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Tribunale di Messina
comp.ne monocratica sez. II - sentenza 16/12/2003 sentenza n. 2712
Giudice De Marco
Inquinamento - rifiuti - nozione di rifiuto - Impianto di smaltimento - modifiche - necessità di autorizzazione - nuove fasi di smaltimento - necessità di autorizzazione - Scarico industriale - modifiche alla tipologia dei rifiuti trattati - necessità di autorizzazione - Scarico industriale - scarico occasionale - depenalizzazione - nozione di scarico occasionale - Prelievo di campioni di reflui - necessità di avviso - esclusione - atto irripetibile - Inquinamento - danneggiamento - concorso di reati - Emissioni in atmosfera - autorizzazione - necessità per ogni singola fonte di emissione.
Necessita l’autorizzazione regionale di cui all’art. 27 d.lv. 22/97 per ogni
intervento di modifica di un impianto di gestione di rifiuti, per tale dovendosi
intendere sia le modifiche alla struttura, sia quelle al processo tecnologico
quando incidano sulla capacità dell’impianto con riferimento alla quantità o
alla tipologia generale dei rifiuti. Così è necessaria l’autorizzazione a norma
dell’art. 28 per l’introduzione di qualunque nuova fase di smaltimento, quale è,
per esempio, il deposito temporaneo prima della raccolta. È necessaria una nuova
autorizzazione a norma dell’art. 46 d.lv. 152/99 in caso di modifica
dell’impianto, della natura dei rifiuti trattati o delle procedure di
trattamento. La modifica dell’art. 59 d.lv. 152/99 da parte dell’art. 23 c. 1
lett. e) d.lv. 258/2000 ha determinato la depenalizzazione del superamento dei
limiti negli scarichi occasionali. Per tali, tuttavia, devono ritenersi solo
dagli sversamenti episodici, e non i superamenti occasionali di scarichi
stabili. In caso di scarichi l’avviso all’interessato è previsto esclusivamente
con riferimento alla realizzazione delle analisi e non all’esecuzione dei
prelievi i quali, comunque, sono assimilabili alle attività di sequestro e, in
generale, alle attività irripetibili. Né incide sulla validità del prelievo la
mancata rispondenza di questo alle normative tecniche, circostanza che può
rilevare solo ai fini della valutazione del risultato delle analisi. Il reato di
danneggiamento può concorrere con quelli in materia di inquinamento ambientale,
vendo i reati diverse oggettività giuridiche. In caso di impianti che possono
dare luogo ad emissioni in atmosfera l’autorizzazione è necessaria con
riferimento ad ogni singola fonte di emissione all’interno dell’impianto.
Tribunale di Messina
in composizione monocratica sezione II - sentenza 16/12/2003 n. 2712- Giudice De Marco
omissis
Nel corso dell’anno 2000 nei pressi dello stabilimento ** ubicato in località S.
Raineri della Zona Falcata di Messina si diffondevano odori molesti. Par tale
ragione venivano disposte dai competenti uffici della Provincia Regionale e
delle autorità sanitarie una serie di indagini che, a quanto pare, restavano
senza esito.
In tale contesto il giorno 22/9/2000, intorno alle ore 10,30, come riferito dal
m.llo F. S., personale del Comando Stazione Navale della Guardia di Finanza di
Messina, transitando a mezzo gommone nello specchio d’acqua antistante
l’impianto di trattamento rifiuti **, rilevava la presenza di un’ampia chiazza
di colore scuro ed odore intenso, nauseante, simile a g.p.l., che, proveniente
dalla riva, si estendeva in mare per un ampio tratto, malgrado le correnti nella
zona fossero particolarmente forti. La chiazza appariva costituita da materiale
oleoso, in gran parte galleggiante, che impregnava profondamente anche il
bagnasciuga. Si constatava, quindi, che la stessa promanava dallo stabilimento
in questione, ed in particolare da una condotta, parzialmente nascosta, ubicata
nella zona di approdo delle navi della degassifica, recapitante direttamente in
mare. Da questa, infatti, fuoriusciva un consistente flusso di acque reflue di
colore marrone intenso e dalle esalazioni maleodoranti. Contemporaneamente nello
spiazzo dello stabilimento, dove era visibile un movimento di camion,
risultavano aperti gli idranti del sistema antincendio che sversavano acqua in
mare contribuendo a diluire i predetti reflui. Malgrado venisse azionata la
sirena, nessuno dello stabilimento si avvicinava all’imbarcazione. Si decideva,
pertanto, di prelevare, a circa mt. 2 dallo scarico, un campione di acqua di
mare contaminata dal liquido in questione, con contestuale effettuazione di
rilievi fotografici, depositati in atti. In particolare per il prelievo del
campione veniva impiegato un mezzo di fortuna consistente in una bottiglia di
acqua minerale – ovviamente vuota – che era presente a bordo. Il campione
veniva, successivamente, consegnato a personale dell’ASL per le analisi.
Nel pomeriggio dello stesso giorno – come riferito sempre dal m.llo S. –
personale della Finanza si portava nuovamente sul posto, dove, tuttavia, si
constatava che la zona era interamente ripulita, anche se la spiaggia si
presentava ancora impregnata del materiale di scarico.
Tanto premesso il dott. G. P., chimico dell’Asl, riferiva di avere effettuato
l’analisi su un’aliquota del campione raccolto dalla Guardia di Finanza, mentre
la parte residua era stata sigillata e consegnata all’autorità giudiziaria per
eventuali nuove analisi, le quali, tuttavia, avrebbero dato verosimilmente un
valore alterato a favore della parte, nel senso che i componenti inquinanti, in
ragione del degradamento del campione, sarebbero verosimilmente risultati in
quantità percentualmente inferiori.
Aggiungeva, quindi, di non avere dato alcun avviso formale in ordine alle
analisi, benchè fosse stato informalmente contattato il dott. M. C., che egli
sapeva essere consulente della **, il quale, tuttavia, pur affermandosi a
conoscenza del prelievo e delle analisi, aveva risposto che la cosa non lo
interessava.
L’analisi del campione aveva permesso di evidenziare: odore molesto, pH 6,8,
elevata quantità di fenoli, pari a 23,7 mg/l.
Il livello di fenoli, dunque, si presentava particolarmente elevato per un
campione di acqua marina. Infatti il livello normale in acque di mare sarebbe
pari a 0,01 mg./l, mentre il campione presentava un livello di 23,7 mg/l. Tale
misura era eccessiva non solo per un corpo recettore, ma anche per uno scarico,
dal momento che il limite di legge è fissato in 0,50 mg/l.
In proposito precisava che il prelievo (e quindi l’analisi) dovrebbe essere
effettuato direttamente sui reflui prima dell’immissione nel liquido recettore.
Nel caso in esame, invece, il prelievo era stato effettuato direttamente dal
corpo recettore, dopo, cioè, che il liquido inquinante era stato ampiamente
diluito. Se ne poteva desumere che tale liquido, prima dell’immissione, avesse
un livello di fenoli assai superiore a quello riscontrato.
Quanto al ph era stato riscontrato un livello di 6,80. Tale valore rientrerebbe
nei limiti di legge per uno scarico, essendo tale limite compreso tra 5,5 e 9,5.
Nel caso in esame, tuttavia, il valore era stato riscontrato sui reflui già
diluiti in acqua di mare, mentre, non essendo stato effettuato prelievo prima
dell’immissione, non era possibile stabilire il livello di ph ivi presente.
Precisava, tuttavia, che l’acqua di mare, in condizioni normali, ha un valore di
ph oscillante tra 8,0 e 8,3.
In conclusione, pur non potendo determinare con precisione la natura dello
scarico, sosteneva che un simile livello di fenoli fosse compatibile
esclusivamente con scarichi di origine industriale, verosimilmente relativi alla
lavorazione di prodotti petroliferi, e del tutto incompatibile, invece, con
scarichi civili (fognari).
Riferiva, infine, di avere avuto, prima di tali fatti, rapporti con la **
relativamente alla effettuazione di altri controlli. In tali circostanze aveva
appreso che direttore tecnico era il dott. S. e consulente era il dott. C..
Quanto a tale dott. D. questi era, verosimilmente, l’amministratore delegato.
Il successivo 23/10/2000 il pubblico ministero, con le procedure di cui all’art.
360 c.p.p., previo avviso a L. L. (ma non anche a S. M.), conferiva incarico
peritale ai tecnici dott. M. S., ing. Giuseppe M., dott. Massimo F. e ing.
Vincenzo S., onde verificare l’adeguatezza dell’impianto e la natura degli
scarichi e delle emissioni
(1).
Procedendo all’esame dello stabilimento, al momento fermo per interventi di
ristrutturazione e modifica, peraltro non autorizzati, gli stessi constatavano
come questo fosse stato attivato, originariamente, con progetto del 1976, come
impianto di degassificazione delle petroliere e trattamento delle relative acque
di zavorra, ed in particolare per la produzione e la distribuzione dei fluidi di
servizio che devono essere forniti alle petroliere per le necessarie operazioni
di bonifica prima dell’accesso ai bacini di riparazione (raggiungimento delle
condizioni “gas free”), e per effettuare le operazioni di ricezione e
trattamento delle acque di zavorra, delle acque di lavaggio e degli slops in
modo da garantire complessivamente il degassaggio e la bonifica delle cisterne
delle navi.
A tal fine l’impianto, nella sua struttura originaria, era composto
essenzialmente da: un pontile a T per l’ormeggio delle navi; due serbatoi di
stoccaggio e prima polmonazione delle acque di lavaggio e slop aventi una
capacità complessiva di 18.000 m3; due serbatoi di trattamento e stoccaggio dei
prodotti petroliferi recuperati, della capacità complessiva di 3.500 m3; un
impianto chimico-fisico (TPI) per il trattamento delle acque di lavaggio,
costituito da decantatore e flocculatore; una centrale termica con tre caldaie e
quattro serbatoi per lo stoccaggio dell’olio combustibile e del gasolio; un
impianto per la produzione di acqua calda; due serbatoi di stoccaggio slop
aventi capacità di 1.800 m3; un impianto per la produzione di aria compressa;
uno scarico a mare, in una zona, peraltro, sottoposta a correnti di notevoli
entità, quindi capaci di disperdere velocemente qualsiasi tipo di scarico.
Il lavaggio delle cisterne avveniva mediante acqua di mare, fornita da una
coppia di elettropompe, riscaldata e spruzzata in pressione mediante turbinette
posizionate all’interno delle cisterne collegate all’impianto tramite braccio di
carico. Poiché nella fase di lavaggio, sotto l’azione del getto d’acqua, dalle
pareti della cisterna verrebbero rimossi residui di prodotto idonei a sviluppare
idrocarburi gassosi, per evitare i rischi di combustione, l’operazione veniva
accompagnata dal riempimento della cisterna mediante gas inerte, cioè,
praticamente, privo di ossigeno. Gas ottenuto da apposito impianto, mediante
combustione di gasolio.
Quindi le acque provenienti dal lavaggio delle cisterne, le acque di zavorra e
gli slops venivano raccolti e inviati in appositi impianti per la successiva
separazione delle sostanze solide dalle liquide e, quindi dei vari componenti di
cui sono costituite le acque sporche, con conseguente produzione di vari fanghi
che, ridotti, dovevano essere avviati per il trattamento finale; mentre gli oli
recuperati nelle varie fasi del ciclo, venivano raccolti in un serbatoio di smiscelazione e le acque depurate scaricate in mare.
Le acque depurate, in particolare, come risulta da una relazione in atti
(verosimilmente a corredo del progetto originario del 1983), dovevano essere
scaricate in mare con un contenuto massimo di oli di 5 mg/lt (5 ppm) ed un
contenuto massimo di sostanze solide sospese di 80 mg/lt. Sempre da tale
relazione si evince che l’impianto di scarico doveva essere dotato di apposito
pozzetto di prelievo continuo per analisi e registrazione del contenuto
dell’olio residuo, dotato di apposito sistema di allarme idoneo ad avvertire sia
dell’approssimarsi della concentrazione di olio al limite di 5 mg/lt, sia del
superamento di tale limite, con attivazione, in tal caso, del meccanismo di
chiusura della valvola pneumatica per il blocco della linea di trattamento,
conseguente chiusura dello scarico a mare e ripetizione del ciclo di
trattamento.
Per contro tutti i fanghi prodotti durante il ciclo di trattamento, dopo essere
stati compattati con corrispondente riduzione del loro volume, dovevano essere
raccolti in apposita vasca di accumulo per essere poi avviati allo smaltimento
definitivo, non meglio specificato nella relazione che porta la data del
18/1/83. Solo nella relazione allegata al decreto di autorizzazione della
Regione Siciliana del 29/3/2000 (di cui si dirà in seguito) si precisa che tali
fanghi dovevano essere avviati al trattamento mediante l’impianto di termodistruzione, all’epoca da poco installato, ma, da quanto riferito dai
consulenti, mai avviato.
In definitiva, pertanto, l’impianto, in conseguenza del trattamento dei rifiuti,
avrebbe dovuto generare: acque depurate da scaricare in mare; oli recuperati e,
quindi, riutilizzabili; fanghi non recuperabili, destinati, dunque alla
termodistruzione o alla eliminazione in discarica.
Per tale originaria struttura l’Ente Autonomo Portuale di Messina, e per esso la
** incaricata della gestione, aveva conseguito provvedimento di autorizzazione,
appunto, per il trattamento e lo smaltimento delle acque di zavorra e dei
rifiuti liquidi prodotti dalle navi petroliere, con decreto assessoriale n. 510
del 19/10/1983. Atto che veniva rilasciato con la precisazione che lo stesso era
separato dalle autorizzazioni relative all’installazione, da concedersi in
sanatoria, e da quelle relative all’esercizio.
L’impianto previsto in tale autorizzazione risultava, dunque, costituito da:
impianto di separazione di oli;
impianto di trattamento fanghi;
impianto di produzione vapore;
tre serbatoi fuori terra per acque oleose della capacità
rispettivamente di 10.000, 8.000 e 2.000 m3;
un serbatoio fuori terra a tetto galleggiante da 1.500 m3 per
olio combustibile;
tubazione di collegamento tra la stazione ed il deposito
acque oleose di cui al D.A. 1087 del 21/12/82;
oli lubrificanti in confezioni sigillate fino a 2.000 l.
Con altro provvedimento n. 4181/83 del 8/7/83 il Sindaco di Messina autorizzava,
in via provvisoria, il Presidente dell’Ente Autonomo Portuale ad immettere in
mare gli scarichi provenienti dalla stazione di degassifica per navi petroliere
sita nella Zona Falcata.
A seguito di convenzione tra l’Ente Autonomo Portuale di Messina e la **, in
data 15/11/1983 l’impianto veniva consegnato a tale ultima società in persona
dei consiglieri delegati L. L. e R. C..
Infine, successivamente, in conseguenza dell’entrata in vigore del d.p.r.
203/88, in data 30/6/89, veniva presentata istanza di autorizzazione per la
continuazione delle emissioni in atmosfera degli impianti esistenti.
A fronte di tale istanza, in data 9/6/92, l’Assessorato regionale Territorio e
Ambiente emanava il decreto n. 937 con il quale, a norma dell’art. 12 d.P.R.
203/88, senza nulla dire con riferimento ai suddetti serbatoi, venivano
autorizzate le emissioni in atmosfera derivanti dall’impianto riparazione e
costruzione navi e degassificazione petroliere realizzato in Messina nel Comune
di Messina, fissandosi i limiti di emissione per singoli punti di emissione
indicati nella planimetria (non in atti) con le lettere E1, E2, E3, E4, E5 (i
primi quattro relativi agli impianti termici di generazione di vapore, il quinto
relativo all’impianto di generazione di acqua calda):
punti E1, E2, E3
Inquinante
valore in mg/Nm3
polveri totali
100
ossidi di azoto
500
ossidi di zolfo
1700
punti E4, E5
Inquinante
valore in mg/Nm3
polveri totali
150
ossidi di azoto
500
ossidi di zolfo
1700
Questo, secondo la documentazione in atti e l’analisi dei consulenti del pubblico ministero, lo stato originario dell’impianto. Tuttavia, come emerso nel corso delle ispezioni e come si evince dai registri di carico e scarico, l’impianto, così originariamente concepito, è stato nel tempo radicalmente trasformato: l’originaria impostazione, infatti, è stata modificata, abbandonandosi la vocazione alla degassifica delle petroliere. Ed infatti, come rilevato tra l’altro dai consulenti del pubblico ministero, mentre l’impianto di produzione del gas inerte, necessario alla fase del lavaggio delle cisterne, non sarebbe stato più impiegato, la complessiva struttura sarebbe stata convertita al trattamento dei rifiuti conferiti anche dall’esterno, via terra, indipendentemente dalle operazioni di bonifica delle navi cisterna.
Invero, come risulta anche dalle annotazioni dei registri di carico e scarico
relativi al periodo 2/11/99-1/11/2000, venivano fatti confluire presso
l’impianto, via terra, sostanze a base oleosa destinate al trattamento ed al
recupero, ed in particolare i rifiuti indicati nei registri con il seguente
codice CER (2) e nella seguente consistenza:
cod.
Denominazione
n.mov.
quantità in kg.
050101
fanghi da trattamento sul posto degli effluenti, ad alto contenuto acquoso a condizione che contengano oli recuperabili
64
1.767.340
050105
perdite di olio
7
173.380
050106fanghi pompabili da impianti, apparecchiature e operazioni di manutenzione a condizione che contengano oli recuperabili (non pericolosi)
360
10.003.860
130505
altre emulsioni oleose
84
2.072.338
130601
altri rifiuti oleosi non specificati altrimenti
46
1.108.911
160702
rifiuti della pulizia di cisterne di navi contenenti oli
3
1.532.107
160705
rifiuti della pulizia di serbatoi di stoccaggio contenenti prodotti chimici
3
75.660
160706
rifiuti della pulizia di serbatoi di stoccaggio contenenti oli
56
1.228.478
Rifiuti che, a parere dei consulenti sarebbero costituiti in prevalenza da fanghi oleosi, aventi matrice oleosa a prevalente base idrocarburica, con presenza ammoniacale e fenolica, e contenuto variabile di metalli e di composti aromatici alchilati e clorurati.
Rifiuti, dunque, in gran parte strutturalmente diversi dalle acque di
degassifica delle navi petroliere le quali, come chiarito dai consulenti del
pubblico ministero, potrebbero contenere, ma in via eventuale, residui anche
semisolidi dei prodotti petroliferi, ma non certo di prodotti chimici, ed
inoltre con una concentrazione di sostanze oleose significativamente superiore a
quella propria delle acque di zavorra. Tanto più che le stesse acque di zavorra,
le acque di sentina e gli slop, come riferito dal consulente della difesa ing.
C., prima dell’avvento del decreto Ronchi (d.lv. 22/97) non erano nemmeno
classificate come rifiuti
(3).
L’originario complesso, destinato alla degassifica delle navi, dunque veniva di
fatto trasformato per eseguire la gestione di rifiuti prevalentemente a base
oleosa conferiti da terzi, con conseguente, necessaria, modifica, anche
strutturale, dell’originario impianto, quale, per esempio, la
realizzazione/attivazione della vasca MS117 in CLS, del volume di circa 30 m3,
destinata a ricevere i rifiuti liquidi scaricati dalle autobotti e non esistente
nell’impianto originariamente assentito o, comunque, avente in origine diversa
finalità; la trasformazione del serbatoio TK106 che, in origine impiegato per lo
stoccaggio delle acque di alimento delle caldaie, veniva successivamente
destinato a serbatoio polmone delle acque trattate, prima dello scarico;
l’impiego di parte degli spazi liberi dell’impianto quale area di stoccaggio dei
fusti, contenenti rifiuti, senza, peraltro, che tali spazi venissero
adeguatamente attrezzati con aree ad hoc, coperte e munite di rete di drenaggio
convogliata al trattamento (ed infatti sul luogo venivano rinvenuti diversi
fusti provenienti da stabilimenti petroliferi di Priolo contenenti rifiuti
classificati come perdite di olio); o, infine, la realizzazione di altre
modifiche, quali un sistema di filtri a carbone (finalizzati a favorire la
separazione della frazione oleosa residua ed all’abbattimento dell’ammoniaca) o
di un reattore per la polmonazione dei reflui, questi ultimi in corso di
installazione al momento del sopralluogo, e , quindi, di fatto mai utilizzati.
Inoltre risultava realizzato, ma mai entrato in funzione, anche un impianto di
termocombustione dei residui liquidi, solidi e semisolidi non altrimenti
trattabili e/o riutilizzabili – mai collaudato dall’Assessorato Regionale –
destinato alla eliminazione di terre contaminate e rifiuti speciali e/o oleosi,
ed adattato anche alla combustione delle morchie oleose provenienti dalle navi.
Per tali modifiche – salvo che per l’impianto di termodistruzione – non
risulterebbero né comunicazioni, né espresse autorizzazioni da parte degli enti
competenti, sicchè, con riferimento a tale riconversione la ** non può
considerarsi in possesso di autorizzazioni alla installazione degli impianti a
norma dell’art. 27 d.lv. 22/97.
Risultano, invece, rilasciate un insieme di autorizzazioni, in maniera piuttosto
disorganica e frammentaria e dalla discutibile legittimità.
Innanzitutto con riferimento all’impianto di termodistruzione dei rifiuti, a
seguito di richiesta della ** volta ad ottenere autorizzazione per la modifica
delle emissioni derivanti dalla termodistruzione delle morchie oleose risultanti
dall’attività della stazione di degassifica ubicata nell’area portuale di
Messina, in data 11/8/1998 l’assessorato regionale territorio e ambiente emanava
il decreto n. 399/18 (rettificato il 23/9/98 con il decreto n. 494/18) con cui
si approvava l’impianto a norma dell’art. 27 d.lv. 22/97; si autorizzavano le
emissioni in atmosfera derivanti dall’impianto a norma dell’art. 15 d.P.R.
203/88; si dava nulla-osta allo stesso a norma dell’art. 5 l.r. 181/81; quindi
si autorizzava l’esercizio dell’impianto, a norma degli artt. 27 e 28 d.lv.
22/97 esclusivamente per la termodistruzione di:
cod.
denominazione
quantità (t/anno)
p/np
----
morchie oleose provenienti dalla stazione di degassifica
10000
--
con tassativa esclusione, non essendo stato l’impianto sottoposto alle procedure di V.I.A. di cui all’art. 6 l. 8/7/96 n. 349, di rifiuti classificati come tossici e nocivi ai sensi del d.p.r. 915/82.
Tale autorizzazione promanava, tra l’altro, sul presupposto, costituito dalla
documentazione tecnica prodotta dalla **, che le morchie oleose provenienti
dalla stazione di degassifica … che dovranno essere trattate nell’impianto di
termodistruzione, sono classificabili come rifiuti speciali non tossici e nocivi
ai sensi del d.p.r. 915/82, malgrado, contestualmente, si riconoscesse che tali
rifiuti sono classificati ai sensi del d.lv. 22/97 come rifiuti pericolosi.
Successivamente, a seguito di istanza della ** volta ad ottenere, a norma
dell’art. 28 d.lv. 22/97, l’autorizzazione anche allo smaltimento conto terzi ed
al recupero dei rifiuti compatibili con il ciclo produttivo della stazione di degassificazione,
sul presupposto che non sarebbe variata la potenzialità
dell’impianto, né la qualità e la quantità degli scarichi liquidi e gassosi, né
quella dei rifiuti solidi, e che non sarebbero stati trattati rifiuti
classificati come tossici e nocivi, in data 27/7/99, il medesimo assessorato
emanava il decreto n. 320/18 con cui si autorizzava la termodistruzione anche
dei rifiuti:
cod. denominazione quantità(t/anno) p/np 050103 morchie e fondi di serbatoio 6000 p 050105 perdite di olio 100 p 130401 oli di cala da navigazione interna 100 p 130402 oli di cala derivanti dalle fognature dei moli 100 p 130403 oli di cala da altre navigazioni 600 p 130501 solidi di separazione olio/acqua 100 p 130502 fanghi pompabili di separazione olio (acqua, a condizione che contengano oli recuperabili 200 p 130503 fanghi pompabili da colettori, a condizione che contengano oli recuperabili 50 p 130504 fanghi pompabili o emulsioni oleose da dissalatori, a condizione che contengano oli recuperabili 200 p 130505 altre emulsioni oleose 550 p 130601 altri rifiuti oleosi non specificati altrimenti 300 p 160701 rifiuti della pulizia di cisterne di navi contenenti prodotti chimici 400 p 160702 rifiuti della pulizia di cisterne di navi contenenti oli 400 p 160703 rifiuti della pulizia di vagoni cisterne ed autocisterne contenenti oli 100 p 160704 rifiuti della pulizia di vagoni cisterne ed autocisterne contenenti oli 100 p 160705 rifiuti della pulizia di serbatoi di stoccaggio contenenti prodotti chimici 200 p 160706 rifiuti della pulizia di serbatoi di stoccaggio contenenti oli 500 p
p= pericolosi – np = non pericolosi
Si stabiliva, però, che l’avvio delle operazioni di termodistruzione
di rifiuti
che rientrano nell’elenco 1.3 della delibera del comitato interministeriale
27/7/84 e successive modifiche ed integrazioni, dovesse essere subordinato alla
preventiva effettuazione di analisi previste dalla normativa vigente per
verificare che i rifiuti in questione non siano classificati come “tossici e
nocivi” ai sensi del d.p.r. 915/82. In ogni caso la ** avrebbe dovuto avvisare
preventivamente la Provincia Regionale in caso di termodistruzione di tali
rifiuti onde consentire eventuali controlli.
Quanto all’impianto di trattamento risultano altre autorizzazioni che estendono
la tipologia di rifiuti suscettibili di trattamento o consentono lo scarico in
mare.
In primo luogo, in data 28/7/99 la Ripartizione Igiene Cittadina – divisione
ecologia e ambiente del comune di Messina, su richiesta della ** a nome di L.
L., emanava il provvedimento n. 2283 con cui autorizzava a recapitare in mare i
reflui depurati nell’impianto di trattamento delle acque di zavorra della
stazione di degassifica per navi petroliere per un quantitativo di m3 400.000
l’anno a condizione che venissero rispettati i limiti di accettabilità previsti
dalla tabella A allegata alla l. 319/76, con obbligo di notificare agli enti
competenti ogni variazione relativa al ciclo tecnologico, natura delle materie
prime utilizzate, ampliamento e/o ristrutturazione dello scarico e mutamenti di
destinazione o di proprietà, e con obbligo di richiedere nuova autorizzazione
allo scarico per ogni diversa destinazione dell’insediamento, in caso
ampliamento e/o ristrutturazione e/o trasferimento dello stesso.
L’autorizzazione promanava, tuttavia, a norma della l. 319/76 che, ormai, era
stata sostituita dal d.lv. 152/99.
A tale autorizzazione si aggiungeva, in data 2/8/99, il decreto n. 560/99 della
Provincia Regionale di Messina che, a norma dell’art. 36 d.lv. 152/99
autorizzava il trattamento per conto terzi dei seguenti rifiuti:
cod. Denominazione quantità (t/anno) p/np 130401 oli di cala da navigazione interna 2000 p 130402 oli di cala derivanti dalle fognature dei moli 2000 p 130403 oli di cala da altre navigazioni 8000 p 130505 altre emulsioni oleose 50000 p 130601 altri rifiuti oleosi non specificati altrimenti 50000 p 160701 rifiuti della pulizia di cisterne di navi contenenti prodotti chimici 40000 p 160702 rifiuti della pulizia di cisterne di navi contenenti oli 260000 p 160703 rifiuti della pulizia di vagoni cisterne ed autocisterne contenenti oli 5000 p 160704 rifiuti della pulizia di vagoni cisterne ed autocisterne contenenti oli 10000 p 160705 rifiuti della pulizia di serbatoi di stoccaggio contenenti prodotti chimici 8000 p 160706 rifiuti della pulizia di serbatoi di stoccaggio contenenti oli 100000 p
p= pericolosi – np = non pericolosi
L’autorizzazione, tuttavia, faceva riferimento all’art. 36 d.lv. 152/99 che
riguarda i depuratori comunali o intercomunali, e non gli impianti privati di
recupero rifiuti pericolosi, benchè nella parte motiva si affermi che le
caratteristiche dell’impianto della suddetta Stazione di degassificazione
permettono il trattamento di rifiuti liquidi pericolosi.
Con tale incomprensibile provvedimento si stabiliva, altresì, che i fanghi
prodotti dal trattamento dei predetti rifiuti liquidi dovranno essere sottoposti
ad analisi chimico-fisiche, ed in funzione dei risultati andrà curato lo
smaltimento e/o il recupero nel rispetto delle norme vigenti.
Solo, in epoca successiva agli accertamenti, in data 1/12/2000, il settore
ambiente del Comune di Messina emanava il provvedimento n. 30/AC con il quale si
autorizzava, provvisoriamente, il recapito in mare dei reflui trattati
nell’impianto di degassifica di cui alla predetta autorizzazione n. 2283, purchè
fossero rispettati i parametri di cui alla tabella n. 3 dell’allegato 5 del
d.lv. 152/99 e salvo il controllo periodico dell’efficienza dello scarico.
Nel frattempo, in data 15/11/99, veniva inoltrata alla Provincia, a norma
dell’art. 28 d.lv. 22/97, richiesta di autorizzazione al trattamento e recupero
per conto terzi di diverse tipologie di rifiuti, con la precisazione che la
stazione di degassifica aveva regolarmente funzionato.
Analoga istanza firmata dal L., come risulta dalla documentazione in atti,
veniva presentata all’Assessorato Regionale Territorio e Ambiente, con la quale
si premetteva che la stazione di degassifica era stata ultimata nel 1983 e che
la stessa aveva regolarmente funzionato.
Circostanza non esattamente corrispondente al vero, secondo i consulenti del
pubblico ministero, i quali avrebbero appreso che, in realtà, la stazione era
ferma, almeno con riferimento alla produzione di gas inerte, da 15 anni, e che
solo in data 28/7/99 il Comune di Messina aveva rilasciato un’autorizzazione
allo scarico in mare.
In ogni caso veniva emanato in data 29/3/2000 il decreto n. 39/18
dell’assessorato regionale Territorio e Ambiente, con il quale, considerato, tra
l’altro, che in data 11/8/98 la ** era stata autorizzata alla termodistruzione
di rifiuti speciali e pericolosi, si autorizzava la **, a norma dell’art. 28 d.lv. 22/97,
per il periodo di anni cinque dalla data del presente decreto, ad
esercitare le operazioni di recupero dei rifiuti sottoelencati, a condizione che
gli stessi possano essere effettivamente ed utilmente sottoposti alle modalità
di trattamento descritte nella relazione tecnica che costituisce, insieme agli
allegati, parte integrante del presente decreto, e comunque per i quantitativi
eccedenti quelli già conferiti dalle navi che effettuano la degassifica ed entro
la potenzialità dell’impianto. Ed in particolare per i seguenti rifiuti:
cod. denominazione quantità (t/anno) p/np 050101 fanghi da trattamento sul posto degli effluenti, ad alto contenuto acquoso a condizione che contengano oli recuperabili 100000 np 050105 perdite di olio 1000 p 050106 fanghi pompabili da impianti, apparecchiature e operazioni di manutenzione a condizione che contengano oli recuperabili 50000 np 050199 rifiuti non specificati altrimenti, a condizione che contengano oli recuperabili 15000 np 130401 oli di cala da navigazione interna 500 p 130402 oli di cala derivanti dalle fognature dei moli 500 p 130403 oli di cala da altre navigazioni 500 p 130502 fanghi pompabili di separazione olio(acqua, a condizione che contengano oli recuperabili 2000 p 130503 fanghi pompabili da collettori, a condizione che contengano oli recuperabili 2000 p 130504 fanghi pompabili o emulsioni oleose da dissalatori, a condizione che contengano oli recuperabili 2000 p 130505 altre emulsioni oleose 50000 p 130601 altri rifiuti oleosi non specificati altrimenti 5000 p 160702 rifiuti della pulizia di cisterne di navi contenenti oli 70000 p 160704 rifiuti della pulizia di vagoni cisterne ed autocisterne contenenti oli 10000 p 160706 rifiuti della pulizia di serbatoi di stoccaggio contenenti oli 20000 p
p= pericolosi – np = non pericolosi
L’autorizzazione veniva rilasciata subordinatamente al rispetto
delle altre
norme contenute nel d.lv. 22/97 e delle relative norme di attuazione, nonché
facendo salve le altre autorizzazioni e prescrizioni di competenza di altri
enti.
Con tale provvedimento l’ing. M. S., su indicazione scritta rilasciata dallo
stesso il 3/12/99, veniva individuato come direttore tecnico dell’impianto, con
obbligo per la società di comunicare ogni variazione del relativo nominativo.
Tale complesso di autorizzazioni, a parere dei consulenti del pubblico
ministero, come sopra anticipato, non sarebbe idoneo a consentire, in generale,
l’esercizio dell’impianto nel modo in cui esso è stato trasformato e per la
destinazione che gli è stata conferita, ed a svolgere all’interno dello stesso
tutte le operazioni concretamente effettuate.
A ciò si aggiunge, secondo i consulenti del pubblico ministero, che l’impianto,
comunque, non sarebbe né adeguatamente attrezzato alla ricezione ed allo
stoccaggio delle frazioni solide (in fusti e in container) in attesa di
trattamento mediante aree ad hoc, coperte e munite di rete di drenaggio
convogliata al trattamento; né, comunque, idoneo per la formazione di fanghi
palabili da smaltire in discarica e per il raggiungimento dei parametri fissati
dalla legge per lo scarico della acque depurate in mare, tanto più che non
risulterebbe alcuna documentazione analitica circa la caratterizzazione dei
reflui idrici dopo trattamento nella stazione di degassifica.
In particolare inadeguato appariva il sistema di pretrattamento, evidentemente
realizzato in carenza delle normali condizioni di sicurezza per gli operatori e
per l’ambiente. I fusti contenenti i rifiuti semisolidi, infatti, venivano
svuotati senza precauzioni e senza idonea attrezzatura, nella vasca di raccolta
(MS 117).
Poi la parte relativa al trattamento delle acque di zavorra non sembrava
in
grado di giungere ad una separazione spinta degli idrocarburi totali fino al
limite di 5 mg/l, e, quindi, in generale fino a raggiungere i limiti di legge,
in considerazione della possibile presenza di emulsioni, le cui componenti
acquosa ed idrocarburica sono difficilmente separabili a meno di un intervento
di riscaldamento o l’aggiunta di prodotti disemulsionanti.
L’impianto, inoltre, non appariva idoneo a garantire alcun soddisfacente
trattamento di qualsiasi tipologia di rifiuto che non sia strettamente a matrice
acquosa o comunque in presenza di inquinanti in elevata concentrazione allo
stato di particolato o in forma colloidale o disciolta. Per la gestione di tali
rifiuti, infatti, secondo i consulenti, l’impianto avrebbe dovuto essere
completamente ristrutturato con inserimento di un chiariflocculatore e
probabilmente di una sezione finale di trattamento biologico.
In assenza di idonea copertura e di sistema di raccolta, inoltre, potevano
diffondersi i gas, originariamente presenti allo stato disciolto nell’acqua di
zavorra, ed in parte separati nel corso della flottazione.
Parimenti appariva inidonea la sezione relativa al trattamento dei fanghi
residui, che consiste essenzialmente nell’ispessimento degli stessi, cioè nella
concentrazione di solidi della corrente trattata, per l’estrazione di fanghi
destinati all’incenerimento o allo smaltimento in discarica. L’inefficienza
deriverebbe dalla scarsa capacità di ispessimento che caratterizzerebbe
l’impianto esistente, tale da restituire fanghi eccessivamente liquidi ed ancora
consistenti in quantità e pericolosità, come tali non idonei, a norma della
direttiva CE 99/31, allo stoccaggio in discarica. Al punto che tutto l’impianto
acque ubicato nella stazione di degassifica … dovrebbe essere considerato un
impianto primario di pretrattamento fisico…
Limiti dei quali la società doveva essere consapevole se ha avviato, pur in
mancanza di specifica autorizzazione degli Enti competenti, una serie di
modifiche impiantistiche, peraltro ritenute dai consulenti del pubblico
ministero non ancora adeguate.
Lo stesso impianto di incenerimento, infine, malgrado di più recente
realizzazione, anche se mai utilizzato, appariva non conforme al disposto del
d.m. 25/2/2000 n. 124 dal momento che non consentiva il raggiungimento dei
limiti concernenti le polveri e gli ossidi di azoto e, verosimilmente, anche l’HCL,
gli ossidi di zolfo, nonché i microinquinanti organici.
Nel corso del sopralluogo, inoltre, veniva rilevato un gran numero di fusti
contenenti rifiuti, accatastati alla rinfusa e senza precauzioni, e tra di essi
materiale contenuto in big bags descritto come materiale solido adsorbente, non
trattabile nell’impianto in quanto lo stesso concepito esclusivamente per il
trattamento di rifiuti liquidi o semiliquidi.
Infine i consulenti rilevavano come nessuna procedura di accertamento preventiva
fosse stata effettuata al fine di operare la Valutazione di Impatto Ambientale.
Per contro ritenevano che questa fosse obbligatoria per gli impianti di
stoccaggio, recupero e termodistruzione. Invero a tale impianto risultavano
conferiti rifiuti, oltre che pericolosi a norma del d.lv. 22/97, anche tossici e
nocivi ai sensi del d.p.r. 915/82 essendo ricompresi nella tabella 1.3 della
delibera del comitato inteministeriale 27/7/1984
(4). Secondo la stessa, infatti,
sono da considerare tossici e nocivi tutti i rifiuti provenienti da attività di
produzione o di servizi, a meno che il produttore dei rifiuti non dimostri che
gli stessi non siano classificabili in tal senso a norma del punto 1.2. Ed in
particolare, a tal fine, sono considerati rifiuti tossici e nocivi tutti quelli
che contengono una o più delle sostanze indicate nella tabella 1.1 in concentrazioni superiori ai valori di concentrazione limite (CL) indicati nella
tabella stessa, ovvero una o più delle altre sostanze appartenenti ai 28 gruppi
di cui all’allegato al d.p.r. 915/82 in concentrazioni superiori ai valori di CL
ricavati dall’applicazione dei criteri generali desunti dalla tabella 1.2. E,
nel caso in cui siano presenti più sostanze di cui a tale allegato, ai fini
della classificazione, occorrerà procedere alla sommatoria dei rapporti tra la
concentrazione effettiva di ciascuna sostanza, dovendosi classificare il rifiuto
come tossico e nocivo ove tale sommatoria dia un risultato superiore a 1.
Nel caso in esame rientrerebbero, pertanto, nella categoria predetta almeno una
parte dei rifiuti trattati nello stabilimento, ed in particolare quelli di cui
ai codici di classificazione 16.07 e 05.01, riconducibili alla classificazione
di cui alla citata tabella 1.3, ed in particolare alle seguenti tipologie: 2.5,
fanghi di processo provenienti da stoccaggio di prodotti petroliferi; 6, residui
catramosi derivanti da operazioni di distillazione e da processi di raffinazione
del petrolio; 7, sostanze chimiche di laboratorio non identificabili; 9,
sostanze chimiche fuori specifica; 11, fanghi derivanti dalla depurazione delle
acque reflue dei processi, dei trattamenti e delle operazioni compresi nella
tabella 1.3.
In assenza di caratterizzazione dei rifiuti, dunque, gli stessi andrebbero
considerati tossico-nocivi e l’impianto soggetto a valutazione di impatto
ambientale. Senza che possa assumere alcuna rilevanza la circostanza che i
rifiuti, come sostenuto dalla difesa, sarebbero provenienti, per la maggior
parte, dalla Erg, dall’Enichem e da altre grandi imprese, e che gli stessi
fossero muniti di analisi effettuate da primari laboratori come la Ecocontrol
Sud di Siracusa, dal momento che la caratterizzazione dei rifiuti era comunque
onere della ditta ricevente ove ne avesse voluto escludere la natura
tossico-nociva.
Per tali ragioni, pertanto, in base al disposto dell’art. 57 d.lv. 22/97(5),
l’impianto, ad avviso dei consulenti, avrebbe dovuto essere preventivamente
assoggettato alle procedure di valutazione di impatto ambientale. A ciò
aggiungasi che tale procedura è necessaria a livello nazionale per gli
stabilimenti che trattano rifiuti tossici e nocivi, ma è comunque necessaria a
livello regionale per gli stabilimenti che trattano rifiuti genericamente
pericolosi, quali certamente quelli conferiti presso l’impianto in esame.
Categoria, quella dei rifiuti pericolosi, più ampia di quella dei rifiuti
tossici e nocivi, essendo quest’ultima sostanzialmente limitabile, all’interno
della prima, ai gruppi H4, H5 e H6.
L’adozione della procedura di valutazione, pertanto, sarebbe stata comunque
necessaria a norma del d.p.r. 12/4/96, recepito in Sicilia con d.p. 17/5/99
pubblicato sulla G.U.R.S. il 8/10/99, e del d.p.c.m. 3/9/99 indipendentemente
dalla natura tossico-nociva dei rifiuti trattati, e quindi anche nell’ipotesi –
sostenuta dal consulente della difesa ing. Bruno C. – che i rifiuti trattati non
potessero classificarsi come tossico-nocivi, non essendo necessaria, secondo
buon senso, una puntuale caratterizzazione dei rifiuti ricevuti per dimostrarne
la non nocività-tossicità(6).
Per contro nessuna valutazione d’impatto ambientale sarebbe stata effettuata nel
caso di specie(7).
In definitiva, pertanto, i consulenti del pubblico ministero ritenevano che
l’impianto, rispetto a quello realizzato in origine, avesse subito delle
modifiche, stravolgendo integralmente l’originaria vocazione. La nuova attività
di gestione dei rifiuti, infatti, appare sostanzialmente diversa da quella
originaria, la quale era caratterizzata dalla degassifica delle petroliere,
dunque dallo svolgimento di un servizio di ripristino delle navi, rispetto al
quale la gestione del rifiuto assumeva una funzione meramente conseguenziale e
secondaria. La nuova attività intrapresa dalla ** costituisce, invece, una forma
di trattamento in esclusiva del rifiuto, per di più di un rifiuto solo
eventualmente ed occasionalmente paragonabile a quello delle acque di lavaggio.
In relazione a tali modifiche detto impianto, pertanto, doveva ritenersi
sprovvisto di autorizzazione:
a norma del d.lv. 152/99, quanto agli scarichi provenienti dall’impianto di
termodistruzione, nonché quanto agli scarichi derivanti dal modificato impianto
di smaltimento e recupero rifiuti, essendo autorizzato solo l’originario
impianto di degassificazione, autorizzazione, peraltro, emanata in base a
normativa preesistente e ormai abrogata. La stessa autorizzazione rilasciata
dalla Provincia appariva non pertinente, in quanto emanata in base a normativa
concernente le acque di scarico di depuratori comunali e intercomunali, e
comunque promanante da organo incompetente, dal momento che in Sicilia organi
delegati dalle Regioni sono i Comuni e non le Province, in virtù dell’art. 40
della l.r. 27/86.
a norma del d.p.r. 203/88, quanto alle emissioni provenienti dagli impianti
(serbatoi, separatore TPI, flottatori e nuove sezioni impiantistiche costituite
da filtrazione, strippaggio, sedimentazione, ossidazione). Tra l’altro le
emissioni dell’impianto di termodistruzione non erano state autonomamente
autorizzate, essendo state considerate, a norma dell’art. 15 d.p.r. 203/88, come
una variazione qualitativa di quelle già autorizzate per l’impianto di
degassificazione, piuttosto che emissioni derivanti da un nuovo impianto.
a norma del d.lv. 22/97, in quanto l’impianto era stato solo autorizzato per
l’attività di recupero e di termodistruzione, ma non per le altre attività, pure
esercitate, di stoccaggio e smaltimento. Inoltre l’attività di recupero sarebbe
stata autorizzata esclusivamente a norma dell’art. 28 d.lv. 22/97 limitatamente
all’esercizio, senza che questa fosse stata preceduta dalle necessarie
autorizzazioni relative alle modifiche dell’impianto a norma dell’art. 27,
benchè, in realtà, la struttura preesistente, fino al 15/11/99 non fosse mai
stata destinata al recupero dei rifiuti, ma solo alla degassifica. L’impianto,
quindi, non risultava essere in possesso di alcuna autorizzazione per le
attività di gestione rifiuti, pur esercitate, R1, R9, R13, D8(8).
Gli elementi sopra esposti ed analizzati evidenziano un quadro fortemente
deteriore dell’impianto di degassifica in oggetto. A prescindere dalle
specifiche contestazioni che verranno di seguito esaminate, gli accertamenti
compiuti dai tecnici e la cospicua documentazione acquisita fanno emergere una
gestione dell’impianto alquanto scadente ed effettuata nella sostanziale
illegalità, favorita, peraltro, da un contesto istituzionale assai carente e
latitante. È emerso, infatti che i responsabili dell’impianto, nel corso del
tempo, avrebbero operato interventi di modifica, sia nelle strutture che nella
reale destinazione dello stesso, operandone una radicale rinconversione, senza
che tali interventi fossero supportati da idonei provvedimenti autorizzativi.
L’impianto, originariamente concepito – e verosimilmente anche allora non
pienamente in regola con le autorizzazioni e nemmeno pienamente efficiente – per
la degassifica delle navi, è stato nel tempo, di fatto, riconvertito alla
gestione di altri rifiuti, conferiti da terzi via terra, al punto che l’attività
di degassifica è divenuta, di fatto, del tutto marginale, se non addirittura
inesistente, come, del resto, appare evidente dall’esame dei rifiuti conferiti e
sottoposti a trattamento nell’arco dell’ultimo anno di vita dell’impianto, tra
il novembre 1999 ed il novembre 2000, come evidenziato a pag. 5. Ulteriori
importanti modifiche erano in corso anche all’atto dell’accesso dei consulenti
del pubblico ministero, senza che le stesse fossero state preventivamente
comunicate agli Enti competenti e, tanto meno, autorizzate a norma dell’art. 27
d.lv. 22/97.
Non solo. L’impianto, infatti, è stato utilizzato benchè lo stesso fosse
assolutamente inadeguato al trattamento di tali tipologie di rifiuti (v. pagg.
11 e ss.): non idoneo al raggiungimento dei limiti fissati per lo scarico delle
acque in mare, ma neppure idoneo ad ottenere fanghi non recuperabili idonei allo
smaltimento in discarica.
Sul punto devono effettuarsi due considerazioni.
Per un verso la conferma della inadeguatezza dell’impianto si trae da alcune
analisi rinvenute dai consulenti, effettuate in epoca antecedente ai fatti per
cui è processo, dal locale LIP.
A quanto pare, infatti, in data 3/10/2000 personale del LIP su richiesta della
Provincia avrebbe effettuato il prelievo di campioni di rifiuti liquidi da
trattare durante le fasi del trattamento, dal momento iniziale alla fine dello
stesso, con prelievo effettuato nel pozzetto subito prima dello scarico. Si
riportano di seguito alcuni parametri rilevati sui campioni:
campioni del 3/10/2000
acque da trattare
parzialmente trattate
dopo trattamento
ODORE molesto Molesto molesto AZOTO AMMONIACALE MG/L
1.360,8
1.134
352,8
COD MG/L
51.300
47.800
15.900
FENOLI MG/L
121
77,3
9,7
L’esame di tali dati, come peraltro confermato dai consulenti del pubblico ministero, evidenzia in maniera inequivocabile come le acque residue alla fine del trattamento, destinate, quindi, all’immissione in mare, presentassero, per tali parametri, valori di oltre venti volte superiori ai limiti di legge stabiliti dalla tabella 3, la quale, infatti, prevede:
parametro u.m. valore limite tab. 3 Odore sdp non molesto azoto ammoniacale mg/l ≤ 15 C.O.D. come O2 mg/l ≤ 160 fenoli tot. mg/l ≤ 0,5
con conseguente rendimento dell’impianto tale da non permetterne lo scarico.
A prescindere dalle considerazioni che potrebbero essere formulate circa il
ruolo e l’attività esplicata dalle autorità di controllo, e dalla singolare
omessa adozione di qualunque provvedimento, quanto esposto conferma la
correttezza della valutazione operata dai consulenti del pubblico ministero
circa l’inadeguatezza dell’impianto, ed evidenzia la gravità della condotta dei
gestori, i quali, pur nella evidente consapevolezza della scarsa capacità di
trattamento, hanno continuato nell’attività di gestione dei rifiuti, ponendo
gravemente a rischio l’integrità dell’ambiente, oltre che la salute pubblica.
Un secondo aspetto è rappresentato dalla gestione dei residui non recuperabili
del trattamento, costituiti, essenzialmente, da fanghi, la cui unica
destinazione avrebbe dovuto essere o la termodistruzione o lo stoccaggio
definitivo in discarica.
Sul punto, tuttavia, i consulenti del pubblico ministero hanno evidenziato come
l’impianto non sarebbe stato in grado di ottenere fanghi adeguatamente compatti
da essere smaltiti in discarica, mentre l’impianto di termodistruzione non
sarebbe stato mai attivato. Ci si domanda, dunque, che fine abbiano fatto tali
fanghi. Tanto più che, dal registro di carico e scarico, la relativa
destinazione non appare chiara, nel senso che nessuna precisa annotazione è
stata fatta in proposito.
In proposito occorre evidenziare l’assoluta anomalia che emerge dai registri di
carico e scarico presi in esame dai consulenti del pubblico ministero e presenti
in copia agli atti.
Come evidenziato da questi ultimi (e sopra riassunto), nel periodo di un anno
compreso tra il 2/11/99 ed il 1/11/2000, sarebbero stati annotati, in carico, n.
623 movimenti di rifiuti per complessive 17.962 t.
A fronte di tali movimenti in carico, dall’esame delle copie dei registri di
carico e scarico presenti in atti, si evince, in maniera assai singolare, che le
uniche operazioni di scarico, con indicazione recupero codice R1, per un
ammontare complessivo di t. 3.357,2, sono state registrate in data 8/8/2000,
relativamente a:
kg. 1.888.820 fanghi da pulizia acque di zavorra asseritamente recuperati il 18/7/2000 e destinati alla Erg di Priolo kg. 382.390 oli pulizia serbatoi asseritamente recuperati il 24/7/2000 e destinati alla AMG di Palermo kg. 742.540 altre emulsioni e destinati alla SIM –Pozzilli kg. 135.640 altre emulsioni e destinati alla nuova ESA s.r.l. kg. 181.730 altri rifiuti oleosi e destinati alla Decoindustria s.r.l. kg. 26.080 altri rifiuti oleosi e destinati a Servizi Costieri
Per un totale, appunto, di kg. 3.357.200. Sul punto i consulenti del pubblico ministero, in sede di istruttoria dibattimentale, non hanno fatto altro che aumentare lo stato di confusione, ritenendo che tali annotazioni sarebbero relative a rifiuti conferiti alla ** – e non, invece, ceduti da quest’ultima – e che l’indicazione della voce “scarico” sarebbe frutto di un errore.
Nessuna annotazione chiara, comunque, si evince in ordine alla
parte residua, ponderalmente non recuperata e non scaricata. Con la conseguenza che – come
osservano i consulenti del pubblico ministero – tale parte dovrebbe costituire
ancora un mix non di sicura identificazione all’interno della stazione di degassifica (serbatoi polmone, vasche e stadi di trattamento, contenitori e
fusti depositati nei piazzali). Sicchè non si comprenderebbe quale sia stato il
destino finale dei residui del trattamento delle acque di zavorra e degli altri
rifiuti recuperati sulla piattaforma.
In un certo senso è come se tali fanghi fossero rimasti nelle vasche
dell’impianto, sebbene la loro presenza non sia stata evidenziata dai consulenti
del pubblico ministero al momento dell’accesso, malgrado, come riferito dagli
stessi, in tale occasione il flocculatore fosse in manutenzione. Tale ipotesi,
peraltro, è stata anche sostenuta dal consulente della difesa ing. C., il quale
ha affermato che, dall’esame dei registri di carico e scarico, risulterebbero
conferimenti a ditte specializzate, ed in particolare alla Bodein, di fanghi
residuati dal trattamento solo fino agli anni 1993 e 1994. Successivamente,
invece, essendosi ridotto il volume dei rifiuti trattati, i fanghi residui non
sarebbero stati più conferiti, e sarebbero rimasti provvisoriamente in deposito
nei serbatoi dell’impianto in attesa dello smaltimento finale(9). Sicchè, secondo
tale ricostruzione, ancora oggi residuerebbero all’interno dell’impianto i
fanghi relativi al trattamento dei rifiuti effettuato negli ultimi otto – dieci
anni.
Per la verità tale ricostruzione lascia assai perplessi. Invero solo nel corso
dell’ultimo anno di attività, dall’esame dei registri di carico e scarico,
risultano trattati dalla ** circa 17.000 t di rifiuti, con la conseguenza che il
quantitativo di fanghi residuati al trattamento doveva essere piuttosto cospicuo
e, verosimilmente, incompatibile con lo spazio a disposizione nelle
apparecchiature e nei serbatoi.
Ma se anche tali fanghi fossero ivi custoditi tale condotta darebbe luogo ad
ulteriori evidenti profili di irregolarità: sia sostanziale, sotto il profilo di
stoccaggio in condizioni non adeguate; sia formale, sotto il profilo di
stoccaggio (temporaneo o definitivo) non autorizzato. In particolare è evidente
che i fanghi residuati al trattamento ed al recupero dei rifiuti conferiti,
costituiscono a loro volta rifiuti prodotti nell’impianto di trattamento (cod.
19 dell’all. D al d.lv. 22/97)
(10), con la conseguenza che il loro
deposito
temporaneo deve avvenire alle condizioni stabilite dall’art. 6 c. 1 lett. m) d.lv. 22/97, potendosi configurare, in caso contrario, illeciti penalmente
sanzionati.
In tal senso è palesemente infondata la tesi rappresentata dalla difesa secondo
la quale il trattamento delle acque oleose avrebbe come prodotto finale non dei
rifiuti, ma dei semilavorati di origine petrolifera, in quanto si tratterebbe di
morchie ed idrocarburi, aventi apprezzabile contenuto energetico e valore di
mercato e, pertanto, riutilizzabili mediante incenerimento e recupero del loro
contenuto energetico. Nel caso di specie, infatti, non si tratta di residui
della lavorazione di un prodotto, ma di residui del trattamento di rifiuti:
dunque essi stessi rifiuti per antonomasia. Peraltro, in generale, qualunque
residuo di processo industriale costituisce rifiuto ai sensi del d.lv. 22/97,
come emblematicamente precisato dal punto Q8 dell’allegato A al medesimo
decreto, a nulla rilevando la eventuale recuperabilità o riutilizzabilità – a
meno che questa non avvenga nel medesimo ciclo produttivo – costituendo le
operazioni di recupero niente altro che una forma di gestione del rifiuto
stesso, come chiaramente indicato all’art. 6 lett. d) e nell’allegato C del
decreto, che, tra l’altro, al punto R1 espressamente indica come una delle
possibili operazioni di recupero la utilizzazione principale come combustibile o
come altro mezzo per produrre energia. Ne consegue che l’eventuale possibilità
di impiegare i residui del trattamento dei rifiuti in questione come fonte di
energia, non toglie che gli stessi restino dei rifiuti il cui deposito o
stoccaggio è soggetto a particolari discipline e deve essere preventivamente
autorizzato.
Resta, dunque, l’interrogativo circa la destinazione finale di tali rifiuti, non
trattabili all’interno dello stabilimento, che non può essere evinta dai
registri di carico e scarico, come anche confermato dai consulenti del pubblico
ministero.
Anche tale insieme di circostanze evidenzia una gestione dell’impianto quanto
meno irregolare, con una assai anomala tenuta dei registri di carico e scarico,
tale da impedire una corretta ricostruzione dei movimenti.
Inevitabilmente in tale prospettiva può essere letto l’episodio verificatosi il
giorno 30/9/2000: i reflui provenienti dallo stabilimento ed abusivamente
recapitati in mare, infatti, avevano un elevatissimo contenuto di inquinanti
come è dato desumere dal fatto che i corrispondenti parametri, come si dirà
meglio di seguito, erano ancora estremamente elevati malgrado il prelievo sia
stato effettuato con reflui già diluiti. Appare, pertanto, altamente probabile
che tali reflui non costituissero solamente il risultato di un trattamento di
rifiuti consapevolmente inadeguato; ma, addirittura, rappresentassero
l’eliminazione di quei fanghi non recuperabili, residuati al trattamento, e che
l’impianto non era in grado di smaltire, se non mediante conferimento a terzi
con conseguenti costi estremamente rilevanti. Non può escludersi, cioè, che il
reale meccanismo di smaltimento dei residui del trattamento adottato
nell’impianto fosse quello di scaricarli in mare, in tutto o in parte, a
prescindere dalla natura e dal rispetto dei parametri fissati dalla legge. Tanto
più che lo scarico avveniva in un punto in cui le correnti sono particolarmente
forti e tali da fare disperdere rapidamente le immissioni, con conseguente
impossibilità di rintraccio. Circostanza che risulta ancora più verosimile alla
luce dell’espediente adottato nel giorno in questione, quando presso lo
stabilimento era attivato l’impianto antincendio, con l’unico possibile scopo di
agevolare ulteriormente la diluizione e la dispersione dei reflui altamente
inquinati. Sul punto, per vero, occorre evidenziare come R. G., dipendente della
** con la qualifica di impiegato tecnico, abbia sostenuto, sia pure
genericamente, che nel periodo di settembre del 2000 sarebbero state effettuate
delle prove dell’impianto antincendio con conseguente attivazione dello stesso.
Malgrado tali dichiarazioni, ed a prescindere dalla attendibilità delle stesse,
deve ritenersi che l’attivazione dell’impianto antincendio il giorno 22/9/2000
non costituisse un’attività meramente casuale, ma specificamente funzionale alla
ulteriore diluizione dei reflui provenienti dallo scarico, costituendo,
altrimenti, la coincidenza dei due eventi, una circostanza oltremodo singolare.
Tanto più che, come è evidente dalla documentazione fotografica in atti, il
getto dell’acqua dell’impianto antincendio era diretto verso il mare.
Tale situazione, peraltro, fa il paio con altra circostanza, pur essa fortemente
sintomatica di una gestione estremamente irregolare della struttura. Come sopra
evidenziato (v. pag. 12), infatti, nel corso del sopralluogo condotto dai
consulenti del pubblico ministero è stato rinvenuto del materiale in big bags,
consistente in materiale solido adsorbente. Sul punto i consulenti del pubblico
ministero hanno chiarito trattarsi sostanzialmente di materiale assorbente
utilizzato nella manutenzione degli impianti industriali per recuperare le
fuoriuscite dei liquidi impiegati nei cicli produttivi. Tale rifiuto, come
specificato dai consulenti, non sarebbe stato trattabile nell’impianto di
smaltimento della **. Infatti, a prescindere dalla classificazione del rifiuto
medesimo, lo stesso ha struttura sostanzialmente solida, mentre l’impianto della
** tecnicamente sarebbe stato idoneo – e peraltro in maniera non particolarmente
efficiente – solo alla gestione di rifiuti allo stato liquido.
Del resto l’atipicità di tali rifiuti appare dimostrata anche dal fatto che,
come risulta dalla documentazione in atti, dopo il sequestro gli imputati
avrebbero vanamente tentato di trovare altra ditta disposta a riceverli per lo
smaltimento.
Se tali rifiuti non potevano essere tecnicamente smaltiti nell’impianto ** e,
malgrado ciò, vennero ugualmente ricevuti dai gestori dell’impianto, ancora una
volta non ci si può che interrogare circa le effettive modalità di eliminazione
dei rifiuti stessi. Né, in proposito, giova quanto riferito dall’ing. C., il
quale sostiene che tali rifiuti, verosimilmente, sarebbero trattabili
nell’impianto di incenerimento. Si da il caso, però, che come sostenuto dallo
stesso C., l’impianto di termodistruzione non venne mai attivato, né vennero
attivate le procedure amministrative prodromiche alla sua attivazione. Sicchè
deve escludersi che tali rifiuti potessero essere ricevuti in funzione della
termodistruzione all’interno della **, a meno di non volere ritenere che tale
impianto venisse attivato in violazione della legge, in quanto in assenza delle
procedure di collaudo e delle altre, prodromiche, dalla legge.
Tanto premesso, prima di procedere all’esame delle singole contestazioni,
occorre osservare come, in materia di rifiuti, il d.lv. 22/97 costituisca una
normativa di cornice, a carattere generale, trovando applicazione per tutte le
attività inerenti i rifiuti, rispetto alla quale le altre norme costituiscono
disciplina speciale, applicabile esclusivamente con riferimento allo specifico
settore, come accade, per esempio, per il d.lv. 152/99 in materia di scarichi.
Il d.lv. 22/97 è entrato in vigore il 3/3/1997 e, in base al disposto dell’art.
57 tutte le autorizzazioni rilasciate sotto la vigenza del d.p.r. 915/82 restano
valide fino alla loro scadenza, ma non oltre quattro anni dall’entrata in vigore
della nuova normativa, salvo l’aggiornamento da apportare a cura delle Regioni.
In base a tale disposto, dunque, la nuova normativa deve trovare attuazione per
tutte le vicende inerenti la gestione dei rifiuti successive al 3/3/97, con la
sola eccezione delle autorizzazioni già in essere. Con la conseguenza che la
realizzazione di nuovi impianti o la modifica di quelli esistenti viene ad
essere regolata dal d.lv. 22/97.
Sempre l’art. 57 stabilisce che tutte le norme regolamentari e tecniche già in
essere, continuano a restare in vigore anche con la nuova disciplina, sino
all’adozione delle nuove normative. Ai fini dell’applicazione delle vecchie
disposizioni, tuttavia, essendo stata eliminata la voce rifiuti tossici e
nocivi, ogni riferimento a questi ultimi si deve intendere effettuato ai rifiuti
pericolosi. Tali rifiuti, in particolare, a norma dell’art. 7 c. 4, sono quelli
precisati negli elenchi di cui agli allegati D, G, H, ed I.
Sempre in base all’art. 57, in attesa dell’adozione della nuova disciplina
organica in materia di impatto ambientale la procedura di cui all’art. 6 della
l. 8/7/86 n. 349 continua ad applicarsi ai progetti delle opere rientranti nella
categoria di cui all’art. 1 lett. i) del d.p.c.m. 10/8/88 n. 377… relativa ai
rifiuti classificati tossici e nocivi.
Secondo l’art. 6 c. 1, poi, si intende per rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto
che rientra nelle categorie riportate nell’allegato A e di cui il detentore si
disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi. Quindi, secondo l’art. 14
d.l. 138/02, convertito con l. 178/02, non si verte in materia di rifiuti per
beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo ove sussista
una delle seguenti condizioni:
a) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente
riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo,
senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare
pregiudizio all’ambiente;
b) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente
riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo,
dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna
operazione di recupero tra quelle individuate nell’allegato C del decreto
legislativo n. 22.
Sempre il menzionato d.lv. 22/97 definisce per
gestione dei rifiuti le attività
di raccolta, trasporto, recupero e smaltimento, compreso il controllo di queste
operazioni, nonché il controllo delle discariche e degli impianti di smaltimento
dopo la chiusura.
Tra le attività che costituiscono smaltimento, a norma dell’all. B, vanno
annoverate:
D1) il deposito sul o nel suolo; D6) lo scarico dei rifiuti solidi nell’ambiente
idrico eccetto l’immersione; D8) il trattamento biologico non specificato
altrove nel presente allegato, che dia origine a composti o a miscugli eliminati
secondo uno dei procedimenti elencati nei punti da D1 a D12; D9) il trattamento
fisico chimico non specificato altrove nel presente allegato che dia origine a
composti o a miscugli eliminati secondo uno dei procedimenti elencati nei punti
da D1 a D12; D10) l’incenerimento in terra; D12) il deposito permanente; D13) il
raggruppamento preliminare prima di una delle operazioni di cui ai punti da D1 a
D12; D14) il ricondizionamento preliminare prima di una delle operazioni di cui
ai punti da D1 a D13; D15) il deposito preliminare prima di una delle operazioni
di cui ai punti da D1 a D14 (escluso il deposito temporaneo, prima della
raccolta, nel luogo in cui sono prodotti).
Tra le operazioni che danno luogo al recupero, a norma dell’all. C, deve
indicarsi: R1) la utilizzazione principale come combustibile o come altro mezzo
per produrre energia.
Fatte queste premesse occorre ora esaminare le singole contestazioni.
A – Con riferimento all’ipotesi di cui al capo a) viene contestata la violazione
dell’art. 51 c. 1 lett. b) del d.lv. 22/97 in relazione all’esercizio … in
assenza di preventiva approvazione di un progetto ai sensi dell’art. 27 e dunque
di idonea autorizzazione ex art. 28 d.lv. 22/97 attività qualificabili come
stoccaggio e smaltimento – in forza dei punti R1, R9, D8 per quanto concerne lo
smaltimento, ed R13 per quanto concerne lo stoccaggio, previsti dall’all. B di
cui all’art. 5 c. 6 d.lv. 22/97 di rifiuti pericolosi ai sensi del d.lv. 22/97,
parte dei quali tossici e nocivi ai sensi dell’elenco 1.3 indicato dal n. 2 del
punto 1.2 della delibera Com. Interm. 27/7/84, disposizione non abrogata ex art.
56 d.lv. 22/97, e precisamente in forza dei sottonumeri 2.5, 6, 7, 9, 11 del
citato elenco 1.3, la cui presenza richiedeva altresì la preventiva valutazione
di impatto ambientale ai sensi dell’art. 1 DPCM n. 377 del 10/8/88, adottato in
forza dell’art. 6 l. 349/86.
Come sopra si è osservato la struttura in esame è stata concretamente destinata
ad un’attività di trattamento di rifiuti articolata sugli impianti di recupero
oli, trattamento acque, trattamento fanghi, incenerimento e scarico
(industriale) in mare. Rispetto all’installazione originaria sono stati attivati
nuovi e differenti impianti, nonché eseguite, sui rifiuti, operazioni nuove e
diverse rispetto a quelle originariamente assentite, con conseguenti emissioni
liquide e gassose sostanzialmente diverse dal passato, quando l’impianto era
destinato alla sola degassificazione delle cisterne delle navi (basti, in
proposito, fare riferimento a quanto evidenziato alle pagg. 5 e ss. e 17 e ss.).
Può concludersi che l’impianto concretamente esercitato sia sostanzialmente
difforme da quello in origine autorizzato perché funzionale ad una tipologia di
trattamento di rifiuti diversa da quella originaria, e, pertanto, diverso esso
stesso sia per le modalità di gestione del rifiuto, sia per gli elementi
dell’impianto concretamente utilizzati.
Per tali nuove attività, che hanno modificato l’impianto sia nella struttura che
nella destinazione, e per la stessa modifica delle procedure di trattamento dei
rifiuti conseguente alla diversa tipologia di rifiuti trattati, però, la società
non ha ottenuto preventivamente gli specifici titoli autorizzativi, benchè gli
stessi, come ampiamente chiarito dai consulenti del pubblico ministero, fossero
necessari, non solo prima dell’attivazione dell’impianto nella nuova
configurazione, ma addirittura prima dell’avvio dei lavori di modifica, i quali,
implicando interventi strutturali, avrebbero richiesto una preliminare
validazione da parte degli Enti competenti a norma dell’art. 27 d.lv. 22/97,
prodromica al rilascio della ulteriore autorizzazione alla gestione a norma
dell’art. 28.
Va osservato, in proposito, come, a norma dell’art. 27 d.lv. 22/97,
l’autorizzazione regionale, con la procedura ivi descritta, debba essere
richiesta sia per la realizzazione di ogni nuovo impianto di smaltimento o di
recupero di rifiuti, sia per la realizzazione di varianti sostanziali in corso
di esercizio, che comportano modifiche a seguito delle quali gli impianti non
sono più conformi all’autorizzazione rilasciata.
Correttamente deve ritenersi – come, peraltro, incidentalmente osservato dalla
difesa – che non ogni modifica costituisce nuovo impianto, ma solo le varianti
di carattere sostanziale che rendono l’impianto stesso non più conforme
all’autorizzazione rilasciata. Restano dunque esenti da nuova autorizzazione
solo quelle variazioni del processo tecnologico di trattamento dei rifiuti che
non modifichino le capacità dell’impianto con riferimento alla quantità e
tipologia generale dei rifiuti. Una nuova autorizzazione e, invece, necessaria
ogniqualvolta vengano posti in essere interventi di ristrutturazione che
implichino: l’introduzione di una diversa fase di gestione, o di una diversa
tipologia di rifiuti da trattare, o, infine, di una diversa procedura di
trattamento dei rifiuti medesimi (cfr. C. Stato IV, 6/11/98, 1440).
Nel caso di specie appare evidente come si verta proprio in tali ultime ipotesi,
dal momento che gli interventi effettuati sull’impianto – sia quelli che hanno
determinato l’introduzione di nuovi elementi strutturali, sia quelli che hanno
implicato la modifica del ciclo di trattamento dei rifiuti con estensione a
nuove tipologie – come più volta sopra ribadito, hanno comportato una radicale
trasformazione dello stesso sia nella tipologia di rifiuti trattati, sia nelle
procedure impiegate, sia negli elementi strutturali dell’impianto, non
potendosi, dunque, parlare di meri adeguamenti del processo tecnologico.
La stessa difesa ammette che sull’originario impianto, costituito da: sezione di
polmonazione, sezione di disoleazione con vasche TPI e sezione di flottazione ad
aria; sono intervenute modifiche con integrazione di: sezione di filtrazione a
sabbia; ulteriore sezione di disoleazione; sezione di filtrazione a carboni
attivi; sezione di ossidazione chimica; sezione di stripping dell’ammoniaca;
sezione di sedimentazione fanghi.
Tutte dette modifiche, però, come evidenziato dai consulenti del pubblico
ministero, non risultano supportate da alcuna autorizzazione.
Ma già prima di tali modifiche altre ed altrettanto pregnanti erano state
abusivamente effettuate, come, del resto, sopra evidenziato (vv. le già
richiamate pp. 5 e 17), consistenti nella realizzazione di nuove vasche di
raccolta (quali la più volte menzionata MS117), o la modifica di serbatoi
preesistenti (quali il TK106), o la utilizzazione di aree dell’impianto come
zone di stoccaggio rifiuti, o, più in generale, nella estensione della tipologia
di rifiuti trattati.
Del resto, in ordine agli interventi strutturali abusivamente realizzati, ed
alla conseguente trasformazione dell’intera filosofia dell’impianto, è
sufficiente richiamare la descrizione che dello stesso ne fa il consulente della
difesa.
In particolare nella relazione a firma di quest’ultimo, depositata all’udienza
del 4/11/2003, l’impianto originario viene descritto in questi termini: n. 2
serbatoi fuori terra per acque oleose della capacità rispettiva di mc. 10.000 e
8.000 (TK 101 e TK102); disoleatore a pacchi lamellari (TPI); vasca di aggiunta
polielettrolita (disemulsionante); n. 2 flottatori ad aria indotta; n. 1
serbatoio fuori terra dotato di serpentina di riscaldamento della capacità di mc.
1.500 (TK 103); n. 1 serbatoio fuori terra della capacità di mc. 2.000 per lo
stoccaggio degli oli minerali recuperati (TK 104); impianto di ispessimento
fanghi; impianto di produzione vapore ….
Per contro il medesimo impianto viene descritto – evidentemente nello stato
attuale – come costituito dalle seguenti sezioni: accumulo delle acque oleose in
ingresso (S117); idrocicloni per la separazione dei solidi sospesi (TK 109 A/B);
decantatori per gravità (TK 101, Tk 102, TK 103); separazione olio sul TPI;
disemulsionamento e scolmaggio olio; accumulo dell’olio recuperato (TK 104);
flottazione e chiariflocculazione delle acque reflue; analisi dei campioni di
refluo; scarico in mare del refluo; ispessitore fanghi (S 104); vasca di
accumulo ed impianto di neutralizzazione dei fanghi; linea di invio
dell’effluente del pozzetto di raccolta S 113-S114 al decantatore TK 101
allorchè l’analisi dei campioni di refluo non risulti negativa.
Inoltre la conferma di interventi non autorizzati rispetto l’originaria
installazione assentita si trae anche dall’esame degli elaborati allegati alla
domanda di autorizzazione del 1983. In particolare, esaminando la tavola 3/6 –
planimetria generale d’impianto – del progetto esecutivo definitivo, è evidente
come non si evinca alcuna traccia, per esempio, della vasca MS117 (come sopra
osservato presente, invece, nello stato attuale), o come il serbatoio TK 106,
allo stato attuale utilizzato come polmone per le acque di scarico, venga
indicato nel progetto originario come serbatoio alimentazione H2O alla c.
termica.
Anche questi interventi risultano privi della presupposta autorizzazione a norma
dell’art. 27, con la conseguenza che l’impianto è stato modificato ed esercitato
in assenza dei necessari provvedimenti. Ed infatti, in base alla documentazione
in atti, l’unica autorizzazione rilasciata a norma dell’art. 27 cit. concerne la
realizzazione dell’impianto di termodistruzione, peraltro inteso solo come
modifica all’impianto preesistente, e non come realizzazione di nuovo impianto,
benchè questo costituisse un elemento sostanzialmente indipendente.
Le stesse nuove fasi di gestione dei rifiuti – la cui autorizzazione avrebbe
comunque presupposto il rilascio dell’autorizzazione alla modifica dell’impianto
– non risultano assentite. In merito, infatti, risultano: l’autorizzazione 39/18
(v. pag. 10) rilasciata a norma dell’art. 28 per il mero recupero dei rifiuti in
essa specificati; le autorizzazioni n. 399/18 (v. pag. 7) e 320/18 (v. pag. 8)
per la termodistruzione dei rifiuti ivi indicati. Non risultano, invece,
autorizzate le attività di smaltimento e di stoccaggio, pur esercitate
nell’impianto in esame. In particolare a norma dell’art. 28 sono soggette ad
autorizzazione tutte le operazioni di smaltimento o recupero dei rifiuti,
operazioni espressamente elencate negli allegati B e C, i quali ricomprendono,
tra l’altro, come autonoma operazione di smaltimento o di recupero: il deposito
preliminare prima delle altre operazioni di smaltimento, con unica esclusione
per il deposito temporaneo, prima della raccolta, nel luogo in cui i rifiuti
vengono prodotti; la messa in riserva prima di ogni altra operazione di
recupero, anche in questo caso con la sola esclusione del deposito temporaneo,
prima della raccolta, nel luogo in cui i rifiuti vengono prodotti. Con il che
deve concludersi che le operazioni di deposito temporaneo dei rifiuti, prima
delle ulteriori operazioni di recupero e smaltimento, avrebbero richiesto
apposita autorizzazione.
Sicchè non giova, in proposito, osservare – come fatto dalla difesa – che il
decreto 39/18 del 29/3/2000 rilasciato a norma dell’art. 28 d.lv. 22/97,
concernesse esclusivamente … il recupero di oli dai rifiuti che presentano le
stesse caratteristiche chimico fisiche di quelli provenienti dalle navi e che
possono essere utilmente trattati nel preesistente impianto, ed autorizzasse,
dunque, le operazioni di recupero … a condizione che gli stessi possano essere
effettivamente ed utilmente sottoposti alla modalità di trattamento descritte
nella relazione tecnica. Tale autorizzazione, infatti, non fa che confermare
l’accusa. Questa, infatti, veniva rilasciata limitatamente alle operazioni già
eseguite nell’impianto, e con estensione ad altre tipologie di rifiuti
esclusivamente in quanto compatibili con le capacità dell’impianto medesimo.
Ne consegue, per un verso, che nessuna nuova operazione veniva autorizzata.
Sicchè, come sopra osservato, le nuove operazioni compiute restano, comunque,
illecite. Per altro verso appare evidente come i rifiuti concretamente conferiti
non fossero in alcun modo compatibili con le caratteristiche e capacità
dell’impianto, così come confermato dai consulenti del pubblico ministero e così
come emerge dalle analisi effettuate (v. ancora pag. 18 con riferimento al
campionamento eseguito durante le fasi del trattamento).
Sul punto non merita, poi, alcuna considerazione l’affermazione secondo la quale
la permanenza di tali rifiuti nelle vasche e nei serbatoi (ma ciò certamente non
potrebbe valere per i numerosi fusti depositati alla rinfusa nelle aree
dell’impianto) per un tempo indeterminato e senza alcun controllo non darebbe
luogo ad uno stoccaggio (cioè un’autonoma fase del recupero o dello
smaltimento), ma ad una specie di fase di trattamento (comunque, però, non
autorizzata), dal momento che la permanenza degli stessi sarebbe utile ad una
sorta di decantazione, agevolando la separazione della componente idrocarburica.
Che sarebbe come dire che lo stoccaggio di scorie radioattive non darebbe luogo
a discarica, ma solo una forma di innocuizzazione degli stessi in attesa del
loro decadimento con il passare dei secoli.
L’argomento è, dunque, palesemente privo di pregio. Il trattamento del rifiuto
richiede sempre un’attività umana, un controllo ed un intervento, non potendo
coincidere con il mero abbandono dello stesso in attesa dello scorrere del
tempo, il quale è sì una fase del trattamento, ma una fase che, secondo
l’allegato B, ha un nome specifico: cioè deposito, preliminare o definitivo.
L’ulteriore obiezione formulata dalla difesa secondo la quale non si
spiegherebbe come sarebbe stato possibile il trattamento dei rifiuti senza il
preventivo stoccaggio, non fa altro, invece, che confermare l’accusa. Infatti,
fermo restando che nessuna autorizzazione risulta in ordine allo stoccaggio –
pure esercitato – dei rifiuti, è evidente come un problema di stoccaggio si
ponga solo a seguito dell’avvenuta (abusiva) riconversione dell’impianto. Come
sopra più volte ribadito, infatti, questo in origine era concepito per
l’erogazione di un servizio alle navi petroliere, servizio consistente, in
sostanza, nel lavaggio delle cisterne, e conseguente, contestuale trattamento
delle acque di lavaggio. In tale momento, pertanto, un vero problema di
stoccaggio non si poneva, dal momento che le operazioni, normalmente, erano
contestuali. Un problema di stoccaggio si pone solo a seguito della
riconversione, quando l’erogazione del servizio di lavaggio delle cisterne viene
meno, e l’impianto viene trasformato per la gestione di rifiuti via terra, solo
in parte coincidenti con le acque di lavaggio: il conferimento di rifiuto grezzo
via terra implica, infatti, una strutturazione ed una organizzazione
radicalmente diverse con conseguente radicale modifica impiantistica.
Deve, pertanto, concludersi per l’integrazione del reato contestato, nel senso
di dovere ritenere l’impianto attuale, nella struttura e destinazione
definitive, come integralmente abusivo, in quanto non specificamente assentito.
A tale conclusione, del resto, approda lo stesso consulente della difesa ing.
C., il quale conferma come la costruzione o la modifica di alcuni componenti di
un impianto che ne implichino un uso diverso da quello originariamente
assentito, presuppone il rilascio di nuova autorizzazione (11).
Né rileva, in tal
senso, che – come sostenuto dallo stesso consulente – nell’impianto siano
stati, comunque, sottoposti a trattamento rifiuti omogenei alle acque di
zavorra originariamente assentite, in quanto costituenti, miscele di acqua e
olio(12) e, dunque, come sostenuto dalla difesa, di rifiuti assimilabili, non
assumendo rilevanza le varie percentuali e lo stato di aggregazione in cui i
principali componenti possono presentarsi.
La tesi prospettata appare non corretta e, comunque, non rilevante.
Non è corretta in quanto, in realtà, deve ritenersi che i rifiuti di fatto
conferiti non possano essere equiparati alle acque di zavorra. Basti in
proposito esaminare i registri di carico e scarico (v. pag. 5) per constatare
come, oltre a rifiuti di serbatoi di stoccaggio contenenti oli, presso lo
stabilimento siano state conferite anche altre tipologie di rifiuti aventi una
diversa origine e composizione, quali rifiuti della pulizia di serbatoi di
stoccaggio contenenti prodotti chimici; rifiuti oleosi non specificati
altrimenti; fanghi pompabili da impianti, apparecchiature e operazioni di
manutenzione a condizione che contengano oli recuperabili; ecc. A ciò aggiungasi
che anche con riferimento a quei rifiuti oleosi aventi la medesima origine delle
acque di zavorra – come, del resto, evidenziato dai consulenti del pubblico
ministero e dallo stesso consulente della difesa(13) – è ravvisabile una differenza
strutturale, dal momento che le acque di zavorra, derivanti dal lavaggio delle
cisterne, hanno una componente acquosa percentualmente maggiore dell’omologo
rifiuto grezzo, avente, invece, una prevalente matrice oleosa. Considerazioni
che appaiono confermate dalla comprovata profonda inefficienza dell’impianto (v.
p. es. pag. 18), chiaramente spiegabile proprio in ragione della diversa
tipologia di rifiuti trattati rispetto al progetto originario e,
conseguentemente, alle diverse caratteristiche degli stessi.
In ogni caso, poi, la tesi appare irrilevante ai fini della contestazione, dal
momento che le modifiche apportate all’impianto avrebbero presupposto comunque
il rilascio della preventiva autorizzazione, indipendentemente dalla tipologia
di rifiuti conferita. Ed infatti la circostanza che le procedure di trattamento
dei rifiuti possano avere degli elementi in comune, non esclude che le modifiche
funzionali e strutturali apportate all’impianto debbano essere preventivamente
validate ed autorizzate dalle autorità competenti al fine di verificarne
l’idoneità tecnica e la compatibilità ambientale. Tanto più che l’unica
circostanza in cui, in materia di rifiuti, assume rilevanza il concetto di
assimilabilità, è quella relativa ai rifiuti espressamente classificati come
assimilabili a quelli urbani, i quali, a norma dell’art. 21 c. 2 lett. g) d.lv.
22/97, possono essere gestiti come rifiuti urbani.
B – Con riferimento all’ipotesi di cui al capo b) viene contestata la violazione
dell’art. 51 c. 4 d.lv. 22/97 in relazione all’omessa ottemperanza alla
prescrizione di cui al d.ass.reg. n. 320 del 27/7/99 che imponeva la preventiva
caratterizzazione dei rifiuti da smaltire in forza del decreto autorizzativo, al
fine di escludere che i rifiuti trattati nell’esercizio dell’attività di cui al
capo a) rientrassero nella categoria dei “tossici e nocivi”.
Occorre premettere, sul punto, come la disciplina transitoria del già menzionato
art. 57 d.lv. 22/97, implicitamente mantenga in vita la delibera del Comitato
Interministeriale 27/7/84 relativamente alla classificazione dei rifiuti come
tossici e nocivi.
Si è, per la verità, sopra osservato come, in realtà, tale categoria sia
scomparsa con il d.lv. 22/97, venendo sostituita da quella dei rifiuti
pericolosi, alla quale, peraltro, rinvia l’art. 57 ogniqualvolta la normativa
preesistente faccia riferimento ai rifiuti tossici e nocivi.
In ogni caso la vecchia delibera introduceva una presunzione circa la natura
tossico-nociva di alcuni rifiuti, i quali, secondo l’elenco 1.3, come tali
venivano intesi in quanto aventi una determinata origine o determinate
caratteristiche, generalmente riconducibili all’attività produttiva di
provenienza. In tali casi era onere dell’interessato, che volesse fare rilevare
la natura non tossica e nociva dei rifiuti, dimostrare tale circostanza, cioè
caratterizzare i rifiuti. A tal fine era necessario sottoporre ogni rifiuto a
specifica analisi volta a dimostrare che lo stesso non presentava le
caratteristiche di cui agli elenchi 1.1 e 1.2 allegati alla delibera. In
particolare l’analisi doveva dimostrare che il rifiuto non contenesse nessuna
delle sostanze di cui alla tabella 1.1 in concentrazione superiore alla
concentrazione limite ivi stabilita; nonché, se contenenti più di una di tali
sostanze, che, la sommatoria dei rapporti tra le concentrazioni effettive di
ciascun componente e la rispettiva concentrazione limite, fosse inferiore ad 1;
ed ancora che il rifiuto non contenesse alcuna delle sostanze di cui
all’allegato I al d.p.r. 915/88 qualificate anche come tossiche a norma del
d.p.r. 927/81, in concentrazioni superiori ai valori limite stabiliti o da
individuare.
In assenza di caratterizzazione il rifiuto, per la semplice provenienza dello
stesso, era da considerarsi, iuris et de iure, tossico-nocivo: sicchè, l’onere
di fornire una simile prova gravava sull’interessato, il quale poteva adempiervi
solo analizzando un campione per ogni partita di rifiuti e non, invece, con una
analisi a campione.
Si è precedentemente osservato, tuttavia, come la categoria dei rifiuti
tossico-nocivi sia stata sostanzialmente sostituita da quella dei rifiuti
pericolosi, e che in base all’art. 57 d.lv. 22/97 quando la legge si riferisce
ai rifiuti tossico-nocivi il riferimento deve essere inteso ai rifiuti
pericolosi. Applicando detta equazione si arriva comunque alla conclusione che
la maggior parte dei rifiuti trattati presso l’impianto in questione, quanto
meno nel periodo novembre 1999 – novembre 2000, fosse equiparabile alla
categoria dei tossico-nocivi (per i casi in cui la legge si riferisce a tale
categoria), in quanto espressamente classificati per legge come pericolosi (tali
essendo, in particolare, quelli aventi codice 050105, 130505, 130601, 160702,
160705, 160706).
Tanto premesso, nel caso di specie, l’accusa muove evidentemente dalla
prescrizione contenuta nell’autorizzazione rilasciata con d. ass. 320/18 (v.
pag. 8), secondo la quale l’avvio delle operazioni di termodistruzione di
rifiuti che rientrano nell’elenco 1.3 della delibera del comitato
interministeriale 27/7/84 e successive modifiche ed integrazioni, era
subordinato alla preventiva effettuazione delle analisi previste dalla
normativa vigente per verificare che i rifiuti in questione non siano
classificati come “tossici e nocivi” ai sensi del d.p.r. 915/82, e quindi che la termodistruzione
dei rifiuti in questione fosse preceduta dalla caratterizzazione degli stessi.
Condizione verosimilmente imposta nella logica di una interpretazione riduttiva
della disciplina dell’art. 57 e dell’art. 6 l. 8/7/86 n. 349, nel senso che, non
venendo gestiti rifiuti tossici e nocivi, l’impianto di incenerimento non
avrebbe dovuto essere sottoposto a procedura di valutazione di impatto
ambientale. Tale interpretazione, per quanto ininfluente ai fini del presente
processo, non appare comunque condivisibile, dal momento che, come si è sopra
osservato, i rifiuti smaltiti in tale impianto sarebbero stati comunque
pericolosi, nozione alla quale rinvia il menzionato art. 57 in tutti i casi in
cui la normativa preesistente si riferiva ai rifiuti tossici e nocivi. A ciò
aggiungasi che, come precisato dai consulenti del pubblico ministero, la
Valutazione di Impatto Ambientale sarebbe espressamente richiesta dalla legge –
anche se solo a livello regionale – anche per gli impianti che smaltiscono
rifiuti pericolosi. In proposito, infatti, il decreto del presidente della
regione siciliana del 17/5/1999, al punto 2.1, prevede che la valutazione di
impatto ambientale venga applicata, tra l’altro, alle ipotesi indicate
nell’allegato A del d.p.r. 12/4/96 ed a quelle di cui all’allegato B previa
esecuzione delle procedure di verifica da eseguire su richiesta del committente
o dell’autorità proponente.
Sicchè, comunque, l’impianto in esame sarebbe stato attivato in assenza di
preventiva VIA. Va però osservato che una simile circostanza è priva di
rilevanza penale, incidendo esclusivamente sulla eventuale illegittimità o
irregolarità delle autorizzazioni eventualmente rilasciate e sulla
responsabilità degli enti competenti.
Diversa considerazione riguarda la condizione imposta con la summenzionata
autorizzazione. Infatti la violazione delle prescrizioni imposte con il
provvedimento autorizzativo da parte del gestore dei rifiuti è espressamente
sanzionata penalmente dalla legge.
Nel caso di specie, dall’esame degli atti e dalle dichiarazioni dei consulenti
del pubblico ministero, non risulta che simili procedure di caratterizzazione
siano state mai attivate, nel senso che non risulta che mai i rifiuti conferiti
all’impianto siano stati sottoposti alle analisi previste dall’autorizzazione.
La stessa certificazione prodotta dalla difesa per un gruppo di rifiuti,
rilasciata dalla Ecocontrol Sud in data 12/10/2000 non presenta i requisiti
della caratterizzazione, dal momento che, come evidenziato dai consulenti del
pubblico ministero, l’analisi qualitativa e quantitativa non è stata operata per
tutti i prescritti parametri (v. pag. 13), con la conseguenza che questa non è
idonea ad escludere la natura tossico-nociva dei rifiuti, a nulla rilevando che
in tale certificazione il rifiuto venga qualificato come speciale, essendo tale
qualifica non incompatibile con quella, ulteriore, di tossico e nocivo.
Malgrado ciò deve ritenersi la insussistenza del reato contestato. L’obbligo di
caratterizzazione dei rifiuti, infatti, era collegato dal decreto assessoriale
n. 320/99 all’avvio alla termodistruzione. Tuttavia, secondo quanto emerso nel
corso dell’istruttoria dibattimentale e come confermato dagli stessi consulenti
del pubblico ministero, nel caso di specie, l’impianto di incenerimento non
sarebbe mai stato attivato e, conseguenzialmente, alcun rifiuto sarebbe mai
stato avviato alla termodistruzione. Sicchè, di fatto, nessun rifiuto poteva o
doveva essere caratterizzato, e nessuna violazione alle prescrizioni contenute
nell’autorizzazione è, pertanto, ravvisabile.
C – Con riferimento all’ipotesi di cui al capo c) viene contestata la violazione
dell’art. 59 c. 1 e 3 in relazione all’art. 45 d.lv. 152/99 in relazione alla
effettuazione di scarichi di acque reflue industriali in assenza di
autorizzazione dell’unico ente a ciò legittimato in forza del comma 6 dell’art.
45 d.lv. 152/99, e ciò in quanto nessuna validità poteva assumere
l’autorizzazione rilasciata dalla provincia regionale di Messina, poiché
rilasciata: da soggetto non legittimato a pronunciarsi sulla richiesta di
autorizzazione in materia, posto che in forza del comma 6 art. 45 d.lv. 152/99
la competenza a pronunciarsi è demandata – in forza della riserva alla
legislazione regionale – al Comune di Messina quale ente individuato dalla
vigente normativa della Regione Siciliana; ai sensi dell’art. 36 d.lv. 152/99,
assolutamente inapplicabile al caso di specie, trattandosi di norma che
disciplina il rilascio autorizzazione per impianti di depurazione comunali,
nella cui categoria certamente non poteva rientrare la ** spa, quale impianto
industriale privato; e nessuna legittimazione poteva derivare
dall’autorizzazione n. 30 del 1.12.2000 rilasciata dal Dipartimento 08 Settore
Ambiente del Comune di Messina trattandosi di autorizzazione riferita unicamente
allo sversamento dei reflui provenienti dall’attività di degassifica e non anche
di rifiuti tossici e nocivi provenienti dalla lavorazione di prodotti
petroliferi.
Deve premettersi che il d.lv. 152/99 si limita a disciplinare esclusivamente gli
scarichi diretti, cioè le immissioni dirette nelle acque superficiali, e quindi,
tra l’altro, gli scarichi nel mare. Ciò posto si osserva che a norma dell’art.
45 tutti gli scarichi devono essere preventivamente autorizzati, e, a norma
dell’art. 46, la richiesta di autorizzazione deve essere accompagnata dalle
caratteristiche dello scarico. La competenza in ordine al rilascio delle
autorizzazioni, secondo quanto disposto dall’art. 45, è disciplinata dalla
Regione che, nel caso della Sicilia, già prima dell’entrata in vigore della
normativa in questione, l’aveva attribuita ai Comuni in virtù dell’art. 40 della
l. r. 27/86, non modificato successivamente all’entrata in vigore della nuova
disciplina nazionale.
Tanto premesso si osserva come nell’impianto in esame, per il completamento
delle proprie attività di smaltimento, fosse previsto, infine, lo scarico in
mare delle acque reflue delle operazioni di trattamento, adeguatamente
purificate.
Per l’esecuzione di tale operazione, tuttavia, la società disponeva solo
dell’autorizzazione rilasciata dal Comune di Messina il 28/7/99, provvedimento
che, tuttavia, consentiva esclusivamente il recapito in mare dei reflui depurati
dell’impianto di trattamento delle acque di zavorra della stazione di
degassifica per navi petroliere, e non, invece, per i reflui derivanti dai
numerosi altri rifiuti di fatto trattati e risultanti nei registri di carico e
scarico, come sopra osservato.
A prescindere dal fatto che tale provvedimento risulta emanato in forza della l.
319/76 quando questa legge era stata ormai abrogata e sostituita dal d.lv.
152/99, deve osservarsi come in realtà, come sopra già ampiamente evidenziato,
lo stabilimento **, quanto meno nel periodo in esame, era stato ampiamente
trasformato e destinato in via pressoché esclusiva alla gestione di rifiuti
diversi dalle acque di zavorra (ancora una volta si rinvia al prospetto dei
rifiuti trattati riportato a pag. 5). È dunque evidente come lo scarico in mare
delle acque derivanti dal trattamento di tali diverse tipologie di rifiuto non
potesse considerarsi autorizzato in virtù del provvedimento in questione,
richiedendosi, invece, una specifica autorizzazione che tenesse conto della
diversa natura dei rifiuti trattati e delle eventuali nuove lavorazioni, anche
al fine di verificarne l’adeguatezza.
Ed infatti, come sopra evidenziato, l’autorizzazione allo scarico implica
necessariamente la valutazione della tipologia di impianto, della natura dei
rifiuti trattati e delle procedure di trattamento. Con la conseguenza che la
modifica di uno di tali elementi richiede necessariamente una nuova
autorizzazione. In proposito espressamente l’art. 46 d.lv. 152/99 stabilisce che
la domanda di autorizzazione agli scarichi di acque reflue industriali deve
essere accompagnata dalle caratteristiche quantitative e qualitative dello
scarico … della descrizione del sistema complessivo di scarico, ivi comprese le
operazioni ad esso funzionalmente connesse … dalla indicazione dei mezzi tecnici
impiegati nel processo produttivo e nei sistemi di scarico, nonché
dall’indicazione dei sistemi di depurazione utilizzato per conseguire il
rispetto dei valori limite di emissione. Ne consegue che la modifica anche di
uno solo degli elementi predetti implica il rilascio di una nuova
autorizzazione.
Nel caso di specie, come ampiamente evidenziato al punto A), la ** è stata
sottoposta ad ampie modifiche strutturali e funzionali, sicchè già in base a
tali modifiche sarebbe stata necessaria una nuova autorizzazione allo scarico
che consentisse di valutare l’adeguatezza dell’impianto al fine di garantire la
compatibilità delle immissioni con le acque marine e con l’ambiente circostante.
Del pari la nuova autorizzazione sarebbe stata necessaria in ragione della
diversa tipologia dei rifiuti trattati, diversità in grado di incidere sulle
caratteristiche dello scarico e che avrebbe reso, pertanto, necessario il
rinnovo della valutazione predetta, senza che possa assumere rilevanza alcuna la
sostenuta assimilabilità dei nuovi rifiuti trattati alle acque di zavorra
originariamente autorizzate, dal momento che tale assimilabilità, ammesso che
sia esistente, comunque avrebbe dovuto essere vagliata dall’autorità competente
e non unilateralmente affermata dagli interessati.
Può pertanto concludersi che lo scarico in esame fosse sprovvisto di
autorizzazione con conseguente integrazione del reato contestato.
Peraltro va osservato che la stessa autorizzazione del 28/7/99 prescriveva
espressamente alla ** di notificare agli enti competenti qualunque variazione
che potesse interessare tanto il ciclo tecnologico, quanto le materie
utilizzate. Sicchè, comunque, andrebbe a configurarsi quanto meno l’illecito
penale di cui all’art. 59 c. 4 d.lv. 152/99, che, appunto, sanziona
l’effettuazione degli scarichi autorizzati in violazione delle prescrizioni
contenute nell’autorizzazione, ed avente, nel caso di specie, natura residuale,
prevalendo su tale reato quello di cui ai commi 1 e 3, dal momento che gli
scarichi derivanti dal trattamento di sostanze diverse da quelle originariamente
assentite deve considerarsi nuovo scarico.
Per completezza occorre evidenziare come non sia in alcun modo possibile
invocare l’autorizzazione n. 560/99 (v. pag. 9) del 2/8/99 rilasciata dalla
provincia Regionale di Messina.
L’analisi di tale provvedimento appare davvero assai improbabile. Innanzitutto
deve osservarsi come la Provincia Regionale non fosse ente competente ad
autorizzare lo scarico in mare. Ed in effetti in tale provvedimento non si fa
menzione di un’autorizzazione al recapito in mare, bensì al trattamento di
alcuni rifiuti. Ma qui interviene l’ulteriore elemento di perplessità: il
provvedimento, infatti, viene dichiaratamente emanato a norma dell’art. 36 d.lv.
152/99, norma che disciplina il conferimento di rifiuti al gestore di un
impianto di acque reflue urbane. La **, tuttavia, non gestiva un impianto di
depurazione di acque reflue urbane, sicchè la logica del provvedimento diviene
impenetrabile. A ciò aggiungasi che l’art. 36 autorizza, in deroga, il recapito
di reflui non fognari nei depuratori delle acque nere a condizione che i
rifiuti conferiti rispettino, comunque, i parametri dei reflui fognari.
Condizione che, come osservato dai consulenti del pubblico ministero, non
poteva configurarsi per la **, la quale effettuava il trattamento di rifiuti
grezzi.
In ogni caso tale provvedimento non era idoneo a legittimare lo scarico dei
reflui in mare, sia perché non prevedeva una simile circostanza, sia perché una
simile autorizzazione non competeva alla Provincia, bensì al Comune; sicchè, ove
questo dovesse essere il senso del provvedimento, non si verterebbe in materia
di mera illegittimità dell’atto amministrativo, bensì in materia di assoluta
inesistenza per incompetenza funzionale dell’organo emanante.
Per tali ragioni appaiono del tutto prive di rilevanza le considerazioni
formulate dall’imputato nella memoria depositata in atti, secondo la quale
l’autorizzazione della Provincia del 2/8/99 sarebbe stata emanata nella vigenza
del d.lv. 152/99, mentre solo con d.lv. 18/8/2000 sarebbe stato precisato che le
Province potevano autorizzare solo lo smaltimento di rifiuti liquidi urbani; e
che, comunque, l’attività della ** sarebbe stata esercitata solo successivamente
al decreto del 29/3/2000, come risulterebbe dal registro di carico e scarico in
atti. Infatti comunque la questione venga posta è certo che la ** non è mai
stata in possesso di autorizzazione per lo scarico in mare dei reflui derivanti
dal trattamento dei rifiuti diversi dalle acque di zavorra.
Né, infine, può invocarsi la disciplina di cui all’art. 62 c. 11 d.lv. 152/99,
il cui termine è stato prorogato con il d.l. 147/2003 convertito nella l.
200/2003, che si riferisce all’adeguamento degli scarichi esistenti ed
autorizzati alla data di entrata in vigore del d.lv. 152/99 alle prescrizioni
contenute in tale normativa. Nel caso di specie, invece, come sopra evidenziato
la prima autorizzazione dello scarico è successiva all’entrata in vigore del
d.lv. 152/99 e, in ogni caso, essa non concerneva le nuove tipologie di rifiuto
trattate, per le quali, dunque, sarebbe stata comunque necessaria una nuova
autorizzazione. Il regime di proroga citato, infatti, riguarda – evidentemente –
solo gli scarichi esistenti ed autorizzati, nei limiti della originaria
destinazione e tipologia, ed in attesa di adeguamento alla nuova disciplina. Non
giova, invece, a coprire le modifiche apportate agli scarichi – nella struttura
o nella tipologia di reflui trattati – modifiche che richiedono comunque una
nuova autorizzazione; nè a rendere leciti scarichi che già erano abusivi sotto
la vigenza della precedente disciplina.
Deve ritenersi, pertanto, la sussistenza del reato contestato, peraltro nella
ipotesi di cui al comma 3 dell’art. 59, essendo presenti nelle acque di scarico
sostanze pericolose di cui alla tabella 5 dell’allegato 5 al d.lv. 152/99, ed in
particolare, tra l’altro, i fenoli, come si evince chiaramente dalle analisi
condotte durante la lavorazione in data 3/10/2000, di cui si è fatta menzione
alla pagina 18.
D – Con riferimento all’ipotesi di cui al capo d) della rubrica si contesta la
violazione dell’art. 59 c. 5 d.lv. 152/99 in relazione ad una immissione
occasionale di reflui liquidi provenienti dalla nuova attività di trattamento,
che provocava lo sversamento nel frontistante bacino marino di liquidi che
superavano i valori limite fissati nella tabella 3 dell’allegato 5 al d.lv.
152/99.
Si deve premettere che, a norma dell’art. 31 d.lv. 152/99 gli scarichi di acque
reflue industriali (per tali intendendosi a norma dell’art. 2 qualsiasi tipo di
acque reflue scaricate da edifici od installazioni in cui si svolgono attività
commerciali o produzione di beni, diverse dalle acque reflue domestiche e dalle
acque meteoriche di dilavamento) in acque superficiali, oltre le prescritte
autorizzazioni, devono rispettare i valori limiti di emissione di cui all’art.
28 e, quindi, per il caso in esame, di cui all’allegato 5 tabella 3.
Ciò premesso, e posto che nessun dubbio si configura in ordine al fatto che i
reflui provenienti dall’impianto ** siano industriali in quanto provenienti da
uno stabilimento industriale di gestione di rifiuti, occorre richiamare quanto
sopra osservato in ordine alla immissione constatata il 22/9/2000 da personale
della Guardia di Finanza, ed al risultato delle analisi condotte dal Lip (v.
pagg. 2 e ss.).
Sul punto va, innanzitutto, confermata la validità del sequestro del campione di
acque effettuato dal personale della Guardia di Finanza e, conseguentemente, la
utilizzabilità dello stesso ai fini degli accertamenti. In proposito, infatti, è
stato eccepito il mancato avviso ai responsabili dell’impianto della
effettuazione del prelievo, quale motivo di nullità dell’operazione.
L’eccezione è infondata.
Infatti, a prescindere dalla circostanza che una simile eventuale irregolarità
avrebbe dovuto essere eccepita tempestivamente, nel corso delle indagini, nel
momento in cui il campione veniva utilizzato ed analizzato nel contraddittorio
delle parti; a prescindere da ciò, deve ritenersi che, già in astratto, nessun
obbligo di avviso sia previsto dalla legge per l’effettuazione delle operazioni
di prelievo. Un simile obbligo, infatti, appare previsto esclusivamente per
l’effettuazione delle analisi – obbligo nel caso di specie assolto dal momento
che le analisi disposte dalla Procura sono state eseguite nel contraddittorio
delle parti – ma non anche per l’esecuzione delle attività di prelievo, le
quali, peraltro, devono necessariamente costituire attività a sorpresa,
assimilabile alle ispezioni, condizione necessaria per garantire la genuinità
dell’accertamento, e come tali disciplinate e consentite in via generale
dall’art. 50 d.lv. 152/99, e, comunque, dagli artt. 348 e ss. c.p.p. (cfr. Cass. III, 1/7/87, 7999; Cass. III, 15/11/84, 10041). In ogni caso in tema di
disciplina degli scarichi il prelievo ed il campionamento delle acque reflue
configurano attività amministrativa che non richiede l’osservanza delle norme
del codice di procedura penale stabilite a garanzia degli indagati e degli
imputati per le attività di polizia giudiziaria, atteso che l’unica garanzia
richiesta per le anzidette attività ispettive è quella prevista dall'art. 223 disp. att. cod. proc. pen. che impone il preavviso all’interessato del giorno,
dell’ora e del luogo dove si svolgeranno le analisi dei campioni, onere che deve
ritenersi ottemperato nella misura in cui, nel caso di specie, le analisi sono
state effettuate con le procedure di cui all’art. 360 c.p.p. (cfr. Cass. III,
29/1/2003, 15170).
Del resto, come risulta dalle dichiarazioni del m.llo S., il prelievo venne
effettuato nell’immediatezza dei fatti, dunque in presenza di un evento
astrattamente irripetibile, sicchè l’effettuazione del sequestro non poteva
essere differita. Ne consegue che nessun avviso poteva essere preventivamente
effettuato, dal momento che, in astratto, lo sversamento non poteva essere
preventivato. Anche nell’immediatezza l’avviso sarebbe stato impossibile, dal
momento che nessun addetto all’impianto era presente, o comunque si sarebbe
presentato, malgrado gli avvisi acustici lanciati con la sirena. Per contro
procrastinare il prelievo avrebbe significato, con buona probabilità,
l’impossibilità di procedere allo stesso: tanto è vero che, riportatisi sul
posto nel pomeriggio, i finanzieri trovarono tutto ripulito.
Deve ritenersi, pertanto, come già osservato in udienza, che il prelievo in
questione, concernendo attività irripetibile da eseguire nell’imminenza del
fatto, potesse essere effettuato immediatamente e senza particolari avvisi, con
contestuale regolarità dello stesso.
Del pari, e per analoghe ragioni, deve ritenersi valido il prelievo, ancorchè
non effettuato secondo le normative tecniche previste dagli appositi
regolamenti. Come sopra osservato, infatti, il prelievo aveva riguardo ad una
immissione rilevata nell’immediatezza che, come tale, non consentiva
l’apprestamento degli specifici strumenti (cfr. Cass. III, 24/5/99, 6416; Cass.
III, 16/2/2000, 1773), con la conseguenza che i relativi risultati assumono
ugualmente il rilievo di elementi di prova liberamente valutabili dal giudice,
tanto più che eventuali inosservanze delle modalità e metodiche di prelievo dei
campioni non possono determinare alcuna nullità o inutilizzabilità delle
operazioni compiute e degli atti conseguenti, non essendo prevista un simile
effetto da alcuna norma di legge, sicchè tali violazioni costituiscono
esclusivamente elemento di valutazione dell’attendibilità del risultato (cfr.
Cass. III, 24/5/99, 6416).
Quest’ultimo, poi, non può ritenersi in alcun modo pregiudicato. Sul punto,
invero, è stata eccepita la irregolarità del prelievo in ragione del contenitore
utilizzato, cioè una bottiglia di plastica. In merito, però, i consulenti del
pubblico ministero hanno riferito come le caratteristiche del contenitore non
potevano incidere sulla rilevazione dei parametri in questione. E neppure il
campione poteva essere significativamente alterato dalla eventuale – ipotizzata,
ma non dimostrata – esposizione della bottiglia, prima del prelievo, ai gas di
scarico del motore dell’imbarcazione della Guardia di Finanza: esposizione che
non poteva aumentare in maniera significativa – dal punto di vista della
concentrazione – la presenza di inquinanti nel contenitore.
Premessa la regolarità del sequestro deve osservarsi che, dopo l’analisi
condotta dal Lip, un’altra aliquota del medesimo campione risulta sottoposta ad
analisi da parte dei consulenti del pubblico ministero, nel contraddittorio
delle parti, con le procedure di cui all’art. 360 c.p.p., tra il 28/11 ed il
18/12/2000, cioè a circa due mesi dalla prima analisi eseguita dal Lip. In tale
circostanza vennero rilevati i seguenti valori:
parametro u.m.
valore
valore limite tab. 3 aspetto torbido colore bruno non percettibile odore
sdp c/d-200 non molesto ph
7,2 5,5-9,5 solidi sospesi mg/l 2,2 ≤ 80 residuo a 600° %p 22 alogenuri totali mg/l 19740
azoto ammoniacale mg/l 2,7 ≤ 15 C.O.D. come O2 mg/l 7600 ≤ 160 piombo mg/l 0,01 ≤ 0,2 rame mg/l <0,01 ≤ 0,1 cromo mg/l 1,72 ≤ 2 ferro tot. mg/l 10,80 ≤ 2 idrocarburi tot. mg/l 350 ≤ 5 fenoli tot. mg/l 12 ≤ 0,5 sostanze riducenti meq/l 16,7
Valori che, pur se sensibilmente inferiori a quelli rilevati dal Lip su altra aliquota del medesimo campione, appaiono comunque notevolmente al di sopra dei limiti, stabiliti dalla tabella 3 dell’allegato 5 al d.lv. 152/99 (che vengono sopra riportati per stralcio), per le immissioni di reflui industriali nelle acque superficiali relativamente agli inquinanti C.O.D., ferro, idrocarburi e fenoli, oltre che con riferimento all’aspetto ed al colore.
Va osservato che i valori sono stati rilevati sui liquidi già immessi nel corpo
ricettore e, dunque, già diluiti in acqua di mare, ed ulteriormente diluiti
dalle acque dell’impianto antincendio che, come riferito m.llo S., era stato
attivato senza apparente ragione. Deve ragionevolmente desumersi, come,
peraltro, confermato dai consulenti del pubblico ministero, che i valori degli
inquinanti, all’atto dell’immissione, prima della diluizione, fossero
notevolmente superiori a quelli rilevati nel campione, dal momento che i
parametri tossici evidenziati sono del tutto inusuali per qualsiasi ricettore
naturale. In ogni caso, pur nello stato in cui vennero prelevate, pur se
diluite, ammettendo, dunque, per difetto, che tali acque corrispondessero a
quelle di scarico, queste presentavano parametri anche di 35 volte al di sopra
dei limiti di legge, in violazione, dunque, degli artt. 28 e 59 c. 5 d.lv.
152/99, con conseguente configurabilità dell’ipotesi contestata.
Inoltre l’analisi in questione è quella condotta, nel contraddittorio delle
parti, dai consulenti del pubblico ministero ad oltre due mesi dal prelievo.
Come chiarito in corso di istruttoria il decorso di un simile lasso di tempo può
avere determinato un degradamento minimo del campione, ma nel senso di ridurre
la concentrazione degli elementi inquinanti(14). Con il che è ragionevole desumere
che le analisi, ove condotte nell’immediatezza, avrebbero restituito valori
sovrapponibili a quelli rilevati, appunto, dal Lip, e comunque indicatori dei
parametri di inquinamento non inferiori a quelli rilevati in sede di
contraddittorio.
Deve, poi, osservarsi, come nessun dubbio si ponga circa la provenienza dei
reflui in questione. In proposito il personale della Guardia di Finanza ha
precisato come gli stessi fuoriuscissero dalla condotta di scarico della **. Lo
stesso materiale fotografico documenta inequivocabilmente tale circostanza,
riproducendo lo scolo delle acque dalla condotta dell’impianto di degassifica
collocata sull’arenile. Già tale circostanza è sufficiente a fugare ogni
possibile dubbio circa l’ascrivibilità della condotta. Ma l’ipotesi appare
ulteriormente confermata dalla natura dello scarico. Infatti, come osservato,
tra l’altro, dai consulenti del pubblico ministero, ed ammesso dallo stesso
consulente di parte(15), l’analisi del campione in sequestro ha evidenziato la
significativa presenza di idrocarburi e, dunque, una elevata contaminazione
dell’aliquota campionata riferibile a parametri specifici (c.d. tossici e non
tossici) di origine riconducibile alla tipologia dei reflui circolanti (non
trattati, parzialmente trattati e trattati) all’interno dell’impianto **.
Tipicità che si evince anche dal confronto tra i dati dell’analisi del campione
in questione, con quelli relativi all’analisi di altri campioni prelevati in
epoca precedente presso lo stabilimento, durante la lavorazione (v. pag. 18),
comparazione che evidenzia un elevato grado di correlazione tra i campioni, e,
quindi, la reciproca similitudine tipologica e la rappresentatività della
porzione di ricettore campionato nei confronti delle acque reflue scaricate
dall’impianto al momento del sopralluogo.
Tanto più che oltre l’80% della frazione solida filtrata del residuo è
rappresentata da una frazione organica, ed in particolare da idrocarburi medio
pesanti, oltre all’elevata presenza di idrocarburi totali, condizioni che
chiaramente consentono di affermare che il corpo recettore è stato contaminato
con inquinanti riconducibili alla tipologia dei reflui circolanti all’interno
dell’impianto **.
Non vi è dubbio, pertanto, che dallo stabilimento in questione venissero
sversati in mare reflui che, oltre a non essere autorizzati per quanto osservato
al superiore punto C), superavano abbondantemente i valori limite stabiliti per
le acque superficiali dalla tabella 3 dell’allegato 5 al d.lv. 152/99, con
conseguente sussistenza del reato contestato.
Al fine, poi, di valutare la gravità della condotta, deve poi osservarsi come
questa appaia tutt’altro che occasionale e fortuita, così come si desume dal
fatto che, in contemporanea con lo scarico, all’evidente scopo di diluire le
immissioni, venivano azionati gli idranti del sistema antincendio. Tale condotta
denota la volontà dei responsabili di occultare l’operazione di sversamento,
ostacolando, attraverso la ampia diluizione, la rilevabilità dello stesso.
Tale considerazione appare del tutto coerente con le valutazioni operate dai
consulenti del pubblico ministero circa la scarsa idoneità dell’impianto a
raggiungere livelli accettabili nel trattamento dei reflui, e circa la
destinazione dei fanghi residui del trattamento, non recuperabili.
Sul punto appare sufficiente richiamare le considerazioni svolte alle pagg. 17 e
ss. per concludere che l’abusiva operazione di scarico sorpresa dalla Finanza
non fosse affatto eccezionale, ma verosimilmente rientrasse nelle ordinarie
operazioni di smaltimento, come condotta abitualmente volta alla eliminazione
dei reflui non adeguatamente depurati nell’impianto inefficiente e, forse, anche
dei fanghi non recuperabili e suscettibili esclusivamente di essere destinati
alla termodistruzione o all’ancor più costoso stoccaggio definitivo in
discarica, che peraltro avrebbe richiesto un ulteriore trattamento.
Per completare occorre evidenziare come l’art. 59 d.lv. 152/99 sia stato
modificato ad opera dell’art. 23 c. 1 lett. e) d.lv. 18/8/2000 n. 258. In
particolare, per ciò che qui concerne, il testo originario del comma quinto è
stato mutato mediante l’eliminazione dell’inciso: «ovvero da una immissione
occasionale», con la conseguenza che il nuovo testo recita: «chiunque,
nell’effettuazione di uno scarico di acque reflue industriali, [ovvero da una
immissione occasionale,] supera i valori limite fissati dalla tabella 3 …».
Va subito osservato come l’intervento legislativo, ovviamente, non ha
determinato depenalizzazione delle condotte commesse anteriormente alla
modifica, sussistendo tra le due fattispecie rapporto di continuità, e potendosi
parlare di abrogazione esclusivamente con riferimento a quelle condotte che,
sanzionate secondo la disciplina previgente, non lo siano più alla luce della
normativa attuale. Invero, come osservato dalle più recenti pronunce della
Cassazione, si ha successione di leggi a norma dell’art. 2 comma 3 c.p. in tutti
i casi in cui il fatto costituente reato secondo la legge precedente sia tuttora
punibile secondo la nuova legge. Ove ciò accada parzialmente, si avrà
successione di leggi esclusivamente per la parte della vecchia disciplina che
rientra nel perimetro della nuova, operandosi solo quanto al resto
un’abrogazione di reato. In tal senso la verifica deve essere effettuata sulla
base del confronto dei soli elementi strutturali delle fattispecie, in termini
astratti, senza che sia possibile fare ricorso a criteri valutativi del bene
tutelato o delle modalità dell’offesa, criteri estranei alla disciplina di cui
all’art. 2 c.p. e comunque non scindibili dagli elementi strutturali della
fattispecie. Per tali ragioni non può ritenersi che, ove ad una norma generale
succeda una norma speciale, intervenga un fenomeno abrogativo, dal momento che,
in tali casi, si avrà successione di leggi nel tempo con riferimento alla parte
coincidente delle due fattispecie, senza che ciò determini applicazione
retroattiva della nuova norma speciale (cfr. Cass. SS.UU. 26/3/2003, 25887).
Nel caso di specie ciò che è stato espunto dalla normativa sanzionatoria è
costituito dalle sole immissioni occasionali, le quali non vengono più punite
neppure se derivanti da attività industriale e se determinanti il superamento
dei limiti tabellari. Per contro resta immutata la punibilità dei superamenti
tabellari realizzati nell’ambito degli scarichi industriali, per tali dovendosi
intendere, secondo il disposto dell’art. 2, comma primo lett. bb), del d.Lv.
152/99, qualsiasi immissione diretta tramite condotta di acque reflue liquide,
semiliquide e comunque convogliabili nelle acque superficiali, sul suolo, nel
sottosuolo ed in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante,
anche se sottoposte a preventivo trattamento di depurazione. Sono esclusi i
rilasci di acque previsti dall'art. 40. Distinguendosi, pertanto, lo scarico
dall’immissione occasionale per il fatto che il primo ha carattere di continuità
e stabilità (Cass. III, 14/6/2002, 29651), mentre l’immissione occasionale è
costituita da uno sversamento occasionale ed eccezionale realizzato, pertanto,
al di fuori di un sistema di scarico. Può pertanto, concludersi che il
superamento dei limiti tabellari resta sanzionato a norma dell’art. 59 quando
venga realizzato nell’ambito di uno scarico, caratterizzato, dalla permanenza e
stabilità, mentre resta escluso dalla punibilità se realizzato nell’ambito di
uno sversamento occasionale (cfr. Cass. III, 14/6/2002, 29651).
In base al testo attuale dell’art. 59 menzionato, dunque, occorrerà distinguere
due ipotesi: quella dell’agente che, in maniera occasionale, al di fuori di
un’attività di scarico, e dunque nell’ambito di sversamenti episodici da
impianti che non prevedono scarichi in mare (quali, per esempio, le avarie agli
impianti medesimi), effettua un versamento in acque superficiali, condotta non
più punibile a norma del menzionato art. 59 c. 5; e quella, invece, dell’agente
il quale gestisca un impianto che preveda lo scarico in mare dei reflui, e che,
nell’ambito di tale scarico, effettui, anche occasionalmente, degli sversamenti
che superino i limiti tabellari. Condotta, questa, di cui permane la illiceità
penale. In sostanza, cioè, la depenalizzazione riguarda solo l’occasionalità
degli sversamenti, eseguiti al di fuori di uno scarico stabile; restando,
invece, sottoposti a sanzione tutti i superamenti tabellari, anche se
occasionali o rilevati occasionalmente, quando eseguiti, come recita la norma,
nell’effettuazione di uno scarico industriale, cioè nell’ambito di un sistema di
scarico avente carattere di stabilità e continuità.
Nel caso di specie, dunque, permane la punibilità penale a norma del reato
contestato della condotta posta in essere dagli imputati attraverso gli impianti
della **. Infatti, come ampiamente evidenziato, tali impianti erano dotati di
uno scarico, utilizzato per lo sversamento in mare dei reflui provenienti dalla
degassifica e di trattamento dei rifiuti. Sistema di immissione che ha tutti i
caratteri dello scarico, ed in particolare quelli della stabilità e continuità.
É in tale ambito, cioè nell’esercizio dello scarico (ed infatti gli effluentui
fuoriuscivano dalla condotta della **) che si è verificato il superamento dei
limiti tabellari. Si versa, pertanto, in ipotesi tuttora punita a norma
dell’art. 59 cit., senza che assuma rilevanza l’espressione “immissione
occasionale”, poco felicemente inserita nel capo di imputazione, la quale sta
chiaramente ad individuare non lo scarico – il cui sistema, come dianzi
osservato, era stabile e continuativo – ma l’episodio occasionale riscontrato di
superamento dei limiti tabellari.
E – Con riferimento all’ipotesi di cui al capo e) viene contestata la violazione
dell’art. 635 c. 2 n. 3 c.p. in relazione all’art. 625 n. 7 c.p. in ragione
dell’insudiciamento ed imbrattamento del frontistante tratto di mare derivante
dalla condotta di cui al capo d).
In proposito appare evidente come lo scarico di cui al capo d) abbia certamente
prodotto un deterioramento delle condizioni marine, con conseguente limitazione
dell’utilizzabilità nei confronti della intera collettività. Sul punto appare
sufficiente richiamare la descrizione effettuata da parte del personale della
Guardia di Finanza che ha evidenziato sia il colore degli scarichi
particolarmente ripugnante, sia l’odore nauseante – condizioni che avevano
interessato l’intero specchio acqueo – oltre alla consistente presenza di
inquinanti rilevata in sede di analisi che ha determinato l’alterazione
dell’equilibri biochimico delle acque.
Tanto posto va osservato come il reato di danneggiamento sia configurabile a
prescindere dalla natura mobile o immobile del bene.
Ne consegue che, ove un’attività di immissione o diffusione abusiva di materiali
di qualunque natura, solidi o liquidi, abbia come conseguenza l’alterazione
dell’integrità di un bene quale le acque del mare, sotto il profilo della
sostanza, delle risorse biologiche e ittiche, della composizione, ovvero della
utilizzabilità o anche solo del valore estetico, appare configurabile il reato
in questione. Né questo deve essere escluso per la contemporanea presenza di
altro reato – contravvenzionale – che punisce lo specifico fatto
dell’inquinamento, dal momento che tra il primo reato e quelli espressamente
previsti dal d.lv. 152/99 o dal d.lv. 22/97 non esiste rapporto di specialità
atteso che il primo tutela non l’ambiente come valore in sé, quanto il valore
patrimoniale dello stesso e l’utilizzabilità da parte della collettività. Sicchè,
ove all’attività illecita consegua, appunto, l’evento ulteriore rappresentato
dal danno, si determina un concorso delle due tipologie di reato (cfr. Cass.
15/11/79, 5802; Cass. 10/12/79, 5870; Cass. 19/6/81, 9425; Cass. 17/6/82, 11484;
Cass. 10/2/84, 5485).
Inoltre il mare, così come tutti gli altri beni elencati nell’art. 822 cod. civ.,
è essenzialmente destinato al servizio della collettività, per cui correttamente
in caso di danneggiamento di tale bene appare configurabile il delitto di cui
all’art. 635, con l’aggravante del capoverso n. 3 in relazione all’art. 625 n. 7
c.p. la quale tutela, appunto, la destinazione pubblicistica del bene (cfr.
Cass. 15/11/79, 5802; Cass. 10/2/84, 5485).
Sotto il profilo del dolo si è già detto
sub D). Qui occorre aggiungere come,
quand’anche lo sversamento si fosse inizialmente verificato per un fatto
meramente colposo, di esso certamente si sono resi conto i gestori dell’azienda,
i quali, piuttosto che attivarsi per impedirne la prosecuzione, hanno
scientemente lasciato che lo stesso proseguisse, attivando, anzi, gli idranti
con l’evidente scopo di rendere meno palese l’azione delittuosa.
F – Con riferimento all’ipotesi di cui al capo f) si contesta la violazione
dell’art. 24 d.P.R. 203/88 in relazione all’inizio della costruzione di un nuovo
impianto di termodistruzione dei residui di trattamento dei rifiuti indicati al
capo a) destinato a provocare emissioni nell’aria, in assenza di autorizzazione
in quanto l’impianto di termodistruzione costituisce opera del tutto distinta
rispetto al corpo preesistente della stazione di degassificazione, e comunque
destinata alla distruzione di rifiuti non previsti nell’esercizio dell’attività
di degassifica.
Si è sopra osservato (v. pagg. 7 e ss.) come al fine della realizzazione
dell’impianto di termodistruzione la ditta abbia ottenuto l’autorizzazione n.
399/18 del 11/8/98. Questa veniva emanata non in base agli artt. 6 e ss. del
d.p.r. 203/88, bensì a norma dell’art. 15, come se si fosse trattato di una
modifica sostanziale di un impianto già esistente. La differenza, come precisato
dai consulenti del pubblico ministero, sarebbe sostanziale: nel primo caso si
partirebbe dal presupposto che l’impianto fosse esistente e, dunque, validato;
nel secondo caso l’impianto, invece, dovrebbe essere interamente da verificare.
A norma dell’art. 2 n. 10 d.p.r. 203/88 per impianto deve intendersi sia
l’intero stabilimento, sia qualunque altro impianto fisso, parte dello
stabilimento, che serva per usi industriali o di pubblica utilità. Nel caso in
esame l’impianto di termodistruzione, pur costituendo parte integrante
dell’intero stabilimento di gestione dei rifiuti, ai fini della disciplina delle
emissioni in atmosfera costituiva un nuovo impianto, in quanto componente dotata
di propria autonomia strutturale.
Tali considerazioni, però, nel caso di specie, in relazione alle modalità
espressamente contestate, appaiono prive di rilevanza penale. Il provvedimento
n. 399/18, infatti, autorizzava la realizzazione del nuovo impianto fonte di
emissioni e ciò, ai fini penali, è sufficiente. Infatti l’illecito contestato
muove esclusivamente dal presupposto della esistenza o inesistenza
dell’autorizzazione, senza che venga attribuito significato alla procedura
tecnica di rilascio dell’autorizzazione. Del resto, nel caso in esame, come
emerge dal provvedimento autorizzativo, poiché lo stesso è stato rilasciato,
contemporaneamente, anche ai fini dell’art. 27 d.lv. 22/97, questo ha
presupposto l’esame tecnico dell’intero nuovo impianto realizzato, analisi che,
peraltro, sarebbe comunque necessaria anche a norma dell’art. 15 d.p.r. 203/88.
Ma quand’anche si ritenesse la questione astrattamente rilevante la soluzione
non sarebbe destinata a mutare. Infatti si verterebbe in ipotesi di eventuale
illegittimità dell’atto autorizzativo che, come tale, non potrebbe essere
disapplicato in malam partem, e non potrebbe, pertanto, immediatamente
equivalere ad assenza dell’autorizzazione medesima.
Infatti, a differenza di altre ipotesi incriminatrici (v. p. es. art. 650 c.p.),
nel caso in esame non risulta che il requisito della legittimità dell’atto
amministrativo sia stato inserito nella struttura della fattispecie, la quale si
limita a contemplare l’esistenza dell’atto, a prescindere dai suoi vizi.
Ne deriva che, quando l’attività sia stata realizzata conformemente ad un titolo
autorizzativo, a prescindere dalla legittimità dello stesso, in generale non
potranno trovare applicazione le sanzioni di cui all’art. 24 contestato, a meno
che non si provi che il provvedimento sia il frutto di attività fraudolenta
posta in essere dai beneficiari dello stesso, cosa che, nel caso in esame,
comunque, non risulta.
Gli imputati, pertanto, devono essere assolti dal reato ascritto.
In realtà, però, altri profili di illecito potrebbero emergere: l’impianto di
termodistruzione, infatti, risulta collocato in epoca assai precedente il
rilascio dell’autorizzazione del 1998. Invero è in atti, prodotta dalla difesa,
copia del verbale della riunione del consiglio di amministrazione della ** del
13/7/99. Nel corso di tale riunione veniva esaminata, tra l’altro, la questione
dell’impianto termodistruttivo, che – si legge – sarebbe stato installato nelle
ns. aree sin dal 1990 come completamento della stazione di degassificazione, ed
in relazione al quale sarebbe stato esistente un contenzioso con la Ansaldo. Si
legge in proposito: … poiché si è certi che l’iter autorizzativo regionale si
trova allo stato finale e l’impianto continua ad essere essenziale alla stazione
di degassificazione anche tecnologicamente, pur necessitando dei dovuti
aggiornamenti e manutenzioni straordinarie per il ripristino della sua
funzionalità, ritiene opportuno intraprendere trattative per l’acquisizione del
forno, purchè a condizioni economiche vantaggiose.
Può pertanto concludersi che l’impianto cominciò ad essere installato in assenza
di autorizzazione, e venne mantenuto in assenza di autorizzazione fino al 1998.
Per tale condotta, tuttavia, il reato deve ritenersi ormai prescritto, per cui
appare superflua la trasmissione di copia degli atti al pubblico ministero.
Infatti il reato in questione ha carattere permanente, nel senso che per il caso
di costruzione di impianti nuovi in assenza di autorizzazione, il reato sussiste
per tutta la permanenza dell’impianto, fino all’eventuale rilascio postumo della
prevista autorizzazione (cfr. Cass. 14/1/99, 1918). Ne consegue che, nel caso di
specie, il termine di prescrizione ha cominciato a decorrere dall’agosto del
1998, essendo ormai interamente consumato.
G – Con riferimento all’ipotesi di cui al capo g) è ancora contestata la
violazione dell’art. 24 d.P.R. 203/88 in relazione, questa volta, alla emissione
nell’atmosfera di sostanze volatili provenienti dal ciclo di trattamento dei
rifiuti pericolosi, tossici e nocivi indicati nel capo a) – ed in particolare
dai serbatoi, dal separatore TPI, dai flottatori, e dalle nuove sezioni
impiantistiche create per procedere al trattamento – in assenza di
autorizzazione, a nulla rilevando al riguardo il D.A. 399/18 dell’11/8/98 come
modificato dal successivo 320/98 del 27.7.99, il quale autorizzava limitatamente
alla termodistruzione di morchie oleose provenienti dall’attività di
degassificazione.
Anche in questo caso si è sopra osservato (v. pagg. 5 e ss.) come la società, ai
fini delle emissioni derivanti dall’intero complesso industriale, fosse in
possesso solo dell’autorizzazione n. 937/92.
In proposito i consulenti del pubblico ministero hanno evidenziato come tale
autorizzazione fosse rivolta esclusivamente alla centrale termica, cioè ai
vecchi impianti termici, non essendo, invece, oggetto di autorizzazione le
emissioni diffuse dei serbatoi e delle vasche di trattamento dei reflui liquidi,
nonché dei nuovi impianti realizzati successivamente (impianto di termodistruzione, adeguamento impianto trattamento reflui liquidi)
In effetti appare del tutto evidente come le emissioni in atmosfera derivassero
– e certamente in misura niente affatto modesta – da altre parti dell’impianto
(ed in particolare dai vari serbatoi, per lo più a cielo aperto e privi di
sistema di captazione, o chiusi ma dotati di valvole di sfogo) destinati a
raccogliere acque oleose e miscele di prodotti petroliferi durante le varie fasi
del trattamento, dalla ricezione fino all’accumulo o allo scarico. E quindi, in
generale: i sistemi di trasferimento, stoccaggio, e trattamento, specie quelli
di separazione acqua/olio, che complessivamente contribuiscono alla messa in
libertà in aria di notevoli quantità di composti organici volatili, tra cui
ovviamente la frazione aromatica. Basti pensare, tra l’altro, alla sezione
relativa alla flottazione ed a quella a pacchi lamellari dove, come osservato
dai consulenti del pubblico ministero, i gas presenti allo stato disciolto
nell’acqua di zavorra vengono in parte separati, con la conseguente emissione
degli stessi in atmosfera. Tanto più che tali sezioni risultavano, appunto, a
cielo aperto e privi di un sistema di raccolta e convogliamento dei gas. Sicchè
le lavorazioni eseguite nel cantiere in questione, con trattamento di grandi
volumi di rifiuti liquidi a base idrocarburica, implicavano inevitabilmente la
messa in libertà di frazioni gassose spesso costituite da una miscela di
composti sulfurei inorganici ed organici, idrocarburi metanici leggeri,
ammoniaca, aldeidi, ammine leggere, sostanze organiche complesse, così come, del
resto, riconosciuto dallo stesso consulente della difesa(16).
Tale circostanza, in sé, peraltro, ovvia, appare confermata dal fatto che, nel
periodo immediatamente precedente i fatti per cui è processo, veniva denunciata
la presenza, nella zona, di odori molesti, che, così come descritti, secondo i
consulenti del pubblico ministero, coincidevano proprio con quelli normalmente
provenienti da comparti petrolchimici e di raffineria, cioè da prodotti analoghi
a quelli trattati presso l’impianto in questione; mentre le rilevazioni di
alcuni valori indice della qualità dell’aria effettuati, genericamente, nella
Zona Falcata da personale della Provincia Regionale di Messina, evidenziavano,
complessivamente, i seguenti valori:
interv. medio Interv. max PTS : / m3 40-50 80-150 SO2 : / m3 20-40 60-110 CO : / m3 1,0-3,0 3,5-4,5 O3 : / m3 30-40 50-60 BENZENE : / m3 60-90
Ebbene, a fronte di tali emissioni, non risulta in atti alcun provvedimento
autorizzativo. Infatti, dall’esame dell’unica autorizzazione sopra menzionata,
appare evidente come la stessa, benché il dispositivo si riferisca genericamente
all’impianto di riparazione e costruzione navi e degassificazione realizzato in
Messina .., espressamente individua ed autorizza solo alcuni punti di emissione
(cioè la centrale termica e l’impianto di produzione acqua calda), mentre
nessuna autorizzazione estenda agli altri punti di emissione dell’impianto, i
quali, dunque, devono ritenersi non autorizzati.
Sul punto, contrariamente a quanto sostenuto dal consulente della difesa ing.
C., deve ritenersi che a norma degli artt. 6 e ss. d.p.r. 203/88, ognuno di tali
singoli punti di emissione dovesse essere oggetto di specifica autorizzazione,
nel senso che l’intero stabilimento di gestione dei rifiuti avrebbe dovuto
essere autorizzato avuto riguardo ad ogni singolo punto di possibile emissione
inquinante. Infatti ai sensi del d.P.R. 203/88 la necessità della preventiva
autorizzazione regionale è collegata alla realizzazione ed installazione di
qualunque impianto fisso che possa dare luogo ad emissioni inquinanti in
atmosfera, dove per impianto deve ritenersi qualunque elemento dello
stabilimento, indipendentemente dalle dimensioni, che sia le possibile fonte di
emissione (cfr. Cass. III, 30/7/94, 8702; Cass. III, 26/5/98, 6153).
Autorizzazione necessaria in quanto volta a verificare la compatibilità delle
possibili emissioni con l’ambiente atmosferico e l’esistenza di idonei strumenti
atti a contenerle. Nè può sostenersi che tali emissioni non richiedessero la
preventiva autorizzazione trattandosi – come affermato dalla difesa – di
emissioni diffuse. Infatti, a prescindere dalla circostanza che la categoria
delle emissioni diffuse non è prevista dalla normativa vigente, e tanto meno ne
è esclusa la sottoposizione ad autorizzazione; è ben chiaro come nel caso di
specie non si tratti di emissioni diffuse (ammesso che una simile espressione
abbia, dal punto di vista tecnico, un significato !), ma di emissioni
provenienti da punti ben specifici ed individuabili dello stabilimento, cioè da
tutti quegli impianti o porzione di impianto in cui si verifica una fase del
trattamento del rifiuto con conseguenti emissioni di gas. In proposito sopra si
è fatto l’esempio del flottatore, fonte certamente primaria di emanazioni, dal
momento che in tale impianto i gas disciolti nei rifiuti vengono separati dalla
parte liquida e semisolida. Ma analoghe considerazioni possono valere per tutte
le altre strutture dello stabilimento, dove si verifica il trattamento, o anche
solo lo stoccaggio, dei rifiuti. Punti chiaramente individuabili, rispetto ai
quali sarebbe stato necessario provvedere alla canalizzazione delle emissioni e,
comunque, alla preventiva autorizzazione delle stesse con le relative verifiche.
Ed i gestori non potevano non rendersi conto di ciò. Tanto è vero che, come
riconosciuto dal consulente della difesa(17), dopo le prime denunce, la ditta pensò
di correre ai ripari – anche in questo caso senza richiedere le preventive
autorizzazioni – avviando una serie di interventi volti a contenere e
controllare le singole fonti di emissioni mediante installazione di filtri e
sistemi di captazione. Quest’ultima circostanza, peraltro, fa emergere tutta la
contraddittorietà delle considerazioni esposte dal consulente della difesa circa
la natura diffusa delle emissioni: se effettivamente si fosse trattato di
emissioni diffuse, non si comprenderebbe in quale maniera si potessero
installare filtri o sistemi di captazione che, ovviamente, presuppongono
l’esistenza di fonti individuate.
Del pari, poi, vanno considerate prive di autorizzazione tutte le altre porzioni
dell’impianto realizzate successivamente al 1992, di cui si è detto sopra, tra
queste rientrando, per esempio, la vasca di raccolta MS 117, destinata a
ricevere i rifiuti scaricati dalle autocisterne, e dunque anch’essa fonte di
emissioni scaturenti all’atto dello sversamento dei liquidi.
Quanto all’impianto di termodistruzione si è sopra osservato come per lo stesso
sia stata emanata un’autorizzazione comprensiva anche delle emissioni in
atmosfera con il decreto assessoriale n. 399/18 (v. pagg. 7 e ss.). Tale
decreto, tuttavia, riguardava esclusivamente le emissioni derivanti dalla
termodistruzione delle morchie oleose, non degli altri rifiuti per i quali,
pure, l’impianto venne autorizzato allo smaltimento. Ed infatti nessun rilievo
assume in tale sede il successivo decreto 320/18 (v. pagg. 8 e ss.), il quale,
infatti, si limita ad estendere la tipologia di rifiuti che possono essere
trattati nell’impianto di distruzione, ma non ne autorizza, contestualmente, le
conseguenti emissioni in atmosfera, per le quali, sarebbe stata necessaria una
nuova valutazione a norma dell’art. 15 d.p.r. 203/88, trattandosi di modifica in
grado di determinare variazioni quantitative e qualitative delle emanazioni.
Necessità che appare confermata anche dalla disciplina dell’art. 33 c. 7 d.lv.
22/97, norma che esclude il ricorso alla nuova autorizzazione a norma dell’art.
15 d.p.r. 203/88 per le variazioni qualitative e quantitative delle emissioni
determinate dai rifiuti solo nel caso in cui venga adottata la procedura
semplificata di cui all’art. 33 medesimo, cosa che non risulta effettuata, e
comunque possibile, nel caso di specie.
Deve, pertanto, ritenersi sussistente il reato contestato, sebbene lo stesso
dovrebbe essere parzialmente riqualificato, per la porzione di impianti
esistenti al momento dell’entrata in vigore del d.p.r. 203/88, come violazione
dell’art. 25 c. 5 d.p.r. 203/88. Invero in base alla domanda di autorizzazione
ed alle risultanze istruttorie porzione dell’impianto sarebbe preesistente al
luglio 1988, data di entrata in vigore del d.p.r. 203/88, sicchè la domanda di
autorizzazione presentata in data 30/6/89 deve intendersi come domanda ai sensi
dell’art. 12 d.p.r. 203/88. Poiché a fronte di tale domanda la regione ha
autorizzato, come sopra osservato, solo alcune delle emissioni derivanti dalle
strutture dell’impianto, quanto alle altre strutture già esistenti l’illecito
attribuibile agli imputati è quello di cui all’art. 25 c. 5, consistente
nell’avere proseguito nell’esercizio dello stabilimento pure dopo che
l’autorizzazione non era stata concessa; mentre per gli impianti realizzati
successivamente a tale data il reato è quello di cui all’art. 24 comma 1,
consistente nell’avere realizzato il nuovo impianto in assenza di autorizzazione
o, quanto meno, ove si ritenga trattarsi di impianto esistente mediante
integrazione dello stesso con nuovi elementi, quello di cui all’art. 25 comma 6
(nel testo conseguente all’intervento della corte Costituzionale del 13/4/1992),
consistente nell’avere eseguito la modifica dell’impianto senza la preventiva
autorizzazione di cui all’art. 15.
Va poi osservato che il reato di cui all’art. 24, così come quello di cui
all’art. 25, sono finalizzati alla tutela della qualità dell’aria. Rispetto a
tale obiettivo l’autorizzazione costituisce lo strumento indispensabile, in
quanto consente il controllo preventivo sugli impianti inquinanti onde
verificare la tollerabilità delle emissioni e l’adozione di appropriate misure
di prevenzione. Ne consegue che l’illecito di cui all’art. 24, che si realizza
con l’inizio della costruzione dell’impianto, e quello di cui all’art. 25,
permangono fino al momento in cui l’autorizzazione venga rilasciata,
indipendentemente dal fatto che l’impianto sia stato completato ed eventualmente
anche attivato (cfr. Cass. III, 21/12/94, 12710), assorbendosi, in tale ultimo
caso, il reato di cui all’art. 24 c. 2. Quest’ultima contravvenzione, infatti,
concerne l’omessa comunicazione della messa in esercizio dell’impianto e
presuppone, evidentemente, che l’impianto sia stato preventivamente autorizzato,
dal momento che non avrebbe senso avvisare della messa in esercizio di un
impianto abusivo. Ove, pertanto, l’impianto sia abusivo, sull’illecito meno
grave, prevarrà l’ipotesi di cui al comma uno.
Trattasi, dunque, di reati permanenti, la cui sussistenza persiste per tutta la
durata dell’impianto, e fino a quando non venga presentata, anche fuori termine,
la domanda di autorizzazione per le emissioni, ciò in quanto l’esercizio
dell’impianto richiede sempre un controllo preventivo (cfr. Cass. III, 24/9/94,
1861; Cass. III, 25/7/95, 8324), con la conseguenza che, nel caso di specie, il
termine prescrizionale avrebbe decorrenza non dalla data dell’attivazione dei
singoli impianti di cui è composto lo stabilimento, ma dal momento in cui, con
il sequestro penale, è cessata ogni possibilità di esercizio dello stabilimento
medesimo.
Esaurite le considerazioni in ordine alla sussistenza dei singoli illeciti
contestati occorre soffermarsi, infine, sulla concreta attribuibilità della
condotta agli imputati. In proposito dalla documentazione in atti prodotta dalla
difesa, ed in particolare dallo statuto, risulta la costituzione della s.p.a. **
– Cantieri Navali con sede in Messina, avente ad oggetto, tra l’altro, stazione
di degassificazione per navi petroliere, impianti ecologici, di depurazione e
smaltimento residui. La stessa, a norma degli artt. 18 e ss. dello Statuto, è
amministrata da un consiglio di amministrazione investito dei più ampi poteri
per la gestione ordinaria e straordinaria della società, senza eccezioni di
sorta. Nell’ambito di tale consiglio, a norma dell’art. 23, la rappresentanza
della società, in giudizio e negoziale, spetta al presidente, mentre lo stesso
consiglio, a norma dell’art. 2381 c.c., può delegare tutti o parte dei suoi
poteri a uno o più dei suoi membri, oltre a nominare eventuali direttori
generali.
Quindi, a seguito di assemblea ordinaria del 29/6/1999, il consiglio di
amministrazione veniva composto da: L. L., cui veniva anche attribuita la carica
di Presidente; D. A.; S. M.; L. V.. In pari data si riuniva il consiglio di
amministrazione che confermava in capo al L. la carica di Presidente con poteri
di rappresentanza legale. Veniva, quindi, conferita la carica di amministratore
delegato con poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione di cui all’art.
23 dello Statuto a D. A., mentre a S. M. veniva conferita la carica di direttore
tecnico dei cantieri della società; ed a L. V. l’incarico di rappresentanza
della società nei confronti di terzi, tra l’altro per l’acquisizione di commesse
di lavoro.
Infine, in data 13/7/1999 il Consiglio di Amministrazione provvedeva alla nomina
dei responsabili del servizio di prevenzione e protezione ai sensi del decreto
legislativo n. 626/94 per i Cantieri Navali e per la piattaforma ambientale
(stazione di degassificazione e impianto termodistruttivo). In tal senso
nominava, per il cantiere di riparazione e cantiere di costruzione di Messina
l’ing. M. S.; mentre per la piattaforma ambientale a Messina il dr. M. C..
Quanto a quest’ultima statuizione del Consiglio di amministrazione deve subito
evidenziarsi la irrilevanza della stessa ai fini del presente procedimento.
Infatti l’attribuzione di competenze risulterebbe effettuata ai soli fini del
d.lv. 626/94, che, come noto, si occupa della sicurezza sui luoghi di lavoro.
L’attribuzione di responsabilità in tal senso, dunque, è esclusivamente
funzionale all’attuazione dei piani di sicurezza e, quindi, all’applicazione
della normativa antinfortunistica, senza che tali competenze incidano, di per
sé, sui poteri gestionali della società e dell’impresa. Del resto nulla di
diverso è specificato nella delibera, non risultando in alcun modo che, con
l’attribuzione delle competenze in materia di sicurezza, siano state attribuite
anche quelle in materia di organizzazione, gestione e funzionamento dei singoli
impianti, attività necessariamente diverse da quelle di controllo
sull’attuazione della normativa antinfortunistica. Deve desumersi, dunque, in
assenza di altri documenti, che le competenze gestionali al tempo
dell’accertamento fossero quelle risultanti dalle delibere del 29/6/1999. In
virtù di tali delibere risulta che il L., al tempo del fatto, aveva la carica di
presidente del Consiglio di Amministrazione. Benchè i poteri del consiglio
fossero stati delegati ad un amministratore, in persona di D. A. – stranamente
estraneo a questo processo – è evidente come il Consiglio di Amministrazione, e
quindi il suo Presidente, conservassero i poteri di controllo e di direzione,
con la possibilità di intervenire in qualunque momento sull’operato
dell’amministratore. Tanto più che il presidente conservava, altresì, i poteri
di rappresentanza.
Quanto a S. M., lo stesso, oltre alla carica di componente del Consiglio di
amministrazione, rivestiva anche quella di direttore tecnico dei cantieri della
società. In proposito, come si evince dallo statuto, il consiglio di
amministrazione poteva nominare uno o più direttori generali. Nel caso di specie
l’unico direttore nominato risulterebbe il S.. Allo stesso, del resto, viene
attribuita la competenza generale in ordine ai cantieri della società, senza
alcuna specifica distinzione, in particolare senza distinzione tra cantieri
navali e altri cantieri destinati alla degassificazione o, più in generale, allo
smaltimento dei rifiuti. Sempre questo, ancora, si qualifica direttore tecnico
dell’impianto nella nota del 3/12/99 (v. d.ass. 39/18 del 29/3/2000 di cui a
pag. 10) allegata all’istanza del 17/11/99 (nella quale, peraltro, veniva anche
indicato come tale) e successive integrazioni, inoltrata dalla ** e volta ad
ottenere l’autorizzazione all’attività di trattamento e recupero di rifiuti
speciali e pericolosi. Deve ritenersi, pertanto, che le competenze di quest’ultimo,
sia come consigliere di amministrazione che come direttore tecnico, investissero
tutte le attività della **, ivi comprese quelle inerenti lo smaltimento dei
rifiuti. Né può assumere rilevanza, ai fini del presente processo, che in data
3/10/2000, successivamente all’accertamento della Guardia di Finanza, in
occasione di un sopralluogo effettuato da personale della Provincia Regionale e
di un prelievo eseguito da personale del Lip, fosse presente il dott. M. C.,
asseritamente qualificatosi, nell’occasione, responsabile dell’impianto.
Infatti, per un verso, detta circostanza potrebbe rilevare esclusivamente per i
fatti successivi al 3/10/2000; per altro verso, e soprattutto, tale qualifica
non ha alcun supporto formale, dal momento che l’unico atto di delega
formalmente esistente è – secondo quanto in atti – quello con il quale
l’incarico viene conferito al S.. Sicchè l’espressione informalmente utilizzata
nei verbali di accesso in questione non può, in alcun modo, essere sufficiente
ad escludere la responsabilità del predetto S., ma, al più, ad estendere tale
responsabilità al C.. Il quale, peraltro, a prescindere dalla qualifica
effettivamente assunta all’interno della società, ha avuto certamente un ruolo
attivo nella gestione dell’impianto, come risulta: dalle dichiarazioni del dott.
P., al quale il C. si sarebbe sempre presentato come consulente della società;
dalla presenza dello stesso al momento dei sopralluoghi; dal conferimento a
quest’ultimo dell’incarico di responsabile per la sicurezza, come risulta dal
verbale del consiglio di amministrazione di cui si è detto sopra.
Tanto posto occorre enucleare, in generale, nell’ambito dei reati d’impresa, le
condizioni dalle quali discende la responsabilità individuale. Operazione che
incontra difficoltà in ragione del fatto che il diritto penale tradizionale si
fonda sull’esecuzione monosoggettiva e, quindi, sull’autore individuale,
trovandosi, così, a disagio nella considerazione di fatti penalmente rilevanti
commessi all’interno di una organizzazione aziendale, sia che essa faccia capo
ad un’impresa individuale, sia che essa si riferisca ad un’impresa gestita in
forma societaria. Ci si trova, cioè, a dover conciliare il principio della
responsabilità penale personale – inderogabile e costituzionalmente garantito –
con quel processo storico di sempre più marcata spersonalizzazione che
contrassegna la fase gestionale della maggior parte delle imprese, nelle quali
ad una titolarità formale del potere si accompagna una sempre più diffusa
ripartizione dei compiti e delle funzioni.
La risoluzione della questione deve procedere in base al principio fondamentale
della responsabilità per fatto proprio, in virtù del quale ciascuno può essere
chiamato a rispondere solo in ragione delle proprie condotte – commissive od
omissive – coscienti e volontarie; per cui il peso della sanzione penale deve
essere sopportato solo dall’effettivo titolare di quel potere il cui non
corretto svolgimento è alla fonte dell’illecito penale.
In tale ottica deve ritenersi che l’attribuzione della delega di funzioni da
parte dell’organo formalmente investito dei compiti di amministrazione e
rappresentanza, e dunque in posizione apicale, al soggetto in posizione di
dipendenza o subordinazione, pur spostando le mansioni proprie della qualifica
personale, non determina l’esclusione di ogni responsabilità in capo al
delegante, comportando solo un mutamento del contenuto dell’impegno richiesto a
quest’ultimo, garante primario per legge, che si trasforma in obbligo di
vigilanza e di garanzia.
Infatti il titolare primario degli obblighi e delle responsabilità ed il diretto
destinatario della norma penale, devono sempre essere individuati nel soggetto
cui, per legge e per la natura e organizzazione dell’impresa, obblighi e
responsabilità sono riferibili (cfr. Cass. VI, 16712/1975; Cass. IV, 10/11/1978;
Cass. IV, 11/12/86).
In tal senso la delega al sottoposto costituisce solo una modalità di
adempimento degli obblighi gravanti su tale soggetto. Ne consegue che, se da un
lato con l’atto di delega si creano nuovi soggetti tenuti ad adempiere in forza
dell’atto di preposizione; dall’altro il garante primario non può sottrarsi da
ogni attesa dell’ordinamento, assumendo comunque il dovere di controllo e
vigilanza sul corretto esercizio del potere delegato, con conseguente
frazionamento della posizione di garanzia.
Del resto la sussistenza di una posizione di garanzia, in generale, in capo agli
amministratori di società, può desumersi anche dal disposto del comma 2
dell’art. 2392 cod. civ., ai sensi del quale: “in ogni caso gli amministratori
sono direttamente responsabili se non hanno vigilato sul generale andamento
della gestione o se, essendo a conoscenza di atti pregiudizievoli, non hanno
fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le
conseguenze dannose”.
Parimenti, nell’impresa in generale, è previsto, per esempio, dall’art. 2086 c.c.,
che “l’imprenditore è il capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i
suoi collaboratori”.
Sicchè, anche in base a tali discipline, può affermarsi l’esistenza in capo agli
amministratori e, più in generale, agli imprenditori, di un obbligo di vigilare
ed intervenire affinchè non vengano compiuti atti pregiudizievoli (cfr. Cass. V,
26/6/90; Cass. V, 12/2/92; Cass. V, 7/7/92).
Ne discende, dunque, una posizione di garanzia, in virtù della quale il soggetto
in posizione apicale continua a rispondere degli eventuali reati commessi dal
delegato nella misura in cui, non intervenendo, ne abbia consentito o agevolato
la verificazione (cfr. Cass. V, 28/6/93; Cass. V, 20/10/94).
Ciò, tuttavia, non dà propriamente luogo ad una ipotesi atipica di concorso nel
reato mediante omissione, in base alla disciplina di cui all’art. 40 cpv. c.p.
(secondo la quale non impedire un evento che si aveva l’obbligo di impedire
equivale a cagionarlo); bensì si concreta in una ipotesi di concorso di persone
nel reato fondata sulla generale disciplina di cui all’art. 110 c.p., in virtù
della quale risponde del reato chiunque abbia fornito un qualunque contributo
causale.
Non sfugge, infatti, come nel caso in esame – a differenza, per esempio, della
condotta dell’agente di polizia giudiziaria che non abbia impedito, pur
potendolo, la commissione di un reato (ipotesi pur ammessa in giurisprudenza: v.
Cass. 5/2/91, 4820; Cass. 6/12/91, 1506) – il potere del delegato di commettere
il reato, nell’ambito dell’organizzazione aziendale, non è originario, ma
derivato. Esso discende esclusivamente dal consenso, espresso o tacito, del
soggetto in posizione apicale. In assenza di quest’ultimo, ovviamente, il
delegato non avrebbe avuto alcun potere e non avrebbe potuto commettere alcun
reato. Si può dunque affermare che la condotta omissiva concorrente del
delegante si innesta su una precedente condotta positiva – il conferimento
espresso o tacito della delega o del potere di amministrare – che concorre in
maniera determinate alla causazione dell’ipotizzato reato.
È, dunque, proprio il conferimento di tale delega che, in quanto pone altre
persone nelle condizioni di esercitare un potere e, dunque, di commettere degli
illeciti, si pone come condizione dell’assunzione di un dovere di controllo
sull’operato dei delegati, nonchè di responsabilità per la condotta posta in
essere da questi ultimi, effettivi esercenti il potere, nel caso di inadeguata
vigilanza o di mancato apprestamento dei mezzi necessari all’esercizio della
delega.
A fronte, poi, della responsabilità del delegante, si pone quella del delegato,
il quale, in virtù dell’atto di delega e del trasferimento di competenze e
poteri, e, quindi, della effettiva titolarità di quei poteri/doveri che sono
normalmente propri dell’individuo munito della qualifica extrapenalistica, deve
ritenersi diretto destinatario del precetto, alla stregua del delegante, anche
in caso di reato proprio (cfr. Cass. V, 11/10/94; Cass. V, 10/7/84; Cass. V,
23/2/83).
Peraltro, pur nel caso in cui si ritenesse l’impossibilità del trasferimento
degli obblighi di garanzia in attuazione della delega, quanto meno con
riferimento ai reati propri, ugualmente sarebbe configurabile la responsabilità
del delegato, in qualità di extraneus, a titolo di concorso con l’intraneus,
cioè con il delegante. Ciò in quanto, sebbene l’obbligo giuridico di impedire
l’evento incomba sul soggetto qualificato, il delegato violerebbe, comunque,
l’obbligo contrattuale assunto nei confronti del delegante, contribuendo, con la
propria inattività, a realizzare l’omissione penalmente rilevante.
Quanto all’elemento psicologico occorre osservare come la differenza concettuale
tra azione ed omissione si riflette anche sull’elemento volitivo del dolo il
quale, mentre nelle condotte commissive si caratterizza per una sorta di impulso
del volere, cioè da una decisione di agire; in quelle omissive è
sufficientemente integrato dalla sola conoscenza da parte dell’agente della
“situazione tipica” (intesa come il complesso dei presupposti di fatto che danno
vita ad una situazione di pericolo per il bene da proteggere e che, pertanto,
rendono attuale l’obbligo di attivarsi del garante) e della propria capacità di
intervenire.
Sicchè, con riferimento al soggetto in posizione apicale che abbia esercitato il
potere di delega, la sua responsabilità sarà configurabile a titolo di dolo, in
ragione delle condotte illecite del delegato, per la semplice consapevolezza
della esistenza di tali condotte, ancorchè nel loro complesso, senza che sia
necessaria un ulteriore partecipazione all’attività criminosa, ed
indipendentemente dal fatto che la consapevolezza investa i singoli episodi
delittuosi o i dettagli di questi ultimi, sussistendo pure nella forma del dolo
eventuale, in termini di accettazione del rischio che tali eventi si verifichino
(cfr. Cass. V, 10/10/94; Cass. V, 25/3/97).
In definitiva può ritenersi che l’unica soluzione costituzionalmente orientata e
legittima – nel senso di non cadere in ipotesi di responsabilità oggettiva, di
posizione – è quella che si fonda sulla effettività della situazione,
ricercando, cioè, tra i soggetti coinvolti, il potere di agire ed influire
sull’evento specifico, ed insieme la consapevolezza della condotta illecita, che
può atteggiarsi in maniera diversa a seconda che si verta in caso di reati
dolosi o colposi.
In tale contesto, pertanto, deve ritenersi:
che tutte le volte che venga rappresentato un reato proprio, l’agente del reato debba essere individuato non necessariamente in colui che riveste la qualifica formale, ma in colui che di fatto abbia, realmente, i poteri connessi a quella qualificazione.
che il delegante possa concorrere con il delegato, conservando comunque la
propria posizione di garanzia ed essendo, dunque, obbligato, quanto meno, a
vigilare sulla condotta del delegato, sempre che venga dimostrata la sussistenza
del dolo – inteso in termini di consapevolezza – o, nei reati colposi, della
colpa – intesa in termini anche di mera negligenza nell’esercizio del controllo.
In base alle superiori considerazioni, dunque, deve ritenersi che nel caso
concreto entrambi gli imputati debbano rispondere dei reati loro ascritti, con
la sola eccezione, come sopra specificato, di quelli di cui ai capi b) ed f),
come sopra specificato.
Emerge, infatti, inequivocabilmente come le condotte esaminate siano del tutto
riconducibili a strategie aziendali ed alla gestione, organizzazione e
costituzione dell’intero stabilimento, condotte che, dunque, investono attività
preminenti, e non marginali, della compagine sociale. In tal senso si collocano
sia l’intera realizzazione dell’impianto di smaltimento rifiuti in tutte le sue
articolazioni e le conseguenti modifiche, sia le modalità di gestione dello
stesso e le tipologie di rifiuti trattati. Quanto al primo profilo appare chiaro
come l’attività di smaltimento sia una delle due attività fondamentali della
società (l’altra è quella navale). È ovvio, pertanto, che la realizzazione e la
struttura dell’impianto faccia capo (anche) al consiglio di amministrazione. Del
resto di ciò si trae conferma dal verbale del consiglio di amministrazione del
13/7/1999, di cui sopra si è detto (v. pag. 40), dal quale si evince con
chiarezza come la sistemazione e le strategie dell’impianto di smaltimento
fossero, se non deliberate, quanto meno condivise dal consiglio di
amministrazione, tanto più che le relative richieste di autorizzazione (p. es.
quella relativa allo scarico in mare dei reflui) venivano firmate dallo stesso
L.. Delle relative condotte, dunque, risponde il L. in qualità di Presidente e
componente del consiglio di amministrazione, sia in termini commissivi – per le
statuizioni a tale consiglio riconducibili – sia in termini omissivi, cioè per
l’omesso intervento in presenza di condotte illecite poste in essere da altri
organi sociali (amministratore e direttore tecnico). Lo stesso L., del resto,
appare presente con ruoli preminenti in tutto l’arco di vita dell’impianto,
basti pensare che proprio questi, unitamente a tale R. C., riceve in affidamento
l’impianto, per conto della **, nel lontano 15/11/1983.
Analoghe considerazioni valgono per le strategie di gestione dell’impianto, ed
in particolare in relazione alle tipologie di rifiuti accolte ed alle modalità
di smaltimento. Si è detto sopra come lo sversamento in mare di rifiuti
(probabilmente fanghi residui dall’attività di smaltimento o, quanto meno,
reflui non adeguatamente trattati) non possa essere considerata condotta
accidentale (che comunque sarebbe penalmente rilevante) ed occasionale, ma al
contrario come la stessa corrisponda ad una strategia aziendale. Circostanza
che, si ribadisce, trova conferma nella maliziosa attivazione dell’impianto
antincendio in occasione dello sversamento in mare, condotta inequivocabilmente
volta a diluire gli effluvi e ad agevolarne la dispersione.
Si può, pertanto, concludere che per tali condotte – peraltro di gravità estrema
– la responsabilità non possa essere limitata al solo direttore tecnico –
diretto responsabile del cantiere – ma debba essere estesa, quanto meno in
termini di colposa omissione, ai vertici dell’azienda, e quindi al consiglio di
amministrazione e, per esso, al suo presidente.
Gli imputati devono, pertanto, essere riconosciuti colpevoli dei reati ascritti,
con le limitazioni e precisazioni sopra formulate.
omissis
1) Rifiuti - Nozione di rifiuto - Residuo di processo industriale - Recuperabilità o riutilizzabilità - Residui del trattamento dei rifiuti - Produzione di energia - Condizioni e limiti - Deposito o stoccaggio - Preventiva autorizzazione - Necessità - D. L.vo. 22/97 - Fattispecie: acque oleose provenienti da residui del trattamento di rifiuti. Qualunque residuo di processo industriale costituisce rifiuto ai sensi del d.lv. 22/97, come emblematicamente precisato dal punto Q8 dell’allegato A al medesimo decreto, a nulla rilevando la eventuale recuperabilità o riutilizzabilità - a meno che questa non avvenga nel medesimo ciclo produttivo - costituendo le operazioni di recupero niente altro che una forma di gestione del rifiuto stesso, come chiaramente indicato all’art. 6 lett. d) e nell’allegato C del decreto, che, tra l’altro, al punto R1 espressamente indica come una delle possibili operazioni di recupero la utilizzazione principale come combustibile o come altro mezzo per produrre energia. Ne consegue che l’eventuale possibilità di impiegare i residui del trattamento dei rifiuti in questione come fonte di energia, non toglie che gli stessi restino dei rifiuti il cui deposito o stoccaggio è soggetto a particolari discipline e deve essere preventivamente autorizzato. Nella specie, è infondata la tesi secondo la quale il trattamento delle acque oleose avrebbe come prodotto finale non dei rifiuti, ma dei semilavorati di origine petrolifera, in quanto si tratterebbe di morchie ed idrocarburi, aventi apprezzabile contenuto energetico e valore di mercato e, pertanto, riutilizzabili mediante incenerimento e recupero del loro contenuto energetico. In questi casi, infatti, non si tratta di residui della lavorazione di un prodotto, ma di residui del trattamento di rifiuti: dunque essi stessi rifiuti per antonomasia. - Giudice De Marco. Tribunale di Messina Giudice monocratico sezione II - sentenza del 16/12/2003 (vedi: sentenza per esteso)
2) Rifiuti - Autorizzazioni rilasciate sotto la vigenza del d.p.r. 915/82 - Disciplina di transizione al D. L.vo n. 22/97 - Inquadramento della eliminata voce rifiuti tossici e nocivi nella nuova disciplina - Rifiuti pericolosi. In tema di rifiuti, in base al disposto dell’art. 57 d.lv. 22/97, tutte le autorizzazioni rilasciate sotto la vigenza del d.p.r. 915/82 restano valide fino alla loro scadenza, ma non oltre quattro anni dall’entrata in vigore della nuova normativa, salvo l’aggiornamento da apportare a cura delle Regioni. Con tale disposto, la nuova normativa deve trovare attuazione per tutte le vicende inerenti la gestione dei rifiuti successive al 3/3/97, con la sola eccezione delle autorizzazioni già in essere. Con la conseguenza che la realizzazione di nuovi impianti o la modifica di quelli esistenti viene ad essere regolata dal d.lv. 22/97. Peraltro, sempre l’art. 57 stabilisce che tutte le norme regolamentari e tecniche già in essere, continuano a restare in vigore anche con la nuova disciplina, sino all’adozione delle nuove normative. Ai fini dell’applicazione delle vecchie disposizioni, tuttavia, essendo stata eliminata la voce rifiuti tossici e nocivi, ogni riferimento a questi ultimi si deve intendere effettuato ai rifiuti pericolosi. Tali rifiuti, in particolare, a norma dell’art. 7 c. 4, sono quelli precisati negli elenchi di cui agli allegati D, G, H, ed I. Giudice De Marco. TRIBUNALE DI MESSINA Giudice monocratico sezione II - sentenza del 16/12/2003
3) Rifiuti - Modifica dell’impianto sia nella struttura che nella destinazione - Autorizzazione regionale - Modifica delle procedure di trattamento dei rifiuti conseguente alla diversa tipologia di rifiuti trattati - Varianti sostanziali in corso di esercizio - Conformità all’autorizzazione rilasciata - Necessità. A norma dell’art. 27 Decreto Legislativo n. 22/97, l’autorizzazione regionale, deve essere richiesta sia per la realizzazione di ogni nuovo impianto di smaltimento o di recupero di rifiuti, sia per la realizzazione di varianti sostanziali in corso di esercizio, che comportano modifiche a seguito delle quali gli impianti non sono più conformi all’autorizzazione rilasciata. Pertanto, non ogni modifica costituisce nuovo impianto, ma solo le varianti di carattere sostanziale che rendono l’impianto stesso non più conforme all’autorizzazione rilasciata. Restando esenti da nuova autorizzazione solo quelle variazioni del processo tecnologico di trattamento dei rifiuti che non modifichino le capacità dell’impianto con riferimento alla quantità e tipologia generale dei rifiuti. Una nuova autorizzazione e, invece, necessaria ogniqualvolta vengano posti in essere interventi di ristrutturazione che implichino: l’introduzione di una diversa fase di gestione, o di una diversa tipologia di rifiuti da trattare, o, infine, di una diversa procedura di trattamento dei rifiuti medesimi (cfr. C. Stato IV, 6/11/98, 1440). Giudice De Marco. TRIBUNALE DI MESSINA Giudice monocratico sezione II - sentenza del 16/12/2003
4) Rifiuti - Gestione rifiuti - Procedure di trattamento dei rifiuti - Modifiche funzionali e strutturali apportate all’impianto - Preventive autorizzazioni - Necessità - Idoneità tecnica e compatibilità ambientale - Assimilabilità a rifiuti urbani - Art. 21 c. 2 lett. g) D. L.vo n. 22/97. La circostanza che le procedure di trattamento dei rifiuti possano avere degli elementi in comune, non esclude che le modifiche funzionali e strutturali apportate all’impianto debbano essere preventivamente validate ed autorizzate dalle autorità competenti al fine di verificarne l’idoneità tecnica e la compatibilità ambientale. Tanto più che l’unica circostanza in cui, in materia di rifiuti, assume rilevanza il concetto di assimilabilità, è quella relativa ai rifiuti espressamente classificati come assimilabili a quelli urbani, i quali, a norma dell’art. 21 c. 2 lett. g) d.lv. 22/97, possono essere gestiti come rifiuti urbani. Giudice De Marco. TRIBUNALE DI MESSINA Giudice monocratico sezione II - sentenza del 16/12/2003
5) Inquinamento Atmosferico - Emissioni inquinanti in atmosfera - Impianto - Definizione - Assenza di autorizzazione - Reato permanente - Fattispecie: impianto di termodistruzione di uno stabilimento dotato di propria autonomia strutturale - Artt. 2 n. 10 e 24 D.P.R. n. 203/88. In materia di qualità dell'aria, a norma dell’art. 2 n. 10 d.p.r. 203/88 per impianto deve intendersi sia l’intero stabilimento, sia qualunque altro impianto fisso, parte dello stabilimento, che serva per usi industriali o di pubblica utilità. Nel caso in specie l’impianto di termodistruzione, pur costituendo parte integrante dell’intero stabilimento di gestione dei rifiuti, ai fini della disciplina delle emissioni in atmosfera costituiva un nuovo impianto, in quanto componente dotata di propria autonomia strutturale. Infine, il reato previsto di cui all’art. 24 D.P.R. n. 203/88, per cui appare superflua la trasmissione di copia degli atti al pubblico ministero. Infatti il reato in questione ha carattere permanente, nel senso che per il caso di costruzione di impianti nuovi in assenza di autorizzazione, il reato sussiste per tutta la permanenza dell’impianto, fino all’eventuale rilascio postumo della prevista autorizzazione (cfr. Cass. 14/1/99, 1918). Giudice De Marco. TRIBUNALE DI MESSINA Giudice monocratico sezione II - sentenza del 16/12/2003
6) Inquinamento Atmosferico - Emissioni inquinanti in atmosfera - Preventiva autorizzazione regionale - Necessità - Indipendentemente dalle dimensioni dell’impianto e dalle possibile fonte di emissione. Ai sensi del d.P.R. 203/88 la necessità della preventiva autorizzazione regionale è collegata alla realizzazione ed installazione di qualunque impianto fisso che possa dare luogo ad emissioni inquinanti in atmosfera, dove per impianto deve ritenersi qualunque elemento dello stabilimento, indipendentemente dalle dimensioni, che sia le possibile fonte di emissione (cfr. Cass. III, 30/7/94, 8702; Cass. III, 26/5/98, 6153). Giudice De Marco. TRIBUNALE DI MESSINA Giudice monocratico sezione II - sentenza del 16/12/2003
7) Inquinamento Atmosferico - Tutela della qualità dell’aria - Assenza dell’autorizzazione - Artt. 24 e 25 D.P.R. n. 203/88 - Effetti. Il reato di cui all’art. 24, così come quello di cui all’art. 25, del D.P.R. 203/88 sono finalizzati alla tutela della qualità dell’aria. Rispetto a tale obiettivo l’autorizzazione costituisce lo strumento indispensabile, in quanto consente il controllo preventivo sugli impianti inquinanti onde verificare la tollerabilità delle emissioni e l’adozione di appropriate misure di prevenzione. Ne consegue che l’illecito di cui all’art. 24, che si realizza con l’inizio della costruzione dell’impianto, e quello di cui all’art. 25, permangono fino al momento in cui l’autorizzazione venga rilasciata, indipendentemente dal fatto che l’impianto sia stato completato ed eventualmente anche attivato (cfr. Cass. III, 21/12/94, 12710), assorbendosi, in tale ultimo caso, il reato di cui all’art. 24 c. 2. Quest’ultima contravvenzione, infatti, concerne l’omessa comunicazione della messa in esercizio dell’impianto e presuppone, evidentemente, che l’impianto sia stato preventivamente autorizzato, dal momento che non avrebbe senso avvisare della messa in esercizio di un impianto abusivo. Ove, pertanto, l’impianto sia abusivo, sull’illecito meno grave, prevarrà l’ipotesi di cui al comma uno. Trattasi, di reati permanenti, la cui sussistenza persiste per tutta la durata dell’impianto, e fino a quando non venga presentata, anche fuori termine, la domanda di autorizzazione per le emissioni, ciò in quanto l’esercizio dell’impianto richiede sempre un controllo preventivo (cfr. Cass. III, 24/9/94, 1861; Cass. III, 25/7/95, 8324). Giudice De Marco. TRIBUNALE DI MESSINA Giudice monocratico sezione II - sentenza del 16/12/2003
8) Inquinamento idrico - Immissioni dirette nelle acque superficiali - Scarico in mare - Autorizzazione - Necessità - Presupposti - Competenza - D. L.vo n.152/99 - L.R. Sicilia Art. 40 della l. r. 27/86. Il Decreto Legislativo n. 152/99 si limita a disciplinare esclusivamente gli scarichi diretti, cioè le immissioni dirette nelle acque superficiali, e quindi, tra l’altro, gli scarichi nel mare. Tale disciplina all’art. 45 dispone che, tutti gli scarichi devono essere preventivamente autorizzati, e, a norma dell’art. 46, la richiesta di autorizzazione deve essere accompagnata dalle caratteristiche dello scarico. La competenza in ordine al rilascio delle autorizzazioni, secondo quanto disposto dall’art. 45, è disciplinata dalla Regione che, nel caso della Sicilia, già prima dell’entrata in vigore della normativa in questione, l’aveva attribuita ai Comuni in virtù dell’art. 40 della l. r. 27/86, non modificato successivamente all’entrata in vigore della nuova disciplina nazionale. In specie, per il completamento delle proprie attività di smaltimento, l’impianto, prevedeva lo scarico in mare delle acque reflue delle operazioni di trattamento, adeguatamente purificate, tuttavia, in violazione della necessaria specifica autorizzazione allo scarico diretta alla valutazione della tipologia di impianto, della natura dei rifiuti trattati e delle procedure di trattamento. De Marco. TRIBUNALE DI MESSINA Giudice monocratico, sezione II - sentenza del 16/12/2003
9) Inquinamento idrico - Nuova autorizzazione allo scarico - Presupposti - Art. 45 D. L.vo n.152/99. In tema d’inquinamento idrico l’autorizzazione allo scarico implica necessariamente la valutazione della tipologia di impianto, della natura dei rifiuti trattati e delle procedure di trattamento. Con la conseguenza che la modifica di uno di tali elementi richiede necessariamente una nuova autorizzazione. De Marco. TRIBUNALE DI MESSINA Giudice monocratico sezione II - sentenza del 16/12/2003
10) Inquinamento idrico - Disciplina degli scarichi - Prelievo e campionamento delle acque reflue - Attività a sorpresa - Procedimento - Art. 50 d.lv. 152/99 - Art. 223 disp. att. c.p.p. - Art. 360 c.p.p.. In tema di disciplina degli scarichi il prelievo ed il campionamento delle acque reflue configurano attività amministrativa che non richiede l’osservanza delle norme del codice di procedura penale stabilite a garanzia degli indagati e degli imputati per le attività di polizia giudiziaria, atteso che l’unica garanzia richiesta per le anzidette attività ispettive è quella prevista dall'art. 223 disp. att. cod. proc. pen. che impone il preavviso all’interessato del giorno, dell’ora e del luogo dove si svolgeranno le analisi dei campioni, onere che deve ritenersi ottemperato nella misura in cui, nel caso di specie, le analisi sono state effettuate con le procedure di cui all’art. 360 c.p.p. (cfr. Cass. III, 29/1/2003, 15170). L’esecuzione delle attività di prelievo, devono necessariamente costituire attività a sorpresa, assimilabile alle ispezioni, condizione necessaria per garantire la genuinità dell’accertamento, e come tali disciplinate e consentite in via generale dall’art. 50 d.lv. 152/99, e, comunque, dagli artt. 348 e ss. c.p.p. (cfr. Cass. III, 1/7/87, 7999; Cass. III, 15/11/84, 10041). Giudice De Marco. TRIBUNALE DI MESSINA Giudice monocratico sezione II - sentenza del 16/12/2003
11) Inquinamento idrico - Prelievo effettuato nell’immediatezza di una immissione - Nullità o inutilizzabilità - Esclusione - Fondamento. I risultati di un prelievo effettuato nell’immediatezza di una immissione (in flagranza) che, non consenta l’apprestamento degli specifici strumenti con la conseguenza di eventuali inosservanze delle modalità e metodiche di prelievo dei campioni non possono determinare alcuna nullità o inutilizzabilità delle operazioni compiute e degli atti conseguenti, (cfr. Cass. III, 24/5/99, 6416; Cass. III, 16/2/2000, 1773), e assumono ugualmente il rilievo di elementi di prova liberamente valutabili dal giudice, sicchè tali violazioni costituiscono esclusivamente elemento di valutazione dell’attendibilità del risultato (cfr. Cass. III, 24/5/99, 6416). Giudice De Marco. TRIBUNALE DI MESSINA Giudice monocratico sezione II - sentenza del 16/12/2003
12) Inquinamento idrico - Scarico e immissione occasionale - Differenza - Superamento dei limiti tabellari - Fattispecie: scarico in mare dei reflui - Art. 59 d.lg. n. 152/1999. In materia di inquinamento idrico, si distingue lo scarico dall’immissione occasionale per il fatto che il primo ha carattere di continuità e stabilità (Cass. III, 14/6/2002, 29651), mentre l’immissione occasionale è costituita da uno sversamento occasionale ed eccezionale realizzato, pertanto, al di fuori di un sistema di scarico. Può pertanto, concludersi che il superamento dei limiti tabellari resta sanzionato a norma dell’art. 59 d.lg. n. 152 del 1999, quando venga realizzato nell’ambito di uno scarico, caratterizzato, dalla permanenza e stabilità, mentre resta escluso dalla punibilità se realizzato nell’ambito di uno sversamento occasionale (cfr. Cass. III, 14/6/2002, 29651 - Paolini). In base all’attuale testo dell’art. 59 menzionato, in specie, occorrerà distinguere due ipotesi: quella dell’agente che, in maniera occasionale, al di fuori di un’attività di scarico, e dunque nell’ambito di sversamenti episodici da impianti che non prevedono scarichi in mare (quali, per esempio, le avarie agli impianti medesimi), effettua un versamento in acque superficiali, condotta non più punibile a norma del menzionato art. 59 c. 5; e quella, invece, dell’agente il quale gestisca un impianto che preveda lo scarico in mare dei reflui, e che, nell’ambito di tale scarico, effettui, anche occasionalmente, degli sversamenti che superino i limiti tabellari. Condotta, questa, di cui permane la illiceità penale. In sostanza, la depenalizzazione riguarda solo l’occasionalità degli sversamenti, eseguiti al di fuori di uno scarico stabile; restando, invece, sottoposti a sanzione tutti i superamenti tabellari, anche se occasionali o rilevati occasionalmente, quando eseguiti, come recita la norma, nell’effettuazione di uno scarico industriale, cioè nell’ambito di un sistema di scarico avente carattere di stabilità e continuità. Giudice De Marco. TRIBUNALE DI MESSINA Giudice monocratico sezione II - sentenza del 16/12/2003
13) Inquinamento - Acqua - Rifiuti - Art. 635 c.p. (danneggiamento) e D. L.vi nn. 152/99, 22/97 - Rapporto di specialità - Esclusione - Art. 822 cod. civ. -Alterazione dell’integrità di un bene al servizio della collettività quale le acque del mare. In tema d’inquinamento un’attività di immissione o diffusione abusiva di materiali di qualunque natura, solidi o liquidi, ove abbia come conseguenza l’alterazione dell’integrità di un bene quale le acque del mare, sotto il profilo della sostanza, delle risorse biologiche e ittiche, della composizione, ovvero della utilizzabilità o anche solo del valore estetico, appare configurabile il reato in questione. Né questo deve essere escluso per la contemporanea presenza di altro reato - contravvenzionale - che punisce lo specifico fatto dell’inquinamento, dal momento che tra il primo reato e quelli espressamente previsti dal d.lv. 152/99 o dal d.lv. 22/97 non esiste rapporto di specialità atteso che il primo tutela non l’ambiente come valore in sé, quanto il valore patrimoniale dello stesso e l’utilizzabilità da parte della collettività. Sicchè, ove all’attività illecita consegua, appunto, l’evento ulteriore rappresentato dal danno, si determina un concorso delle due tipologie di reato (cfr. Cass. 15/11/79, 5802; Cass. 10/12/79, 5870; Cass. 19/6/81, 9425; Cass. 17/6/82, 11484; Cass. 10/2/84, 5485). Inoltre il mare, così come tutti gli altri beni elencati nell’art. 822 cod. civ., è essenzialmente destinato al servizio della collettività, per cui correttamente in caso di danneggiamento di tale bene appare configurabile il delitto di cui all’art. 635, con l’aggravante del capoverso n. 3 in relazione all’art. 625 n. 7 c.p. la quale tutela, appunto, la destinazione pubblicistica del bene (cfr. Cass. 15/11/79, 5802; Cass. 10/2/84, 5485). Giudice De Marco. TRIBUNALE DI MESSINA Giudice monocratico sezione II - sentenza del 16/12/2003
14) Inquinamento - Responsabilità - Attribuzione della delega di funzioni - Responsabilità in capo al delegante - Sussiste - Obbligo di vigilanza e di garanzia. L’attribuzione della delega di funzioni da parte dell’organo formalmente investito dei compiti di amministrazione e rappresentanza, e dunque in posizione apicale, al soggetto in posizione di dipendenza o subordinazione, pur spostando le mansioni proprie della qualifica personale, non determina l’esclusione di ogni responsabilità in capo al delegante, comportando solo un mutamento del contenuto dell’impegno richiesto a quest’ultimo, garante primario per legge, che si trasforma in obbligo di vigilanza e di garanzia. Infatti il titolare primario degli obblighi e delle responsabilità ed il diretto destinatario della norma penale, devono sempre essere individuati nel soggetto cui, per legge e per la natura e organizzazione dell’impresa, obblighi e responsabilità sono riferibili (cfr. Cass. VI, 16712/1975; Cass. IV, 10/11/1978; Cass. IV, 11/12/86). In tal senso la delega al sottoposto costituisce solo una modalità di adempimento degli obblighi gravanti su tale soggetto. Ne consegue che, se da un lato con l’atto di delega si creano nuovi soggetti tenuti ad adempiere in forza dell’atto di preposizione; dall’altro il garante primario non può sottrarsi da ogni attesa dell’ordinamento, assumendo comunque il dovere di controllo e vigilanza sul corretto esercizio del potere delegato, con conseguente frazionamento della posizione di garanzia. Del resto la sussistenza di una posizione di garanzia, in generale, in capo agli amministratori di società, può desumersi anche dal disposto del comma 2 dell’art. 2392 cod. civ., ai sensi del quale: “in ogni caso gli amministratori sono direttamente responsabili se non hanno vigilato sul generale andamento della gestione o se, essendo a conoscenza di atti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose”. Parimenti, nell’impresa in generale, è previsto, per esempio, dall’art. 2086 c.c., che “l’imprenditore è il capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori”. Sicchè, anche in base a tali discipline, può affermarsi l’esistenza in capo agli amministratori e, più in generale, agli imprenditori, di un obbligo di vigilare ed intervenire affinchè non vengano compiuti atti pregiudizievoli (cfr. Cass. V, 26/6/90; Cass. V, 12/2/92; Cass. V, 7/7/92). Ne discende, dunque, una posizione di garanzia, in virtù della quale il soggetto in posizione apicale continua a rispondere degli eventuali reati commessi dal delegato nella misura in cui, non intervenendo, ne abbia consentito o agevolato la verificazione (cfr. Cass. V, 28/6/93; Cass. V, 20/10/94). Giudice De Marco. TRIBUNALE DI MESSINA Giudice monocratico sezione II - sentenza del 16/12/2003
15) Inquinamento - Organizzazione aziendale - Responsabilità del delegato di commettere il reato - Condotta omissiva concorrente del delegante. Il potere del delegato di commettere il reato, nell’ambito dell’organizzazione aziendale, non è originario, ma derivato. Esso discende esclusivamente dal consenso, espresso o tacito, del soggetto in posizione apicale. In assenza di quest’ultimo, ovviamente, il delegato non avrebbe avuto alcun potere e non avrebbe potuto commettere alcun reato. Si può dunque affermare che la condotta omissiva concorrente del delegante si innesta su una precedente condotta positiva – il conferimento espresso o tacito della delega o del potere di amministrare – che concorre in maniera determinate alla causazione dell’ipotizzato reato. (v. Cass. 5/2/91, 4820; Cass. 6/12/91, 1506). A fronte, poi, della responsabilità del delegante, si pone quella del delegato, il quale, in virtù dell’atto di delega e del trasferimento di competenze e poteri, e, quindi, della effettiva titolarità di quei poteri/doveri che sono normalmente propri dell’individuo munito della qualifica extrapenalistica, deve ritenersi diretto destinatario del precetto, alla stregua del delegante, anche in caso di reato proprio (cfr. Cass. V, 11/10/94; Cass. V, 10/7/84; Cass. V, 23/2/83). Giudice De Marco. TRIBUNALE DI MESSINA Giudice monocratico sezione II - sentenza del 16/12/2003
16) Procedure e varie - Successione di leggi penali - Norma generale subentrata da una norma speciale - Effetti - Art. 2 c.p.. In tema di successione di leggi penali, non può ritenersi che, ove ad una norma generale succeda una norma speciale, intervenga un fenomeno abrogativo, dal momento che, in tali casi, si avrà successione di leggi nel tempo con riferimento alla parte coincidente delle due fattispecie, senza che ciò determini applicazione retroattiva della nuova norma speciale (cfr. Cass. SS.UU. 26/3/2003, 25887). L'art. 2 c.p. pone, nei commi che lo costituiscono, una sequenza di regole tra loro collegate in modo che si chiariscono a vicenda: perché operi la regola del comma 3 deve essere esclusa l'applicabilità dei commi 1 e 2. Giudice De Marco. TRIBUNALE DI MESSINA Giudice monocratico sezione II - sentenza del 16/12/2003
____________________________
(1) si riporta il quesito: previo esame dell’impianto e dell’intero ciclo produttivo della ** situato in via S. Raineri, anche in relazione alla tipologia di materie oggetto di lavorazione da verificare in forza dell’esame dei registri di carico, accertare se e quali obblighi di conformità sussistano rispetto alle prescrizioni imposte dalla vigente normativa in tema di trattamento di rifiuti, emissioni in atmosfera, scarico dei reflui liquidi. Accertare, anche a mezzo di rilevamenti e prelievi da effettuare tramite strumentazione tecnica, l’emissione nell’atmosfera delle sostanze nocive e/o superanti i limiti consentiti dalla legge, la idoneità dei reflui liquidi prodotti all’esito del ciclo di lavorazione ad essere riversati in mare, e se i previsti parametri della normativa vigente siano rispettati. Relazionare sulla obbligatorietà dell’impianto o parte di esso a preventiva V.I.A. nazionale e, nel caso, se essa sia stata effettuata. Accertare la sussistenza di tutte le autorizzazioni richieste in materia ambientale, e se le stesse siano conformi alle previsioni normative in relazione alle sostanze trattate. Ove sia riscontrata violazione alla normativa ambientale, indicarne la natura, la tipologia degli interventi necessari all’adeguamento degli impianti al fine di consentire il rispetto delle prescrizioni vigenti.
(2)
Sottolineavano i consulenti del pubblico ministero che l’indicazione dei codici
dei rifiuti sui formulari e della relativa denominazione, viene effettuata dal
produttore dei rifiuti medesimi. Come logico, tuttavia, è onere del gestore dei
rifiuti, che li riceve e ne risponde, verificare la conformità del rifiuto
all’indicazione che di esso ne ha dato il produttore.
(3)
“… sostanzialmente acque di zavorra, acque di sentina e slop…Con l’avvento del
decreto Ronchi queste tipologie di materia prima che prima non erano
classificate come rifiuti, se ben mi ricordo, sono state con dei codici, sono
state identificate come rifiuti, erano sempre gli stessi, quindi acque di
sentina, acque di zavorra e slop, prima non avevano un’etichetta di rifiuti, dal
decreto Ronchi in avanti sono state etichettate come rifiuti…”
(4) Si riporta stralcio della delibera ed elenco allegato al d.p.r. 915/82
ALLEGATO ALLA DELIBERA DEL COMITATO 27/7/84
0. -- Indirizzi generali.
0.1 - Principi generali.
Al rispetto dei principi generali stabiliti dall'art. 1 del decreto del
Presidente della Repubblica n. 915/1982 concorrono, in via prioritaria, le
azioni che consentono di ridurre le quantità di rifiuti immessse nell'ambiente e
la pericolosità dei medesimi nei confronti dell'uomo e dell'ambiente stesso.
Tali azioni possono esplicarsi attraverso:
a) interventi nei cicli di produzione e nelle fasi di distribuzione e di consumo
dei prodotti, miranti a limitare la formazione di rifiuti nell'ambito dei cicli
e delle fasi stesse;
b) interventi nelle varie fasi dello smaltimento dei rifiuti, volti a realizzare
il recupero, dai rifiuti stessi, di materiali e di fonti energetiche;
c) interventi finalizzati al miglioramento dell'efficienza dei mercati delle
materie seconde e all'espansione dei mercati stessi;
d) interventi rivolti ad incrementare l'impiego delle materie seconde nei cicli
di produzione e nella realizzazione di opere.
Omissis
0.3 - Criteri generali per le attività di smaltimento.
La scelta dei sistemi, delle tecnologie e dei mezzi tecnici da adottare deve
essere effettuata sulla base di una valutazione
comparata delle diverse soluzioni tecnicamente ed economicamente realizzabili,
che tenga conto in primo luogo dell'esigenza di evitare pericoli per la salute
dell'uomo e per l'ambiente.
Fatto salvo il criterio di cui al comma precedente, dovranno essere privilegiati
quei sistemi di smaltimento idonei ad assicurare un significativo recupero di
materiali ed energia per i quali vi siano concrete possibilità di
commercializzazione e di riciclo.
Ai fini della individuazione delle aree idonee alla realizzazione di impianti di
smaltimento, le Regioni istituiscono appositi comitati di esperti, dei quali
debbono in ogni caso far parte un medico igienista, un geologo, un chimico ed un
ingegnere sanitario. In caso di inottemperanza da parte della Regione, provvede
all'uopo il commissario di Governo.
0.4 - Interventi diretti all'espansione dei mercati delle materie seconde.
Nell'ambito dei compiti ad esse affidati all'art. 6, secondo comma, del decreto
del Presidente della Repubblica n. 915/82, le Regioni promuovono, anche
attraverso intese interregionali, le iniziative necessarie per una adeguata
espansione dei mercati delle materie seconde, cioè dei materiali e delle fonti
energetiche recuperati dai rifiuti nonché, ove necessario, iniziative dirette ad
assicurare condizioni di stabilità per i mercati medesimi.
1. -- Classificazione dei rifiuti.
omissis
1.2 - Classificazione dei rifiuti speciali in tossici e nocivi.
Sono rifiuti tossici e nocivi i rifiuti speciali di cui all'art. 2, quarto
comma, punti 1), 2) e 5) del decreto del Presidente della Repubblica n.
915/1982;
1) che contengono una o più delle sostanze indicate nella tabella 1.1. in
concentrazioni superiori ai valori di concentrazione limite (CL) indicati nella
tabella stessa e/o una o più delle altre sostanze appartenenti ai 28 gruppi di
cui all'allegato al decreto del Presidente della Repubblica n. 915/1982 in
concentrazioni superiori ai valori di CL ricavati dall'applicazione dei criteri
generali desunti dalla tabella 1.2. Qualora un rifiuto contenga due o più
sostanze di cui al sopracitato allegato, ciascuna in concentrazione inferiore
alla corrispondente CL, sarà classificato come tossico e nocivo se la sommatoria
dei rapporti tra la concentrazione effettiva di ciascuna sostanza e la
rispettiva CL risulta maggiore di 1. Nel
calcolo della sommatoria non si terrà conto delle sostanze presenti nei rifiuti
in concentrazioni inferiori a 1/100 delle rispettive CL;
2) che figurano nell'elenco 1.3, provenienti da attività di produzione o di
servizi, salvo che il soggetto obbligato dimostri che i rifiuti non sono
classificabili tossici e nocivi ai sensi del precedente punto 1).
Ai fini della classificazione le concentrazioni effettive di cui sopra debbono
essere determinate sul rifiuto tal quale così come si forma, ed è vietata
qualsiasi forma di diluizione, anche se ottenuta per miscelazione con altri
rifiuti.
ALLEGATO al d.p.r. 915/82
1) arsenico e suoi composti
2) mercurio e suoi composti
3) cadmio e suoi composti4) tallio e suoi composti
5) berillio e suoi composti6) composti di cromo esavalente
7) piombo e suoi composti8) antimonio e suoi composti
9) fenoli e suoi composti10) cianuri organici e inorganici
11) isocianato12) composti organoalogenati esclusi i polimeri inerti e altre sostanze considerate nel presente elenco
13) solventi clorurati14) solventi organici
15) biocidi e sostanze fitofarmaceutiche16) prodotti a base di catrame derivanti dal procedimento di raffinazione e residui catramosi derivanti da operazioni di distillazione
17) composti farmaceutici
18) perossidi, clorati, perclorati e azoturi
19) eteri20) sostanze chimiche di laboratorio non identificabili e/o sostanze nuove i cui effetti sull’ambiente non sono conosciuti
21) amianto (polveri e fibre)22) selenio e suoi composti
23) tellurio e suoi composti24) composti aromatici policiclici (con effetti cancerogeni)
25) metalli carbonili26) composti del rame solubili
27) sostanze acide e/o basiche impiegate nei trattamenti in superficie dei metalli28) policlorodifenili, policlorotriofenili e loro miscele
(5) Si riporta il testo della norma citata
Art. 57. Disposizioni transitorie.
1. Le norme regolamentari e tecniche che disciplinano la raccolta, il trasporto
e lo smaltimento dei rifiuti restano in vigore sino all'adozione delle
specifiche norme adottate in attuazione del presente decreto. A tal fine ogni
riferimento ai rifiuti tossici e nocivi si deve intendere riferito ai rifiuti
pericolosi.
2. Sono fatte salve le attribuzioni di funzioni delegate o trasferite già
conferite dalle Regioni alle Province e agli altri enti locali in attuazione
della legge 8 giugno 1990, n. 142.
3. Le autorizzazioni rilasciate ai sensi del decreto del Presidente della
Repubblica 10 settembre 1982, n. 915, restano valide fino alla loro scadenza e
comunque non oltre il termine di quattro anni dalla data di entrata in vigore
del presente decreto.
4. Entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto le
Regioni provvederanno ad aggiornare le autorizzazioni in essere per la gestione
dei rifiuti sulla base della nuova classificazione degli stessi.
5. Le attività che in base alle leggi statali e regionali vigenti risultano
escluse dal regime dei rifiuti, ivi compreso l'utilizzo dei materiali e delle
sostanze individuati nell'allegato 1 al decreto del Ministro dell'ambiente del 5
settembre 1994, pubblicato nel Supplemento ordinario n. 126 alla Gazzetta
Ufficiale 10 settembre 1994, n. 212, devono conformarsi alle disposizioni del
presente decreto entro e non oltre il 30 giugno 1999.
6. Fermo restando il termine di cui all'articolo 33, comma 6, per la
prosecuzione delle operazioni di recupero dei rifiuti compresi nell'allegato 3
al decreto del Ministro dell'ambiente 5 settembre 1994, pubblicato nel
Supplemento ordinario n. 126 alla Gazzetta Ufficiale 10 settembre 1994, n. 212,
e nell'allegato 1 al decreto del Ministro dell'ambiente 16 gennaio 1995,
pubblicato nel Supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale 30 gennaio 1995, n.
24, in esercizio e che risultino conformi alle norme tecniche adottate ai sensi
degli articoli 31 e 33, gli interessati sono tenuti ad effettuare la
comunicazione di cui all'articolo 33, comma 1, entro trenta giorni
dall'emanazione delle predette norme tecniche; in tal caso l'esercizio
dell'attività può essere continuato senza attendere il decorso di novanta giorni
dalla comunicazione.
6-bis. In attesa delle specifiche norme regolamentari e tecniche, da adottarsi
ai sensi dell'articolo 18, comma 2, lettera i), i rifiuti sono assimilati alle
merci per quanto concerne il regime normativo in materia di trasporti via mare e
la disciplina delle operazioni di carico, scarico, trasbordo, deposito e
maneggio in aree portuali. In particolare i rifiuti pericolosi sono assimilati
alle merci pericolose.
6-ter. In attesa dell'adozione della nuova disciplina organica in materia di
valutazione di impatto ambientale la procedura di cui all'articolo 6 della legge
8 luglio 1986, n. 349, continua ad applicarsi ai progetti delle opere rientranti
nella categoria di cui all'articolo 1, lettera i), del decreto del Presidente
del Consiglio dei Ministri 10 agosto 1988, n. 377, pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale del 31 agosto 1988, n. 204, relativa ai rifiuti già classificati
tossici e nocivi.
(6) “…I clienti della ** non sono delle società sconosciute, sono, ritengo, società
come la ERG PETROLI, piuttosto che l’AGIP PETROLI, che hanno fatto dei loro
rifiuti, hanno fatto delle caratterizzazioni, utilizzando dei laboratori ritengo
fra i più affidabili che ci sono in ITALIA, tipo l’ECOCONTROL di cui ho visto le
analisi, che hanno dato una classificazione di questi rifiuti molto precisa, in
base ad analisi che sono state fatte con un certo criterio, che è stato
concordato dalla raffineria con il laboratorio di analisi, da cui deriva che
questi rifiuti non sono tossici e nocivi, anzi, in molti casi deriva addirittura
che non sono nemmeno pericolosi, nella maggior parte dei casi non sono nemmeno
pericolosi. A questo punto vale il discorso che ha fatto prima l’ingegnere S.,
certamente la ** ha il dovere di verificare che questi rifiuti siano coerenti
con le caratterizzazioni che sono state fatte dal produttore che è il primo
responsabile, ma questa verifica è una verifica che deve comportare delle
onerose e lunghissime analisi per andare a verificare se ci fossero, per
ipotesi, delle altre cose, o è una verifica che secondo il buon senso deve
andare eventualmente a controllare quei parametri che in funzione dei cicli di
produzione possono essere effettivamente alterati rispetto a quello che è la
certificazione analitica. Io ritengo che il buon senso porti a questa
conclusione, altrimenti il mercato sarebbe un mercato impraticabile. Io penso
che la Legge prima di tutto dica che bisogna utilizzare gli strumenti tecnici
migliori che ci siano a disposizione, a livello mondiale, ma che siano
compatibili con l’economicità di un sistema imprenditoriale. Andare a fare
centinaia di analisi su tutti i rifiuti che arrivano sull’impianto, per mettere
in dubbio la veridicità di quello che hanno detto i produttori dei rifiuti, mi
sembra una cosa che sia, come minimo, abbastanza strana anche questa.”
(7)
Sebbene la questione appaia sostanzialmente irrilevante ai fini del presente
processo, dal momento che la mancanza di VIA non è prevista dalla legge come
reato, ma è solo condizione per il rilascio dei provvedimenti autorizzatori, ed
eventuale causa di illegittimità degli stessi.
(8) R1: utilizzazione principale come combustibile o come altro mezzo per produrre energia; R9 rigenerazione o altri impieghi degli oli; R13: Messa in riserva di rifiuti per sottoporli a una delle operazioni indicate nei punti da R1 a R12, escluso il deposito temporaneo, prima della raccolta in cui sono prodotti; D8: trattamento biologico non specificato altrove nell’allegato, che dia origine a composti o miscugli che vengono eliminati secondo uno dei procedimenti nei punti D1 a D12.
(9) “…Successivamente al ’94 siccome l’attività dell’impianto è notevolmente
ridotta, i fanghi non è stato... perché lo scarico dei fanghi non è uno scarico
continuo, è uno scarico che viene fatto periodicamente al raggiungimento di
certi livelli all’interno dei serbatoi in cui questi fanghi si producono;
siccome questo livello non era stato raggiunto, questi fanghi sono
provvisoriamente in deposito in questi serbatoi in attesa del loro smaltimento
finale.”
(10) diversamente da quanto sostenuto dal consulente di parte ing. C., il quale
ritiene che il rifiuto divenga tale solo al momento del conferimento a terzi,
cosa evidentemente non corrispondente alla legge; e che fino al momento del
conferimento possa essere illimitatamente mantenuto nello stabilimento anche in
attesa di una sua naturale decantazione. Lo stesso, infatti, in maniera assai
singolare sostiene: “…io ritengo che il rifiuto, se ben ricordo, è qualcosa che
nasce al momento del rilascio, quindi fino a che questi materiali rimangono
all’interno del ciclo produttivo sono dei materiali che stanno lì, e nel momento
in cui io li estraggo dal ciclo produttivo e li do a terzi per il trattamento
finale che producono un rifiuto, e quindi lo devo caratterizzare, devo fare dei
registri di carico e scarico, delle bolle di accompagnamento e tutto quanto
quello che è necessario per il trasferimento dei rifiuti presso terzi… queste
sostanze, bene, potrebbero essere sia nel ciclo produttivo rimanere, nel momento
in cui lasciate nei serbatoi questo fenomeno di decantazione è un fenomeno che
procede nel tempo…”. È evidente che il tecnico ha trovato la soluzione ai
rifiuti radioattivi: è sufficiente depositarli nei luoghi di produzione in
attesa che, col passare dei millenni, gli stessi si innocuizzino !
(11) “… allora, se la vasca serve per esempio per un accumulo di prodotto, io devo
avere una autorizzazione allo stoccaggio di questo prodotto. Se la vasca serve
perché è una integrazione del trattamento e costituisce una modifica sostanziale
al trattamento, evidentemente vale il discorso che essendo cambiato il ciclo
produttivo io dovrò fare anche una richiesta ex Articolo 27.”
(12) “…Dunque, ancora una volta si tratta di rifiuti che consistono sostanzialmente
in miscele acque e olio, che derivano dalle sentine, che derivano dalle zavorre,
che derivano dagli slop, e che derivano dai serbatoi che hanno contenuto questi
rifiuti o queste materie prime come le abbiamo definite prima…”
(13) “…l’acqua di lavaggio è per definizione una matrice acquosa che ha al suo
interno una percentuale di oli e di idrocarburi che si presume che non sia molto
alta, quindi acqua, potrebbe essere il 90 per cento d’acqua con una certa
percentuale di oli. Se io invece parlo di uno slop, parlo invece di
essenzialmente di un olio, di una morchia, quindi di una sostanza oleosa che può
essere anche semisolida o addirittura solida, che al suo interno contiene
dell’acqua, quindi il rapporto fra l’acqua e l’olio nei due casi è esattamente
l’inverso.”
(14) in proposito il dott. S. ha chiarito che eventuali decadimenti sarebbero stati
riduttivi, nel senso che sarebbe diminuita la concentrazione delle sostanze
organiche. Infatti chiariva, in proposito, che il CO2 è la sigla di consumo
chimico di ossigeno, quindi significa è l’ossigeno che viene consumato
attraverso una reazione chimica dalla sostanza organica presenta in un campione,
cioè io ho un campione di acqua e dentro c’è una certa sostanza organica io
l’aggredisco fisicamente e poi tanto più reattivo uso per aggredirlo tanto più
dico c’è sostanza organica. La sostanza organica, in natura, tende a diminuire
non è che tende ad aumentare. Se io ho dentro dello zucchero, lo zucchero può
darsi che si degrada. Concludeva, pertanto, che, i valori, se sono variati sono
variati in meno rispetto a quelli che erano i mesi prima.
(15) “… Certamente si tratta di una matrice che contiene al suo interno idrocarburi,
questo è evidente, perché c'è un contenuto di fenoli che è molto alto…”
(16) “…Quindi, questi cattivi odori erano originati, mi sembra che su questo si è
sostanzialmente d’accordo, da sorgenti diffuse, quindi dalle vasche piuttosto
che dai serbatoi, quindi sorgenti che, a quello che mi risulta, non richiedono
un’autorizzazione preventiva…”
(17) “…Siccome il discorso del fastidio per la popolazione è stato recepito dalla **,
la ** ha operato per contenere al massimo questa sorgente di disturbo per la
popolazione, istallando dei filtri a carbone attivo, e presentando un progetto
per la copertura delle vasche e quindi per la captazione di queste potenziali
sorgenti maleodoranti, per poterli poi convogliare ancora a carbone attivo…”