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 Massime della sentenza

 

 

CORTE DI CASSAZIONE Sez. III  del 28 gennaio 2004 (Ud. 26.11.2003), Sentenza n. 2956

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


Corte di Cassazione Sez. III 28 gennaio 2004 sentenza n. 2956
 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE III PENALE


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. GRASSI Aldo - Presidente - del 26/11/2003
1. Dott. RAIMONDI Raffaele - Consigliere - SENTENZA
2. Dott. ONORATO Pierluigi - Consigliere - N. 1956
3. Dott. PICCIALLI Luigi - Consigliere - REGISTRO GENERALE
4. Dott. NOVARESE Francesco - Consigliere - N. 018979/2003
ha pronunciato la seguente:

 

SENTENZA


sul ricorso proposto da:
PROCURATORE DELLA REPUBBLICA presso il TRIBUNALE di Sondrio nel procedimento a carico di:

SELVA LORENZO;
ZOIA LUCIANO GUIDO;
avverso la sentenza del Tribunale di Sondrio del 4 marzo 2003;
Visti gli atti, la sentenza denunziata ed il ricorso;
Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dott. F. Novarese;
Udito il Pubblico Ministero in persona del Dott. Passacantando G., che ha concluso per annullamento con rinvio della sentenza impugnata;
 

Selva Lorenzo e Zoia Luciano Guido sono stati imputati del reato di cui all'art. 20 lett. b) l. n. 47 del 1985 perché, in qualità rispettivamente di committente e direttore dei lavori, realizzavano nel Comune di Tirano un capannone industriale prefabbricato, ad uso carico e scarico merci, nonché deposito materiale, con opere murarie di fondazione (n. 3 basamenti) e n. 4 pilastri dell'altezza di ml. 4,50 in cemento armato senza concessione edilizia, ma con denuncia di inizio attività.


Il Tribunale di Sondrio in composizione monocratica con sentenza del 4 marzo 2003 assolveva gli imputati dalla contravvenzione ascritta perché il fatto non sussiste, in quanto l'art. 4 terzo comma della legge regionale della Lombardia 19 novembre 1999 n. 22, oggetto di interpretazione autentica con legge regionale del 23 novembre 2001 n. 18, ha esteso la d.i.a. agli interventi edilizi di ristrutturazione, di ampliamento e di nuova costruzione cioè, in pratica, a tutti gli interventi edilizi senza alcuna necessità della presenza di piani attuativi o di strumenti urbanistici generali recanti precise disposizioni planovolumetriche.


Avverso detta pronuncia ha proposto ricorso in Cassazione per saltum ex art. 569 c.p.p. il Procuratore della Repubblica presso il predetto Tribunale deducendo quali motivi il contrasto con le leggi dello Stato ed in particolare con la legge n. 443 del 2001, come modificata dalla legge n. 166 del 2002 e come trasfusa sul punto dal d. l.vo n. 301 del 2002 nel d.P.R. n. 380 del 2001 c.d. Testo Unico dell'Edilizia (da ora in poi T.U.ED), giacché la legislazione regionale non può derogare al principio fondamentale, in base al quale occorre prevedere due titoli edilizi differenti: uno espresso cioè la concessione edilizia ora permesso di costruire ed uno "tacito" la c.d.d.i.a., e può stabilire nuove ipotesi di d.i.a. ed ampliare quelle esistenti sempre nel rispetto della normativa statale ed in particolare dei parametri e degli interventi indicati nell'art. 22 terzo comma T.U.ED alle lettere a), b) e c), giacché il controllo di merito preventivo, effettuato in seguito al rilascio del permesso di costruire, è più penetrante di quello con d.i.a. ed attiene, anche, alle norme di sicurezza ed incolumità pubbliche in modo da lasciare una maggiore discrezionalità tecnica alla P.A. rispetto all'asseverazione di conformità del progetto alle norme urbanistiche e di sicurezza effettuata da un professionista incaricato dalla parte, tanto più che i tempi ristretti, contemplati dalla normativa per il procedimento della d.i.a., non consentono ai Comuni, soprattutto se di grandi dimensioni, alcun controllo. Aggiungeva il P.M. ricorrente che la necessità del permesso di costruire e la natura esclusivamente procedimentale della d.i.a., prevista non per gli interventi minori dal terzo comma dell'art. 22 T.U.ED., sono state affermate da due pronunce del giudice di legittimità, rese in sede di procedimento incidentale cautelare, una delle quali relativa al processo in esame.


Infine, il ricorrente forniva una differente valutazione circa la ricostruzione e le conseguenze derivanti dal mutato quadro normativo desunte dal giudice monocratico, giacché il contrasto della disciplina della Regione Lombardia con la legislazione statale e la violazione degli artt. 117 secondo e terzo comma Cost., sia in riferimento alla riserva assoluta statuale in materia penale sia al rispetto dei principi fondamentali in tema di legislazione concorrente, confermano la natura esclusivamente procedimentale della d.i.a., difforme dai principi espressi dagli artt. 22 terzo comma e 44 comma 2 bis T.U.ED., sicché è configurabile il reato di cui all'art. 44 lett. b) T.U. cit..


Infatti, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, l'analisi esegetica delle due pronunce della Corte di Cassazione resta ancora valida, nonostante le modificazioni apportate dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3, dalla legge regionale n. 18 del 2001 cit., dalla legge 21 dicembre 2001 n. 443, dalla legge 1^ agosto 2002 n. 166 e dal decreto legislativo 27 dicembre 2002 n. 301, che ha modificato il T.U.ED. per adeguarlo alla c.d. legge obiettivo (n. 443 del 2001 cit.), secondo quanto contemplato dalla delega prevista nella legge "Lunardi", e non influisce l'intervenuta restituzione degli atti al T.a.r. Lombardia, che con ordinanza 11 febbraio 2002 in G.U. 1^ serie speciale n. 20 del 22 maggio 2002 aveva sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della l. r. Lombardia n. 18 del 2001 in riferimento agli artt. 3, 97, 101, 102, 103, 104, 114 e 117 Cost., disposta dalla Corte Costituzionale con ordinanza n. 516 del 2002 per sopravvenuta disciplina incidente sul complessivo quadro normativo (legge n. 166 del 2002).


Ed invero detta ultima ordinanza del giudice di legittimità delle leggi contiene, ad avviso del P.M. ricorrente, un "non esatto richiamo dell'art. 1 c. 6 lett. d) della legge n. 443/2001", giacché, ove "si citi nella sua completezza la norma", si evince che "gli interventi ora sottoposti a concessione" possono essere realizzati in alternativa tramite d.i.a. solo se "disciplinati da piani attuativi ... che contengano precise disposizioni plano - volumetriche, tipologiche, formali e costruttive, la cui sussistenza sia esplicitamente dichiarata dal competente organo comunale in sede di approvazione degli stessi piani o di ricognizione di quelli vigenti o ... in mancanza ..., purché il progetto di costruzione venga accompagnato da apposita relazione tecnica nella quale venga asseverata l'esistenza di piani attuativi con le caratteristiche su menzionate", mentre "i sopralzi, le addizioni, gli ampliamenti e le nuove edificazioni" possono eseguirsi allo stesso modo cioè con l'alternativa d.i.a. solo se "in diretta esecuzione di idonei strumenti urbanistici diversi da quelli (su) indicati, ma recanti analoghe previsioni di dettaglio".


Il giudice monocratico, a parere del P.M. ricorrente, "non ha valutato correttamente la complessa normativa in materia", giacché non tiene presente che la c.d. "sanatoria della legislazione regionale previgente", compiuta dal comma 12 dell'articolo unico della legge n. 443 del 2001, come modificato dall'art. 13 commi 7 e 8 l. n. 166 del 2002, concerne solo quelle leggi che "siano già conformi a quanto previsto dalle lettere a) b) c) e d) del medesimo comma 6", su in parte riferito, mentre l'ulteriore susseguente inciso "anche disponendo eventuali categorie aggiuntive e differenti presupposti urbanistici" deve essere letto in correlazione con la precedente locuzione, sicché detti ampliamenti normativi devono rispettare i principi su indicati, essendo possibile aggiungere altre categorie ed altri strumenti o piani attuativi sempre nell'ambito delle prescrizioni statuali.


Inoltre, non viene considerata la differenza sanzionatoria posta in essere dal d. l.vo n. 301 del 2002 tra interventi minori soggetti a d.i.a., le cui sanzioni sono stabilite dall'art. 37, interventi realizzabili con permesso di costruire ed alternativamente con d.i.a., purché disciplinati da piani attuativi o da strumenti urbanistici generali recanti questi ultimi pure precise disposizioni plano - volumetriche, e quelli assentibili solo con il permesso di costruire come individuati dal combinato disposto degli artt. 3 lett. e) e 10 T.U.ED., sicché, anche sotto questo profilo, l'analisi ermeneutica esclude la possibilità di una legge regionale di rendere tutti gli interventi edilizi eseguibili con d.i.a.. Riassunte le vicende processuali in maniera sintetica ed illustrate le contrapposte argomentazioni contenute nell'impugnata sentenza e nel ricorso del P.M., ampliato al fine di renderlo più esplicito in alcuni punti ed integrato nelle considerazioni, implicite o presupposte, riguardo alle prime è opportuno chiarire come, a parere di questo collegio, il giudice monocratico enfatizzi il contrasto tra Regione Lombardia e Corte di Cassazione, sfociato in un conflitto di attribuzioni, dichiarato inammissibile dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 276 del 2003, poiché trattasi di una questione interpretativa di competenza di questo giudice di legittimità, e fornisca una lettura non precisa di una pronuncia di questa Corte (Cass. sez. 3^ 20 maggio 2002 n. 19348, Catalano rv. 221952 in Guida dir. 2003, 1, 90 ed in Cass. pen. 2003, 2411), che, prima dell'emanazione della legge n. 166 del 2002, aveva con vari ragionamenti confermato la natura procedurale delle legislazioni regionali estensive, in via alternativa, del regime della d.i.a. ad opere assentibili con permesso di costruire, in modo da far permanere la dicotomia tra i due "titoli edilizi", affinando e precisando le intuizioni delle sentenze criticate dal giudice monocratico (Cass. sez. 3^ c.c. 23 gennaio 2001 dep. 7 marzo 2001, Toma e Cass. sez. 3^ c.c. 25 gennaio 2001 n. 263, Selva ed altro).


Ciò posto, è opportuno richiamare sinteticamente il quadro normativo previgente ed attuale, soffermandosi, poi, su quest'ultimo in modo da dar conto delle differenti tesi dottrinarie e da riferire alcune fondamentali pronunce della Consulta.


La licenza edilizia in virtù della legge n. 1150 del 1942 era prevista solo per alcune zone del territorio comunale, successivamente la legge n. 765 del 1967 ha esteso l'obbligo di detto atto di assentimento a tutto il territorio, mentre la legge n. 10 del 1977 ha sostituito alla licenza la concessione edilizia con tutte le problematiche relative a detta modificazione da molti non ritenuta soltanto lessicale, risolte dalla nota sentenza della Corte Costituzionale n. 5 del 1980.


Il generale ed indifferenziato regime della concessione edilizia, dopo circa un anno e mezzo, è stato affiancato, con la legge n. 457 del 1978, da un altro titolo edilizio cioè l'autorizzazione per gli interventi di manutenzione straordinaria e, per gli edifici non soggetti a vincolo, veniva introdotto il silenzio - assenso, successivamente esteso dalla legge n. 94 del 1982 di conversione con modificazione del d.l. n. 9 del 1982 anche alla concessione edilizia in alcuni casi specifici ed in virtù di una determinata procedura. La predetta legge di conversione estendeva, poi, il regime dell'autorizzazione edilizia pure agli interventi di restauro e risanamento conservativo, mentre con la legge n. 47 del 1985 veniva stabilita una disciplina particolare per le opere interne con ben definiti requisiti, consistente nella redazione di una relazione da parte di un professionista, abilitato alla progettazione, con cui si asseverassero le opere da compiersi ed il rispetto delle norme di sicurezza ed igienico sanitarie vigenti, anticipando, secondo la miglior dottrina, l'istituto della d.i.a., il quale, in generale, era contemplato dall'art. 19 della legge n. 241 del 1990, ma, nonostante fosse escluso solo per gli interventi assentibili con concessione edilizia, non veniva previsto per le altre tipologie edilizie, raggruppabili nella nozione di interventi minori.


La legge n. 47 del 1985, poiché l'urbanistica e l'edilizia costituivano materie di competenza legislativa ripartita fra Stato e Regioni, consentiva a queste ultime di emanare disposizioni semplificative delle procedure dei due regimi esistenti e la normativa di dettaglio in ordine alla disciplina urbanistica, dovendo soltanto rispettare i principi generali e quelli fondamentali traibili dalla legislazione statale.


Con il d.l. n. 398 del 1993, convertito in legge n. 493 del 1993, anche in attuazione di un orientamento comunitario, espresso pure da alcune decisioni della Corte di giustizia CE, veniva abolito l'istituto del silenzio - assenso nel settore urbanistico e con la legge n. 662 del 1996, modificando l'art. 4 della legge n. 493 del 1993, era stabilita la disciplina sostanziale e procedurale della d.i.a. per alcuni enumerati interventi edilizi minori. Detta scelta limitativa, secondo la dottrina più accreditata, è giustificata:


a) dalla compresenza di una pluralità di interessi pubblici e privati da mediare e bilanciare in materia urbanistica, mal conciliatesi con il modello procedimentale della d.i.a.;


b) dalla previsione della sostituzione della denuncia all'atto di assenso in tutte le attività amministrative vincolate, rinvenibili, nel settore in esame, soprattutto negli interventi minori, sottratti al regime concessorio, perché l'agire dell'amministrazione non si esplica attraverso apprezzamenti o valutazioni tanto di carattere discrezionale che tecnico;


c) dalla considerazione che alcuni interventi sull'esistente, come quelli minori, appaiono coessenziali all'esercizio del diritto di proprietà, secondo quanto anche affermato dalla Corte Costituzionale (29 dicembre 1995 n. 529 e 23 giugno 2000 n. 238);


d) dalla teoria del c.d. accertamento amministrativo, prefigurato dalla caratteristica di una preesistenza di una compiuta disciplina della materia, rispetto alla quale si è affidato alla P.A. "un compito di concretizzazione in vista della sua attuazione pratica", accolto da una decisione della Corte Costituzionale (sent. n. 393 del 1992), in cui si riafferma il principio della distinzione tra programmazione territoriale e legittimazione all'esecuzione dell'opera;


e) da una concezione tradizionale dei titoli edilizi, per i quali è fondamentale l'intermediazione di un provvedimento in relazione alla tutela del bene protetto, primario, incomprimibile ed irriproducibile, e dei terzi controinteressati, cui verrebbe inibita l'impugnazione dell'atto medesimo e verrebbero forniti strumenti di intervento più limitati, sicché la stessa d.i.a. per gli interventi edilizi minori è stata connotata con presupposti diversi da quelli del modello generale contemplato dall'art. 19 l. n. 241 del 1990, in quanto è necessario lo spirare di un termine per realizzare l'intervento edilizio e sono richiesti presupposti e requisiti tali da mantenere un ruolo modesto di verifica preventiva;


f) dalla previsione di un termine, ritenuto dalla prevalente dottrina, perentorio con conseguente consumazione del potere - dovere amministrativo di inibire la realizzazione dell'opera, anche se, secondo uniforme dottrina, non esaurisce il potere sanzionatorio di una condotta "contra legem" e consente, in ogni caso, l'esercizio anche dei poteri inibitori, ove si tratti di opera assentibile con permesso di costruire, limitando, quindi, l'incidenza della perentorietà del termine alle sole ipotesi di interventi realizzabili con d.i.a.c.d. semplice, ma non a quelle realizzabili con la c.d. super d.i.a.;


g) dalla rilevanza che la demarcazione tra d.i.a. e permesso di costruire, secondo la dottrina maggioritaria, entrambi titoli edilizi, ha sull'ordinamento civile e penale, che ex art. 117 primo comma lettera l) Cost. rientra nella potestà legislativa esclusiva dello Stato;


h) dalla materia del "governo del territorio", nella quale sono comprese l'urbanistica e l'edilizia, la quale assume un significato trasversale, comprensivo anche della tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali (art. 117 primo comma lett. s) Cost.).


Tale linea è stata seguita nell'originaria stesura del T.U. ED., la cui vigenza è stata "prorogata" dopo che era entrato in vigore da nove giorni dall'art. 5 bis della legge n. 463 del 2001 di conversione del D.L. n. 411 del 2001, pubblicato sulla G.U. del 9 gennaio 2002, in quanto attribuiva alla d.i.a. una funzione residuale rispetto alle attività libere ed agli interventi edilizi assentibili con permesso di costruire, (cfr. sulle problematiche relative, sia pure con diverse argomentazioni, l'unanime giurisprudenza di questa Corte che ha escluso l'esistenza di un vuoto normativo: Cass. sez. 3^ 23 gennaio 2002, Busnelli in Guida dir. 2002, 11, 82, quale leading case; Cass. sez. 3^ 15 marzo 2002, Catalano, in Cass. pen. 2003, 2411; Cass. sez. 3^ 20 settembre 2002, Ameli, e Cass. sez. 3^ 28 gennaio 2003, De Masi, fra tante), ma è stata modificata, ancor prima della sua effettiva vigenza, dalla legge n. 443 del 2001, efficace su detti aspetti in data 11 aprile 2001, ed ulteriormente mutata dalla legge n. 166 del 2002.


La legge obiettivo ha conferito al governo la delega ad emanare, entro il 31 dicembre 2002, un decreto legislativo volto ad introdurre nel testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia le modifiche strettamente necessarie per adeguarlo alle disposizioni di cui ai precedenti commi da 6 a 13 della stessa legge n. 443 del 2001, esercitata con il decreto legislativo n. 301 del 2002, sicché su dette normative occorre focalizzare l'attenzione con riferimento ai vari orientamenti dottrinari, agli indirizzi giurisprudenziali ed alle decisioni della Corte Costituzionale. La legge obiettivo o "Lunardi" ha ampliato il campo di applicazione della d.i.a. dagli interventi edilizi minori, compresi nell'originario T.U.ED., anche se con l'individuazione degli stessi in via residuale rispetto a quelli non riconducibili alle categorie previste dall'art. 10 T.U. cit., a quelli assentibili con permesso di costruire, purché specificamente disciplinati da piani attuativi con precise disposizioni plano - volumetriche, tipologiche, formali e costruttive o da strumenti urbanistici recanti analoghe previsioni di dettaglio, restando sempre quale unico titolo edilizio il permesso di costruire per gli interventi di nuova costruzione non assistiti dalla previa pianificazione di specifico dettaglio di cui alle lettere c) e d) dell'art. 1 sesto comma l. in esame.


Detta modificazione di non poco momento è stata criticata da una parte della dottrina, perché si poneva al di fuori del modello procedimentale generale della d.i.a. e tralasciava di considerare le ragioni, che giustificano ed impongono una presenza pubblica volta a comporre i conflitti di interessi potenziali ed attuali circa gli usi del suolo, indebolendo gli interessi della collettività a tutto vantaggio di quelli privati ed anche di quelli di terzi incolpevoli e controinteressati, tanto più che si trattava di interventi edilizi con ampia discrezionalità tecnica ed amministrativa. Una simile critica radicale, che sottovalutava le esigenze di snellimento procedurale sia per evitare procedure inutilmente gravose sia per escludere duplicazioni di valutazioni già effettuate nel momento pianificatorio, nonostante il suo lodevole intento, è stata superata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, ordinaria e costituzionale, proprio perché si trattava di "attività che si conformano a dettagliate previsioni degli strumenti urbanistici" (Corte Cost. sent. n. 303 del 2003).


Inoltre, l'ulteriore notazione circa l'inconciliabilità con la disciplina divisata dal T.U.ED. (si ritornava, ad esempio, ad un'individuazione di tipologie di interventi, sebbene a maglie larghe, invece del carattere residuale e, quindi, non eccezionale) veniva risolta dall'espressa previsione di una delega al governo per adeguarlo alla legge obiettivo e dalla considerazione che il margine di apprezzamento discrezionale della P.A. nelle ipotesi contemplate era molto ridotto, dovendosi tener conto delle specifiche prescrizioni della pianificazione urbanistica che sovente funzionalizzano l'attività edilizia, anche se non tutta l'attività discrezionale si esaurisce in quella delle previsioni di piano o degli strumenti urbanistici dettagliati.


Peraltro, se la semplificazione amministrativa si inquadra nel più generale trend legislativo di riduzione di poteri e di politiche amministrative ("Stato minimo", liberalizzazioni, privatizzazioni) e di riformulazione dei moduli di azione (procedure negoziate o consensuali e partecipate, ampliamento delle ipotesi di giurisdizione esclusiva), non può dimenticarsi che la dicotomia semplificazione - aggravamento deve essere valutata alla luce della ponderazione dei valori in gioco con riferimento alla natura degli interessi ed ai risultati dell'azione.


Pertanto, nella materia in esame, esisterebbe, secondo parte della dottrina ed ad avviso del collegio, un evidente contrasto tra le funzioni pubbliche di regolazione del territorio, mantenute in vita, ed il depotenziamento o il trasferimento ai privati delle funzioni pubbliche di controllo, tanto più che la Corte Costituzionale ha più volte definito l'istruttoria "il cuore" dell'azione amministrativa in tema di silenzio - assenso, sicché la previsione dei limiti imposti dalla legge n. 443 del 2001 all'utilizzazione della d.i.a. appare fondamentale per mantenere detto equilibrio. Risolta detta querelle, un'altra ben più grave ed importante, perché non superabile attraverso il richiamo alla "discrezionalità legislativa", effettuabile dalla Consulta, se fosse stata sollevata una questione di legittimità costituzionale di detta norma, e con l'obbligo del giudice di applicare la legge, per la giurisdizione ordinaria ed amministrativa, si poneva avuto riguardo alla natura procedimentale o anche sostanziale di detta "nuova" applicazione della d.i.a..


A tal proposito la miglior dottrina e la giurisprudenza ordinaria unanime (vedi le sentenze della Cassazione penale, Toma, Selva e Catalano già citate) hanno ritenuto che la realizzazione di determinati interventi sulla base di una semplice d.i.a. incideva solo sul piano procedurale, risultando ciò dalla relazione governativa, dall'obbligo del versamento del contributo di costruzione, collegato di regola al rilascio del permesso di costruire dall'art. 16 primo comma del T.U.ED nella formulazione originaria, dall'assenza di una norma, che espressamente sottraesse detti interventi alle sanzioni penali, e di altra che abrogasse le disposizioni del T.U.ED. all'epoca della pubblicazione della legge n. 443 del 2001 sulla G.U. del 27 dicembre 2001 S.O. non entrato in vigore e neppure "prorogato".


L'opposta opinione, fondata su argomenti testuali, come gli ultimi due della tesi dominante, invece, si riferiva all'art. 4 del D.L. n. 398 del 1993, convertito in legge con modificazioni nella legge n. 493 del 1993, come modificato dalla legge n. 662 del 1996 ed in particolare al tredicesimo comma, che escludeva l'applicazione delle sanzioni penali al caso della mancata denuncia di attività, obliterando, però, che si trattava degli interventi edilizi minori e che, nel frattempo, era stato emanato il T.U.ED., sebbene ancora non fosse entrato in vigore.


La tesi dominante è stata espressamente accolta dal d. l.vo n. 301 del 2002, con cui il governo ha esercitato la delega per rendere conforme il T.U.ED. alla legge obiettivo, in quanto ha stabilito per gli interventi edilizi maggiori, previsti in strumenti e piani attuativi e di dettaglio, l'applicazione delle sanzioni penali (art. 44 comma 2 bis T.U.ED.), se eseguiti in assenza o in totale difformità dall'alternativa e facoltativa d.i.a., di quelle amministrative (artt. 31 comma 9 bis, 33 comma 6 bis, 34 comma 2 bis, 35 comma 3 bis) e del potere di annullamento, di sospensione dei lavori e di demolizione, nonché dell'accertamento di conformità, equiparando in toto la disciplina sostanziale di questi interventi a quella desii altri assentibili con permesso di costruire. La natura procedurale di questa d.i.a. facoltativa è stata (a maggior ragione affermata per quelle leggi regionali (l. r. Lombardia n. 22 del 1999 come modificata dalla legge n. 18 del 2001; l. r. Toscana n. 52 del 1999, adeguata alla legge costituzionale n. 3 del 2001 dalla legge n. 13 del 2002) che avevano anticipato la legge obiettivo, tanto più che, come nella relazione governativa alla legge "Lunardi", nelle varie circolari e nei pareri regionali si affermava di non voler incidere sulla disciplina penale, la cui potestà esclusiva era riservata allo Stato.


La modificazione del comma 12 dell'articolo unico della legge obiettivo ad opera del settimo ed ottavo comma dell'art. 13 l. n. 166 del 2002 ha fatto sostenere a qualche autore che non costituiva principio fondamentale la necessità della concessione edilizia id est permesso di costruire per le nuove costruzioni in contrasto con quanto, sotto il vigore della pregressa normativa, varie volte affermato dalla Corte Costituzionale (Corte Cost ord. n. 187 del 1997 e sent. n. 241 del 1997 con riferimento in questo caso alla potestà legislativa esclusiva in materia urbanistica delle Regioni a Statuto speciale) e che ormai tutte le leggi regionali ampliative della d.i.a. dovevano ritenersi "legittimate", giacché la disposizione prevedeva nel settimo comma l'insussistenza dell'automatica applicazione della disciplina contemplata dal comma sesto della legge n. 443 del 2001 alle Regioni a Statuto ordinario, qualora "le leggi regionali, emanate prima dell'entrata in vigore della presente legge, (fossero) già conformi a quanto previsto dalle lettere a) b) c) e d) dal medesimo comma 6, anche disponendo eventuali categorie aggiuntive e differenti presupposti urbanistici".


Tuttavia tale primo precetto concerneva sempre categorie aggiuntive e differenti presupposti urbanistici da inquadrare sempre nell'esistenza di pianificazione urbanistica di dettaglio come, del resto, ha fatto la legge regionale Toscana n. 52 del 1999 e come è stabilito dall'art. 8 della legge regionale Emilia - Romagna n. 32 del 2002, successiva alla legge statale in parola, per quanto attiene ad alcune categorie di interventi di dubbia classificazione, e dall'art. 12, che prevede gli interventi assentibili con permesso di costruire in via residuale, invertendo il modulo sistematico del T.U.ED., ma lasciando sopravvivere i due titoli con le caratteristiche delineate dalla legge statale, giacché le leggi regionali dovevano essere conformi anche alle lettere c) e d) della Lunardi.


Maggiori problematiche interpretative sono state poste dal comma ottavo della norma in esame secondo cui "le Regioni a Statuto ordinario possono ampliare o ridurre l'ambito applicativo delle disposizioni di cui al periodo precedente".


Infatti, a tal proposito, una voce dottrinale, in maniera acuta, ha fatto rilevare come le disposizioni del periodo precedente rimandavano alla disciplina pianificatoria di dettaglio, sicché anche in questo caso erano delimitati i poteri di ampliamento e di riduzione della Regione.


Ed invero, le necessarie precise disposizioni possono essere rinvenute in piani sovracomunali, in piani paesistici, nei piani dei parchi, in quelli di bacino e delle comunità montane o in quelli comprensoriali ed in altri ancora, come ad esempio quelli considerati funzionali o settoriali, che hanno consentito il superamento della rigida zonizzazione dei pani regolatori generali e sono previsti nella legislazione statale (ex. gr. piani integrati di intervento ex lege n. 179 del 1992) e diversamente modulati da quella regionale, oppure quelli introdotti per l'esecuzione di specifiche tipologie di interventi legati a finanziamenti pubblici (ex. gr. P.R.U.S.S.T. (programma di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio) previsto con il D.M. 8 ottobre 1998) e contemplati dalla normativa regionale con vari adattamenti, sicché la disposizione tendeva anche a conformare la normativa statale alle variegate previsioni pianificatorie e programmatorie delle diverse Regioni senza alcun limite predeterminato sotto il profilo procedurale. Tale ultima notazione è recepita dal d. l.vo n. 301 del 2002, attuativo della delega contenuta nella legge "obiettivo", che, a chiarimento di quanto già risultava dall'originaria formulazione della legge n. 443 del 2001, prevede per gli interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica realizzabili con l'alternativa d.i.a. la necessità che gli stessi "siano disciplinati da piani attuativi comunque denominati, ivi compresi gli accordi negoziali aventi valore di piano attuativo".


Il citato decreto legislativo, poi, ripetendo i parametri urbanistico - edilizi più volte richiamati, da un lato esclude dalla previsione quegli interventi edilizi di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica compresi in piani attuativi senza i su richiamati parametri e dall'altro quelli per i quali non esistono previsioni di dettaglio, sicché per tutti questi interventi viene confermato che "le opere non possono essere realizzate mediante denuncia di inizio di attività, ma soltanto con il procedimento di rilascio del permesso" di costruire.


Altre voci dottrinarie, invece, hanno ancora riprodotto la differenza tra d.i.a. sostanziale e procedurale per gli interventi minori e solo procedurale per quelli maggiori senza, tuttavia, richiamare più il limite della pianificazione di dettaglio, poiché, in ogni caso, sarebbero applicabili le sanzioni amministrative e penali previste per il permesso di costruire.


Infine, qualche studioso ha ritenuto del tutto liberalizzata la possibilità delle Regioni di ampliare l'ambito della d.i.a. senza preoccuparsi dell'incidenza nel settore penale, traendo anche spunto dall'ordinanza del 4 dicembre 2002 n. 516 della Corte Costituzionale, che si era, però, limitata a restituire gli atti al T.a.r. Lombardia, relativi ad un procedimento in cui aveva sollevato, soprattutto, questione di legittimità costituzionale della legge regionale Lombardia n. 15 del 1996 sulla trasformazione dei sottotetti in mansarde c.d. "recupero ai fini abitativi dei sottotetti esistenti" ed, anche, della legge n. 22 del 1999 per gli innegabili riflessi sul titolo edilizio abilitativo al fine di esaminare la rilevanza della questione alla luce del nuovo quadro normativo di riferimento, non più valutata in seguito all'intervenuta rinuncia al ricorso (cfr. T.a.r. Lombardia sez. 2^ 18 giugno 2003 n. 3113 depositata il successivo 19), secondo modalità varie volte seguite dalla Consulta.


L'accoglimento della tesi dominante e di quella acutamente espressa da una illustre voce dottrinale, condivisa da questo collegio, assume particolare rilievo per accertare i confini ed i limiti dei poteri del legislatore delegato e per fondare un'interpretazione costituzionalmente orientata nel rispetto dei principi della delega della legge n. 443 del 2001, individuati in quelli strettamente necessari per adeguare la legge "obiettivo" al T.U.ED.. Il decreto legislativo n. 301 del 2002 interviene pure su questo punto, stabilendo che "Le regioni a statuto ordinario possono ampliare o ridurre l'ambito applicativo di cui ai commi precedenti. Restano, comunque, ferme le sanzioni penali previste all'articolo 44".


Detta nuova disciplina con il riferimento a tutti i commi precedenti dell'art. 22 T.U.ED. potrebbe aver accolto la tesi di chi afferma la natura procedurale della d.i.a. di cui al terzo comma dell'art. 22 cit. e sostiene il permanere delle sanzioni penali ed amministrative in tutti i casi di utilizzazione della c.d. super d.i.a., anche in assenza di pianificazione attuativa, dovendosi, in ogni caso, discutere sull'estensione dell'ultima locuzione. Infatti, se è vero che le pene sono limitate testualmente dall'art. 44 comma 2 bis T.U.ED. alla sola esecuzione in totale difformità ed in assenza della d.i.a., tralasciando la difformità parziale, le variazioni essenziali e le violazioni alle prescrizioni ed al regolamento edilizio, un 'esegesi sistematica della disposizione con riferimento alla richiesta conformita' alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico - edilizia vigente, stabilita per la c.d. d.i.a. semplice induce a ritenere, a parere del collegio, estesa anche alla c.d. super d.i.a. la previsione dell'art. 44 lett. a) T.U.ED. in modo da rendere detta disparità di trattamento apparente, tanto più che tutta la disciplina sanzionatoria amministrativa è equiparata alle ipotesi di esecuzione degli interventi in assenza, in totale e parziale difformità dal permesso di costruire e che l'art. 44 comma 2 bis cit. richiama "le disposizioni del presente articolo". Tuttavia l'ultima parte della disposizione, con cui si criminalizza la condotta di chi realizzi opere rientranti nell'area del permesso di costruire "doppiato dal modulo procedimentale della super d.i.a.", dimostra l'intento del legislatore delegato di "sterilizzare qualsivoglia effetto penale possa discendere da interventi lassisti delle Regioni", sicché non è senza rilievo la scelta legislativa tra d.i.a. e permesso di costruire, secondo quanto su evidenziato. Perciò, ad avviso del collegio, deve restare fermo il limite dell'esistenza di pianificazione urbanistica di dettaglio, la quale, come già affermato, è l'unica a giustificare detta estensione della d.i.a. nell'ambito dei principi generali, che regolano detto istituto in via normale "ex lege" n. 241 del 1990 e s.m., consentendo di ritenere largamente ristretta la discrezionalità amministrativa o quella tecnica.


Infatti, la previsione della possibilità delle Regioni di ampliare o ridurre le ipotesi di applicazione della d.i.a. di cui al comma quarto dell'art. 22 T.U.ED. ed il riferimento dell'art. 44 comma 2 bis T.U. cit. "agli interventi edilizi suscettibili di realizzazione mediante denuncia di inizio di attività ai sensi dell'articolo 22 comma 3", rendono palese che solo detta tipologia di interventi può essere eseguita con l'alternativa d.i.a., anche per il rispetto dovuto ai principi della legge - delega.


Inoltre, per il principio di legalità e tassatività dei precetti in diritto penale, quelli effettuati al di fuori dei parametri contemplati dal comma terzo lett. b) e c) dell'art. 22 T.U.ED., in virtù di una normativa regionale indiscriminatamente ampliativa, che incide in via indiretta sul regime penale, sarebbero o sforniti di sanzione penale, nonostante la maggiore complessità rispetto a quelli previsti al comma terzo dell'art. 22 cit. e la più estesa discrezionalità amministrativa e tecnica della P.A., oppure verrebbero, comunque, puniti, ove non assentiti con il permesso di costruire, sicché sarebbe inutile la previsione di alternatività rilevante solo sotto il profilo amministrativo e civile. Questa possibilità di ampliare o restringere gli interventi sottoposti a d.i.a., secondo alcuni autori, potrebbe essere valutata per far ritenere non rientranti tra i principi fondamentali le disposizioni su questo titolo previste nel T.U.ED., giacché è lo stesso legislatore nazionale con l'omologa e specularmente opposta norma di cui all'art. 10 terzo comma T.U. cit. a lasciare alle Regioni una notevole libertà nell'ampliare o ridurre le ipotesi di interventi soggetti a permesso di costruire o a d.i.a., lasciando, però, immutato il regime penale.


Tuttavia, una simile opinione, a parere del collegio, determina in una materia di competenza ripartita tra Stato e Regioni una carenza di principi fondamentali, i quali devono costituire una linea guida per la legislazione regionale al fine di assicurare un'omogeneità ed uniformità della normativa in campo nazionale nei suoi punti essenziali, perché, in assenza di detti principi, la legislazione regionale sarebbe libera di interferire nella materia penale come, del resto, avverrebbe se gli stessi non venissero enucleati in tema di modificazioni di destinazione di uso con o senza opere (art. 10 secondo comma T.U.ED.), secondo quanto, del resto, affermato dalla Corte Costituzionale nel vigore della pregressa disciplina (art. 25 quarto comma l. n. 47 del 1985) (cfr. Corte Cost. n. 73 del 1991 e n. 259 del 1997).


Non sembra che queste critiche possano essere superate con la distinzione fra assoggettamento dell'attività di trasformazione del territorio al controllo preventivo dell'amministrazione competente e modalità procedimentali attraverso le quali tale controllo viene attuato, giacché, come si è cercato di dimostrare, differenti sono i presupposti della d.i.a. e del permesso di costruire, distinte le ragioni giustificatrici di un regime differenziato, difformi le conseguenze penali ed amministrative anche in relazione alla tipologia di controllo, preventiva e successiva alla proposizione dell'istanza.


Non appare neppure esatto ritenere che, altrimenti, la facoltà del legislatore regionale di ampliare le ipotesi di interventi assentibili con d.i.a. resterebbe del tutto inattuata, giacché, come si è già evidenziato, molteplici sono i regimi pianificatori e programmatori regionali di dettaglio, sicché dette fattispecie sono tante da dover, semmai, essere ristrette.


Del resto non è senza una ragione che un autore, seguace di questa tesi, si contraddica, perché, prima, rende del tutto libero il regime della d.i.a. nel settore urbanistico e lo considera ormai come quello ordinario e, poi, invece, lo limita alle ipotesi di cui alla legge "obiettivo" in ordine ai riflessi penali, soprattutto per rispettare la potestà legislativa esclusiva statale. Peraltro, proprio l'asserita mutata ottica della disciplina della d.i.a. da istituto eccezionale e per ipotesi determinate ad una concezione opposta, caratterizzata dalla natura residuale ed onnicomprensiva, dimostra l'importanza di delimitare con certezza quelli assentibili con permesso di costruire per fornire una giustificazione logica e giuridica, secondo i principi generali in tema di d.i.a. enucleatali dalla legge n. 241 del 1990 e s.m., a detta distinzione ed alla minore rilevanza della discrezionalità tecnica o amministrativa in alcuni interventi.


La tesi accolta da questo collegio, invece, ha trovato un notevole apporto in alcune decisioni della Corte Costituzionale, nelle quali si afferma che "i principi (fondamentali) poss(o)no trarsi... specie nella fase della transizione dal vecchio al nuovo sistema di riparto delle competenze ... dalla legislazione statale già in vigore" (sent. n. 282 del 2002), i cui assunti permangono dopo l'emanazione della c.d. legge La Loggia, e che, per quanta flessibilità la legislazione statale abbia in ordine alla categoria di opere cui la d.i.a. possa applicarsi," resta come principio la necessaria compresenza nella legislazione di titoli abilitativi preventivi ed espressi (... il permesso di costruire) e taciti, quale è la DIA" (Corte Cost. sent. n. 303 del 2003).


È chiaro che i principi fondamentali, anche come vincolo negativo per le Regioni, possono essere individuati e non solo enucleati da leggi statali, secondo quanto prescrive la legge n. 131 del 2003 e, quindi, modificare gli elementi essenziali della disciplina della materia in virtù di una differente valutazione di politica legislativa, non consentita, però, in sede di ricognizione, prevista dalla legge "La Loggia", mentre gli stessi adempiono ad una pluralità di funzioni quali quella di limite alla potestà legislativa regionale, l'altra programmatica nei confronti della stessa legislazione, ed altra ancora integratrice delle lacune della disciplina della materia ed interpretativa delle altre disposizioni normative, ma non possono prescindere da quella primaria di unificazione normativa su tutto il territorio nazionale. Pertanto, a parere del collegio, ne deriva quale prima conseguenza l'obbligo della legislazione regionale di attenersi al principio fondamentale secondo cui la d.i.a. edilizia, alternativa al permesso di costruire, è consentita solo qualora sia prevista una normazione urbanistica "di dettaglio", utilizzandosi volutamente il termine onnicomprensivo per ricondurre in detto ambito tutte le ipotesi regolamentabili dalla Regione, in cui il parametro fondamentale su indicato si atteggia in maniera differente in virtù dei variegati strumenti urbanistici e pianificatori, comunali e sopracomunali, stabiliti dalle singole Regioni, secondo quanto già illustrato. Inoltre, ne discende il notevole dubbio di legittimità costituzionale di una legislazione che renda tutte le opere edilizie, comprese le nuove costruzioni non previste in pianificazioni di dettaglio, eseguibili con l'alternativa d.i.a. invece che soltanto con il permesso di costruire per violazione di un principio fondamentale dello Stato, non essendo possibile il sostanziale superamento del permesso di costruire e di un esame preventivo per gli interventi edilizi più complessi, in cui la discrezionalità amministrativa e tecnica è consistente, non solo per i riflessi penali, ma anche per l'incidenza sui rapporti privatistici di competenza legislativa esclusiva statale.


Infatti, proprio all'epoca dell'introduzione del modello originario dell'istituto della d.i.a. in materia edilizia ed urbanistica la sua maggiore giustificazione è stata rinvenuta nello scopo di alleggerire le forme dei controlli amministrativi sugli interventi minori per concentrare le risorse, tecniche e professionali, degli uffici sui controlli preventivi di quelli più complessi. La "privatizzazione dell'istruttoria" di primo grado, cui consegue l'avvio, eventuale e problematico per le risorse a disposizione ed i tempi tecnici di controllo da parte della P.A., di un procedimento amministrativo di secondo grado in situazioni di deficit informativo, determina una lesione della razionalità procedimentale per l'estensione indiscriminata a fattispecie in cui gli interessi pubblici primari sono prevalenti, perché relativi ad interventi di maggior rilievo, non circoscritti neppure da una pianificazione "di dettaglio", che ne limita il campo di azione e la discrezionalità, poiché le scelte sono state effettuate in maniera partecipata ed a monte.


Peraltro, sotto il vigore della pregressa normativa, si era consolidato il principio fondamentale in base al quale l'obbligo della preventiva concessione edilizia, per ogni tipo di costruzione, non fosse modificabile o rimuovibile dalla legislazione regionale, salvo gli interventi assentibili con autorizzazione (cfr. Corte Cost. sent. n. 241 del 1997 ed ord. n. 187 del 1997 cit. e n. 201 del 1992).


Inoltre, ancor prima dell'espressa previsione dell'art. 117 Cost. come novellato dalla legge cost. n. 3 del 2001, uniforme giurisprudenza della Corte Costituzionale ha riservato alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la materia penale (cfr. Corte Cost. n. 355 del 1996 fra tante), dichiarando costituzionalmente illegittime leggi regionali, che avevano anche un'incidenza indiretta sulla predetta materia (vedi Corte Cost. n. 273 del 1995).


È noto, poi, che, nel settore urbanistico ed edilizio, la disciplina penale è intimamente connessa con quella amministrativa per quel fenomeno della c.d. amministrativizzazione del diritto penale o del c.d. sistema del doppio binario, in base al quale la violazione della normativa amministrativa trova anche, in alcuni casi, la sua sanzione nel diritto penale e che il reato di cui all'art. 20 l. n. 47 del 1985 (ora art. 44 T.U.ED.) è collegato in maniera indissolubile con il titolo edilizio e non con l'intervento, tanto è vero che la sottoposizione ad autorizzazione edilizia di alcune opere prima assentibili con concessione ha comportato la depenalizzazione di tali interventi (Cass. sez. 3^ 28 dicembre 1979, Guarino in Cass. pen. Mass. 1981, 433 fra le prime).


Pertanto, l'indiscriminata alternatività tra d.i.a. e permesso di costruire cioè la possibilità di realizzare con d.i.a. anche nuove costruzioni o ristrutturazioni urbanistiche senza l'esistenza di una pianificazione urbanistica di dettaglio, secondo le previsioni dell'art. 22 terzo comma lettere b) e c) T.U.ED., stabilita dall'art. 4 terzo comma della legge regionale della Lombardia n. 22 del 1999, come modificato ed integrato dall'art. 3 della legge regionale n. 18 del 2001, comporta quale conseguenza irragionevole ed irrazionale o la depenalizzazione di detti interventi, perché, per il principio di tassatività, non possono rientrare in quelli contemplati all'art. 22 terzo comma T.U.ED. cui si riferisce il comma 2 bis dell'art. 44 T.U. cit. nell'estendere le sanzioni penali, giacché non rientrano nel paradigma legislativo statale su indicato, nonostante la presenza di una esplicita locuzione a riguardo ("restano ...") oppure ad una non consentita interpretazione analogica dell'art. 44 comma 2 bis T.U. cit. ovvero a rendere del tutto inutile l'ultimo inciso del quarto comma dell'art. 22 T.U.ED. conclamando la sottoposizione alla sanzione penale degli interventi non assentiti con il permesso di costruire e non rientranti nel paradigma legislativo del terzo comma dell'art. 22 T.U. cit. (considerazione in strumentazione urbanistica di dettaglio).


Tali notazioni dimostrano che, tramite un'esegesi logico - sistematica e teleologica, l'ampliamento ad opera delle Regioni può avvenire solo negli ambiti contemplati dal d. l.vo n. 301 del 2002. Detta interpretazione è suffragata dai limiti di un provvedimento delegato (d. l.vo n. 301 del 2002 cit.) rispetto ai principi stabiliti dalla delega (l. n. 443 del 2001), concernente solamente "le modifiche strettamente necessarie per adeguar(e)" il T.U.ED. alle disposizioni di cui ai commi da 6 a 13 della legge obiettivo e dal correlato obbligo del giudice di ricercare un'interpretazione adeguatrice prima di sollevare una questione di legittimità costituzionale.


Infatti, è noto che la Corte Costituzionale richiede non solo un'interpretazione che escluda ogni lettura costituzionalmente adeguata (sent. n. 187 del 1992 e nn. 307 e 316 del 1996 fra tante), giacché deve "pervenirsi alla dichiarazione di illegittimità costituzionale non perché della norma in questione si possa adottare un'interpretazione che ne determinerebbe l'incostituzionalità, ma soltanto se della medesima non sia possibile fornire un'interpretazione conforme ai precetti costituzionali " (sent. n. 336 del 2002), considerando sia l'evoluzione legislativa (sent. n. 335 del 2002) sia la disciplina nel suo complesso (ex. gr. sent. n. 334 del 2002), ma anche "ogni ragionevole interpretazione ... in senso conforme al sistema ... complessivamente considerato e, quindi, ai valori costituzionali" (sent. n. 333 del 2002)) in generale ed, in particolare, sotto il profilo dell'eccesso di delega (Cfr. fra tante Corte Cost. sent. n. 472 del 2002 e n. 173 del 2002), evidenzia l'obbligo del giudice di interpretare una norma delegata in modo almeno non collidente con i principi stabiliti dalla delega. Pertanto, proprio perché la legge "Lunardi" limitava il regime alternativo a ben precisi parametri della pianificazione attuativa ed anche della strumentazione urbanistica generale, già la riduttiva previsione del comma terzo dell'art. 22 lett. c) T.U.ED., introdotta dalla legge delegata in relazione a quest'ultima, limitata alle "precise disposizioni plano - volumetriche", può essere consentita solo considerando che i P.R.G. di ultima generazione già contengono tutta una normazione relativa a disposizioni tipologiche, formali e costruttive, e che le stesse si trovano spesso nelle N.T.A.. Inoltre, la necessità di una pianificazione di dettaglio, anche per la legislazione regionale, come già rilevato, discende da una piana esegesi dei commi settimo ed ottavo dell'art. 13 della l. n. 166 del 2002, accolta dalla dottrina prevalente, sicché non era possibile al legislatore delegato fornire una differente lettura anche in considerazione delle già indicate ragioni sistematiche. Infine, la generale liberalizzazione dei titoli edilizi sembra che possa determinare una disparità di trattamento tra Regioni a causa dell'omessa individuazione di detti principi fondamentali ed un'irragionevolezza della disciplina ex art. 3 Cost., poiché si disciplinano con regimi giuridici dagli effetti diversi situazioni eguali ovvero si consente un regime semplificato per interventi edilizi complessi, dando luogo ad una depenalizzazione, introdotta dalla legislazione regionale, di quei tipi di interventi edilizi, assentibili, in virtù della legislazione statale, solo con il permesso di costruire, non sostituibile, neppure sotto il profilo procedurale, con l'alternativa d.i.a., giacché è necessario un procedimento amministrativo preventivo più complesso e maggiormente attento all'esercizio della discrezionalità amministrativa o tecnica, sicché rileva pure ai fini penali l'omessa adozione di detta caratteristica procedimentale e di un titolo espresso in virtù dei principi di tassatività e di determinatezza e delle osservazioni su effettuate.


Non sembra, poi, che, superando i limiti della delega e fornendo delle espressioni contenute nella legge "Lunardi" un'esegesi in contrasto con quanto asserito nella Relazione, in cui si afferma che la disciplina non influisce sul regime penale, nella ricerca di un'interpretazione adeguatrice si possa sostenere, in contrasto con l'uniforme dottrina penalistica sul punto, l'irrilevanza quale elemento costitutivo della fattispecie penale del titolo edilizio in modo da spostare l'esame sulla tipologia dell'intervento e da procedere ad un'interpretazione estensiva del dettato dell'art. 44 comma 2 bis T.U.ED. e dell'art. 22 terzo comma T.U. cit. in relazione all'ultima parte del quarto comma di detto ultimo articolo, in quanto permarrebbe, nonostante simili forzature, la violazione del principio fondamentale, che mira a distinguere un titolo espresso ed uno "tacito", secondo il tipo di interventi. Pertanto, è configurabile, anche, la violazione degli artt. 25, 97 e 117 della Costituzione per inosservanza dei principi fondamentali in materia di governo del territorio su enucleati ed in tema di giusto procedimento tramite d.i.a., di potestà legislativa esclusiva statale in materia di ordinamento civile e penale e, quindi, della riserva statale in materia penale e del principio di buon andamento della P.A., indipendentemente dal possibile coinvolgimento di altri valori, trasversalmente, di competenza legislativa esclusiva statale (ex. gr. ambiente), mentre sono compromesse le "istanze di unificazione presenti nei più svariati contesti di vita, le quali, sul piano dei principi giuridici, trovano sostegno nella proclamazione di unità ed indivisibilità della Repubblica" senza neppure dover ricorrere ai principi di sussidiarietà, di adeguatezza e di leale cooperazione tra Stato e Regioni, richiamati dalla Corte Costituzionale, nella pronuncia da cui sono state tratte le locuzioni su riportate (Corte Cost. sent. n. 303 del 2003).


Questo "excursus" normativo, giurisprudenziale e dottrinario dimostra, a parere del collegio, che i precedenti arresti di questa Corte in relazione alla legge regionale della Lombardia n. 22 del 1999, come modificata dalla legge regionale n. 18 del 2001, con i quali si è ricercata un'interpretazione adeguatrice tale da escludere ogni dubbio di costituzionalità, non possano essere più seguiti.


Infatti, è intervenuta una legislazione statale in parte diversa e chiarificatrice tale da mutare lo scarno quadro normativo preesistente sul punto, come si è cercato di dimostrare, e dalla quale è possibile trarre alcuni principi fondamentali su richiamati, sicché la stessa, pur avendo "legittimato" alcune legislazioni regionali (ex. gr. l. r. Toscana n. 22 del 1999 e successive modificazioni), si pone in contrasto con quelle che hanno ammesso l'alternativa d.i.a. rispetto al permesso di costruire per tutti gli interventi edilizi compresi quelli non previsti in piani attuativi, comunque denominati, ed in strumenti urbanistici generali recanti precise disposizioni plano - volumetriche.


Inoltre, come già evidenziato, la sostanziale esclusione del titolo edilizio espresso, attuata, sia pure in via facoltativa, dalla legislazione regionale in parola, contrasta con un principio fondamentale già enucleato dalla Corte Costituzionale (sent. n. 303 del 2003), mentre la formulazione dell'art. 44 comma 2 bis e dell'art. 22 terzo comma lett. b) e c) del T.U.ED. non consente di realizzare con la d.i.a. nuove costruzioni o ristrutturazioni urbanistiche non disciplinate in pianificazione di dettaglio, di punire alla stregua dell'art. 44 su citato interventi diversi da quelli contemplati dalla norma con un'inammissibile applicazione analogica e con una violazione dei principi di tassatività e determinatezza, di ritenere, in maniera irrazionale, comunque punibili gli interventi edilizi non conformi all'art. 22 terzo comma T.U.ED., limitando l'indiscriminato ampliamento regionale della d.i.a. ai soli settori civili ed amministrativi, e di avanzare interpretazioni adeguatrici simili a quelle già effettuate nel vigore della legge n. 443 del 2001 o, comunque, "salvifiche" della legislazione regionale in esame, perché il legislatore ha definitivamente chiarito la natura procedurale della d.i.a. alternativa, giustificandola con la presenza di determinati parametri e disposizioni ed, in sostanza, enucleando alcuni principi fondamentali sul punto, già illustrati.


Pertanto, contrariamente a quanto ritenuto dal P.M. ricorrente, che, pure, segue una voce dottrinale espressa in una prima lettura del d. l.vo n. 301 del 2002, non può più richiamarsi la pregressa giurisprudenza di legittimità su riferita, ed individuarsi la sola necessità del permesso di costruire e del relativo procedimento, con il quale si garantiscono maggiormente gli interessi della collettività in presenza di progetti complessi, in modo da prevedere la configurabilità del reato edilizio, ove l'opera sia conforme alla d.i.a., ma non sia stata assentita con il titolo edilizio espresso, per gli interventi di nuova costruzione e di ristrutturazione urbanistica, perché effettuati in zone senza normazione urbanistica attuativa ovvero con pianificazione, che non consideri i parametri urbanistici - edilizi di cui alle lettere b) e c) del terzo comma dell'art. 22 T.U.ED. senza che intervenga una pronuncia del giudice di legittimità delle leggi dinanzi ad una normativa regionale, la cui legittimità appare molto dubbia alla luce di tutte le osservazioni ed argomentazioni svolte.


La questione sottoposta all'esame della Corte Costituzionale appare non manifestamente infondata per le ragioni già sviluppate in relazione ai parametri su descritti ed anche rilevante sia perché il c.d. condono edilizio, di cui all'art. 32 del D.L. n. 269 del 2003, come modificato dalla legge di conversione n. 326 del 2003, non può trovare applicazione con il correlato obbligo di sospensione del procedimento, poiché si è in presenza di una nuova costruzione non residenziale (capannone industriale), sicché non è ricompresa nel comma 25 della disposizione citata, sia perché la decisione sulla questione di legittimità costituzionale della legge regionale della Lombardia n. 22 del 1999, come modificata dalla legge n. 18 del 2001, in riferimento agli artt. 3, 5, 25, 97 e 117 Cost., influisce, in ogni caso, sul procedimento "de quo", indipendentemente dall'applicazione o meno della fondamentale pronuncia della Corte Costituzionale n. 364 del 1988.


P.Q.M.


Visti gli artt. 134 e segg. Cost., 1 e 23 l. 11 marzo 1953 n. 87;


Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 terzo comma legge regionale della Lombardia 19 novembre 1999 n. 22, come modificato ed integrato dall'art. 3 della legge regionale 23 novembre 2001 n. 18 in relazione agli artt. 22 terzo e quarto comma e 44 comma 2 bis d. l.vo n. 380 del 2001 e s.m., con riferimento agli artt. 3, 5, 25, 97 e 117 Cost., nella parte in cui applica la facoltà di denuncia di attività a tutti gli interventi edilizi di nuova costruzione e di ristrutturazione urbanistica anche se non disciplinati da piani attuativi comunque denominati, che contengano precise disposizioni plano - volumetriche, tipologiche, formali e costruttive, o da strumenti urbanistici generali, recanti precise disposizioni plano - volumetriche.


Dispone la sospensione del procedimento e la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.


Ordina la notificazione della presente ordinanza alle parti ed al Presidente del Consiglio dei ministri e la comunicazione della stessa al Presidente del Senato ed al Presidente della Camera dei deputati.

 

 Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 26 novembre 2003.

 Depositato in Cancelleria il 28 gennaio 2004
 

M A S S I M E

 

Sentenza per esteso

 

Edilizia e urbanistica - Denuncia inizio attività - Nuove costruzioni e ristrutturazione urbanistica non disciplinati da piani attuativi o da altri strumenti urbanistici - Legge regione Lombardia n. 22 del 1999 - Ambito di applicazione - Questione di legittimità costituzionale - Rilevanza e non manifesta infondatezza. In materia edilizia non è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma terzo, della legge regione Lombardia 19 novembre 1990 n. 22, come modificato dall'art. 3 della legge regione Lombardia 23 novembre 2001 n. 18, in relazione agli artt. 22, comma terzo e quarto, e quarantaquattresimo del Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380), per contrasto con gli artt. 3, 5, 25, 97 e 117 della Costituzione, nella parte in cui il citato articolo applica la facoltà di denuncia di inizio attività a tutti gli interventi edilizi di nuova costruzione e di ristrutturazione urbanistica anche se non disciplinati da piani attuativi comunque denominati contenenti precise disposizioni plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive, o da strumenti urbanistici generali parimenti recanti precise disposizioni plano-volumetriche. Presidente: Grassi A. Estensore: Novarese F. Imputato: P.M. in proc. Selva ed altro. P.M. Passacantando G. (Diff.) (Solleva questione legittimità costit., Trib. Sondrio, 4 marzo 2003) . CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III 28 gennaio 2004 (Ud. 26/11/2003 n. 01956 ) Rv. 227399 , sentenza n. 2956

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