Legislazione Giurisprudenza Per altre sentenze vedi: Sentenze per esteso
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CORTE DI CASSAZIONE Sez. II del 04 febbraio 2004, sentenza n. 4296
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Corte di Cassazione Sez. II del 04 febbraio 2004, (ud. 02 dicembre 2003 n.
01790), sentenza n. 4296
Pres. Morelli – Est. Sirena - Pm D'Ambrosio – Imp. Stellaccio
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE III PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.:
Dott. MORELLI Francesco - Presidente
1. Dott. SIRENA Pietro Antonio - Consigliere
2. Dott. ESPOSITO Antonio - Consigliere
3. Dott. BOTTALICO Nicola - Consigliere
4. Dott. MACCHIA Alberto - Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Sul ricorso proposto da:
STELLACCIO Vincenzo;
avverso la sentenza della Corte di appello di Lecce, sezione penale promiscua,
in data 12 dicembre 2002;
Sentita la relazione della causa fatta dal Consigliere Dott. Pietro Antonio
Sirena;
Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale Dott. D'Ambrosio
Loreto, il quale ha concluso chiedendo che la Corte rigetti il ricorso;
Sentito il difensore dell'imputato, avvocato Giampaolo Filiani, il quale ha
invece chiesto l'accoglimento del gravame;
osserva:
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
A seguito di un esposto presentato da associazioni ambientaliste del comune di
Palagiano venne iniziata azione penale nei confronti di STELLACCIO Vincenzo,
sindaco di quella cittadina, che fu rinviato al giudizio del Tribunale di
Taranto per rispondere del reato di cui all'articolo 328 C.P., "per avere -
nella suddetta qualità - indebitamente omesso un atto del suo ufficio da
compiersi per ragioni di giustizia senza ritardo, e precisamente per avere
omesso di procedere, ai sensi dell'articolo 7, comma 4, della legge numero 47
del 1985, all'accertamento di inottemperanza dell'ordinanza di demolizione di
opere edili abusive numero 31, del 23 settembre 1994, da parte di Fava Gustavo e
all'adozione dei conseguenziali provvedimenti ex articolo 7 della legge su
citata (immissione in possesso gratuito e relativa trascrizione nei registri
immobiliari a favore del comune di Palagiano dell'area di proprietà della ditta
Gustavo Fava interessata ai lavori di cui all'ordinanza numero 31/94), e
ciononostante una nota in tal senso inviatagli dall'Ufficio tecnico comunale in
data 28 settembre 1995, conseguenziali al sopralluogo effettuato in data 19
maggio 1995".
Procedutosi con il rito abbreviato, con sentenza del 27 marzo 2000, il Tribunale
di Taranto dichiarò l'imputato responsabile del delitto di cui all'articolo 323
C.P., così modificata l'originaria imputazione di cui all'articolo 328 dello
stesso codice e, con la concessione delle attenuanti generiche e la diminuente
per il rito, lo condannò alla pena di quattro mesi di reclusione.
Il Tribunale osservò che lo STELLACCIO - a fronte dell'inottemperanza del FAVA
all'ordine di ripristino dell'immobile - era rimasto inerte dal 29 maggio 1995
al 12 agosto 1996; e che tale comportamento, posto in essere con dolo diretto,
aveva prodotto un vantaggio patrimoniale per il suddetto Fava e un danno per il
comune di Palagiano, così che risultavano sussistenti tutti gli estremi del
delitto di abuso di ufficio e non di quello originariamente contestato.
Avverso tale provvedimento l'imputato propose impugnazione, e la Corte di
appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, con sentenza del 26 febbraio
2002, in accoglimento del gravame, assolse lo STELLACCIO dal reato ascrittogli
perché il fatto non sussiste. Secondo i giudici della detta Corte di appello,
infatti, nella vicenda in esame non era emersa la volontà specifica dello
STELLACCIO di favorire il Fava, ben potendo il ritardo nella adozione del
provvedimento giustificarsi con la complessità della vicenda;
inoltre, sempre ad avviso dei detti giudici, doveva escludersi nel caso concreto
anche la sussistenza dell'elemento oggettivo del reato di abuso di ufficio, non
essendo ravvisabile alcuna violazione di legge, ne' i requisiti dell'ingiusto
vantaggio a favore del FAVA e del danno ingiusto per il comune, "difficilmente
ipotizzabile nel semplice ritardo nell'acquisizione al patrimonio comunale
dell'area in oggetto".
Contro quest'ultima decisione propose ricorso per Cassazione il Procuratore
Generale presso la Corte di appello di Lecce e la 6^ sezione di questa Corte, in
accoglimento dell'impugnazione suddetta, con sentenza del 3 aprile 2002 annullò
il provvedimento impugnato per grave carenza della motivazione".
Giudicando in sede di rinvio, la sezione promiscua della Corte di appello di
Lecce ha confermato la sentenza dei Tribunale di Taranto, respingendo l'appello
dello STELLACCIO.
Perciò quest'ultimo ricorre personalmente in Cassazione deducendo:
a) violazione dell'articolo 606, comma 1, lettere b) ed e), c.p.p., in relazione agli articoli 15, 323, 328 C.P., e 7 della legge numero 47 del 1985.
Il ricorrente - dopo avere indicato le modalità esecutive dell'abuso di ufficio quali individuate dai giudici della Corte di appello (a pag. 28 della sentenza) - afferma che la norma di legge in violazione della quale egli avrebbe agito sarebbe l'articolo 7 della legge numero 47 del 1985, per non avere acquisito l'area in questione al patrimonio del comune. Sennonché, secondo la tesi difensiva, tale norma sarebbe operativa solo nell'ipotesi in cui fosse stata preceduta dall'ingiunzione a demolire e non in quella, verificatasi nel caso concreto, in cui era stato disposto il solo ripristino dello stato dei luoghi.
Inoltre, sempre ad avviso del ricorrente, il bene in questione, ai sensi del comma 3 dell'articolo 7 citato sarebbe stato acquisito di diritto gratuitamente al comune di Palagiano, a prescindere da qualsiasi provvedimento, con la conseguenza che l'ente locale non avrebbe subito alcun danno.
b) Violazione dell'articolo 606, comma 1, lettere b) ed e) , c.p.p., in
relazione agli articoli 2 e 323 C.P., 7 legge numero 47 del 1985 e 136 del
D.P.R. numero 380 del 2001.
Il ricorrente sostiene che l'articolo 136 del D.P.R. numero 380 del 2001 ha abrogato l'articolo 7 della legge numero 47 del 1985, riformulando la norma con l'articolo 31, e stabilendo che il soggetto titolare del potere dovere di provvedere in merito alle ingiunzioni di demolizione, rimozioni e ripristino non è il sindaco, ma il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale. Da tale abrogazione il ricorrente fa discendere come conseguenza quella che in alcun caso oggi il sindaco sarebbe destinatario dei precetti che si assumono da lui violati e che perciò, in applicazione dell'articolo 2 C.P. egli avrebbe dovuto essere assolto.
c) Violazione dell'articolo 323 C.P.
e dell'articolo 627, comma 3, c.p.p., in relazione alle prospettate esigenze
motivazionali quanto all'elemento soggettivo.
Infine, il ricorrente assume che i giudici del secondo grado non avrebbero
motivato in ordine alla sussistenza dell'elemento soggettivo del delitto di
abuso di ufficio, non spiegando "per quali ragioni lo STELLACCIO avrebbe
'intenzionalmente' cagionato l'evento dell'ingiusto vantaggio patrimoniale o
dell'ingiusto danno, accontentandosi, erroneamente, di descrivere una sorta di
dolus in re ipsa".
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. La prima censura è infondata.
È stato, infatti, accertato che il FAVA ha subito una condanna, divenuta
irrevocabile, per i reati edilizi commessi nell'esecuzione delle opere eseguite
nei terreni di sua proprietà, posti al confine con il fiume Lenne; e che, in
relazione a tali lavori, oltre che in relazione a quelli effettuati sui beni
appartenenti al demanio, era stata emessa dall'imputato - nella sua qualità di
sindaco del comune di Palagiano - un'ordinanza di ripristino dello stato dei
luoghi, alla quale il suddetto FAVA non aveva ottemperato.
Ebbene, sembra a questo Collegio che l'ordinanza da ultimo citata, prevista
dall'articolo 7 della legge 28 febbraio 1985, numero 47, ricomprenda
necessariamente anche l'ordine di demolire le opere abusivamente costruite; e
che perciò lo STELLACCIO, nella sua qualità di sindaco del comune di Palagiano,
avrebbe dovuto procedere all'accertamento dell'inottemperanza alla ingiunzione a
riportare l'area nelle condizioni originarie, costituendo tale accertamento
titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri
immobiliari dell'acquisizione di quella proprietà al patrimonio del comune.
Nè rileva che l'area in questione - ai sensi del comma 3 dell'articolo 7 citato
- sarebbe stata acquisita di diritto gratuitamente al patrimonio del comune,
posto che l'accusa mossa nei confronti dell'imputato è quella di avere con il
suo comportamento ritardato da parte del comune non l'acquisto del diritto
reale, bensì quello del possesso dell'immobile, così procurando un vantaggio
patrimoniale, sia pure di portata modesta, al proprietario di quel bene.
2. Ma anche la seconda censura è destituita di fondamento.
Il ricorrente invoca, infatti, l'applicazione - nel caso concreto - della disposizione di legge contenuta nell'articolo 2, comma 2, C.P., secondo cui "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge posteriore, non costituisce reato"; e, come si è cennato, sostiene che il comportamento a lui attribuito non potrebbe essere più perseguito dal momento che, ai sensi dell'articolo 136 del D.P.R. numero 380 del 2001, il soggetto titolare del potere dovere di provvedere in merito alle ingiunzioni di demolizione, rimozioni e ripristino non è il sindaco, ma il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale.
Dunque, anche secondo la tesi difensiva, nella fattispecie non ci si trova in
presenza dell'abolizione integrale della figura del reato, ma della
modificazione di una norma giuridica richiamata dalla norma incriminatrice.
Sennonché, l'individuazione della disciplina applicabile nei casi di successione
di norme siffatte, così dette integratrici della legge penale, ha dato luogo a
contrasti; ed è in particolare controverso se e quando sia applicabile in tali
ipotesi il principio della retroattività della legge più favorevole
all'imputato, non ponendo alcuno in dubbio che l'introduzione di una norma
"integratrice" di qualsivoglia tipo non possa retroattivamente rendere
penalmente rilevante un fatto altrimenti irrilevante, oppure modificarne la
disciplina in senso sfavorevole al reo.
Per il vero, nella giurisprudenza, ma anche nella dottrina, prevale la soluzione
negativa, basata sul rilievo che siffatte leggi successive non modificano in
alcun modo la struttura del fatto reato. Tuttavia, questo Collegio non aderisce
a tale drastica soluzione, e ritiene invece che la disciplina prevista
dall'articolo 2, commi 2 e 3, C.P. debba trovare applicazione in alcuni sia pure
limitati casi in cui venga modificata non la disposizione di legge penale, ma
quella così detta integratrice; e però, a condizione che la modifica della legge
richiamata incida sulla struttura della norma incriminatrice ovvero sul giudizio
di disvalore in essa espresso. Così, in adesione a tale tesi, si verifica
successione di leggi penali, ai sensi dell'articolo 2 C.P., in occasione della
modifica o della abrogazione della norma richiamata da una così detta norma
penale in bianco, che rinvia cioè ad altra norma per l'individuazione in tutto o
in parte del precetto; ovvero nell'ipotesi che venga modificata una norma "definitoria",
cioè una disposizione attraverso la quale il legislatore chiarisce il
significato di termini usati in una o più disposizioni incriminatrici,
concorrendo a individuare il contenuto del precetto penale; e si ha pure un
fenomeno di integrazione della norma penale - rilevante ai fini
dell'applicazione dell'articolo 2 C.P. - allorquando una disposizione
legislativa commini una sanzione penale per la violazione di un precetto
contenuto in un'altra disposizione legislativa, che venga abrogata in tutto o in
parte.
Sennonché, la vicenda in esame non rientra in alcuna di tali ipotesi; ne' la
modifica legislativa, concernente la competenza a emettere il provvedimento
amministrativo omesso dallo STELLACCIO, incide sulla descrizione della condotta
vietata, o in alcun modo affievolisce il divieto e il disvalore delle avvenute
violazioni:
dunque non può trovare applicazione la disposizione di legge invocata dal
ricorrente.
Del resto, in tal senso si è pronunciata questa Corte, stabilendo in una recente
decisione che "la disciplina relativa alla successione delle leggi penali
(articolo 2 C.P.) non si applica alla variazione nel tempo delle norme
extra-penali e degli atti o fatti amministrativi che non incidono sulla
struttura essenziale e circostanziata del reato, ma si limitano a precisare la
fattispecie precettiva, delineando la portata del comando, che viene a
modificarsi nei contenuti a far data dal provvedimento innovativo; in detta
ipotesi, rimane fermo il disvalore ed il rilievo penale del fatto anteriormente
commesso, sicché il relativo controllo sanzionatorio va effettuato sulla base
dei divieti esistenti al momento del fatto (principio affermato in tema di
responsabilità per la gestione di centri trasfusionali con riguardo al reato di
cui all'articolo 17 della legge 4 marzo 1990 n. 107, configurato per
inosservanza di norme regolamentari contenute nel D.M. 27 dicembre 1990, poi
sostituito dal D.M. 25 gennaio 2001)" (Cass. pen., sez. 3^, 12 marzo 2002, Pata,
RV 221943).
3. È, invece, fondato il terzo motivo di ricorso, con cui è stata dedotta la
insussistenza dell'elemento soggettivo del delitto di abuso di ufficio
contestato all'imputato.
Tale reato - previsto originariamente dall'articolo 323 del codice Rocco con la
rubrica "abuso di ufficio in casi non preveduti specificamente dalla legge" - ha
avuto una tormentata elaborazione legislativa, iniziata nel 1990 e culminata
nella riforma del 1997;
quest'ultima, peraltro, fu espressamente voluta dal legislatore al fine di
circoscrivere l'area degli illeciti amministrativi penalmente rilevanti e di
conferire all'intervento punitivo contorni e limiti netti.
Ebbene, proprio in vista di tale finalità il legislatore del 1997 modificò
radicalmente la disposizione di legge di che trattasi, strutturando la
fattispecie del reato di abuso di ufficio in termini di reato di evento,
procedendo a una diversa configurazione del fatto tipico, escludendo la
rilevanza delle condotte di abuso dalle quali non potesse derivare un vantaggio
patrimoniale, e individuando nel così detto "dolo intenzionale" l'elemento
soggettivo del delitto in questione.
Proprio sulla necessità di tale particolare forma di dolo ai fini della
sussistenza del reato previsto dall'articolo 323 C.P. concordano dottrina e
giurisprudenza; tuttavia si sono verificati contrasti in ordine alla portata
concreta di siffatto elemento psicologico.
Sembra quindi necessario fornirne anzitutto una chiara nozione: e - ad avviso di
questo Collegio - tale risultato può essere agevolmente raggiunto riportando un
brano di una decisione con cui le Sezioni unite della Corte di Cassazione, nel
1993, hanno puntualmente indicato le differenze tra le varie forme di dolo.
Dette Sezioni unite hanno, infatti, testualmente affermato che "l'osservazione
della realtà psicologica, sottesa all'amplissima casistica giurisprudenziale, ha
consentito di individuare e classificare livelli crescenti di intensità della
volontà dolosa. Nel caso di azione posta in essere con accettazione del rischio
dell'evento, si richiede all'autore una adesione di volontà, maggiore o minore,
a seconda che egli consideri maggiore o minore la probabilità di verificazione
dell'evento. Nel caso di evento che ritiene altamente probabile o certo,
l'autore non si limita ad accettarne il rischio, ma accetta l'evento stesso,
cioè lo vuole e con un'intensità evidentemente maggiore di quelle precedenti. Se
l'evento, oltre che accettato, è perseguito, la volontà si colloca in un
ulteriore livello di gravità, e potrà, altresì, distinguersi fra un evento
voluto, come mezzo necessario per raggiungere uno scopo finale, e un evento
perseguito come scopo finale.
La qualificazione di dolo eventuale è attribuita dalla giurisprudenza prevalente
e dalla dottrina, soltanto al primo caso dell'accettazione del rischio. In tutti
gli altri casi, la qualificazione è quella del dolo diretto e quando l'evento è
perseguito come scopo finale, la qualificazione è quella del dolo intenzionale"
(Cass. pen., Sez. un., 12 ottobre 1993, Cassata, RV 195804).
Aderendo dunque alla su esposta tesi giuridica, per la sussistenza dell'elemento
soggettivo nel delitto di abuso di ufficio è necessario - tra le altre cose -
che l'evento, e cioè l'ingiusto vantaggio patrimoniale procurato a taluno o il
danno ingiusto arrecato ad altri, sia perseguito dall'agente come scopo finale
del suo operato.
Ora, a tale principio si sono uniformate numerose decisioni della Sezione Sesta
Penale di questa Corte, con le quali si è stabilito che "in tema di abuso
d'ufficio, nella formulazione dell'articolo 323 C.P. introdotta dall'articolo 1
della legge 16 luglio 1997, numero 234, il legislatore, con l'utilizzazione
dell'avverbio 'intenzionalmente' ha voluto escludere la rilevanza penale non solo
di condotte poste in essere con dolo eventuale, ma anche con dolo cosiddetto
diretto, che ricorre quando il soggetto si rappresenti la realizzazione
dell'evento come altamente probabile o anche come certa, ma la volontà non sia
volta alla realizzazione di tale fine;
ne consegue che, affinché una condotta possa essere addebitata all'agente a
titolo di abuso di ufficio, è necessario che l'evento sia la conseguenza
immediatamente perseguita dal soggetto attivo" (Cass. pen., sez. 6^, 1^ giugno
2000, P.G. in proc. Spitella, RV 217558; conformi: Cass. pen., sez. 6^, 11 marzo
2003, P.G. in proc. Allegra, RV 224069; Cass. pen., sez. 6^, 18 dicembre 2002,
Casuscelli Di Tocco, RV 222860; Cass. pen. , sez. 6^, 18 novembre 2002, P.G. in
proc. Lenoci, RV 223410; Cass. pen., sez. 6^, 4 maggio 1998, P.G. in proc.
Scaccianoce, RV 210897).
Tali decisioni sono condivise da questo Collegio, il quale ritiene altresì che
l'avverbio "intenzionalmente" sia stato introdotto dal legislatore nel corpo
dell'incriminazione con il fine di attribuire all'elemento soggettivo il compito
di ridimensionare le considerevoli carenze che la fattispecie criminosa presenta
sul piano della tipicità oggettiva, caratterizzata da un imprecisato rinvio,
senza distinzioni ulteriori, alla violazione di norme di legge o di regolamento.
Ciò posto, si osserva che - in base ai principi generali concernenti la prova
penale - spetta al Pubblico Ministero dimostrare di volta in volta la
sussistenza del dolo intenzionale; e quindi, nel caso di abuso di ufficio, che
compete al rappresentante della pubblica accusa di provare che lo scopo finale
perseguito dall'agente sia quello di procurare a sè o ad altri un ingiusto
vantaggio patrimoniale o di arrecare ad altri un danno ingiusto.
Per il vero, anche in passato giurisprudenza e dottrina erano state concordi nel
richiedere - ai fini di una condanna per il delitto di abuso di ufficio - un
accertamento rigoroso della sussistenza del dolo: ovviamente, esigendo oggi la
norma in vigore l'intenzionalità nella produzione dell'evento, sembra che sia
ancora più necessario fornire una prova certa che la volontà dell'agente è
mirata proprio alla realizzazione del vantaggio patrimoniale o del danno
ingiusto. Ed è perciò chiaro che tale prova non può essere desunta dalla
semplice violazione di una norma di legge o di regolamento, dalla quale
certamente consegue un provvedimento illegittimo, ma non necessariamente una
atto illecito e penalmente rilevante. È necessario quindi che la prova del dolo
venga fornita grazie a ulteriori elementi, diversi da quello su citato, idonei a
dimostrare che l'evento realizzato costituiva il fine precipuo preso di mira dal
soggetto agente: e ciò tanto più in una fattispecie quale quella in esame, nella
quale l'abuso è configurato mediante una condotta omissiva.
Non va, infatti, dimenticato che la problematica relativa alla configurabilità
dell'abuso mediante una omissione è ancora attuale, almeno in dottrina; e che
seppure la giurisprudenza pressoché unanime - cui questo Collegio aderisce - ha
concluso per la soluzione affermativa, la peculiarità del caso concreto (nel
quale l'omissione addebitata consiste nel semplice ritardo a emettere un
provvedimento) impone che la prova della finalizzazione della volontà
dell'agente alla realizzazione del danno o del vantaggio debba essere ancora più
rigorosa.
Se così non fosse, infatti, qualsiasi dilazione ingiustificata nel compimento o
nel deposito di un atto legislativo, amministrativo o giudiziario, suscettibile
di arrecare un vantaggio patrimoniale o un danno ad alcuno, darebbe luogo a una
violazione dell'articolo 323 C.P. (cfr.: Cass. pen., 22 maggio 1980-19 dicembre
1981, Grisolia, RV 151364): fatto questo che sicuramente il legislatore ha
voluto escludere nelle ipotesi in cui il ritardo sia dovuto a mera negligenza o
ad altre analoghe ragioni; e ciò pur se il soggetto agente si sia rappresentato
con certezza l'evento conseguente alla sua condotta.
I principi su esposti vanno ora applicati al caso concreto; e a tal fine si
osserva che il Tribunale di Taranto ha ricavato la sussistenza del dolo
intenzionale a carico dello STELLACCIO solo dalla omissione (rectius dal ritardo
nell'emettere il provvedimento) allo stesso attribuibile; quei giudici hanno,
infatti, testualmente affermato che "tale contesto di pesante inerzia non può
spiegarsi secondo il Collegio se non con la diretta volontà di agevolare la
situazione soggettiva del Fava, non sussistendo nella maniera più assoluta
elementi dai quali dedurre che l'omissione sia stata determinata da mera
negligenza, dall'impossibilità materiale o giuridica di intervenire o dalla
necessità di espletare accertamenti tecnici, mai promossi" (cfr. pag. 13 della
sentenza del tribunale). E però, la suddetta proposizione è errata perché non
era onere dell'imputato dimostrare che l'omissione dipendeva da sua negligenza o
da altri fattori, spettando alla pubblica accusa di provare, con ulteriori
elementi indiziari, che la "pesante inerzia" era finalizzata a favorire il Fava
o a danneggiare il comune di Palagiano.
Ma anche la Corte di appello di Lecce è incorsa nel medesimo errore giacché ha
ritenuto di potere ravvisare il dolo intenzionale solo nel comportamento
omissivo tenuto dallo STELLACCIO, e ha sul punto riproposto quell'inversione
dell'onere della prova che aveva caratterizzato la decisione del tribunale.
E in vero, i giudici del rinvio hanno testualmente affermato che "l'imputato
tenne la condotta abusiva di cui si è detto, per raggiungere lo scopo, che in
realtà si verificò per quell'apprezzabile lasso di tempo, di cui si è detto in
precedenza, di procurare al Fava l'ingiusto vantaggio patrimoniale, già indicato
in precedenza, dovendosi, alla stregua del globale comportamento omissivo tenuto
dal sindaco, escludere che lo stesso sia imputabile a negligenza o determinato
da fatti ed eventi da lui non cagionati, ovvero in qualche modo non
giustificabili, mediante la rappresentazione di situazioni che avrebbero
impedito l'emissione dei provvedimenti impostigli dalla Legge o l'espletamento
di accertamenti tecnici, al fine di adottare poi quelle risoluzioni più idonee,
per realizzare l'interesse pubblico dell'Ente territoriale da lui rappresentato,
dovendosi, invece, ritenere, nella specie, che quel comportamento fosse
finalizzato a mantenere immutato lo stato dei luoghi, senza adottare quei
doverosi provvedimenti, che avrebbero invece sanato la situazione abusiva, allo
scopo di favorire indebitamente il FAVA" (pagine 44 e 45 della sentenza
impugnata). Ora, dal lungo e involuto inciso su riportato non è dato desumere
alcun elemento ulteriore rispetto a quelli indicati dal tribunale; e la
responsabilità dell'imputato è stata perciò dichiarata solo in base al
comportamento omissivo (anzi di semplice ritardo) da costui tenuto, dal quale è
stata esclusivamente tratta la prova dell'intenzionalità del dolo e quindi della
sussistenza dell'elemento soggettivo del delitto di che trattasi. Ma come si Š
prima evidenziato, sarebbero state necessarie ulteriori e più significative
circostanze esteriori per provare - sulla base delle comuni regole di esperienza
- che lo STELLACCIO avesse agito con l'intento precipuo di favorire il Fava o di
danneggiare il comune di cui era sindaco.
4. In difetto di tali circostanze, si deve concludere affermando che nel caso
concreto manca la prova della sussistenza dell'elemento soggettivo del delitto
punito dall'articolo 323 C.P.: e da ciò consegue che la sentenza impugnata deve
essere annullata senza rinvio perché il fatto non costituisce reato.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce
reato.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 2 dicembre 2003. Depositato
in Cancelleria il 4 febbraio 2004
1) Edilizia e urbanistica - Abuso d'ufficio e demolizione – Fonti del diritto - Leggi - Legge penale - Successione di leggi - Successione di norme extra-penali - Applicabilità della disciplina di cui all'art. 2 cod. pen. - Condizioni - Limiti - Fattispecie. La disciplina relativa alla successione delle leggi penali (art. 2 cod. pen.) si applica qualora la disposizione richiamata da una "norma penale in bianco" sia modificata o abrogata, ovvero nell'ipotesi in cui venga modificata una norma "definitoria" - ossia una disposizione attraverso la quale il legislatore chiarisce il significato di termini usati in una o più disposizioni incriminatrici, concorrendo a individuare il contenuto del precetto penale - oppure, infine, nel caso in cui una disposizione legislativa commini una sanzione penale per la violazione di un precetto contenuto in un'altra disposizione legislativa, che venga abrogata in tutto o in parte. (Fattispecie in cui la Corte ha confermato l'affermazione di penale responsabilità di un sindaco in ordine al delitto di cui all'art. 323 e ha escluso l'applicabilità del'art. 2 cod. pen. alla luce dell'abrogazione, ad opera dell'art. 136 del d.P.R. n. 380 del 2001, dell'art. 7 della legge n. 47 del 1985 e della previsione, contenuta nell'art. 31 del citato d.P.R. 380/2001, secondo la quale il soggetto titolare del potere-dovere di provvedere in merito alle ingiunzioni di di demolizione, rimozione, ripristino non è il sindaco, ma il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale). Pres. Morelli – Est. Sirena – Imp. Stellaccio - Pm D'Ambrosio (Diff.) (Annulla senza rinvio, App. Lecce, 12 dicembre 2002). CORTE DI CASSAZIONE Sez. II del 04 febbraio 2004, (ud. 02 dicembre 2003 n. 01790) sentenza n. 4296
2) Procedure e varie - La successione delle leggi penali (art. 2 C.P.) non si applica alla variazione nel tempo delle norme extra-penali e degli atti o fatti amministrativi che non incidono sulla struttura essenziale e circostanziata del reato. La disciplina relativa alla successione delle leggi penali (articolo 2 C.P.) non si applica alla variazione nel tempo delle norme extra-penali e degli atti o fatti amministrativi che non incidono sulla struttura essenziale e circostanziata del reato, ma si limitano a precisare la fattispecie precettiva, delineando la portata del comando, che viene a modificarsi nei contenuti a far data dal provvedimento innovativo; in detta ipotesi, rimane fermo il disvalore ed il rilievo penale del fatto anteriormente commesso, sicché il relativo controllo sanzionatorio va effettuato sulla base dei divieti esistenti al momento del fatto (principio affermato in tema di responsabilità per la gestione di centri trasfusionali con riguardo al reato di cui all'articolo 17 della legge 4 marzo 1990 n. 107, configurato per inosservanza di norme regolamentari contenute nel D.M. 27 dicembre 1990, poi sostituito dal D.M. 25 gennaio 2001)" (Cass. pen., sez. 3^, 12 marzo 2002, Pata, RV 221943). Pres. Morelli – Est. Sirena – Imp. Stellaccio - Pm D'Ambrosio (Diff.) (Annulla senza rinvio, App. Lecce, 12 dicembre 2002). CORTE DI CASSAZIONE Sez. II del 4 febbraio 2004, (ud. 02 dicembre 2003) sentenza n. 4296
3) Procedure e varie - Dolo eventuale, dolo diretto e dolo intenzionale - Qualificazione. La qualificazione di dolo eventuale è attribuita dalla giurisprudenza prevalente e dalla dottrina, soltanto al primo caso dell'accettazione del rischio. In tutti gli altri casi, la qualificazione è quella del dolo diretto e quando l'evento è perseguito come scopo finale, la qualificazione è quella del dolo intenzionale (Cass. pen., Sez. un., 12 ottobre 1993, Cassata, RV 195804). Pres. Morelli – Est. Sirena – Imp. Stellaccio - Pm D'Ambrosio (Diff.) (Annulla senza rinvio, App. Lecce, 12 dicembre 2002). CORTE DI CASSAZIONE Sez. II del 4 febbraio 2004, (ud. 02 dicembre 2003) sentenza n. 4296
4) Procedure e varie - Abuso di ufficio - Condotta addebitata all'agente - Condizioni. Affinché una condotta possa essere addebitata all'agente a titolo di abuso di ufficio, è necessario che l'evento sia la conseguenza immediatamente perseguita dal soggetto attivo. (Cass. pen., sez. 6^, 1^ giugno 2000, P.G. in proc. Spitella, RV 217558; conformi: Cass. pen., sez. 6^, 11 marzo 2003, P.G. in proc. Allegra, RV 224069; Cass. pen., sez. 6^, 18 dicembre 2002, Casuscelli Di Tocco, RV 222860; Cass. pen. , sez. 6^, 18 novembre 2002, P.G. in proc. Lenoci, RV 223410; Cass. pen., sez. 6^, 4 maggio 1998, P.G. in proc. Scaccianoce, RV 210897). Pres. Morelli – Est. Sirena – Imp. Stellaccio - Pm D'Ambrosio (Diff.) (Annulla senza rinvio, App. Lecce, 12 dicembre 2002). CORTE DI CASSAZIONE Sez. II del 4 febbraio 2004, (ud. 02 dicembre 2003) sentenza n. 4296
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