fanghi; impianto di produzione vapore ….


    Per contro il medesimo impianto viene descritto – evidentemente nello stato attuale – come costituito dalle seguenti sezioni: accumulo delle acque oleose in ingresso (S117); idrocicloni per la separazione dei solidi sospesi (TK 109 A/B); decantatori per gravità (TK 101, Tk 102, TK 103); separazione olio sul TPI; disemulsionamento e scolmaggio olio; accumulo dell’olio recuperato (TK 104); flottazione e chiariflocculazione delle acque reflue; analisi dei campioni di refluo; scarico in mare del refluo; ispessitore fanghi (S 104); vasca di accumulo ed impianto di neutralizzazione dei fanghi; linea di invio dell’effluente del pozzetto di raccolta S 113-S114 al decantatore TK 101 allorchè l’analisi dei campioni di refluo non risulti negativa.


    Inoltre la conferma di interventi non autorizzati rispetto l’originaria installazione assentita si trae anche dall’esame degli elaborati allegati alla domanda di autorizzazione del 1983. In particolare, esaminando la tavola 3/6 – planimetria generale d’impianto – del progetto esecutivo definitivo, è evidente come non si evinca alcuna traccia, per esempio, della vasca MS117 (come sopra osservato presente, invece, nello stato attuale), o come il serbatoio TK 106, allo stato attuale utilizzato come polmone per le acque di scarico, venga indicato nel progetto originario come serbatoio alimentazione H2O alla c. termica.


    Anche questi interventi risultano privi della presupposta autorizzazione a norma dell’art. 27, con la conseguenza che l’impianto è stato modificato ed esercitato in assenza dei necessari provvedimenti. Ed infatti, in base alla documentazione in atti, l’unica autorizzazione rilasciata a norma dell’art. 27 cit. concerne la realizzazione dell’impianto di termodistruzione, peraltro inteso solo come modifica all’impianto preesistente, e non come realizzazione di nuovo impianto, benchè questo costituisse un elemento sostanzialmente indipendente.


        Le stesse nuove fasi di gestione dei rifiuti – la cui autorizzazione avrebbe comunque presupposto il rilascio dell’autorizzazione alla modifica dell’impianto – non risultano assentite. In merito, infatti, risultano: l’autorizzazione 39/18 (v. pag. 10) rilasciata a norma dell’art. 28 per il mero recupero dei rifiuti in essa specificati; le autorizzazioni n. 399/18 (v. pag. 7) e 320/18 (v. pag. 8) per la termodistruzione dei rifiuti ivi indicati. Non risultano, invece, autorizzate le attività di smaltimento e di stoccaggio, pur esercitate nell’impianto in esame. In particolare a norma dell’art. 28 sono soggette ad autorizzazione tutte le operazioni di smaltimento o recupero dei rifiuti, operazioni espressamente elencate negli allegati B e C, i quali ricomprendono, tra l’altro, come autonoma operazione di smaltimento o di recupero: il deposito preliminare prima delle altre operazioni di smaltimento, con unica esclusione per il deposito temporaneo, prima della raccolta, nel luogo in cui i rifiuti vengono prodotti; la messa in riserva prima di ogni altra operazione di recupero, anche in questo caso con la sola esclusione del deposito temporaneo, prima della raccolta, nel luogo in cui i rifiuti vengono prodotti. Con il che deve concludersi che le operazioni di deposito temporaneo dei rifiuti, prima delle ulteriori operazioni di recupero e smaltimento, avrebbero richiesto apposita autorizzazione.


    Sicchè non giova, in proposito, osservare – come fatto dalla difesa – che il decreto 39/18 del 29/3/2000 rilasciato a norma dell’art. 28 d.lv. 22/97, concernesse esclusivamente … il recupero di oli dai rifiuti che presentano le stesse caratteristiche chimico fisiche di quelli provenienti dalle navi e che possono essere utilmente trattati nel preesistente impianto, ed autorizzasse, dunque, le operazioni di recupero … a condizione che gli stessi possano essere effettivamente ed utilmente sottoposti alla modalità di trattamento descritte nella relazione tecnica. Tale autorizzazione, infatti, non fa che confermare l’accusa. Questa, infatti, veniva rilasciata limitatamente alle operazioni già eseguite nell’impianto, e con estensione ad altre tipologie di rifiuti esclusivamente in quanto compatibili con le capacità dell’impianto medesimo.


    Ne consegue, per un verso, che nessuna nuova operazione veniva autorizzata. Sicchè, come sopra osservato, le nuove operazioni compiute restano, comunque, illecite. Per altro verso appare evidente come i rifiuti concretamente conferiti non fossero in alcun modo compatibili con le caratteristiche e capacità dell’impianto, così come confermato dai consulenti del pubblico ministero e così come emerge dalle analisi effettuate (v. ancora pag. 18 con riferimento al campionamento eseguito durante le fasi del trattamento).


    Sul punto non merita, poi, alcuna considerazione l’affermazione secondo la quale la permanenza di tali rifiuti nelle vasche e nei serbatoi (ma ciò certamente non potrebbe valere per i numerosi fusti depositati alla rinfusa nelle aree dell’impianto) per un tempo indeterminato e senza alcun controllo non darebbe luogo ad uno stoccaggio (cioè un’autonoma fase del recupero o dello smaltimento), ma ad una specie di fase di trattamento (comunque, però, non autorizzata), dal momento che la permanenza degli stessi sarebbe utile ad una sorta di decantazione, agevolando la separazione della componente idrocarburica. Che sarebbe come dire che lo stoccaggio di scorie radioattive non darebbe luogo a discarica, ma solo una forma di innocuizzazione degli stessi in attesa del loro decadimento con il passare dei secoli.


    L’argomento è, dunque, palesemente privo di pregio. Il trattamento del rifiuto richiede sempre un’attività umana, un controllo ed un intervento, non potendo coincidere con il mero abbandono dello stesso in attesa dello scorrere del tempo, il quale è sì una fase del trattamento, ma una fase che, secondo l’allegato B, ha un nome specifico: cioè deposito, preliminare o definitivo.


    L’ulteriore obiezione formulata dalla difesa secondo la quale non si spiegherebbe come sarebbe stato possibile il trattamento dei rifiuti senza il preventivo stoccaggio, non fa altro, invece, che confermare l’accusa. Infatti, fermo restando che nessuna autorizzazione risulta in ordine allo stoccaggio – pure esercitato – dei rifiuti, è evidente come un problema di stoccaggio si ponga solo a seguito dell’avvenuta (abusiva) riconversione dell’impianto. Come sopra più volte ribadito, infatti, questo in origine era concepito per l’erogazione di un servizio alle navi petroliere, servizio consistente, in sostanza, nel lavaggio delle cisterne, e conseguente, contestuale trattamento delle acque di lavaggio. In tale momento, pertanto, un vero problema di stoccaggio non si poneva, dal momento che le operazioni, normalmente, erano contestuali. Un problema di stoccaggio si pone solo a seguito della riconversione, quando l’erogazione del servizio di lavaggio delle cisterne viene meno, e l’impianto viene trasformato per la gestione di rifiuti via terra, solo in parte coincidenti con le acque di lavaggio: il conferimento di rifiuto grezzo via terra implica, infatti, una strutturazione ed una organizzazione radicalmente diverse con conseguente radicale modifica impiantistica.


    Deve, pertanto, concludersi per l’integrazione del reato contestato, nel senso di dovere ritenere l’impianto attuale, nella struttura e destinazione definitive, come integralmente abusivo, in quanto non specificamente assentito.


    A tale conclusione, del resto, approda lo stesso consulente della difesa ing. C., il quale conferma come la costruzione o la modifica di alcuni componenti di un impianto che ne implichino un uso diverso da quello originariamente assentito, presuppone il rilascio di nuova autorizzazione (11).


    Né rileva, in tal senso, che – come sostenuto dallo stesso consulente – nell’impianto siano stati, comunque, sottoposti a trattamento rifiuti omogenei alle acque di zavorra originariamente assentite, in quanto costituenti, miscele di acqua e olio(12) e, dunque, come sostenuto dalla difesa, di rifiuti assimilabili, non assumendo rilevanza le varie percentuali e lo stato di aggregazione in cui i principali componenti possono presentarsi.


    La tesi prospettata appare non corretta e, comunque, non rilevante.


    Non è corretta in quanto, in realtà, deve ritenersi che i rifiuti di fatto conferiti non possano essere equiparati alle acque di zavorra. Basti in proposito esaminare i registri di carico e scarico (v. pag. 5) per constatare come, oltre a rifiuti di serbatoi di stoccaggio contenenti oli, presso lo stabilimento siano state conferite anche altre tipologie di rifiuti aventi una diversa origine e composizione, quali rifiuti della pulizia di serbatoi di stoccaggio contenenti prodotti chimici; rifiuti oleosi non specificati altrimenti; fanghi pompabili da impianti, apparecchiature e operazioni di manutenzione a condizione che contengano oli recuperabili; ecc. A ciò aggiungasi che anche con riferimento a quei rifiuti oleosi aventi la medesima origine delle acque di zavorra – come, del resto, evidenziato dai consulenti del pubblico ministero e dallo stesso consulente della difesa(13) – è ravvisabile una differenza strutturale, dal momento che le acque di zavorra, derivanti dal lavaggio delle cisterne, hanno una componente acquosa percentualmente maggiore dell’omologo rifiuto grezzo, avente, invece, una prevalente matrice oleosa. Considerazioni che appaiono confermate dalla comprovata profonda inefficienza dell’impianto (v. p. es. pag. 18), chiaramente spiegabile proprio in ragione della diversa tipologia di rifiuti trattati rispetto al progetto originario e, conseguentemente, alle diverse caratteristiche degli stessi.


    In ogni caso, poi, la tesi appare irrilevante ai fini della contestazione, dal momento che le modifiche apportate all’impianto avrebbero presupposto comunque il rilascio della preventiva autorizzazione, indipendentemente dalla tipologia di rifiuti conferita. Ed infatti la circostanza che le procedure di trattamento dei rifiuti possano avere degli elementi in comune, non esclude che le modifiche funzionali e strutturali apportate all’impianto debbano essere preventivamente validate ed autorizzate dalle autorità competenti al fine di verificarne l’idoneità tecnica e la compatibilità ambientale. Tanto più che l’unica circostanza in cui, in materia di rifiuti, assume rilevanza il concetto di assimilabilità, è quella relativa ai rifiuti espressamente classificati come assimilabili a quelli urbani, i quali, a norma dell’art. 21 c. 2 lett. g) d.lv. 22/97, possono essere gestiti come rifiuti urbani.

    B – Con riferimento all’ipotesi di cui al capo b) viene contestata la violazione dell’art. 51 c. 4 d.lv. 22/97 in relazione all’omessa ottemperanza alla prescrizione di cui al d.ass.reg. n. 320 del 27/7/99 che imponeva la preventiva caratterizzazione dei rifiuti da smaltire in forza del decreto autorizzativo, al fine di escludere che i rifiuti trattati nell’esercizio dell’attività di cui al capo a) rientrassero nella categoria dei “tossici e nocivi”.


    Occorre premettere, sul punto, come la disciplina transitoria del già menzionato art. 57 d.lv. 22/97, implicitamente mantenga in vita la delibera del Comitato Interministeriale 27/7/84 relativamente alla classificazione dei rifiuti come tossici e nocivi.


    Si è, per la verità, sopra osservato come, in realtà, tale categoria sia scomparsa con il d.lv. 22/97, venendo sostituita da quella dei rifiuti pericolosi, alla quale, peraltro, rinvia l’art. 57 ogniqualvolta la normativa preesistente faccia riferimento ai rifiuti tossici e nocivi.


    In ogni caso la vecchia delibera introduceva una presunzione circa la natura tossico-nociva di alcuni rifiuti, i quali, secondo l’elenco 1.3, come tali venivano intesi in quanto aventi una determinata origine o determinate caratteristiche, generalmente riconducibili all’attività produttiva di provenienza. In tali casi era onere dell’interessato, che volesse fare rilevare la natura non tossica e nociva dei rifiuti, dimostrare tale circostanza, cioè caratterizzare i rifiuti. A tal fine era necessario sottoporre ogni rifiuto a specifica analisi volta a dimostrare che lo stesso non presentava le caratteristiche di cui agli elenchi 1.1 e 1.2 allegati alla delibera. In particolare l’analisi doveva dimostrare che il rifiuto non contenesse nessuna delle sostanze di cui alla tabella 1.1 in concentrazione superiore alla concentrazione limite ivi stabilita; nonché, se contenenti più di una di tali sostanze, che, la sommatoria dei rapporti tra le concentrazioni effettive di ciascun componente e la rispettiva concentrazione limite, fosse inferiore ad 1; ed ancora che il rifiuto non contenesse alcuna delle sostanze di cui all’allegato I al d.p.r. 915/88 qualificate anche come tossiche a norma del d.p.r. 927/81, in concentrazioni superiori ai valori limite stabiliti o da individuare.


    In assenza di caratterizzazione il rifiuto, per la semplice provenienza dello stesso, era da considerarsi, iuris et de iure, tossico-nocivo: sicchè, l’onere di fornire una simile prova gravava sull’interessato, il quale poteva adempiervi solo analizzando un campione per ogni partita di rifiuti e non, invece, con una analisi a campione.


    Si è precedentemente osservato, tuttavia, come la categoria dei rifiuti tossico-nocivi sia stata sostanzialmente sostituita da quella dei rifiuti pericolosi, e che in base all’art. 57 d.lv. 22/97 quando la legge si riferisce ai rifiuti tossico-nocivi il riferimento deve essere inteso ai rifiuti pericolosi. Applicando detta equazione si arriva comunque alla conclusione che la maggior parte dei rifiuti trattati presso l’impianto in questione, quanto meno nel periodo novembre 1999 – novembre 2000, fosse equiparabile alla categoria dei tossico-nocivi (per i casi in cui la legge si riferisce a tale categoria), in quanto espressamente classificati per legge come pericolosi (tali essendo, in particolare, quelli aventi codice 050105, 130505, 130601, 160702, 160705, 160706).


    Tanto premesso, nel caso di specie, l’accusa muove evidentemente dalla prescrizione contenuta nell’autorizzazione rilasciata con d. ass. 320/18 (v. pag. 8), secondo la quale l’avvio delle operazioni di termodistruzione di rifiuti che rientrano nell’elenco 1.3 della delibera del comitato interministeriale 27/7/84 e successive modifiche ed integrazioni, era subordinato alla preventiva effettuazione delle analisi previste dalla normativa vigente per verificare che i rifiuti in questione non siano classificati come “tossici e nocivi” ai sensi del d.p.r. 915/82, e quindi che la termodistruzione dei rifiuti in questione fosse preceduta dalla caratterizzazione degli stessi. Condizione verosimilmente imposta nella logica di una interpretazione riduttiva della disciplina dell’art. 57 e dell’art. 6 l. 8/7/86 n. 349, nel senso che, non venendo gestiti rifiuti tossici e nocivi, l’impianto di incenerimento non avrebbe dovuto essere sottoposto a procedura di valutazione di impatto ambientale. Tale interpretazione, per quanto ininfluente ai fini del presente processo, non appare comunque condivisibile, dal momento che, come si è sopra osservato, i rifiuti smaltiti in tale impianto sarebbero stati comunque pericolosi, nozione alla quale rinvia il menzionato art. 57 in tutti i casi in cui la normativa preesistente si riferiva ai rifiuti tossici e nocivi. A ciò aggiungasi che, come precisato dai consulenti del pubblico ministero, la Valutazione di Impatto Ambientale sarebbe espressamente richiesta dalla legge – anche se solo a livello regionale – anche per gli impianti che smaltiscono rifiuti pericolosi. In proposito, infatti, il decreto del presidente della regione siciliana del 17/5/1999, al punto 2.1, prevede che la valutazione di impatto ambientale venga applicata, tra l’altro, alle ipotesi indicate nell’allegato A del d.p.r. 12/4/96 ed a quelle di cui all’allegato B previa esecuzione delle procedure di verifica da eseguire su richiesta del committente o dell’autorità proponente.


    Sicchè, comunque, l’impianto in esame sarebbe stato attivato in assenza di preventiva VIA. Va però osservato che una simile circostanza è priva di rilevanza penale, incidendo esclusivamente sulla eventuale illegittimità o irregolarità delle autorizzazioni eventualmente rilasciate e sulla responsabilità degli enti competenti.


    Diversa considerazione riguarda la condizione imposta con la summenzionata autorizzazione. Infatti la violazione delle prescrizioni imposte con il provvedimento autorizzativo da parte del gestore dei rifiuti è espressamente sanzionata penalmente dalla legge.


    Nel caso di specie, dall’esame degli atti e dalle dichiarazioni dei consulenti del pubblico ministero, non risulta che simili procedure di caratterizzazione siano state mai attivate, nel senso che non risulta che mai i rifiuti conferiti all’impianto siano stati sottoposti alle analisi previste dall’autorizzazione. La stessa certificazione prodotta dalla difesa per un gruppo di rifiuti, rilasciata dalla Ecocontrol Sud in data 12/10/2000 non presenta i requisiti della caratterizzazione, dal momento che, come evidenziato dai consulenti del pubblico ministero, l’analisi qualitativa e quantitativa non è stata operata per tutti i prescritti parametri (v. pag. 13), con la conseguenza che questa non è idonea ad escludere la natura tossico-nociva dei rifiuti, a nulla rilevando che in tale certificazione il rifiuto venga qualificato come speciale, essendo tale qualifica non incompatibile con quella, ulteriore, di tossico e nocivo.


    Malgrado ciò deve ritenersi la insussistenza del reato contestato. L’obbligo di caratterizzazione dei rifiuti, infatti, era collegato dal decreto assessoriale n. 320/99 all’avvio alla termodistruzione. Tuttavia, secondo quanto emerso nel corso dell’istruttoria dibattimentale e come confermato dagli stessi consulenti del pubblico ministero, nel caso di specie, l’impianto di incenerimento non sarebbe mai stato attivato e, conseguenzialmente, alcun rifiuto sarebbe mai stato avviato alla termodistruzione. Sicchè, di fatto, nessun rifiuto poteva o doveva essere caratterizzato, e nessuna violazione alle prescrizioni contenute nell’autorizzazione è, pertanto, ravvisabile.

    C – Con riferimento all’ipotesi di cui al capo c) viene contestata la violazione dell’art. 59 c. 1 e 3 in relazione all’art. 45 d.lv. 152/99 in relazione alla effettuazione di scarichi di acque reflue industriali in assenza di autorizzazione dell’unico ente a ciò legittimato in forza del comma 6 dell’art. 45 d.lv. 152/99, e ciò in quanto nessuna validità poteva assumere l’autorizzazione rilasciata dalla provincia regionale di Messina, poiché rilasciata: da soggetto non legittimato a pronunciarsi sulla richiesta di autorizzazione in materia, posto che in forza del comma 6 art. 45 d.lv. 152/99 la competenza a pronunciarsi è demandata – in forza della riserva alla legislazione regionale – al Comune di Messina quale ente individuato dalla vigente normativa della Regione Siciliana; ai sensi dell’art. 36 d.lv. 152/99, assolutamente inapplicabile al caso di specie, trattandosi di norma che disciplina il rilascio autorizzazione per impianti di depurazione comunali, nella cui categoria certamente non poteva rientrare la ** spa, quale impianto industriale privato; e nessuna legittimazione poteva derivare dall’autorizzazione n. 30 del 1.12.2000 rilasciata dal Dipartimento 08 Settore Ambiente del Comune di Messina trattandosi di autorizzazione riferita unicamente allo sversamento dei reflui provenienti dall’attività di degassifica e non anche di rifiuti tossici e nocivi provenienti dalla lavorazione di prodotti petroliferi.


    Deve premettersi che il d.lv. 152/99 si limita a disciplinare esclusivamente gli scarichi diretti, cioè le immissioni dirette nelle acque superficiali, e quindi, tra l’altro, gli scarichi nel mare. Ciò posto si osserva che a norma dell’art. 45 tutti gli scarichi devono essere preventivamente autorizzati, e, a norma dell’art. 46, la richiesta di autorizzazione deve essere accompagnata dalle caratteristiche dello scarico. La competenza in ordine al rilascio delle autorizzazioni, secondo quanto disposto dall’art. 45, è disciplinata dalla Regione che, nel caso della Sicilia, già prima dell’entrata in vigore della normativa in questione, l’aveva attribuita ai Comuni in virtù dell’art. 40 della l. r. 27/86, non modificato successivamente all’entrata in vigore della nuova disciplina nazionale.


    Tanto premesso si osserva come nell’impianto in esame, per il completamento delle proprie attività di smaltimento, fosse previsto, infine, lo scarico in mare delle acque reflue delle operazioni di trattamento, adeguatamente purificate.


    Per l’esecuzione di tale operazione, tuttavia, la società disponeva solo dell’autorizzazione rilasciata dal Comune di Messina il 28/7/99, provvedimento che, tuttavia, consentiva esclusivamente il recapito in mare dei reflui depurati dell’impianto di trattamento delle acque di zavorra della stazione di degassifica per navi petroliere, e non, invece, per i reflui derivanti dai numerosi altri rifiuti di fatto trattati e risultanti nei registri di carico e scarico, come sopra osservato.


    A prescindere dal fatto che tale provvedimento risulta emanato in forza della l. 319/76 quando questa legge era stata ormai abrogata e sostituita dal d.lv. 152/99, deve osservarsi come in realtà, come sopra già ampiamente evidenziato, lo stabilimento **, quanto meno nel periodo in esame, era stato ampiamente trasformato e destinato in via pressoché esclusiva alla gestione di rifiuti diversi dalle acque di zavorra (ancora una volta si rinvia al prospetto dei rifiuti trattati riportato a pag. 5). È dunque evidente come lo scarico in mare delle acque derivanti dal trattamento di tali diverse tipologie di rifiuto non potesse considerarsi autorizzato in virtù del provvedimento in questione, richiedendosi, invece, una specifica autorizzazione che tenesse conto della diversa natura dei rifiuti trattati e delle eventuali nuove lavorazioni, anche al fine di verificarne l’adeguatezza.


    Ed infatti, come sopra evidenziato, l’autorizzazione allo scarico implica necessariamente la valutazione della tipologia di impianto, della natura dei rifiuti trattati e delle procedure di trattamento. Con la conseguenza che la modifica di uno di tali elementi richiede necessariamente una nuova autorizzazione. In proposito espressamente l’art. 46 d.lv. 152/99 stabilisce che la domanda di autorizzazione agli scarichi di acque reflue industriali deve essere accompagnata dalle caratteristiche quantitative e qualitative dello scarico … della descrizione del sistema complessivo di scarico, ivi comprese le operazioni ad esso funzionalmente connesse … dalla indicazione dei mezzi tecnici impiegati nel processo produttivo e nei sistemi di scarico, nonché dall’indicazione dei sistemi di depurazione utilizzato per conseguire il rispetto dei valori limite di emissione. Ne consegue che la modifica anche di uno solo degli elementi predetti implica il rilascio di una nuova autorizzazione.


    Nel caso di specie, come ampiamente evidenziato al punto A), la ** è stata sottoposta ad ampie modifiche strutturali e funzionali, sicchè già in base a tali modifiche sarebbe stata necessaria una nuova autorizzazione allo scarico che consentisse di valutare l’adeguatezza dell’impianto al fine di garantire la compatibilità delle immissioni con le acque marine e con l’ambiente circostante.


    Del pari la nuova autorizzazione sarebbe stata necessaria in ragione della diversa tipologia dei rifiuti trattati, diversità in grado di incidere sulle caratteristiche dello scarico e che avrebbe reso, pertanto, necessario il rinnovo della valutazione predetta, senza che possa assumere rilevanza alcuna la sostenuta assimilabilità dei nuovi rifiuti trattati alle acque di zavorra originariamente autorizzate, dal momento che tale assimilabilità, ammesso che sia esistente, comunque avrebbe dovuto essere vagliata dall’autorità competente e non unilateralmente affermata dagli interessati.


    Può pertanto concludersi che lo scarico in esame fosse sprovvisto di autorizzazione con conseguente integrazione del reato contestato.


    Peraltro va osservato che la stessa autorizzazione del 28/7/99 prescriveva espressamente alla ** di notificare agli enti competenti qualunque variazione che potesse interessare tanto il ciclo tecnologico, quanto le materie utilizzate. Sicchè, comunque, andrebbe a configurarsi quanto meno l’illecito penale di cui all’art. 59 c. 4 d.lv. 152/99, che, appunto, sanziona l’effettuazione degli scarichi autorizzati in violazione delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione, ed avente, nel caso di specie, natura residuale, prevalendo su tale reato quello di cui ai commi 1 e 3, dal momento che gli scarichi derivanti dal trattamento di sostanze diverse da quelle originariamente assentite deve considerarsi nuovo scarico.


    Per completezza occorre evidenziare come non sia in alcun modo possibile invocare l’autorizzazione n. 560/99 (v. pag. 9) del 2/8/99 rilasciata dalla provincia Regionale di Messina.


    L’analisi di tale provvedimento appare davvero assai improbabile. Innanzitutto deve osservarsi come la Provincia Regionale non fosse ente competente ad autorizzare lo scarico in mare. Ed in effetti in tale provvedimento non si fa menzione di un’autorizzazione al recapito in mare, bensì al trattamento di alcuni rifiuti. Ma qui interviene l’ulteriore elemento di perplessità: il provvedimento, infatti, viene dichiaratamente emanato a norma dell’art. 36 d.lv. 152/99, norma che disciplina il conferimento di rifiuti al gestore di un impianto di acque reflue urbane. La **, tuttavia, non gestiva un impianto di depurazione di acque reflue urbane, sicchè la logica del provvedimento diviene impenetrabile. A ciò aggiungasi che l’art. 36 autorizza, in deroga, il recapito di reflui non fognari nei depuratori delle acque nere a condizione che i rifiuti conferiti rispettino, comunque, i parametri dei reflui fognari. Condizione che, come osservato dai consulenti del pubblico ministero, non poteva configurarsi per la **, la quale effettuava il trattamento di rifiuti grezzi.


    In ogni caso tale provvedimento non era idoneo a legittimare lo scarico dei reflui in mare, sia perché non prevedeva una simile circostanza, sia perché una simile autorizzazione non competeva alla Provincia, bensì al Comune; sicchè, ove questo dovesse essere il senso del provvedimento, non si verterebbe in materia di mera illegittimità dell’atto amministrativo, bensì in materia di assoluta inesistenza per incompetenza funzionale dell’organo emanante.


    Per tali ragioni appaiono del tutto prive di rilevanza le considerazioni formulate dall’imputato nella memoria depositata in atti, secondo la quale l’autorizzazione della Provincia del 2/8/99 sarebbe stata emanata nella vigenza del d.lv. 152/99, mentre solo con d.lv. 18/8/2000 sarebbe stato precisato che le Province potevano autorizzare solo lo smaltimento di rifiuti liquidi urbani; e che, comunque, l’attività della ** sarebbe stata esercitata solo successivamente al decreto del 29/3/2000, come risulterebbe dal registro di carico e scarico in atti. Infatti comunque la questione venga posta è certo che la ** non è mai stata in possesso di autorizzazione per lo scarico in mare dei reflui derivanti dal trattamento dei rifiuti diversi dalle acque di zavorra.


    Né, infine, può invocarsi la disciplina di cui all’art. 62 c. 11 d.lv. 152/99, il cui termine è stato prorogato con il d.l. 147/2003 convertito nella l. 200/2003, che si riferisce all’adeguamento degli scarichi esistenti ed autorizzati alla data di entrata in vigore del d.lv. 152/99 alle prescrizioni contenute in tale normativa. Nel caso di specie, invece, come sopra evidenziato la prima autorizzazione dello scarico è successiva all’entrata in vigore del d.lv. 152/99 e, in ogni caso, essa non concerneva le nuove tipologie di rifiuto trattate, per le quali, dunque, sarebbe stata comunque necessaria una nuova autorizzazione. Il regime di proroga citato, infatti, riguarda – evidentemente – solo gli scarichi esistenti ed autorizzati, nei limiti della originaria destinazione e tipologia, ed in attesa di adeguamento alla nuova disciplina. Non giova, invece, a coprire le modifiche apportate agli scarichi – nella struttura o nella tipologia di reflui trattati – modifiche che richiedono comunque una nuova autorizzazione; nè a rendere leciti scarichi che già erano abusivi sotto la vigenza della precedente disciplina.


    Deve ritenersi, pertanto, la sussistenza del reato contestato, peraltro nella ipotesi di cui al comma 3 dell’art. 59, essendo presenti nelle acque di scarico sostanze pericolose di cui alla tabella 5 dell’allegato 5 al d.lv. 152/99, ed in particolare, tra l’altro, i fenoli, come si evince chiaramente dalle analisi condotte durante la lavorazione in data 3/10/2000, di cui si è fatta menzione alla pagina 18.

    D – Con riferimento all’ipotesi di cui al capo d) della rubrica si contesta la violazione dell’art. 59 c. 5 d.lv. 152/99 in relazione ad una immissione occasionale di reflui liquidi provenienti dalla nuova attività di trattamento, che provocava lo sversamento nel frontistante bacino marino di liquidi che superavano i valori limite fissati nella tabella 3 dell’allegato 5 al d.lv. 152/99.


    Si deve premettere che, a norma dell’art. 31 d.lv. 152/99 gli scarichi di acque reflue industriali (per tali intendendosi a norma dell’art. 2 qualsiasi tipo di acque reflue scaricate da edifici od installazioni in cui si svolgono attività commerciali o produzione di beni, diverse dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento) in acque superficiali, oltre le prescritte autorizzazioni, devono rispettare i valori limiti di emissione di cui all’art. 28 e, quindi, per il caso in esame, di cui all’allegato 5 tabella 3.


    Ciò premesso, e posto che nessun dubbio si configura in ordine al fatto che i reflui provenienti dall’impianto ** siano industriali in quanto provenienti da uno stabilimento industriale di gestione di rifiuti, occorre richiamare quanto sopra osservato in ordine alla immissione constatata il 22/9/2000 da personale della Guardia di Finanza, ed al risultato delle analisi condotte dal Lip (v. pagg. 2 e ss.).


    Sul punto va, innanzitutto, confermata la validità del sequestro del campione di acque effettuato dal personale della Guardia di Finanza e, conseguentemente, la utilizzabilità dello stesso ai fini degli accertamenti. In proposito, infatti, è stato eccepito il mancato avviso ai responsabili dell’impianto della effettuazione del prelievo, quale motivo di nullità dell’operazione.

 

    L’eccezione è infondata.


    Infatti, a prescindere dalla circostanza che una simile eventuale irregolarità avrebbe dovuto essere eccepita tempestivamente, nel corso delle indagini, nel momento in cui il campione veniva utilizzato ed analizzato nel contraddittorio delle parti; a prescindere da ciò, deve ritenersi che, già in astratto, nessun obbligo di avviso sia previsto dalla legge per l’effettuazione delle operazioni di prelievo. Un simile obbligo, infatti, appare previsto esclusivamente per l’effettuazione delle analisi – obbligo nel caso di specie assolto dal momento che le analisi disposte dalla Procura sono state eseguite nel contraddittorio delle parti – ma non anche per l’esecuzione delle attività di prelievo, le quali, peraltro, devono necessariamente costituire attività a sorpresa, assimilabile alle ispezioni, condizione necessaria per garantire la genuinità dell’accertamento, e come tali disciplinate e consentite in via generale dall’art. 50 d.lv. 152/99, e, comunque, dagli artt. 348 e ss. c.p.p. (cfr. Cass. III, 1/7/87, 7999; Cass. III, 15/11/84, 10041). In ogni caso in tema di disciplina degli scarichi il prelievo ed il campionamento delle acque reflue configurano attività amministrativa che non richiede l’osservanza delle norme del codice di procedura penale stabilite a garanzia degli indagati e degli imputati per le attività di polizia giudiziaria, atteso che l’unica garanzia richiesta per le anzidette attività ispettive è quella prevista dall'art. 223 disp. att. cod. proc. pen. che impone il preavviso all’interessato del giorno, dell’ora e del luogo dove si svolgeranno le analisi dei campioni, onere che deve ritenersi ottemperato nella misura in cui, nel caso di specie, le analisi sono state effettuate con le procedure di cui all’art. 360 c.p.p. (cfr. Cass. III, 29/1/2003, 15170).


    Del resto, come risulta dalle dichiarazioni del m.llo S., il prelievo venne effettuato nell’immediatezza dei fatti, dunque in presenza di un evento astrattamente irripetibile, sicchè l’effettuazione del sequestro non poteva essere differita. Ne consegue che nessun avviso poteva essere preventivamente effettuato, dal momento che, in astratto, lo sversamento non poteva essere preventivato. Anche nell’immediatezza l’avviso sarebbe stato impossibile, dal momento che nessun addetto all’impianto era presente, o comunque si sarebbe presentato, malgrado gli avvisi acustici lanciati con la sirena. Per contro procrastinare il prelievo avrebbe significato, con buona probabilità, l’impossibilità di procedere allo stesso: tanto è vero che, riportatisi sul posto nel pomeriggio, i finanzieri trovarono tutto ripulito.


    Deve ritenersi, pertanto, come già osservato in udienza, che il prelievo in questione, concernendo attività irripetibile da eseguire nell’imminenza del fatto, potesse essere effettuato immediatamente e senza particolari avvisi, con contestuale regolarità dello stesso.


    Del pari, e per analoghe ragioni, deve ritenersi valido il prelievo, ancorchè non effettuato secondo le normative tecniche previste dagli appositi regolamenti. Come sopra osservato, infatti, il prelievo aveva riguardo ad una immissione rilevata nell’immediatezza che, come tale, non consentiva l’apprestamento degli specifici strumenti (cfr. Cass. III, 24/5/99, 6416; Cass. III, 16/2/2000, 1773), con la conseguenza che i relativi risultati assumono ugualmente il rilievo di elementi di prova liberamente valutabili dal giudice, tanto più che eventuali inosservanze delle modalità e metodiche di prelievo dei campioni non possono determinare alcuna nullità o inutilizzabilità delle operazioni compiute e degli atti conseguenti, non essendo prevista un simile effetto da alcuna norma di legge, sicchè tali violazioni costituiscono esclusivamente elemento di valutazione dell’attendibilità del risultato (cfr. Cass. III, 24/5/99, 6416).


    Quest’ultimo, poi, non può ritenersi in alcun modo pregiudicato. Sul punto, invero, è stata eccepita la irregolarità del prelievo in ragione del contenitore utilizzato, cioè una bottiglia di plastica. In merito, però, i consulenti del pubblico ministero hanno riferito come le caratteristiche del contenitore non potevano incidere sulla rilevazione dei parametri in questione. E neppure il campione poteva essere significativamente alterato dalla eventuale – ipotizzata, ma non dimostrata – esposizione della bottiglia, prima del prelievo, ai gas di scarico del motore dell’imbarcazione della Guardia di Finanza: esposizione che non poteva aumentare in maniera significativa – dal punto di vista della concentrazione – la presenza di inquinanti nel contenitore.


    Premessa la regolarità del sequestro deve osservarsi che, dopo l’analisi condotta dal Lip, un’altra aliquota del medesimo campione risulta sottoposta ad analisi da parte dei consulenti del pubblico ministero, nel contraddittorio delle parti, con le procedure di cui all’art. 360 c.p.p., tra il 28/11 ed il 18/12/2000, cioè a circa due mesi dalla prima analisi eseguita dal Lip. In tale circostanza vennero rilevati i seguenti valori:

parametro

u.m.

valore

valore limite tab. 3
aspetto   torbido  
colore    bruno non percettibile

odore

sdp c/d-200 non molesto

ph 

  7,2 5,5-9,5
solidi sospesi  mg/l 2,2  ≤ 80
residuo a 600°  %p 22  
alogenuri totali mg/l

19740

 
azoto ammoniacale   mg/l 2,7 ≤ 15
C.O.D. come O2  mg/l 7600 ≤ 160
piombo   mg/l 0,01 ≤ 0,2
rame   mg/l <0,01 ≤ 0,1
cromo  mg/l 1,72 ≤ 2
ferro tot.   mg/l 10,80 ≤ 2
idrocarburi tot.  mg/l 350 ≤ 5
fenoli tot.  mg/l 12  ≤ 0,5
sostanze riducenti  meq/l

16,7

 

    Valori che, pur se sensibilmente inferiori a quelli rilevati dal Lip su altra aliquota del medesimo campione, appaiono comunque notevolmente al di sopra dei limiti, stabiliti dalla tabella 3 dell’allegato 5 al d.lv. 152/99 (che vengono sopra riportati per stralcio), per le immissioni di reflui industriali nelle acque superficiali relativamente agli inquinanti C.O.D., ferro, idrocarburi e fenoli, oltre che con riferimento all’aspetto ed al colore.


    Va osservato che i valori sono stati rilevati sui liquidi già immessi nel corpo ricettore e, dunque, già diluiti in acqua di mare, ed ulteriormente diluiti dalle acque dell’impianto antincendio che, come riferito m.llo S., era stato attivato senza apparente ragione. Deve ragionevolmente desumersi, come, peraltro, confermato dai consulenti del pubblico ministero, che i valori degli inquinanti, all’atto dell’immissione, prima della diluizione, fossero notevolmente superiori a quelli rilevati nel campione, dal momento che i parametri tossici evidenziati sono del tutto inusuali per qualsiasi ricettore naturale. In ogni caso, pur nello stato in cui vennero prelevate, pur se diluite, ammettendo, dunque, per difetto, che tali acque corrispondessero a quelle di scarico, queste presentavano parametri anche di 35 volte al di sopra dei limiti di legge, in violazione, dunque, degli artt. 28 e 59 c. 5 d.lv. 152/99, con conseguente configurabilità dell’ipotesi contestata.


    Inoltre l’analisi in questione è quella condotta, nel contraddittorio delle parti, dai consulenti del pubblico ministero ad oltre due mesi dal prelievo. Come chiarito in corso di istruttoria il decorso di un simile lasso di tempo può avere determinato un degradamento minimo del campione, ma nel senso di ridurre la concentrazione degli elementi inquinanti(14). Con il che è ragionevole desumere che le analisi, ove condotte nell’immediatezza, avrebbero restituito valori sovrapponibili a quelli rilevati, appunto, dal Lip, e comunque indicatori dei parametri di inquinamento non inferiori a quelli rilevati in sede di contraddittorio.


    Deve, poi, osservarsi, come nessun dubbio si ponga circa la provenienza dei reflui in questione. In proposito il personale della Guardia di Finanza ha precisato come gli stessi fuoriuscissero dalla condotta di scarico della **. Lo stesso materiale fotografico documenta inequivocabilmente tale circostanza, riproducendo lo scolo delle acque dalla condotta dell’impianto di degassifica collocata sull’arenile. Già tale circostanza è sufficiente a fugare ogni possibile dubbio circa l’ascrivibilità della condotta. Ma l’ipotesi appare ulteriormente confermata dalla natura dello scarico. Infatti, come osservato, tra l’altro, dai consulenti del pubblico ministero, ed ammesso dallo stesso consulente di parte(15), l’analisi del campione in sequestro ha evidenziato la significativa presenza di idrocarburi e, dunque, una elevata contaminazione dell’aliquota campionata riferibile a parametri specifici (c.d. tossici e non tossici) di origine riconducibile alla tipologia dei reflui circolanti (non trattati, parzialmente trattati e trattati) all’interno dell’impianto **. Tipicità che si evince anche dal confronto tra i dati dell’analisi del campione in questione, con quelli relativi all’analisi di altri campioni prelevati in epoca precedente presso lo stabilimento, durante la lavorazione (v. pag. 18), comparazione che evidenzia un elevato grado di correlazione tra i campioni, e, quindi, la reciproca similitudine tipologica e la rappresentatività della porzione di ricettore campionato nei confronti delle acque reflue scaricate dall’impianto al momento del sopralluogo.


    Tanto più che oltre l’80% della frazione solida filtrata del residuo è rappresentata da una frazione organica, ed in particolare da idrocarburi medio pesanti, oltre all’elevata presenza di idrocarburi totali, condizioni che chiaramente consentono di affermare che il corpo recettore è stato contaminato con inquinanti riconducibili alla tipologia dei reflui circolanti all’interno dell’impianto **.


    Non vi è dubbio, pertanto, che dallo stabilimento in questione venissero sversati in mare reflui che, oltre a non essere autorizzati per quanto osservato al superiore punto C), superavano abbondantemente i valori limite stabiliti per le acque superficiali dalla tabella 3 dell’allegato 5 al d.lv. 152/99, con conseguente sussistenza del reato contestato.


    Al fine, poi, di valutare la gravità della condotta, deve poi osservarsi come questa appaia tutt’altro che occasionale e fortuita, così come si desume dal fatto che, in contemporanea con lo scarico, all’evidente scopo di diluire le immissioni, venivano azionati gli idranti del sistema antincendio. Tale condotta denota la volontà dei responsabili di occultare l’operazione di sversamento, ostacolando, attraverso la ampia diluizione, la rilevabilità dello stesso.


    Tale considerazione appare del tutto coerente con le valutazioni operate dai consulenti del pubblico ministero circa la scarsa idoneità dell’impianto a raggiungere livelli accettabili nel trattamento dei reflui, e circa la destinazione dei fanghi residui del trattamento, non recuperabili.


    Sul punto appare sufficiente richiamare le considerazioni svolte alle pagg. 17 e ss. per concludere che l’abusiva operazione di scarico sorpresa dalla Finanza non fosse affatto eccezionale, ma verosimilmente rientrasse nelle ordinarie operazioni di smaltimento, come condotta abitualmente volta alla eliminazione dei reflui non adeguatamente depurati nell’impianto inefficiente e, forse, anche dei fanghi non recuperabili e suscettibili esclusivamente di essere destinati alla termodistruzione o all’ancor più costoso stoccaggio definitivo in discarica, che peraltro avrebbe richiesto un ulteriore trattamento.

    Per completare occorre evidenziare come l’art. 59 d.lv. 152/99 sia stato modificato ad opera dell’art. 23 c. 1 lett. e) d.lv. 18/8/2000 n. 258. In particolare, per ciò che qui concerne, il testo originario del comma quinto è stato mutato mediante l’eliminazione dell’inciso: «ovvero da una immissione occasionale», con la conseguenza che il nuovo testo recita: «chiunque, nell’effettuazione di uno scarico di acque reflue industriali, [ovvero da una immissione occasionale,] supera i valori limite fissati dalla tabella 3 …».


    Va subito osservato come l’intervento legislativo, ovviamente, non ha determinato depenalizzazione delle condotte commesse anteriormente alla modifica, sussistendo tra le due fattispecie rapporto di continuità, e potendosi parlare di abrogazione esclusivamente con riferimento a quelle condotte che, sanzionate secondo la disciplina previgente, non lo siano più alla luce della normativa attuale. Invero, come osservato dalle più recenti pronunce della Cassazione, si ha successione di leggi a norma dell’art. 2 comma 3 c.p. in tutti i casi in cui il fatto costituente reato secondo la legge precedente sia tuttora punibile secondo la nuova legge. Ove ciò accada parzialmente, si avrà successione di leggi esclusivamente per la parte della vecchia disciplina che rientra nel perimetro della nuova, operandosi solo quanto al resto un’abrogazione di reato. In tal senso la verifica deve essere effettuata sulla base del confronto dei soli elementi strutturali delle fattispecie, in termini astratti, senza che sia possibile fare ricorso a criteri valutativi del bene tutelato o delle modalità dell’offesa, criteri estranei alla disciplina di cui all’art. 2 c.p. e comunque non scindibili dagli elementi strutturali della fattispecie. Per tali ragioni non può ritenersi che, ove ad una norma generale succeda una norma speciale, intervenga un fenomeno abrogativo, dal momento che, in tali casi, si avrà successione di leggi nel tempo con riferimento alla parte coincidente delle due fattispecie, senza che ciò determini applicazione retroattiva della nuova norma speciale (cfr. Cass. SS.UU. 26/3/2003, 25887).


    Nel caso di specie ciò che è stato espunto dalla normativa sanzionatoria è costituito dalle sole immissioni occasionali, le quali non vengono più punite neppure se derivanti da attività industriale e se determinanti il superamento dei limiti tabellari. Per contro resta immutata la punibilità dei superamenti tabellari realizzati nell’ambito degli scarichi industriali, per tali dovendosi intendere, secondo il disposto dell’art. 2, comma primo lett. bb), del d.Lv. 152/99, qualsiasi immissione diretta tramite condotta di acque reflue liquide, semiliquide e comunque convogliabili nelle acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo ed in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche se sottoposte a preventivo trattamento di depurazione. Sono esclusi i rilasci di acque previsti dall'art. 40. Distinguendosi, pertanto, lo scarico dall’immissione occasionale per il fatto che il primo ha carattere di continuità e stabilità (Cass. III, 14/6/2002, 29651), mentre l’immissione occasionale è costituita da uno sversamento occasionale ed eccezionale realizzato, pertanto, al di fuori di un sistema di scarico. Può pertanto, concludersi che il superamento dei limiti tabellari resta sanzionato a norma dell’art. 59 quando venga realizzato nell’ambito di uno scarico, caratterizzato, dalla permanenza e stabilità, mentre resta escluso dalla punibilità se realizzato nell’ambito di uno sversamento occasionale (cfr. Cass. III, 14/6/2002, 29651).


    In base al testo attuale dell’art. 59 menzionato, dunque, occorrerà distinguere due ipotesi: quella dell’agente che, in maniera occasionale, al di fuori di un’attività di scarico, e dunque nell’ambito di sversamenti episodici da impianti che non prevedono scarichi in mare (quali, per esempio, le avarie agli impianti medesimi), effettua un versamento in acque superficiali, condotta non più punibile a norma del menzionato art. 59 c. 5; e quella, invece, dell’agente il quale gestisca un impianto che preveda lo scarico in mare dei reflui, e che, nell’ambito di tale scarico, effettui, anche occasionalmente, degli sversamenti che superino i limiti tabellari. Condotta, questa, di cui permane la illiceità penale. In sostanza, cioè, la depenalizzazione riguarda solo l’occasionalità degli sversamenti, eseguiti al di fuori di uno scarico stabile; restando, invece, sottoposti a sanzione tutti i superamenti tabellari, anche se occasionali o rilevati occasionalmente, quando eseguiti, come recita la norma, nell’effettuazione di uno scarico industriale, cioè nell’ambito di un sistema di scarico avente carattere di stabilità e continuità.


    Nel caso di specie, dunque, permane la punibilità penale a norma del reato contestato della condotta posta in essere dagli imputati attraverso gli impianti della **. Infatti, come ampiamente evidenziato, tali impianti erano dotati di uno scarico, utilizzato per lo sversamento in mare dei reflui provenienti dalla degassifica e di trattamento dei rifiuti. Sistema di immissione che ha tutti i caratteri dello scarico, ed in particolare quelli della stabilità e continuità. É in tale ambito, cioè nell’esercizio dello scarico (ed infatti gli effluentui fuoriuscivano dalla condotta della **) che si è verificato il superamento dei limiti tabellari. Si versa, pertanto, in ipotesi tuttora punita a norma dell’art. 59 cit., senza che assuma rilevanza l’espressione “immissione occasionale”, poco felicemente inserita nel capo di imputazione, la quale sta chiaramente ad individuare non lo scarico – il cui sistema, come dianzi osservato, era stabile e continuativo – ma l’episodio occasionale riscontrato di superamento dei limiti tabellari.

    E – Con riferimento all’ipotesi di cui al capo e) viene contestata la violazione dell’art. 635 c. 2 n. 3 c.p. in relazione all’art. 625 n. 7 c.p. in ragione dell’insudiciamento ed imbrattamento del frontistante tratto di mare derivante dalla condotta di cui al capo d).


    In proposito appare evidente come lo scarico di cui al capo d) abbia certamente prodotto un deterioramento delle condizioni marine, con conseguente limitazione dell’utilizzabilità nei confronti della intera collettività. Sul punto appare sufficiente richiamare la descrizione effettuata da parte del personale della Guardia di Finanza che ha evidenziato sia il colore degli scarichi particolarmente ripugnante, sia l’odore nauseante – condizioni che avevano interessato l’intero specchio acqueo – oltre alla consistente presenza di inquinanti rilevata in sede di analisi che ha determinato l’alterazione dell’equilibri biochimico delle acque.


    Tanto posto va osservato come il reato di danneggiamento sia configurabile a prescindere dalla natura mobile o immobile del bene.

   
    Ne consegue che, ove un’attività di immissione o diffusione abusiva di materiali di qualunque natura, solidi o liquidi, abbia come conseguenza l’alterazione dell’integrità di un bene quale le acque del mare, sotto il profilo della sostanza, delle risorse biologiche e ittiche, della composizione, ovvero della utilizzabilità o anche solo del valore estetico, appare configurabile il reato in questione. Né questo deve essere escluso per la contemporanea presenza di altro reato – contravvenzionale – che punisce lo specifico fatto dell’inquinamento, dal momento che tra il primo reato e quelli espressamente previsti dal d.lv. 152/99 o dal d.lv. 22/97 non esiste rapporto di specialità atteso che il primo tutela non l’ambiente come valore in sé, quanto il valore patrimoniale dello stesso e l’utilizzabilità da parte della collettività. Sicchè, ove all’attività illecita consegua, appunto, l’evento ulteriore rappresentato dal danno, si determina un concorso delle due tipologie di reato (cfr. Cass. 15/11/79, 5802; Cass. 10/12/79, 5870; Cass. 19/6/81, 9425; Cass. 17/6/82, 11484; Cass. 10/2/84, 5485).


    Inoltre il mare, così come tutti gli altri beni elencati nell’art. 822 cod. civ., è essenzialmente destinato al servizio della collettività, per cui correttamente in caso di danneggiamento di tale bene appare configurabile il delitto di cui all’art. 635, con l’aggravante del capoverso n. 3 in relazione all’art. 625 n. 7 c.p. la quale tutela, appunto, la destinazione pubblicistica del bene (cfr. Cass. 15/11/79, 5802; Cass. 10/2/84, 5485).


    Sotto il profilo del dolo si è già detto sub D). Qui occorre aggiungere come, quand’anche lo sversamento si fosse inizialmente verificato per un fatto meramente colposo, di esso certamente si sono resi conto i gestori dell’azienda, i quali, piuttosto che attivarsi per impedirne la prosecuzione, hanno scientemente lasciato che lo stesso proseguisse, attivando, anzi, gli idranti con l’evidente scopo di rendere meno palese l’azione delittuosa.

    F – Con riferimento all’ipotesi di cui al capo f) si contesta la violazione dell’art. 24 d.P.R. 203/88 in relazione all’inizio della costruzione di un nuovo impianto di termodistruzione dei residui di trattamento dei rifiuti indicati al capo a) destinato a provocare emissioni nell’aria, in assenza di autorizzazione in quanto l’impianto di termodistruzione costituisce opera del tutto distinta rispetto al corpo preesistente della stazione di degassificazione, e comunque destinata alla distruzione di rifiuti non previsti nell’esercizio dell’attività di degassifica.


    Si è sopra osservato (v. pagg. 7 e ss.) come al fine della realizzazione dell’impianto di termodistruzione la ditta abbia ottenuto l’autorizzazione n. 399/18 del 11/8/98. Questa veniva emanata non in base agli artt. 6 e ss. del d.p.r. 203/88, bensì a norma dell’art. 15, come se si fosse trattato di una modifica sostanziale di un impianto già esistente. La differenza, come precisato dai consulenti del pubblico ministero, sarebbe sostanziale: nel primo caso si partirebbe dal presupposto che l’impianto fosse esistente e, dunque, validato; nel secondo caso l’impianto, invece, dovrebbe essere interamente da verificare. A norma dell’art. 2 n. 10 d.p.r. 203/88 per impianto deve intendersi sia l’intero stabilimento, sia qualunque altro impianto fisso, parte dello stabilimento, che serva per usi industriali o di pubblica utilità. Nel caso in esame l’impianto di termodistruzione, pur costituendo parte integrante dell’intero stabilimento di gestione dei rifiuti, ai fini della disciplina delle emissioni in atmosfera costituiva un nuovo impianto, in quanto componente dotata di propria autonomia strutturale.


    Tali considerazioni, però, nel caso di specie, in relazione alle modalità espressamente contestate, appaiono prive di rilevanza penale. Il provvedimento n. 399/18, infatti, autorizzava la realizzazione del nuovo impianto fonte di emissioni e ciò, ai fini penali, è sufficiente. Infatti l’illecito contestato muove esclusivamente dal presupposto della esistenza o inesistenza dell’autorizzazione, senza che venga attribuito significato alla procedura tecnica di rilascio dell’autorizzazione. Del resto, nel caso in esame, come emerge dal provvedimento autorizzativo, poiché lo stesso è stato rilasciato, contemporaneamente, anche ai fini dell’art. 27 d.lv. 22/97, questo ha presupposto l’esame tecnico dell’intero nuovo impianto realizzato, analisi che, peraltro, sarebbe comunque necessaria anche a norma dell’art. 15 d.p.r. 203/88.


    Ma quand’anche si ritenesse la questione astrattamente rilevante la soluzione non sarebbe destinata a mutare. Infatti si verterebbe in ipotesi di eventuale illegittimità dell’atto autorizzativo che, come tale, non potrebbe essere disapplicato in malam partem, e non potrebbe, pertanto, immediatamente equivalere ad assenza dell’autorizzazione medesima.


    Infatti, a differenza di altre ipotesi incriminatrici (v. p. es. art. 650 c.p.), nel caso in esame non risulta che il requisito della legittimità dell’atto amministrativo sia stato inserito nella struttura della fattispecie, la quale si limita a contemplare l’esistenza dell’atto, a prescindere dai suoi vizi.


    Ne deriva che, quando l’attività sia stata realizzata conformemente ad un titolo autorizzativo, a prescindere dalla legittimità dello stesso, in generale non potranno trovare applicazione le sanzioni di cui all’art. 24 contestato, a meno che non si provi che il provvedimento sia il frutto di attività fraudolenta posta in essere dai beneficiari dello stesso, cosa che, nel caso in esame, comunque, non risulta.


    Gli imputati, pertanto, devono essere assolti dal reato ascritto.


    In realtà, però, altri profili di illecito potrebbero emergere: l’impianto di termodistruzione, infatti, risulta collocato in epoca assai precedente il rilascio dell’autorizzazione del 1998. Invero è in atti, prodotta dalla difesa, copia del verbale della riunione del consiglio di amministrazione della ** del 13/7/99. Nel corso di tale riunione veniva esaminata, tra l’altro, la questione dell’impianto termodistruttivo, che – si legge – sarebbe stato installato nelle ns. aree sin dal 1990 come completamento della stazione di degassificazione, ed in relazione al quale sarebbe stato esistente un contenzioso con la Ansaldo. Si legge in proposito: … poiché si è certi che l’iter autorizzativo regionale si trova allo stato finale e l’impianto continua ad essere essenziale alla stazione di degassificazione anche tecnologicamente, pur necessitando dei dovuti aggiornamenti e manutenzioni straordinarie per il ripristino della sua funzionalità, ritiene opportuno intraprendere trattative per l’acquisizione del forno, purchè a condizioni economiche vantaggiose.


    Può pertanto concludersi che l’impianto cominciò ad essere installato in assenza di autorizzazione, e venne mantenuto in assenza di autorizzazione fino al 1998.


    Per tale condotta, tuttavia, il reato deve ritenersi ormai prescritto, per cui appare superflua la trasmissione di copia degli atti al pubblico ministero. Infatti il reato in questione ha carattere permanente, nel senso che per il caso di costruzione di impianti nuovi in assenza di autorizzazione, il reato sussiste per tutta la permanenza dell’impianto, fino all’eventuale rilascio postumo della prevista autorizzazione (cfr. Cass. 14/1/99, 1918). Ne consegue che, nel caso di specie, il termine di prescrizione ha cominciato a decorrere dall’agosto del 1998, essendo ormai interamente consumato.

    G – Con riferimento all’ipotesi di cui al capo g) è ancora contestata la violazione dell’art. 24 d.P.R. 203/88 in relazione, questa volta, alla emissione nell’atmosfera di sostanze volatili provenienti dal ciclo di trattamento dei rifiuti pericolosi, tossici e nocivi indicati nel capo a) – ed in particolare dai serbatoi, dal separatore TPI, dai flottatori, e dalle nuove sezioni impiantistiche create per procedere al trattamento – in assenza di autorizzazione, a nulla rilevando al riguardo il D.A. 399/18 dell’11/8/98 come modificato dal successivo 320/98 del 27.7.99, il quale autorizzava limitatamente alla termodistruzione di morchie oleose provenienti dall’attività di degassificazione.


    Anche in questo caso si è sopra osservato (v. pagg. 5 e ss.) come la società, ai fini delle emissioni derivanti dall’intero complesso industriale, fosse in possesso solo dell’autorizzazione n. 937/92.


    In proposito i consulenti del pubblico ministero hanno evidenziato come tale autorizzazione fosse rivolta esclusivamente alla centrale termica, cioè ai vecchi impianti termici, non essendo, invece, oggetto di autorizzazione le emissioni diffuse dei serbatoi e delle vasche di trattamento dei reflui liquidi, nonché dei nuovi impianti realizzati successivamente (impianto di termodistruzione, adeguamento impianto trattamento reflui liquidi)


    In effetti appare del tutto evidente come le emissioni in atmosfera derivassero – e certamente in misura niente affatto modesta – da altre parti dell’impianto (ed in particolare dai vari serbatoi, per lo più a cielo aperto e privi di sistema di captazione, o chiusi ma dotati di valvole di sfogo) destinati a raccogliere acque oleose e miscele di prodotti petroliferi durante le varie fasi del trattamento, dalla ricezione fino all’accumulo o allo scarico. E quindi, in generale: i sistemi di trasferimento, stoccaggio, e trattamento, specie quelli di separazione acqua/olio, che complessivamente contribuiscono alla messa in libertà in aria di notevoli quantità di composti organici volatili, tra cui ovviamente la frazione aromatica. Basti pensare, tra l’altro, alla sezione relativa alla flottazione ed a quella a pacchi lamellari dove, come osservato dai consulenti del pubblico ministero, i gas presenti allo stato disciolto nell’acqua di zavorra vengono in parte separati, con la conseguente emissione degli stessi in atmosfera. Tanto più che tali sezioni risultavano, appunto, a cielo aperto e privi di un sistema di raccolta e convogliamento dei gas. Sicchè le lavorazioni eseguite nel cantiere in questione, con trattamento di grandi volumi di rifiuti liquidi a base idrocarburica, implicavano inevitabilmente la messa in libertà di frazioni gassose spesso costituite da una miscela di composti sulfurei inorganici ed organici, idrocarburi metanici leggeri, ammoniaca, aldeidi, ammine leggere, sostanze organiche complesse, così come, del resto, riconosciuto dallo stesso consulente della difesa(16).


    Tale circostanza, in sé, peraltro, ovvia, appare confermata dal fatto che, nel periodo immediatamente precedente i fatti per cui è processo, veniva denunciata la presenza, nella zona, di odori molesti, che, così come descritti, secondo i consulenti del pubblico ministero, coincidevano proprio con quelli normalmente provenienti da comparti petrolchimici e di raffineria, cioè da prodotti analoghi a quelli trattati presso l’impianto in questione; mentre le rilevazioni di alcuni valori indice della qualità dell’aria effettuati, genericamente, nella Zona Falcata da personale della Provincia Regionale di Messina, evidenziavano, complessivamente, i seguenti valori:

  interv. medio Interv. max
PTS : / m3 40-50 80-150
SO2 : / m3 20-40 60-110
CO : / m3 1,0-3,0  3,5-4,5
O3 : / m3 30-40 50-60
BENZENE : / m3   60-90

    Ebbene, a fronte di tali emissioni, non risulta in atti alcun provvedimento autorizzativo. Infatti, dall’esame dell’unica autorizzazione sopra menzionata, appare evidente come la stessa, benché il dispositivo si riferisca genericamente all’impianto di riparazione e costruzione navi e degassificazione realizzato in Messina .., espressamente individua ed autorizza solo alcuni punti di emissione (cioè la centrale termica e l’impianto di produzione acqua calda), mentre nessuna autorizzazione estenda agli altri punti di emissione dell’impianto, i quali, dunque, devono ritenersi non autorizzati.

    Sul punto, contrariamente a quanto sostenuto dal consulente della difesa ing. C., deve ritenersi che a norma degli artt. 6 e ss. d.p.r. 203/88, ognuno di tali singoli punti di emissione dovesse essere oggetto di specifica autorizzazione, nel senso che l’intero stabilimento di gestione dei rifiuti avrebbe dovuto essere autorizzato avuto riguardo ad ogni singolo punto di possibile emissione inquinante. Infatti ai sensi del d.P.R. 203/88 la necessità della preventiva autorizzazione regionale è collegata alla realizzazione ed installazione di qualunque impianto fisso che possa dare luogo ad emissioni inquinanti in atmosfera, dove per impianto deve ritenersi qualunque elemento dello stabilimento, indipendentemente dalle dimensioni, che sia le possibile fonte di emissione (cfr. Cass. III, 30/7/94, 8702; Cass. III, 26/5/98, 6153). Autorizzazione necessaria in quanto volta a verificare la compatibilità delle possibili emissioni con l’ambiente atmosferico e l’esistenza di idonei strumenti atti a contenerle. Nè può sostenersi che tali emissioni non richiedessero la preventiva autorizzazione trattandosi – come affermato dalla difesa – di emissioni diffuse. Infatti, a prescindere dalla circostanza che la categoria delle emissioni diffuse non è prevista dalla normativa vigente, e tanto meno ne è esclusa la sottoposizione ad autorizzazione; è ben chiaro come nel caso di specie non si tratti di emissioni diffuse (ammesso che una simile espressione abbia, dal punto di vista tecnico, un significato !), ma di emissioni provenienti da punti ben specifici ed individuabili dello stabilimento, cioè da tutti quegli impianti o porzione di impianto in cui si verifica una fase del trattamento del rifiuto con conseguenti emissioni di gas. In proposito sopra si è fatto l’esempio del flottatore, fonte certamente primaria di emanazioni, dal momento che in tale impianto i gas disciolti nei rifiuti vengono separati dalla parte liquida e semisolida. Ma analoghe considerazioni possono valere per tutte le altre strutture dello stabilimento, dove si verifica il trattamento, o anche solo lo stoccaggio, dei rifiuti. Punti chiaramente individuabili, rispetto ai quali sarebbe stato necessario provvedere alla canalizzazione delle emissioni e, comunque, alla preventiva autorizzazione delle stesse con le relative verifiche.


    Ed i gestori non potevano non rendersi conto di ciò. Tanto è vero che, come riconosciuto dal consulente della difesa(17), dopo le prime denunce, la ditta pensò di correre ai ripari – anche in questo caso senza richiedere le preventive autorizzazioni – avviando una serie di interventi volti a contenere e controllare le singole fonti di emissioni mediante installazione di filtri e sistemi di captazione. Quest’ultima circostanza, peraltro, fa emergere tutta la contraddittorietà delle considerazioni esposte dal consulente della difesa circa la natura diffusa delle emissioni: se effettivamente si fosse trattato di emissioni diffuse, non si comprenderebbe in quale maniera si potessero installare filtri o sistemi di captazione che, ovviamente, presuppongono l’esistenza di fonti individuate.


    Del pari, poi, vanno considerate prive di autorizzazione tutte le altre porzioni dell’impianto realizzate successivamente al 1992, di cui si è detto sopra, tra queste rientrando, per esempio, la vasca di raccolta MS 117, destinata a ricevere i rifiuti scaricati dalle autocisterne, e dunque anch’essa fonte di emissioni scaturenti all’atto dello sversamento dei liquidi.


    Quanto all’impianto di termodistruzione si è sopra osservato come per lo stesso sia stata emanata un’autorizzazione comprensiva anche delle emissioni in atmosfera con il decreto assessoriale n. 399/18 (v. pagg. 7 e ss.). Tale decreto, tuttavia, riguardava esclusivamente le emissioni derivanti dalla termodistruzione delle morchie oleose, non degli altri rifiuti per i quali, pure, l’impianto venne autorizzato allo smaltimento. Ed infatti nessun rilievo assume in tale sede il successivo decreto 320/18 (v. pagg. 8 e ss.), il quale, infatti, si limita ad estendere la tipologia di rifiuti che possono essere trattati nell’impianto di distruzione, ma non ne autorizza, contestualmente, le conseguenti emissioni in atmosfera, per le quali, sarebbe stata necessaria una nuova valutazione a norma dell’art. 15 d.p.r. 203/88, trattandosi di modifica in grado di determinare variazioni quantitative e qualitative delle emanazioni. Necessità che appare confermata anche dalla disciplina dell’art. 33 c. 7 d.lv. 22/97, norma che esclude il ricorso alla nuova autorizzazione a norma dell’art. 15 d.p.r. 203/88 per le variazioni qualitative e quantitative delle emissioni determinate dai rifiuti solo nel caso in cui venga adottata la procedura semplificata di cui all’art. 33 medesimo, cosa che non risulta effettuata, e comunque possibile, nel caso di specie.

 
    Deve, pertanto, ritenersi sussistente il reato contestato, sebbene lo stesso dovrebbe essere parzialmente riqualificato, per la porzione di impianti esistenti al momento dell’entrata in vigore del d.p.r. 203/88, come violazione dell’art. 25 c. 5 d.p.r. 203/88. Invero in base alla domanda di autorizzazione ed alle risultanze istruttorie porzione dell’impianto sarebbe preesistente al luglio 1988, data di entrata in vigore del d.p.r. 203/88, sicchè la domanda di autorizzazione presentata in data 30/6/89 deve intendersi come domanda ai sensi dell’art. 12 d.p.r. 203/88. Poiché a fronte di tale domanda la regione ha autorizzato, come sopra osservato, solo alcune delle emissioni derivanti dalle strutture dell’impianto, quanto alle altre strutture già esistenti l’illecito attribuibile agli imputati è quello di cui all’art. 25 c. 5, consistente nell’avere proseguito nell’esercizio dello stabilimento pure dopo che l’autorizzazione non era stata concessa; mentre per gli impianti realizzati successivamente a tale data il reato è quello di cui all’art. 24 comma 1, consistente nell’avere realizzato il nuovo impianto in assenza di autorizzazione o, quanto meno, ove si ritenga trattarsi di impianto esistente mediante integrazione dello stesso con nuovi elementi, quello di cui all’art. 25 comma 6 (nel testo conseguente all’intervento della corte Costituzionale del 13/4/1992), consistente nell’avere eseguito la modifica dell’impianto senza la preventiva autorizzazione di cui all’art. 15.


    Va poi osservato che il reato di cui all’art. 24, così come quello di cui all’art. 25, sono finalizzati alla tutela della qualità dell’aria. Rispetto a tale obiettivo l’autorizzazione costituisce lo strumento indispensabile, in quanto consente il controllo preventivo sugli impianti inquinanti onde verificare la tollerabilità delle emissioni e l’adozione di appropriate misure di prevenzione. Ne consegue che l’illecito di cui all’art. 24, che si realizza con l’inizio della costruzione dell’impianto, e quello di cui all’art. 25, permangono fino al momento in cui l’autorizzazione venga rilasciata, indipendentemente dal fatto che l’impianto sia stato completato ed eventualmente anche attivato (cfr. Cass. III, 21/12/94, 12710), assorbendosi, in tale ultimo caso, il reato di cui all’art. 24 c. 2. Quest’ultima contravvenzione, infatti, concerne l’omessa comunicazione della messa in esercizio dell’impianto e presuppone, evidentemente, che l’impianto sia stato preventivamente autorizzato, dal momento che non avrebbe senso avvisare della messa in esercizio di un impianto abusivo. Ove, pertanto, l’impianto sia abusivo, sull’illecito meno grave, prevarrà l’ipotesi di cui al comma uno.


    Trattasi, dunque, di reati permanenti, la cui sussistenza persiste per tutta la durata dell’impianto, e fino a quando non venga presentata, anche fuori termine, la domanda di autorizzazione per le emissioni, ciò in quanto l’esercizio dell’impianto richiede sempre un controllo preventivo (cfr. Cass. III, 24/9/94, 1861; Cass. III, 25/7/95, 8324), con la conseguenza che, nel caso di specie, il termine prescrizionale avrebbe decorrenza non dalla data dell’attivazione dei singoli impianti di cui è composto lo stabilimento, ma dal momento in cui, con il sequestro penale, è cessata ogni possibilità di esercizio dello stabilimento medesimo.

    Esaurite le considerazioni in ordine alla sussistenza dei singoli illeciti contestati occorre soffermarsi, infine, sulla concreta attribuibilità della condotta agli imputati. In proposito dalla documentazione in atti prodotta dalla difesa, ed in particolare dallo statuto, risulta la costituzione della s.p.a. ** – Cantieri Navali con sede in Messina, avente ad oggetto, tra l’altro, stazione di degassificazione per navi petroliere, impianti ecologici, di depurazione e smaltimento residui. La stessa, a norma degli artt. 18 e ss. dello Statuto, è amministrata da un consiglio di amministrazione investito dei più ampi poteri per la gestione ordinaria e straordinaria della società, senza eccezioni di sorta. Nell’ambito di tale consiglio, a norma dell’art. 23, la rappresentanza della società, in giudizio e negoziale, spetta al presidente, mentre lo stesso consiglio, a norma dell’art. 2381 c.c., può delegare tutti o parte dei suoi poteri a uno o più dei suoi membri, oltre a nominare eventuali direttori generali.


    Quindi, a seguito di assemblea ordinaria del 29/6/1999, il consiglio di amministrazione veniva composto da: L. L., cui veniva anche attribuita la carica di Presidente; D. A.; S. M.; L. V.. In pari data si riuniva il consiglio di amministrazione che confermava in capo al L. la carica di Presidente con poteri di rappresentanza legale. Veniva, quindi, conferita la carica di amministratore delegato con poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione di cui all’art. 23 dello Statuto a D. A., mentre a S. M. veniva conferita la carica di direttore tecnico dei cantieri della società; ed a L. V. l’incarico di rappresentanza della società nei confronti di terzi, tra l’altro per l’acquisizione di commesse di lavoro.


    Infine, in data 13/7/1999 il Consiglio di Amministrazione provvedeva alla nomina dei responsabili del servizio di prevenzione e protezione ai sensi del decreto legislativo n. 626/94 per i Cantieri Navali e per la piattaforma ambientale (stazione di degassificazione e impianto termodistruttivo). In tal senso nominava, per il cantiere di riparazione e cantiere di costruzione di Messina l’ing. M. S.; mentre per la piattaforma ambientale a Messina il dr. M. C..


    Quanto a quest’ultima statuizione del Consiglio di amministrazione deve subito evidenziarsi la irrilevanza della stessa ai fini del presente procedimento. Infatti l’attribuzione di competenze risulterebbe effettuata ai soli fini del d.lv. 626/94, che, come noto, si occupa della sicurezza sui luoghi di lavoro. L’attribuzione di responsabilità in tal senso, dunque, è esclusivamente funzionale all’attuazione dei piani di sicurezza e, quindi, all’applicazione della normativa antinfortunistica, senza che tali competenze incidano, di per sé, sui poteri gestionali della società e dell’impresa. Del resto nulla di diverso è specificato nella delibera, non risultando in alcun modo che, con l’attribuzione delle competenze in materia di sicurezza, siano state attribuite anche quelle in materia di organizzazione, gestione e funzionamento dei singoli impianti, attività necessariamente diverse da quelle di controllo sull’attuazione della normativa antinfortunistica. Deve desumersi, dunque, in assenza di altri documenti, che le competenze gestionali al tempo dell’accertamento fossero quelle risultanti dalle delibere del 29/6/1999. In virtù di tali delibere risulta che il L., al tempo del fatto, aveva la carica di presidente del Consiglio di Amministrazione. Benchè i poteri del consiglio fossero stati delegati ad un amministratore, in persona di D. A. – stranamente estraneo a questo processo – è evidente come il Consiglio di Amministrazione, e quindi il suo Presidente, conservassero i poteri di controllo e di direzione, con la possibilità di intervenire in qualunque momento sull’operato dell’amministratore. Tanto più che il presidente conservava, altresì, i poteri di rappresentanza.


    Quanto a S. M., lo stesso, oltre alla carica di componente del Consiglio di amministrazione, rivestiva anche quella di direttore tecnico dei cantieri della società. In proposito, come si evince dallo statuto, il consiglio di amministrazione poteva nominare uno o più direttori generali. Nel caso di specie l’unico direttore nominato risulterebbe il S.. Allo stesso, del resto, viene attribuita la competenza generale in ordine ai cantieri della società, senza alcuna specifica distinzione, in particolare senza distinzione tra cantieri navali e altri cantieri destinati alla degassificazione o, più in generale, allo smaltimento dei rifiuti. Sempre questo, ancora, si qualifica direttore tecnico dell’impianto nella nota del 3/12/99 (v. d.ass. 39/18 del 29/3/2000 di cui a pag. 10) allegata all’istanza del 17/11/99 (nella quale, peraltro, veniva anche indicato come tale) e successive integrazioni, inoltrata dalla ** e volta ad ottenere l’autorizzazione all’attività di trattamento e recupero di rifiuti speciali e pericolosi. Deve ritenersi, pertanto, che le competenze di quest’ultimo, sia come consigliere di amministrazione che come direttore tecnico, investissero tutte le attività della **, ivi comprese quelle inerenti lo smaltimento dei rifiuti. Né può assumere rilevanza, ai fini del presente processo, che in data 3/10/2000, successivamente all’accertamento della Guardia di Finanza, in occasione di un sopralluogo effettuato da personale della Provincia Regionale e di un prelievo eseguito da personale del Lip, fosse presente il dott. M. C., asseritamente qualificatosi, nell’occasione, responsabile dell’impianto. Infatti, per un verso, detta circostanza potrebbe rilevare esclusivamente per i fatti successivi al 3/10/2000; per altro verso, e soprattutto, tale qualifica non ha alcun supporto formale, dal momento che l’unico atto di delega formalmente esistente è – secondo quanto in atti – quello con il quale l’incarico viene conferito al S.. Sicchè l’espressione informalmente utilizzata nei verbali di accesso in questione non può, in alcun modo, essere sufficiente ad escludere la responsabilità del predetto S., ma, al più, ad estendere tale responsabilità al C.. Il quale, peraltro, a prescindere dalla qualifica effettivamente assunta all’interno della società, ha avuto certamente un ruolo attivo nella gestione dell’impianto, come risulta: dalle dichiarazioni del dott. P., al quale il C. si sarebbe sempre presentato come consulente della società; dalla presenza dello stesso al momento dei sopralluoghi; dal conferimento a quest’ultimo dell’incarico di responsabile per la sicurezza, come risulta dal verbale del consiglio di amministrazione di cui si è detto sopra.


    Tanto posto occorre enucleare, in generale, nell’ambito dei reati d’impresa, le condizioni dalle quali discende la responsabilità individuale. Operazione che incontra difficoltà in ragione del fatto che il diritto penale tradizionale si fonda sull’esecuzione monosoggettiva e, quindi, sull’autore individuale, trovandosi, così, a disagio nella considerazione di fatti penalmente rilevanti commessi all’interno di una organizzazione aziendale, sia che essa faccia capo ad un’impresa individuale, sia che essa si riferisca ad un’impresa gestita in forma societaria. Ci si trova, cioè, a dover conciliare il principio della responsabilità penale personale – inderogabile e costituzionalmente garantito – con quel processo storico di sempre più marcata spersonalizzazione che contrassegna la fase gestionale della maggior parte delle imprese, nelle quali ad una titolarità formale del potere si accompagna una sempre più diffusa ripartizione dei compiti e delle funzioni.


    La risoluzione della questione deve procedere in base al principio fondamentale della responsabilità per fatto proprio, in virtù del quale ciascuno può essere chiamato a rispondere solo in ragione delle proprie condotte – commissive od omissive – coscienti e volontarie; per cui il peso della sanzione penale deve essere sopportato solo dall’effettivo titolare di quel potere il cui non corretto svolgimento è alla fonte dell’illecito penale.


    In tale ottica deve ritenersi che l’attribuzione della delega di funzioni da parte dell’organo formalmente investito dei compiti di amministrazione e rappresentanza, e dunque in posizione apicale, al soggetto in posizione di dipendenza o subordinazione, pur spostando le mansioni proprie della qualifica personale, non determina l’esclusione di ogni responsabilità in capo al delegante, comportando solo un mutamento del contenuto dell’impegno richiesto a quest’ultimo, garante primario per legge, che si trasforma in obbligo di vigilanza e di garanzia.


    Infatti il titolare primario degli obblighi e delle responsabilità ed il diretto destinatario della norma penale, devono sempre essere individuati nel soggetto cui, per legge e per la natura e organizzazione dell’impresa, obblighi e responsabilità sono riferibili (cfr. Cass. VI, 16712/1975; Cass. IV, 10/11/1978; Cass. IV, 11/12/86).


    In tal senso la delega al sottoposto costituisce solo una modalità di adempimento degli obblighi gravanti su tale soggetto. Ne consegue che, se da un lato con l’atto di delega si creano nuovi soggetti tenuti ad adempiere in forza dell’atto di preposizione; dall’altro il garante primario non può sottrarsi da ogni attesa dell’ordinamento, assumendo comunque il dovere di controllo e vigilanza sul corretto esercizio del potere delegato, con conseguente frazionamento della posizione di garanzia.


    Del resto la sussistenza di una posizione di garanzia, in generale, in capo agli amministratori di società, può desumersi anche dal disposto del comma 2 dell’art. 2392 cod. civ., ai sensi del quale: “in ogni caso gli amministratori sono direttamente responsabili se non hanno vigilato sul generale andamento della gestione o se, essendo a conoscenza di atti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose”.


    Parimenti, nell’impresa in generale, è previsto, per esempio, dall’art. 2086 c.c., che “l’imprenditore è il capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori”.


    Sicchè, anche in base a tali discipline, può affermarsi l’esistenza in capo agli amministratori e, più in generale, agli imprenditori, di un obbligo di vigilare ed intervenire affinchè non vengano compiuti atti pregiudizievoli (cfr. Cass. V, 26/6/90; Cass. V, 12/2/92; Cass. V, 7/7/92).


    Ne discende, dunque, una posizione di garanzia, in virtù della quale il soggetto in posizione apicale continua a rispondere degli eventuali reati commessi dal delegato nella misura in cui, non intervenendo, ne abbia consentito o agevolato la verificazione (cfr. Cass. V, 28/6/93; Cass. V, 20/10/94).


    Ciò, tuttavia, non dà propriamente luogo ad una ipotesi atipica di concorso nel reato mediante omissione, in base alla disciplina di cui all’art. 40 cpv. c.p. (secondo la quale non impedire un evento che si aveva l’obbligo di impedire equivale a cagionarlo); bensì si concreta in una ipotesi di concorso di persone nel reato fondata sulla generale disciplina di cui all’art. 110 c.p., in virtù della quale risponde del reato chiunque abbia fornito un qualunque contributo causale.


    Non sfugge, infatti, come nel caso in esame – a differenza, per esempio, della condotta dell’agente di polizia giudiziaria che non abbia impedito, pur potendolo, la commissione di un reato (ipotesi pur ammessa in giurisprudenza: v. Cass. 5/2/91, 4820; Cass. 6/12/91, 1506) – il potere del delegato di commettere il reato, nell’ambito dell’organizzazione aziendale, non è originario, ma derivato. Esso discende esclusivamente dal consenso, espresso o tacito, del soggetto in posizione apicale. In assenza di quest’ultimo, ovviamente, il delegato non avrebbe avuto alcun potere e non avrebbe potuto commettere alcun reato. Si può dunque affermare che la condotta omissiva concorrente del delegante si innesta su una precedente condotta positiva – il conferimento espresso o tacito della delega o del potere di amministrare – che concorre in maniera determinate alla causazione dell’ipotizzato reato.


    È, dunque, proprio il conferimento di tale delega che, in quanto pone altre persone nelle condizioni di esercitare un potere e, dunque, di commettere degli illeciti, si pone come condizione dell’assunzione di un dovere di controllo sull’operato dei delegati, nonchè di responsabilità per la condotta posta in essere da questi ultimi, effettivi esercenti il potere, nel caso di inadeguata vigilanza o di mancato apprestamento dei mezzi necessari all’esercizio della delega.


    A fronte, poi, della responsabilità del delegante, si pone quella del delegato, il quale, in virtù dell’atto di delega e del trasferimento di competenze e poteri, e, quindi, della effettiva titolarità di quei poteri/doveri che sono normalmente propri dell’individuo munito della qualifica extrapenalistica, deve ritenersi diretto destinatario del precetto, alla stregua del delegante, anche in caso di reato proprio (cfr. Cass. V, 11/10/94; Cass. V, 10/7/84; Cass. V, 23/2/83).


    Peraltro, pur nel caso in cui si ritenesse l’impossibilità del trasferimento degli obblighi di garanzia in attuazione della delega, quanto meno con riferimento ai reati propri, ugualmente sarebbe configurabile la responsabilità del delegato, in qualità di extraneus, a titolo di concorso con l’intraneus, cioè con il delegante. Ciò in quanto, sebbene l’obbligo giuridico di impedire l’evento incomba sul soggetto qualificato, il delegato violerebbe, comunque, l’obbligo contrattuale assunto nei confronti del delegante, contribuendo, con la propria inattività, a realizzare l’omissione penalmente rilevante.


    Quanto all’elemento psicologico occorre osservare come la differenza concettuale tra azione ed omissione si riflette anche sull’elemento volitivo del dolo il quale, mentre nelle condotte commissive si caratterizza per una sorta di impulso del volere, cioè da una decisione di agire; in quelle omissive è sufficientemente integrato dalla sola conoscenza da parte dell’agente della “situazione tipica” (intesa come il complesso dei presupposti di fatto che danno vita ad una situazione di pericolo per il bene da proteggere e che, pertanto, rendono attuale l’obbligo di attivarsi del garante) e della propria capacità di intervenire.


    Sicchè, con riferimento al soggetto in posizione apicale che abbia esercitato il potere di delega, la sua responsabilità sarà configurabile a titolo di dolo, in ragione delle condotte illecite del delegato, per la semplice consapevolezza della esistenza di tali condotte, ancorchè nel loro complesso, senza che sia necessaria un ulteriore partecipazione all’attività criminosa, ed indipendentemente dal fatto che la consapevolezza investa i singoli episodi delittuosi o i dettagli di questi ultimi, sussistendo pure nella forma del dolo eventuale, in termini di accettazione del rischio che tali eventi si verifichino (cfr. Cass. V, 10/10/94; Cass. V, 25/3/97).


    In definitiva può ritenersi che l’unica soluzione costituzionalmente orientata e legittima – nel senso di non cadere in ipotesi di responsabilità oggettiva, di posizione – è quella che si fonda sulla effettività della situazione, ricercando, cioè, tra i soggetti coinvolti, il potere di agire ed influire sull’evento specifico, ed insieme la consapevolezza della condotta illecita, che può atteggiarsi in maniera diversa a seconda che si verta in caso di reati dolosi o colposi.


    In tale contesto, pertanto, deve ritenersi:

 

    che tutte le volte che venga rappresentato un reato proprio, l’agente del reato debba essere individuato non necessariamente in colui che riveste la qualifica formale, ma in colui che di fatto abbia, realmente, i poteri connessi a quella qualificazione.


    che il delegante possa concorrere con il delegato, conservando comunque la propria posizione di garanzia ed essendo, dunque, obbligato, quanto meno, a vigilare sulla condotta del delegato, sempre che venga dimostrata la sussistenza del dolo – inteso in termini di consapevolezza – o, nei reati colposi, della colpa – intesa in termini anche di mera negligenza nell’esercizio del controllo.


    In base alle superiori considerazioni, dunque, deve ritenersi che nel caso concreto entrambi gli imputati debbano rispondere dei reati loro ascritti, con la sola eccezione, come sopra specificato, di quelli di cui ai capi b) ed f), come sopra specificato.


    Emerge, infatti, inequivocabilmente come le condotte esaminate siano del tutto riconducibili a strategie aziendali ed alla gestione, organizzazione e costituzione dell’intero stabilimento, condotte che, dunque, investono attività preminenti, e non marginali, della compagine sociale. In tal senso si collocano sia l’intera realizzazione dell’impianto di smaltimento rifiuti in tutte le sue articolazioni e le conseguenti modifiche, sia le modalità di gestione dello stesso e le tipologie di rifiuti trattati. Quanto al primo profilo appare chiaro come l’attività di smaltimento sia una delle due attività fondamentali della società (l’altra è quella navale). È ovvio, pertanto, che la realizzazione e la struttura dell’impianto faccia capo (anche) al consiglio di amministrazione. Del resto di ciò si trae conferma dal verbale del consiglio di amministrazione del 13/7/1999, di cui sopra si è detto (v. pag. 40), dal quale si evince con chiarezza come la sistemazione e le strategie dell’impianto di smaltimento fossero, se non deliberate, quanto meno condivise dal consiglio di amministrazione, tanto più che le relative richieste di autorizzazione (p. es. quella relativa allo scarico in mare dei reflui) venivano firmate dallo stesso L.. Delle relative condotte, dunque, risponde il L. in qualità di Presidente e componente del consiglio di amministrazione, sia in termini commissivi – per le statuizioni a tale consiglio riconducibili – sia in termini omissivi, cioè per l’omesso intervento in presenza di condotte illecite poste in essere da altri organi sociali (amministratore e direttore tecnico). Lo stesso L., del resto, appare presente con ruoli preminenti in tutto l’arco di vita dell’impianto, basti pensare che proprio questi, unitamente a tale R. C., riceve in affidamento l’impianto, per conto della **, nel lontano 15/11/1983.


    Analoghe considerazioni valgono per le strategie di gestione dell’impianto, ed in particolare in relazione alle tipologie di rifiuti accolte ed alle modalità di smaltimento. Si è detto sopra come lo sversamento in mare di rifiuti (probabilmente fanghi residui dall’attività di smaltimento o, quanto meno, reflui non adeguatamente trattati) non possa essere considerata condotta accidentale (che comunque sarebbe penalmente rilevante) ed occasionale, ma al contrario come la stessa corrisponda ad una strategia aziendale. Circostanza che, si ribadisce, trova conferma nella maliziosa attivazione dell’impianto antincendio in occasione dello sversamento in mare, condotta inequivocabilmente volta a diluire gli effluvi e ad agevolarne la dispersione.


    Si può, pertanto, concludere che per tali condotte – peraltro di gravità estrema – la responsabilità non possa essere limitata al solo direttore tecnico – diretto responsabile del cantiere – ma debba essere estesa, quanto meno in termini di colposa omissione, ai vertici dell’azienda, e quindi al consiglio di amministrazione e, per esso, al suo presidente.


    Gli imputati devono, pertanto, essere riconosciuti colpevoli dei reati ascritti, con le limitazioni e precisazioni sopra formulate.
   

    omissis

M A S S I M E

 

Sentenza per esteso

 

1) Rifiuti - Nozione di rifiuto - Residuo di processo industriale - Recuperabilità o riutilizzabilità - Residui del trattamento dei rifiuti - Produzione di energia - Condizioni e limiti - Deposito o stoccaggio - Preventiva autorizzazione - Necessità - D. L.vo. 22/97 - Fattispecie: acque oleose provenienti da residui del trattamento di rifiuti. Qualunque residuo di processo industriale costituisce rifiuto ai sensi del d.lv. 22/97, come emblematicamente precisato dal punto Q8 dell’allegato A al medesimo decreto, a nulla rilevando la eventuale recuperabilità o riutilizzabilità - a meno che questa non avvenga nel medesimo ciclo produttivo - costituendo le operazioni di recupero niente altro che una forma di gestione del rifiuto stesso, come chiaramente indicato all’art. 6 lett. d) e nell’allegato C del decreto, che, tra l’altro, al punto R1 espressamente indica come una delle possibili operazioni di recupero la utilizzazione principale come combustibile o come altro mezzo per produrre energia. Ne consegue che l’eventuale possibilità di impiegare i residui del trattamento dei rifiuti in questione come fonte di energia, non toglie che gli stessi restino dei rifiuti il cui deposito o stoccaggio è soggetto a particolari discipline e deve essere preventivamente autorizzato. Nella specie, è infondata la tesi secondo la quale il trattamento delle acque oleose avrebbe come prodotto finale non dei rifiuti, ma dei semilavorati di origine petrolifera, in quanto si tratterebbe di morchie ed idrocarburi, aventi apprezzabile contenuto energetico e valore di mercato e, pertanto, riutilizzabili mediante incenerimento e recupero del loro contenuto energetico. In questi casi, infatti, non si tratta di residui della lavorazione di un prodotto, ma di residui del trattamento di rifiuti: dunque essi stessi rifiuti per antonomasia. - Giudice De Marco. Tribunale di Messina Giudice monocratico sezione II - sentenza del 16/12/2003 (vedi: sentenza per esteso)

2) Rifiuti - Autorizzazioni rilasciate sotto la vigenza del d.p.r. 915/82 - Disciplina di transizione al D. L.vo n. 22/97 - Inquadramento della eliminata voce rifiuti tossici e nocivi nella nuova disciplina - Rifiuti pericolosi. In tema di rifiuti, in base al disposto dell’art. 57 d.lv. 22/97, tutte le autorizzazioni rilasciate sotto la vigenza del d.p.r. 915/82 restano valide fino alla loro scadenza, ma non oltre quattro anni dall’entrata in vigore della nuova normativa, salvo l’aggiornamento da apportare a cura delle Regioni. Con tale disposto, la nuova normativa deve trovare attuazione per tutte le vicende inerenti la gestione dei rifiuti successive al 3/3/97, con la sola eccezione delle autorizzazioni già in essere. Con la conseguenza che la realizzazione di nuovi impianti o la modifica di quelli esistenti viene ad essere regolata dal d.lv. 22/97. Peraltro, sempre l’art. 57 stabilisce che tutte le norme regolamentari e tecniche già in essere, continuano a restare in vigore anche con la nuova disciplina, sino all’adozione delle nuove normative. Ai fini dell’applicazione delle vecchie disposizioni, tuttavia, essendo stata eliminata la voce rifiuti tossici e nocivi, ogni riferimento a questi ultimi si deve intendere effettuato ai rifiuti pericolosi. Tali rifiuti, in particolare, a norma dell’art. 7 c. 4, sono quelli precisati negli elenchi di cui agli allegati D, G, H, ed I. Giudice De Marco. TRIBUNALE DI MESSINA Giudice monocratico sezione II - sentenza del 16/12/2003

3) Rifiuti - Modifica dell’impianto sia nella struttura che nella destinazione - Autorizzazione regionale - Modifica delle procedure di trattamento dei rifiuti conseguente alla diversa tipologia di rifiuti trattati - Varianti sostanziali in corso di esercizio - Conformità all’autorizzazione rilasciata - Necessità. A norma dell’art. 27 Decreto Legislativo n. 22/97, l’autorizzazione regionale, deve essere richiesta sia per la realizzazione di ogni nuovo impianto di smaltimento o di recupero di rifiuti, sia per la realizzazione di varianti sostanziali in corso di esercizio, che comportano modifiche a seguito delle quali gli impianti non sono più conformi all’autorizzazione rilasciata. Pertanto, non ogni modifica costituisce nuovo impianto, ma solo le varianti di carattere sostanziale che rendono l’impianto stesso non più conforme all’autorizzazione rilasciata. Restando esenti da nuova autorizzazione solo quelle variazioni del processo tecnologico di trattamento dei rifiuti che non modifichino le capacità dell’impianto con riferimento alla quantità e tipologia generale dei rifiuti. Una nuova autorizzazione e, invece, necessaria ogniqualvolta vengano posti in essere interventi di ristrutturazione che implichino: l’introduzione di una diversa fase di gestione, o di una diversa tipologia di rifiuti da trattare, o, infine, di una diversa procedura di trattamento dei rifiuti medesimi (cfr. C. Stato IV, 6/11/98, 1440). Giudice De Marco. TRIBUNALE DI MESSINA Giudice monocratico sezione II - sentenza del 16/12/2003

4) Rifiuti - Gestione rifiuti - Procedure di trattamento dei rifiuti - Modifiche funzionali e strutturali apportate all’impianto - Preventive autorizzazioni - Necessità - Idoneità tecnica e compatibilità ambientale - Assimilabilità a rifiuti urbani - Art. 21 c. 2 lett. g) D. L.vo n. 22/97. La circostanza che le procedure di trattamento dei rifiuti possano avere degli elementi in comune, non esclude che le modifiche funzionali e strutturali apportate all’impianto debbano essere preventivamente validate ed autorizzate dalle autorità competenti al fine di verificarne l’idoneità tecnica e la compatibilità ambientale. Tanto più che l’unica circostanza in cui, in materia di rifiuti, assume rilevanza il concetto di assimilabilità, è quella relativa ai rifiuti espressamente classificati come assimilabili a quelli urbani, i quali, a norma dell’art. 21 c. 2 lett. g) d.lv. 22/97, possono essere gestiti come rifiuti urbani. Giudice De Marco. TRIBUNALE DI MESSINA Giudice monocratico sezione II - sentenza del 16/12/2003


5) Inquinamento Atmosferico - Emissioni inquinanti in atmosfera - Impianto - Definizione - Assenza di autorizzazione - Reato permanente - Fattispecie: impianto di termodistruzione di uno stabilimento dotato di propria autonomia strutturale - Artt. 2 n. 10 e 24 D.P.R. n. 203/88. In materia di qualità dell'aria, a norma dell’art. 2 n. 10 d.p.r. 203/88 per impianto deve intendersi sia l’intero stabilimento, sia qualunque altro impianto fisso, parte dello stabilimento, che serva per usi industriali o di pubblica utilità. Nel caso in specie l’impianto di termodistruzione, pur costituendo parte integrante dell’intero stabilimento di gestione dei rifiuti, ai fini della disciplina delle emissioni in atmosfera costituiva un nuovo impianto, in quanto componente dotata di propria autonomia strutturale. Infine, il reato previsto di cui all’art. 24 D.P.R. n. 203/88, per cui appare superflua la trasmissione di copia degli atti al pubblico ministero. Infatti il reato in questione ha carattere permanente, nel senso che per il caso di costruzione di impianti nuovi in assenza di autorizzazione, il reato sussiste per tutta la permanenza dell’impianto, fino all’eventuale rilascio postumo della prevista autorizzazione (cfr. Cass. 14/1/99, 1918). Giudice De Marco. TRIBUNALE DI MESSINA Giudice monocratico sezione II - sentenza del 16/12/2003

6) Inquinamento Atmosferico - Emissioni inquinanti in atmosfera - Preventiva autorizzazione regionale - Necessità - Indipendentemente dalle dimensioni dell’impianto e dalle possibile fonte di emissione. Ai sensi del d.P.R. 203/88 la necessità della preventiva autorizzazione regionale è collegata alla realizzazione ed installazione di qualunque impianto fisso che possa dare luogo ad emissioni inquinanti in atmosfera, dove per impianto deve ritenersi qualunque elemento dello stabilimento, indipendentemente dalle dimensioni, che sia le possibile fonte di emissione (cfr. Cass. III, 30/7/94, 8702; Cass. III, 26/5/98, 6153). Giudice De Marco. TRIBUNALE DI MESSINA Giudice monocratico sezione II - sentenza del 16/12/2003

7) Inquinamento Atmosferico - Tutela della qualità dell’aria - Assenza dell’autorizzazione - Artt. 24 e 25 D.P.R. n. 203/88 - Effetti. Il reato di cui all’art. 24, così come quello di cui all’art. 25, del D.P.R. 203/88 sono finalizzati alla tutela della qualità dell’aria. Rispetto a tale obiettivo l’autorizzazione costituisce lo strumento indispensabile, in quanto consente il controllo preventivo sugli impianti inquinanti onde verificare la tollerabilità delle emissioni e l’adozione di appropriate misure di prevenzione. Ne consegue che l’illecito di cui all’art. 24, che si realizza con l’inizio della costruzione dell’impianto, e quello di cui all’art. 25, permangono fino al momento in cui l’autorizzazione venga rilasciata, indipendentemente dal fatto che l’impianto sia stato completato ed eventualmente anche attivato (cfr. Cass. III, 21/12/94, 12710), assorbendosi, in tale ultimo caso, il reato di cui all’art. 24 c. 2. Quest’ultima contravvenzione, infatti, concerne l’omessa comunicazione della messa in esercizio dell’impianto e presuppone, evidentemente, che l’impianto sia stato preventivamente autorizzato, dal momento che non avrebbe senso avvisare della messa in esercizio di un impianto abusivo. Ove, pertanto, l’impianto sia abusivo, sull’illecito meno grave, prevarrà l’ipotesi di cui al comma uno. Trattasi, di reati permanenti, la cui sussistenza persiste per tutta la durata dell’impianto, e fino a quando non venga presentata, anche fuori termine, la domanda di autorizzazione per le emissioni, ciò in quanto l’esercizio dell’impianto richiede sempre un controllo preventivo (cfr. Cass. III, 24/9/94, 1861; Cass. III, 25/7/95, 8324). Giudice De Marco. TRIBUNALE DI MESSINA Giudice monocratico sezione II - sentenza del 16/12/2003

8) Inquinamento idrico - Immissioni dirette nelle acque superficiali - Scarico in mare - Autorizzazione - Necessità - Presupposti - Competenza - D. L.vo n.152/99 - L.R. Sicilia Art. 40 della l. r. 27/86. Il Decreto Legislativo n. 152/99 si limita a disciplinare esclusivamente gli scarichi diretti, cioè le immissioni dirette nelle acque superficiali, e quindi, tra l’altro, gli scarichi nel mare. Tale disciplina all’art. 45 dispone che, tutti gli scarichi devono essere preventivamente autorizzati, e, a norma dell’art. 46, la richiesta di autorizzazione deve essere accompagnata dalle caratteristiche dello scarico. La competenza in ordine al rilascio delle autorizzazioni, secondo quanto disposto dall’art. 45, è disciplinata dalla Regione che, nel caso della Sicilia, già prima dell’entrata in vigore della normativa in questione, l’aveva attribuita ai Comuni in virtù dell’art. 40 della l. r. 27/86, non modificato successivamente all’entrata in vigore della nuova disciplina nazionale. In specie, per il completamento delle proprie attività di smaltimento, l’impianto, prevedeva lo scarico in mare delle acque reflue delle operazioni di trattamento, adeguatamente purificate, tuttavia, in violazione della necessaria specifica autorizzazione allo scarico diretta alla valutazione della tipologia di impianto, della natura dei rifiuti trattati e delle procedure di trattamento. De Marco. TRIBUNALE DI MESSINA Giudice monocratico, sezione II - sentenza del 16/12/2003

9) Inquinamento idrico - Nuova autorizzazione allo scarico - Presupposti - Art. 45 D. L.vo n.152/99. In tema d’inquinamento idrico l’autorizzazione allo scarico implica necessariamente la valutazione della tipologia di impianto, della natura dei rifiuti trattati e delle procedure di trattamento. Con la conseguenza che la modifica di uno di tali elementi richiede necessariamente una nuova autorizzazione. De Marco. TRIBUNALE DI MESSINA Giudice monocratico sezione II - sentenza del 16/12/2003

10) Inquinamento idrico - Disciplina degli scarichi - Prelievo e campionamento delle acque reflue - Attività a sorpresa - Procedimento - Art. 50 d.lv. 152/99 - Art. 223 disp. att. c.p.p. - Art. 360 c.p.p.. In tema di disciplina degli scarichi il prelievo ed il campionamento delle acque reflue configurano attività amministrativa che non richiede l’osservanza delle norme del codice di procedura penale stabilite a garanzia degli indagati e degli imputati per le attività di polizia giudiziaria, atteso che l’unica garanzia richiesta per le anzidette attività ispettive è quella prevista dall'art. 223 disp. att. cod. proc. pen. che impone il preavviso all’interessato del giorno, dell’ora e del luogo dove si svolgeranno le analisi dei campioni, onere che deve ritenersi ottemperato nella misura in cui, nel caso di specie, le analisi sono state effettuate con le procedure di cui all’art. 360 c.p.p. (cfr. Cass. III, 29/1/2003, 15170). L’esecuzione delle attività di prelievo, devono necessariamente costituire attività a sorpresa, assimilabile alle ispezioni, condizione necessaria per garantire la genuinità dell’accertamento, e come tali disciplinate e consentite in via generale dall’art. 50 d.lv. 152/99, e, comunque, dagli artt. 348 e ss. c.p.p. (cfr. Cass. III, 1/7/87, 7999; Cass. III, 15/11/84, 10041). Giudice De Marco. TRIBUNALE DI MESSINA Giudice monocratico sezione II - sentenza del 16/12/2003


11) Inquinamento idrico - Prelievo effettuato nell’immediatezza di una immissione - Nullità o inutilizzabilità - Esclusione - Fondamento. I risultati di un prelievo effettuato nell’immediatezza di una immissione (in flagranza) che, non consenta l’apprestamento degli specifici strumenti con la conseguenza di eventuali inosservanze delle modalità e metodiche di prelievo dei campioni non possono determinare alcuna nullità o inutilizzabilità delle operazioni compiute e degli atti conseguenti, (cfr. Cass. III, 24/5/99, 6416; Cass. III, 16/2/2000, 1773), e assumono ugualmente il rilievo di elementi di prova liberamente valutabili dal giudice, sicchè tali violazioni costituiscono esclusivamente elemento di valutazione dell’attendibilità del risultato (cfr. Cass. III, 24/5/99, 6416). Giudice De Marco. TRIBUNALE DI MESSINA Giudice monocratico sezione II - sentenza del 16/12/2003

12) Inquinamento idrico - Scarico e immissione occasionale - Differenza - Superamento dei limiti tabellari - Fattispecie: scarico in mare dei reflui - Art. 59 d.lg. n. 152/1999. In materia di inquinamento idrico, si distingue lo scarico dall’immissione occasionale per il fatto che il primo ha carattere di continuità e stabilità (Cass. III, 14/6/2002, 29651), mentre l’immissione occasionale è costituita da uno sversamento occasionale ed eccezionale realizzato, pertanto, al di fuori di un sistema di scarico. Può pertanto, concludersi che il superamento dei limiti tabellari resta sanzionato a norma dell’art. 59 d.lg. n. 152 del 1999, quando venga realizzato nell’ambito di uno scarico, caratterizzato, dalla permanenza e stabilità, mentre resta escluso dalla punibilità se realizzato nell’ambito di uno sversamento occasionale (cfr. Cass. III, 14/6/2002, 29651 - Paolini). In base all’attuale testo dell’art. 59 menzionato, in specie, occorrerà distinguere due ipotesi: quella dell’agente che, in maniera occasionale, al di fuori di un’attività di scarico, e dunque nell’ambito di sversamenti episodici da impianti che non prevedono scarichi in mare (quali, per esempio, le avarie agli impianti medesimi), effettua un versamento in acque superficiali, condotta non più punibile a norma del menzionato art. 59 c. 5; e quella, invece, dell’agente il quale gestisca un impianto che preveda lo scarico in mare dei reflui, e che, nell’ambito di tale scarico, effettui, anche occasionalmente, degli sversamenti che superino i limiti tabellari. Condotta, questa, di cui permane la illiceità penale. In sostanza, la depenalizzazione riguarda solo l’occasionalità degli sversamenti, eseguiti al di fuori di uno scarico stabile; restando, invece, sottoposti a sanzione tutti i superamenti tabellari, anche se occasionali o rilevati occasionalmente, quando eseguiti, come recita la norma, nell’effettuazione di uno scarico industriale, cioè nell’ambito di un sistema di scarico avente carattere di stabilità e continuità. Giudice De Marco. TRIBUNALE DI MESSINA Giudice monocratico sezione II - sentenza del 16/12/2003

13) Inquinamento - Acqua - Rifiuti - Art. 635 c.p. (danneggiamento) e D. L.vi nn. 152/99, 22/97 - Rapporto di specialità - Esclusione - Art. 822 cod. civ. -Alterazione dell’integrità di un bene al servizio della collettività quale le acque del mare. In tema d’inquinamento un’attività di immissione o diffusione abusiva di materiali di qualunque natura, solidi o liquidi, ove abbia come conseguenza l’alterazione dell’integrità di un bene quale le acque del mare, sotto il profilo della sostanza, delle risorse biologiche e ittiche, della composizione, ovvero della utilizzabilità o anche solo del valore estetico, appare configurabile il reato in questione. Né questo deve essere escluso per la contemporanea presenza di altro reato - contravvenzionale - che punisce lo specifico fatto dell’inquinamento, dal momento che tra il primo reato e quelli espressamente previsti dal d.lv. 152/99 o dal d.lv. 22/97 non esiste rapporto di specialità atteso che il primo tutela non l’ambiente come valore in sé, quanto il valore patrimoniale dello stesso e l’utilizzabilità da parte della collettività. Sicchè, ove all’attività illecita consegua, appunto, l’evento ulteriore rappresentato dal danno, si determina un concorso delle due tipologie di reato (cfr. Cass. 15/11/79, 5802; Cass. 10/12/79, 5870; Cass. 19/6/81, 9425; Cass. 17/6/82, 11484; Cass. 10/2/84, 5485). Inoltre il mare, così come tutti gli altri beni elencati nell’art. 822 cod. civ., è essenzialmente destinato al servizio della collettività, per cui correttamente in caso di danneggiamento di tale bene appare configurabile il delitto di cui all’art. 635, con l’aggravante del capoverso n. 3 in relazione all’art. 625 n. 7 c.p. la quale tutela, appunto, la destinazione pubblicistica del bene (cfr. Cass. 15/11/79, 5802; Cass. 10/2/84, 5485). Giudice De Marco. TRIBUNALE DI MESSINA Giudice monocratico sezione II - sentenza del 16/12/2003

 

14) Inquinamento - Responsabilità - Attribuzione della delega di funzioni - Responsabilità in capo al delegante - Sussiste - Obbligo di vigilanza e di garanzia. L’attribuzione della delega di funzioni da parte dell’organo formalmente investito dei compiti di amministrazione e rappresentanza, e dunque in posizione apicale, al soggetto in posizione di dipendenza o subordinazione, pur spostando le mansioni proprie della qualifica personale, non determina l’esclusione di ogni responsabilità in capo al delegante, comportando solo un mutamento del contenuto dell’impegno richiesto a quest’ultimo, garante primario per legge, che si trasforma in obbligo di vigilanza e di garanzia. Infatti il titolare primario degli obblighi e delle responsabilità ed il diretto destinatario della norma penale, devono sempre essere individuati nel soggetto cui, per legge e per la natura e organizzazione dell’impresa, obblighi e responsabilità sono riferibili (cfr. Cass. VI, 16712/1975; Cass. IV, 10/11/1978; Cass. IV, 11/12/86). In tal senso la delega al sottoposto costituisce solo una modalità di adempimento degli obblighi gravanti su tale soggetto. Ne consegue che, se da un lato con l’atto di delega si creano nuovi soggetti tenuti ad adempiere in forza dell’atto di preposizione; dall’altro il garante primario non può sottrarsi da ogni attesa dell’ordinamento, assumendo comunque il dovere di controllo e vigilanza sul corretto esercizio del potere delegato, con conseguente frazionamento della posizione di garanzia. Del resto la sussistenza di una posizione di garanzia, in generale, in capo agli amministratori di società, può desumersi anche dal disposto del comma 2 dell’art. 2392 cod. civ., ai sensi del quale: “in ogni caso gli amministratori sono direttamente responsabili se non hanno vigilato sul generale andamento della gestione o se, essendo a conoscenza di atti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose”. Parimenti, nell’impresa in generale, è previsto, per esempio, dall’art. 2086 c.c., che “l’imprenditore è il capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori”. Sicchè, anche in base a tali discipline, può affermarsi l’esistenza in capo agli amministratori e, più in generale, agli imprenditori, di un obbligo di vigilare ed intervenire affinchè non vengano compiuti atti pregiudizievoli (cfr. Cass. V, 26/6/90; Cass. V, 12/2/92; Cass. V, 7/7/92). Ne discende, dunque, una posizione di garanzia, in virtù della quale il soggetto in posizione apicale continua a rispondere degli eventuali reati commessi dal delegato nella misura in cui, non intervenendo, ne abbia consentito o agevolato la verificazione (cfr. Cass. V, 28/6/93; Cass. V, 20/10/94). Giudice De Marco. TRIBUNALE DI MESSINA Giudice monocratico sezione II - sentenza del 16/12/2003

15) Inquinamento - Organizzazione aziendale - Responsabilità del delegato di commettere il reato - Condotta omissiva concorrente del delegante. Il potere del delegato di commettere il reato, nell’ambito dell’organizzazione aziendale, non è originario, ma derivato. Esso discende esclusivamente dal consenso, espresso o tacito, del soggetto in posizione apicale. In assenza di quest’ultimo, ovviamente, il delegato non avrebbe avuto alcun potere e non avrebbe potuto commettere alcun reato. Si può dunque affermare che la condotta omissiva concorrente del delegante si innesta su una precedente condotta positiva – il conferimento espresso o tacito della delega o del potere di amministrare – che concorre in maniera determinate alla causazione dell’ipotizzato reato. (v. Cass. 5/2/91, 4820; Cass. 6/12/91, 1506). A fronte, poi, della responsabilità del delegante, si pone quella del delegato, il quale, in virtù dell’atto di delega e del trasferimento di competenze e poteri, e, quindi, della effettiva titolarità di quei poteri/doveri che sono normalmente propri dell’individuo munito della qualifica extrapenalistica, deve ritenersi diretto destinatario del precetto, alla stregua del delegante, anche in caso di reato proprio (cfr. Cass. V, 11/10/94; Cass. V, 10/7/84; Cass. V, 23/2/83). Giudice De Marco. TRIBUNALE DI MESSINA Giudice monocratico sezione II - sentenza del 16/12/2003
 

16) Procedure e varie - Successione di leggi penali - Norma generale subentrata da una norma speciale - Effetti - Art. 2 c.p.. In tema di successione di leggi penali, non può ritenersi che, ove ad una norma generale succeda una norma speciale, intervenga un fenomeno abrogativo, dal momento che, in tali casi, si avrà successione di leggi nel tempo con riferimento alla parte coincidente delle due fattispecie, senza che ciò determini applicazione retroattiva della nuova norma speciale (cfr. Cass. SS.UU. 26/3/2003, 25887). L'art. 2 c.p. pone, nei commi che lo costituiscono, una sequenza di regole tra loro collegate in modo che si chiariscono a vicenda: perché operi la regola del comma 3 deve essere esclusa l'applicabilità dei commi 1 e 2. Giudice De Marco. TRIBUNALE DI MESSINA Giudice monocratico sezione II - sentenza del 16/12/2003
 

Annotazioni e allegati       ^

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(1) si riporta il quesito: previo esame dell’impianto e dell’intero ciclo produttivo della ** situato in via S. Raineri, anche in relazione alla tipologia di materie oggetto di lavorazione da verificare in forza dell’esame dei registri di carico, accertare se e quali obblighi di conformità sussistano rispetto alle prescrizioni imposte dalla vigente normativa in tema di trattamento di rifiuti, emissioni in atmosfera, scarico dei reflui liquidi. Accertare, anche a mezzo di rilevamenti e prelievi da effettuare tramite strumentazione tecnica, l’emissione nell’atmosfera delle sostanze nocive e/o superanti i limiti consentiti dalla legge, la idoneità dei reflui liquidi prodotti all’esito del ciclo di lavorazione ad essere riversati in mare, e se i previsti parametri della normativa vigente siano rispettati. Relazionare sulla obbligatorietà dell’impianto o parte di esso a preventiva V.I.A. nazionale e, nel caso, se essa sia stata effettuata. Accertare la sussistenza di tutte le autorizzazioni richieste in materia ambientale, e se le stesse siano conformi alle previsioni normative in relazione alle sostanze trattate. Ove sia riscontrata violazione alla normativa ambientale, indicarne la natura, la tipologia degli interventi necessari all’adeguamento degli impianti al fine di consentire il rispetto delle prescrizioni vigenti.


(2) Sottolineavano i consulenti del pubblico ministero che l’indicazione dei codici dei rifiuti sui formulari e della relativa denominazione, viene effettuata dal produttore dei rifiuti medesimi. Come logico, tuttavia, è onere del gestore dei rifiuti, che li riceve e ne risponde, verificare la conformità del rifiuto all’indicazione che di esso ne ha dato il produttore.


(3) “… sostanzialmente acque di zavorra, acque di sentina e slop…Con l’avvento del decreto Ronchi queste tipologie di materia prima che prima non erano classificate come rifiuti, se ben mi ricordo, sono state con dei codici, sono state identificate come rifiuti, erano sempre gli stessi, quindi acque di sentina, acque di zavorra e slop, prima non avevano un’etichetta di rifiuti, dal decreto Ronchi in avanti sono state etichettate come rifiuti…”


(4)  Si riporta stralcio della delibera ed elenco allegato al d.p.r. 915/82


ALLEGATO ALLA DELIBERA DEL COMITATO 27/7/84


0. -- Indirizzi generali.
0.1 - Principi generali.
Al rispetto dei principi generali stabiliti dall'art. 1 del decreto del Presidente della Repubblica n. 915/1982 concorrono, in via prioritaria, le azioni che consentono di ridurre le quantità di rifiuti immessse nell'ambiente e la pericolosità dei medesimi nei confronti dell'uomo e dell'ambiente stesso.
Tali azioni possono esplicarsi attraverso:
a) interventi nei cicli di produzione e nelle fasi di distribuzione e di consumo dei prodotti, miranti a limitare la formazione di rifiuti nell'ambito dei cicli e delle fasi stesse;
b) interventi nelle varie fasi dello smaltimento dei rifiuti, volti a realizzare il recupero, dai rifiuti stessi, di materiali e di fonti energetiche;
c) interventi finalizzati al miglioramento dell'efficienza dei mercati delle materie seconde e all'espansione dei mercati stessi;
d) interventi rivolti ad incrementare l'impiego delle materie seconde nei cicli di produzione e nella realizzazione di opere.
Omissis
0.3 - Criteri generali per le attività di smaltimento.
La scelta dei sistemi, delle tecnologie e dei mezzi tecnici da adottare deve essere effettuata sulla base di una valutazione
comparata delle diverse soluzioni tecnicamente ed economicamente realizzabili, che tenga conto in primo luogo dell'esigenza di evitare pericoli per la salute dell'uomo e per l'ambiente.
Fatto salvo il criterio di cui al comma precedente, dovranno essere privilegiati quei sistemi di smaltimento idonei ad assicurare un significativo recupero di materiali ed energia per i quali vi siano concrete possibilità di commercializzazione e di riciclo.
Ai fini della individuazione delle aree idonee alla realizzazione di impianti di smaltimento, le Regioni istituiscono appositi comitati di esperti, dei quali debbono in ogni caso far parte un medico igienista, un geologo, un chimico ed un ingegnere sanitario. In caso di inottemperanza da parte della Regione, provvede all'uopo il commissario di Governo.
0.4 - Interventi diretti all'espansione dei mercati delle materie seconde.
Nell'ambito dei compiti ad esse affidati all'art. 6, secondo comma, del decreto del Presidente della Repubblica n. 915/82, le Regioni promuovono, anche attraverso intese interregionali, le iniziative necessarie per una adeguata espansione dei mercati delle materie seconde, cioè dei materiali e delle fonti energetiche recuperati dai rifiuti nonché, ove necessario, iniziative dirette ad assicurare condizioni di stabilità per i mercati medesimi.
1. -- Classificazione dei rifiuti.
omissis
1.2 - Classificazione dei rifiuti speciali in tossici e nocivi.
Sono rifiuti tossici e nocivi i rifiuti speciali di cui all'art. 2, quarto comma, punti 1), 2) e 5) del decreto del Presidente della Repubblica n. 915/1982;
1) che contengono una o più delle sostanze indicate nella tabella 1.1. in concentrazioni superiori ai valori di concentrazione limite (CL) indicati nella tabella stessa e/o una o più delle altre sostanze appartenenti ai 28 gruppi di cui all'allegato al decreto del Presidente della Repubblica n. 915/1982 in concentrazioni superiori ai valori di CL ricavati dall'applicazione dei criteri generali desunti dalla tabella 1.2. Qualora un rifiuto contenga due o più sostanze di cui al sopracitato allegato, ciascuna in concentrazione inferiore alla corrispondente CL, sarà classificato come tossico e nocivo se la sommatoria dei rapporti tra la concentrazione effettiva di ciascuna sostanza e la rispettiva CL risulta maggiore di 1. Nel
calcolo della sommatoria non si terrà conto delle sostanze presenti nei rifiuti in concentrazioni inferiori a 1/100 delle rispettive CL;
2) che figurano nell'elenco 1.3, provenienti da attività di produzione o di servizi, salvo che il soggetto obbligato dimostri che i rifiuti non sono classificabili tossici e nocivi ai sensi del precedente punto 1).
Ai fini della classificazione le concentrazioni effettive di cui sopra debbono essere determinate sul rifiuto tal quale così come si forma, ed è vietata qualsiasi forma di diluizione, anche se ottenuta per miscelazione con altri rifiuti.

ALLEGATO al d.p.r. 915/82

1) arsenico e suoi composti

2) mercurio e suoi composti
3) cadmio e suoi composti

4) tallio e suoi composti
5) berillio e suoi composti

6) composti di cromo esavalente
7) piombo e suoi composti

8) antimonio e suoi composti
9) fenoli e suoi composti

10) cianuri organici e inorganici
11) isocianato

12) composti organoalogenati esclusi i polimeri inerti e altre sostanze considerate nel presente elenco
13) solventi clorurati

14) solventi organici
15) biocidi e sostanze fitofarmaceutiche

16) prodotti a base di catrame derivanti dal procedimento di raffinazione e residui catramosi derivanti da operazioni di distillazione

 

17) composti farmaceutici

18) perossidi, clorati, perclorati e azoturi
19) eteri

20) sostanze chimiche di laboratorio non identificabili e/o sostanze nuove i cui effetti sull’ambiente non sono conosciuti
21) amianto (polveri e fibre)

22) selenio e suoi composti
23) tellurio e suoi composti

24) composti aromatici policiclici (con effetti cancerogeni)
25) metalli carbonili

26) composti del rame solubili
27) sostanze acide e/o basiche impiegate nei trattamenti in superficie dei metalli

28) policlorodifenili, policlorotriofenili e loro miscele
 

 


(5)  Si riporta il testo della norma citata
Art. 57. Disposizioni transitorie.
1. Le norme regolamentari e tecniche che disciplinano la raccolta, il trasporto e lo smaltimento dei rifiuti restano in vigore sino all'adozione delle specifiche norme adottate in attuazione del presente decreto. A tal fine ogni riferimento ai rifiuti tossici e nocivi si deve intendere riferito ai rifiuti pericolosi.
2. Sono fatte salve le attribuzioni di funzioni delegate o trasferite già conferite dalle Regioni alle Province e agli altri enti locali in attuazione della legge 8 giugno 1990, n. 142.
3. Le autorizzazioni rilasciate ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 10 settembre 1982, n. 915, restano valide fino alla loro scadenza e comunque non oltre il termine di quattro anni dalla data di entrata in vigore del presente decreto.
4. Entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto le Regioni provvederanno ad aggiornare le autorizzazioni in essere per la gestione dei rifiuti sulla base della nuova classificazione degli stessi.
5. Le attività che in base alle leggi statali e regionali vigenti risultano escluse dal regime dei rifiuti, ivi compreso l'utilizzo dei materiali e delle sostanze individuati nell'allegato 1 al decreto del Ministro dell'ambiente del 5 settembre 1994, pubblicato nel Supplemento ordinario n. 126 alla Gazzetta Ufficiale 10 settembre 1994, n. 212, devono conformarsi alle disposizioni del presente decreto entro e non oltre il 30 giugno 1999.
6. Fermo restando il termine di cui all'articolo 33, comma 6, per la prosecuzione delle operazioni di recupero dei rifiuti compresi nell'allegato 3 al decreto del Ministro dell'ambiente 5 settembre 1994, pubblicato nel Supplemento ordinario n. 126 alla Gazzetta Ufficiale 10 settembre 1994, n. 212, e nell'allegato 1 al decreto del Ministro dell'ambiente 16 gennaio 1995, pubblicato nel Supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale 30 gennaio 1995, n. 24, in esercizio e che risultino conformi alle norme tecniche adottate ai sensi degli articoli 31 e 33, gli interessati sono tenuti ad effettuare la comunicazione di cui all'articolo 33, comma 1, entro trenta giorni dall'emanazione delle predette norme tecniche; in tal caso l'esercizio dell'attività può essere continuato senza attendere il decorso di novanta giorni dalla comunicazione.
6-bis. In attesa delle specifiche norme regolamentari e tecniche, da adottarsi ai sensi dell'articolo 18, comma 2, lettera i), i rifiuti sono assimilati alle merci per quanto concerne il regime normativo in materia di trasporti via mare e la disciplina delle operazioni di carico, scarico, trasbordo, deposito e maneggio in aree portuali. In particolare i rifiuti pericolosi sono assimilati alle merci pericolose.
6-ter. In attesa dell'adozione della nuova disciplina organica in materia di valutazione di impatto ambientale la procedura di cui all'articolo 6 della legge 8 luglio 1986, n. 349, continua ad applicarsi ai progetti delle opere rientranti nella categoria di cui all'articolo 1, lettera i), del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 10 agosto 1988, n. 377, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 31 agosto 1988, n. 204, relativa ai rifiuti già classificati tossici e nocivi.


(6)  “…I clienti della ** non sono delle società sconosciute, sono, ritengo, società come la ERG PETROLI, piuttosto che l’AGIP PETROLI, che hanno fatto dei loro rifiuti, hanno fatto delle caratterizzazioni, utilizzando dei laboratori ritengo fra i più affidabili che ci sono in ITALIA, tipo l’ECOCONTROL di cui ho visto le analisi, che hanno dato una classificazione di questi rifiuti molto precisa, in base ad analisi che sono state fatte con un certo criterio, che è stato concordato dalla raffineria con il laboratorio di analisi, da cui deriva che questi rifiuti non sono tossici e nocivi, anzi, in molti casi deriva addirittura che non sono nemmeno pericolosi, nella maggior parte dei casi non sono nemmeno pericolosi. A questo punto vale il discorso che ha fatto prima l’ingegnere S., certamente la ** ha il dovere di verificare che questi rifiuti siano coerenti con le caratterizzazioni che sono state fatte dal produttore che è il primo responsabile, ma questa verifica è una verifica che deve comportare delle onerose e lunghissime analisi per andare a verificare se ci fossero, per ipotesi, delle altre cose, o è una verifica che secondo il buon senso deve andare eventualmente a controllare quei parametri che in funzione dei cicli di produzione possono essere effettivamente alterati rispetto a quello che è la certificazione analitica. Io ritengo che il buon senso porti a questa conclusione, altrimenti il mercato sarebbe un mercato impraticabile. Io penso che la Legge prima di tutto dica che bisogna utilizzare gli strumenti tecnici migliori che ci siano a disposizione, a livello mondiale, ma che siano compatibili con l’economicità di un sistema imprenditoriale. Andare a fare centinaia di analisi su tutti i rifiuti che arrivano sull’impianto, per mettere in dubbio la veridicità di quello che hanno detto i produttori dei rifiuti, mi sembra una cosa che sia, come minimo, abbastanza strana anche questa.”


(7)  Sebbene la questione appaia sostanzialmente irrilevante ai fini del presente processo, dal momento che la mancanza di VIA non è prevista dalla legge come reato, ma è solo condizione per il rilascio dei provvedimenti autorizzatori, ed eventuale causa di illegittimità degli stessi.
 

(8)  R1: utilizzazione principale come combustibile o come altro mezzo per produrre energia; R9 rigenerazione o altri impieghi degli oli; R13: Messa in riserva di rifiuti per sottoporli a una delle operazioni indicate nei punti da R1 a R12, escluso il deposito temporaneo, prima della raccolta in cui sono prodotti; D8: trattamento biologico non specificato altrove nell’allegato, che dia origine a composti o miscugli che vengono eliminati secondo uno dei procedimenti nei punti D1 a D12.


(9)  “…Successivamente al ’94 siccome l’attività dell’impianto è notevolmente ridotta, i fanghi non è stato... perché lo scarico dei fanghi non è uno scarico continuo, è uno scarico che viene fatto periodicamente al raggiungimento di certi livelli all’interno dei serbatoi in cui questi fanghi si producono; siccome questo livello non era stato raggiunto, questi fanghi sono provvisoriamente in deposito in questi serbatoi in attesa del loro smaltimento finale.”


(10)  diversamente da quanto sostenuto dal consulente di parte ing. C., il quale ritiene che il rifiuto divenga tale solo al momento del conferimento a terzi, cosa evidentemente non corrispondente alla legge; e che fino al momento del conferimento possa essere illimitatamente mantenuto nello stabilimento anche in attesa di una sua naturale decantazione. Lo stesso, infatti, in maniera assai singolare sostiene: “…io ritengo che il rifiuto, se ben ricordo, è qualcosa che nasce al momento del rilascio, quindi fino a che questi materiali rimangono all’interno del ciclo produttivo sono dei materiali che stanno lì, e nel momento in cui io li estraggo dal ciclo produttivo e li do a terzi per il trattamento finale che producono un rifiuto, e quindi lo devo caratterizzare, devo fare dei registri di carico e scarico, delle bolle di accompagnamento e tutto quanto quello che è necessario per il trasferimento dei rifiuti presso terzi… queste sostanze, bene, potrebbero essere sia nel ciclo produttivo rimanere, nel momento in cui lasciate nei serbatoi questo fenomeno di decantazione è un fenomeno che procede nel tempo…”. È evidente che il tecnico ha trovato la soluzione ai rifiuti radioattivi: è sufficiente depositarli nei luoghi di produzione in attesa che, col passare dei millenni, gli stessi si innocuizzino !


(11)  “… allora, se la vasca serve per esempio per un accumulo di prodotto, io devo avere una autorizzazione allo stoccaggio di questo prodotto. Se la vasca serve perché è una integrazione del trattamento e costituisce una modifica sostanziale al trattamento, evidentemente vale il discorso che essendo cambiato il ciclo produttivo io dovrò fare anche una richiesta ex Articolo 27.”


(12)  “…Dunque, ancora una volta si tratta di rifiuti che consistono sostanzialmente in miscele acque e olio, che derivano dalle sentine, che derivano dalle zavorre, che derivano dagli slop, e che derivano dai serbatoi che hanno contenuto questi rifiuti o queste materie prime come le abbiamo definite prima…”


(13) “…l’acqua di lavaggio è per definizione una matrice acquosa che ha al suo interno una percentuale di oli e di idrocarburi che si presume che non sia molto alta, quindi acqua, potrebbe essere il 90 per cento d’acqua con una certa percentuale di oli. Se io invece parlo di uno slop, parlo invece di essenzialmente di un olio, di una morchia, quindi di una sostanza oleosa che può essere anche semisolida o addirittura solida, che al suo interno contiene dell’acqua, quindi il rapporto fra l’acqua e l’olio nei due casi è esattamente l’inverso.”


(14)  in proposito il dott. S. ha chiarito che eventuali decadimenti sarebbero stati riduttivi, nel senso che sarebbe diminuita la concentrazione delle sostanze organiche. Infatti chiariva, in proposito, che il CO2 è la sigla di consumo chimico di ossigeno, quindi significa è l’ossigeno che viene consumato attraverso una reazione chimica dalla sostanza organica presenta in un campione, cioè io ho un campione di acqua e dentro c’è una certa sostanza organica io l’aggredisco fisicamente e poi tanto più reattivo uso per aggredirlo tanto più dico c’è sostanza organica. La sostanza organica, in natura, tende a diminuire non è che tende ad aumentare. Se io ho dentro dello zucchero, lo zucchero può darsi che si degrada. Concludeva, pertanto, che, i valori, se sono variati sono variati in meno rispetto a quelli che erano i mesi prima.


(15)  “… Certamente si tratta di una matrice che contiene al suo interno idrocarburi, questo è evidente, perché c'è un contenuto di fenoli che è molto alto…”


(16)
 “…Quindi, questi cattivi odori erano originati, mi sembra che su questo si è sostanzialmente d’accordo, da sorgenti diffuse, quindi dalle vasche piuttosto che dai serbatoi, quindi sorgenti che, a quello che mi risulta, non richiedono un’autorizzazione preventiva…”


(17)  “…Siccome il discorso del fastidio per la popolazione è stato recepito dalla **, la ** ha operato per contenere al massimo questa sorgente di disturbo per la popolazione, istallando dei filtri a carbone attivo, e presentando un progetto per la copertura delle vasche e quindi per la captazione di queste potenziali sorgenti maleodoranti, per poterli poi convogliare ancora a carbone attivo…”

 

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