Per altre sentenze vedi: Sentenze per esteso
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CORTE DI CASSAZIONE Penale, sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402
RIFIUTI - Accumulo di rifiuti tossico-nocivo - Discarica non autorizzata -
Tutela ambientale - Innocuizzazione - Disciplina applicabile - D.lgs. n. 22/1997
- D.Lgs. n. 36/2003 - D.Lgs. n. 152/2006. I materiali di risulta provenienti
da attività metallurgiche, quali polveri di macinazione e schiumatura di
alluminio e polveri da abbattimento di fumi, non costituiscono una particolare
categoria di rifiuti, peculiarmente disciplinata ai fini di tutela ambientale,
sicché per essi valgono i principi della normativa generale sui rifiuti. Nella
specie, il sito di accumulo di rifiuti costituisce, "discarica non autorizzata "
anche alla stregua della definizione fornita dall'art. 2, lett. g), del D.Lgs.
n. 36/2003, non configurandosi, deposito temporaneo, né stoccaggio in attesa di
recupero o trattamento, né stoccaggio di rifiuti in attesa di smaltimento per un
periodo inferiore ad un anno. Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez.
III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402
RIFIUTI - Accumulo di rifiuti - Discarica non autorizzata - Presupposti.
Costituisce gestione di discarica non autorizzata l'accumulo di sostanze, (nella
specie, polveri di macinazione e schiumatura di alluminio e polveri da
abbattimento di fumi) quando non vi sia una loro selezione per omogeneità e
risulti macroscopica l'eccedenza dei quantitativi delle scorie accumulate
rispetto a quelli episodicamente rimossi, sicché può escludersi anche la mera
eventualità di un reimpiego totale dei materiali in un ciclo produttivo o di
consumo. Le deroghe introdotte dal 2° comma dell'art. 14 del D.L. n. 138/2002,
dunque, non sono comunque applicabili nella specie per la carenza dei
presupposti. Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, dep.
16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402
RIFIUTI - Gestione di discarica - Tutela da rischi per la salute e l'ambiente
- Gestione post-operativa - Fasi - Prescrizioni, manutenzione, sorveglianza e
controlli. Ai sensi dell'art. 2, lett. o), le fasi di gestione di una
discarica "vanno dalla realizzazione e gestione della discarica fino al termine
della gestione post - operativa compresa" e la gestione post - operativa è
attualmente disciplinata dall'art.13 del D.Lgs. n. 36/2003, il cui primo comma
impone, anche in tale fase: il rispetto sia delle prescrizioni stabilite
dall'autorizzazione e dai piani di gestione pure di ripristino ambientale sia
delle norme in materia di gestione dei rifiuti, di scarichi idrici e tutela
delle acque, di emissioni in atmosfera, di rumore, di igiene e salubrità degli
ambienti di lavoro, di sicurezza e prevenzione incendi; nonché la necessità di
assicurare la manutenzione ordinaria e straordinaria di tutte le opere
funzionali ed impiantistiche della discarica. Mentre, il secondo comma dello
stesso art. 13 stabilisce, inoltre, che "la manutenzione, la sorveglianza e i
controlli della discarica devono essere assicurati anche nella fase della
gestione successiva alla chiusura, fino a che l'ente territoriale competente
accerti che la discarica non comporta rischi per la salute e l'ambiente. In
particolare, devono essere garantiti i controlli e le analisi del biogas, del
percolato e delle acque di falda che possano essere interessate". La permanenza
del reato di discarica abusiva, però, si correla alla protrazione nel tempo
della condotta materiale accompagnata dalla cosciente volontà di mantenimento
della stessa. La legge punisce la mancanza di autorizzazione in un'ottica di
funzionamento, mentre, allorquando ha effettivo inizio la gestione post -
operativa, si pone in essere una condotta che pone fine alla situazione
antigiuridica e viene meno la stessa "ratio" della richiesta di
autorizzazione; il sito non è più destinato permanentemente a luogo di scarico e
deposito di rifiuti, sicché a perdurare nel tempo sono soltanto gli effetti del
precedente illecito accumulo. Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez.
III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402
RIFIUTI - Nozione di rifiuto - Gestione post-operativa di una discarica -
Permanenza del reato di discarica abusiva - Giurisprudenza. La nozione di
"gestione dei rifiuti" (introdotta appunto dall'art. 6, 1° comma - lett. d, del
D.Lgs. n. 22/1997) è un concetto nuovo e vastissimo - onnicomprensivo delle pur
sempre diverse ed autonome fasi della raccolta, trasporto, smaltimento e
recupero - rispetto al precedente impianto normativo espresso dal D.P.R. n.
915/1982, basato sulla più limitata nozione di "smaltimento". In tale
prospettiva l'art. 2, lett. o), del D.Lgs. n. 36/2003 ha inteso affermare senza
equivoci che va ricondotta, alla "gestione dei rifiuti" anche la gestione post -
operativa di una discarica, in un'ottica di garanzia dello smaltimento "sicuro".
Ciò non significa, però, che la discarica possa considerarsi tenuta in esercizio
anche allorquando non è più operativa, (contra: sentenza 27.1.2004, n. 2662,
ric. P.M, in proc. Zanoni, "la permanenza del reato di discarica abusiva verrà
meno solo dopo dieci anni dalla cessazione dei conferimenti ovvero con
l'ottenimento dell'autorizzazione o la rimozione dei rifiuti"). Rigon ed altri.
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Sentenza n. 48402
RIFIUTI - Nozione di rifiuto - Excursus normativo europeo - Trasporti
transfrontalieri di rifiuti. Le caratteristiche principali della nozione di
"rifiuto", in ambito europeo, sono individuate dall'art. 1 della direttiva del
Consiglio 15.7.1975, n. 75/442/CEE (sui rifiuti in generale), modificata dalla
direttiva 18.3.1991, n. 91/156/CEE e dall'art. 1 della direttiva del Consiglio
20.3.1979, n. 78/319/CEE (sui rifiuti tossici e pericolosi), modificata dalla
direttiva 12.12.1991, n. 91/689/CEE. Secondo tali direttive "per rifiuto si
intende qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia
l'obbligo di disfarsi secondo le disposizioni nazionali vigenti". La direttiva
n. 91/156/CEE ha ampliato e specificato tale nozione, riportandone le categorie
nell'Allegato I e rinviando alla Commissione il compito di preparare, entro il
1° aprile del 1993, un elenco (suscettibile di riesame periodico) dei rifiuti
rientranti nelle suddette categorie. La nozione medesima è stata altresì
recepita dall'art. 2, lett. a), del Regolamento del Consiglio CEE 1 febbraio
1993, n. 259/93, relativo ai trasporti transfrontalieri di rifiuti
(immediatamente e direttamente applicabile in Italia secondo Corte Cost. n.
170/1984). Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, dep.
16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402
RIFIUTI - Attività di gestione di rifiuti pericolosi - Concorso di reato -
Art. 51, 1° e 3° c., D.Lgs. n. 22/1997. L'art. 51, 1° comma, del D.Lgs. n.
22/1997 stabilisce un obbligo generale, penalmente sanzionato, di autorizzazione
per chi esercita un'attività di gestione di rifiuti (stoccaggio, raccolta e
trasporto, smaltimento, recupero, commercio ed intermediazione), con pene più
severe se si tratta di rifiuti pericolosi. Il reato anzidetto sicuramente può
concorrere con quello di discarica abusiva, autonomamente previsto dal 3° comma
dell'art. 51, riferito ad una condotta reiterata nel tempo con cui si
smaltiscono rifiuti in una determinata area, che assume una oggettiva e non
equivoca destinazione alla definitiva ed incontrollata ricezione di rifiuti con
immediato impatto ambientale. Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez.
III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402
RIFIUTI - DANNO AMBIENTALE - Obbligo di rimozione dei rifiuti - Inadempimento
- Effetti - Risarcimento - Recupero delle spese anticipate dal Comune - art. 14
e 17 D.Lgs. n. 22/1997. In relazione all'inadempimento dell'obbligo di
rimozione dei rifiuti e di ripristino dello stato dei luoghi, previsto dall'art.
14 del D.Lgs. n. 22/1997, nonché dell'obbligo di bonifica, secondo le scansioni
temporali stabilite dall'art. 17 dello stesso testo normativo e le prescrizioni
stabilite in concreto dall'autorità, competente, il Comune può agire, in via di
rivalsa, per il recupero delle spese anticipate. Nella specie è stato disposto
il risarcimento "delle spese sostenute per la messa in sicurezza del capannone e
per quelle di bonifica del sito", oltre che "per il danno ambientale e non
patrimoniale, ricomprensivo di quello all'immagine". Rigon ed altri. CORTE DI
CASSAZIONE Penale Sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402
DANNO AMBIENTALE - Fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose -
Risarcimento - Prova del nesso di causalità - Esclusione. Ai fini della
pronuncia di condanna generica al risarcimento dei danni in favore della parte
civile, non è necessario che il danneggiato dia la prova della effettiva
sussistenza dei danni e del nesso di causalità tra questi e l'azione dell'autore
dell'illecito, ma è sufficiente l'accertamento di un fatto potenzialmente
produttivo di conseguenze dannose: la suddetta pronuncia, infatti, costituisce
una mera declaratoria iuris, da cui esula ogni accertamento relativo sia
alla misura sia alla stessa esistenza del danno, il quale è rimesso al giudice
della liquidazione (vedi Cass. pen.: Sez I, 18.3.1992, n. 3220, Sez. IV,
15.6.1994, n. 7008; Sez. VI, 26.8.1994, n. 9266). Rigon ed altri. CORTE DI
CASSAZIONE Penale Sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402
DANNO AMBIENTALE - Enti territoriali - Risarcimento del danno ambientale.
Gli enti territoriali possono fare valere l'azione di risarcimento del danno
ambientale, sia il diritto dello Stato in nome proprio, (art. 18, 1° comma,
della legge 8.7.1986, n. 349 (istitutiva del Ministero dell'ambiente), sia gli
interessi collettivi di cui sono esponenziali quali enti rappresentativi delle
comunità insediate nei rispettivi territori, 3° comma L. 349/86 (vedi Cass.,
Sez. III, 19.6.2002, n. 22539, ric. Kiss Ghunter ed altri). In proposito, da
un'originaria impostazione, che vedeva nello Stato il monopolista dell'azione di
danno, si è passati ad ammettere, ormai pacificamente, l'azione autonoma e
concorrente degli enti territoriali, quali titolari anch'essi del diritto al
risarcimento, correlato alla ripartizione delle rispettive competenze
pubblicistiche (vedi Cass. civ., Sez. Unite: 12.2.1988, n. 1491 e 17.1.1991, n.
400), come riconosciuto pure dalla Corte Costituzionale con l'ordinanza n. 195
del 12.4.1990 (vedi anche, al riguardo, Cass. pen., sez. III: 23.6.1994, n.
7275, ric. Galletti ed altri; 19.1.1994, n. 439, ric. Mattiuzzi; 28.10.1993, n.
9727, ric. Benericetti, ove è stato affermato che "la Regione e, più in
generale, gli enti territoriali sono legittimati a costituirsi parte civile ai
sensi dell'art. 18 legge n. 349/1986, perché il danno ambientale derivante dal
reato incide sull'ambiente, come assetto qualificato del territorio, il quale è
elemento costitutivo di tali enti e perciò oggetto di un loro diritto di
personalità"). Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, dep.
16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402
DANNO AMBIENTALE - Contenuto del danno ambientale - Risarcimento -
Salvaguardia o pregiudizio ai valori ambientali. Il contenuto del danno
ambientale viene a coincidere con la nozione non di danno patito bensì di danno
provocato ed il danno ingiusto da risarcire si pone in modo indifferente
rispetto alla produzione di danni - conseguenze, essendo sufficiente per la sua
configurazione la lesione in sé di quell'interesse ampio e diffuso alla
salvaguardia ambientale, secondo contenuti e dimensioni fissati da norme e
provvedimenti. Il legislatore, in tema di pregiudizio ai valori ambientali, ha
inteso prevedere un ristoro quanto più anticipato possibile rispetto al
verificarsi delle conseguenze dannose, che presenterebbero situazioni di
irreversibilità. Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, dep.
16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402
DANNO AMBIENTALE - Risarcimento del danno - Tutela dell’ambiente - L. n.
349/1986. In materia di tutela ambientale, per integrare il fatto illecito,
che obbliga al risarcimento del danno, non è necessario che l'ambiente in tutto
o in parte venga alterato, deteriorato o distrutto, ma è sufficiente una
condotta sia pure soltanto colposa "in violazione di disposizioni di legge o di
provvedimenti adottati in base a legge", che l'art. 18 L. n. 349/86
specificamente riconosce idonea a compromettere l'ambiente quale fatto ingiusti
implicante una lesione presunta del valore giuridico tutelato. Ciò trova
conferma nella circostanza che, qualora non sia possibile una precisa
quantificazione di un danno siffatto, il giudice - per espressa previsione dello
stesso art. 18 della legge n. 349/1986 - procede in via equitativa, tenendo
presenti parametri che prescindono da termini di ristoro soggettivo quali "la
gravità della colpa individuale, il costo necessario per il ripristino, il
profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo
del bene ambientale". Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III,
dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402
DANNO AMBIENTALE - Criterio di valutazione - Esame del giudice - Fondamento -
Artt. 2, 3, 9, 32, 41 e 42 Cost. - L. n. 349/1986 - Art. 2043 cod. civ.. Per
la valutazione del danno ambientale, non può farsi ricorso ai parametri
utilizzati per i beni patrimoniali in senso stretto, ma deve tenersi conto della
natura di bene immateriale dell'ambiente, nonché della particolare rilevanza del
valore d'uso della collettività che usufruisce e gode di tale bene. Sicché, a
fronte di un lamentato danno ambientale, l'esame del giudice non deve limitarsi
a rilevare i tradizionali danni-conseguenza, assumendo autonoma rilevanza anche
il danno-evento, inteso quale lesione in sé del bene ambientale (Cass. civ.,
sez. I, 1.9.1995, n. 9211); in base ad un'interpretazione sistematica degli
artt. 2, 3, 9, 32, 41 e 42 Cost., che la risarcibilità del danno ambientale, pur
specificamente regolato dall'art. 18 della legge n. 349/1986, "trova la sua
fonte genetica direttamente nella Costituzione" e che pertanto, "anche prima
della legge n. 349/1986", proprio la Carta fondamentale e la norma generale
dell'art. 2043 cod. civ. già apprestavano all'ambiente una tutela organica (vedi
Cass. civ.: 19.6.1996, n. 5650, e 3.2.1998, n. 1087). Rigon ed altri. CORTE
DI CASSAZIONE Penale Sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n.
48402
DANNO AMBIENTALE - Risarcimento - Giurisprudenza. Non è condivisibile,
l'interpretazione riduttiva (seguita da Cass., Sez. III, 25.5.1992, n. 6297,
ric. Barigazzi e riaffermata, più di recente, da Cass., Sez. III, 14.1.2002, n.
1145, ric. Cucchiara ed altro) secondo la quale l'azione di risarcimento del
danno ambientale potrebbe essere promossa soltanto quando sussista un
pregiudizio concreto alla qualità della vita della collettività, sotto il
profilo dell'alterazione, del deterioramento o della distruzione, in tutto o in
parte, dell'ambiente, mentre non darebbero luogo a risarcimento, di regola,
violazioni meramente formali. Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez.
III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402
DANNO AMBIENTALE - Triplice configurabilità - Dimensione: personale, sociale
e pubblica. Il danno ambientale presenta una triplice dimensione: personale
(quale lesione del diritto fondamentale dell'ambiente di ogni uomo); sociale
(quale lesione del diritto fondamentale dell'ambiente nelle formazioni sociali
in cui si sviluppa la personalità umana - art. 2 Cost.); pubblica (quale lesione
del diritto - dovere pubblico delle istituzioni centrali e periferiche con
specifiche competenze ambientali). (Cass. Sez. III, 19.1.1994, sentenza n. 439,
ric. Mattiuzzi) Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, dep.
16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402
DANNO AMBIENTALE - Tutela dell'immagine e della personalità dell'ente -
Lesione non patrimoniale - Risarcimento. Per la ravvisabilità di una lesione
del diritto dell'immagine e della personalità dell'ente, (che, dalla commissione
dei reati, vede compromesso il prestigio derivante dall'affidamento di compiti
di controllo o gestione) dovuto al discredito derivante alla propria sfera
funzionale (riconosciuto anche alle associazioni ambientaliste da Cass. sez. III:
6.4.1996, n. 3503 e 26.9.1996, n. 8699), è necessario che la produzione dei
danni sia conseguenza del danno ambientale, al quale sia collegata, come aspetto
non patrimoniale, la menomazione del rilievo istituzionale dell'ente medesimo
(Cass., Sez. III: n. 6297/1992 e n. 1145/2002). Rigon ed altri. CORTE DI
CASSAZIONE Penale Sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402
PROCEDURE E VARIE - DANNO AMBIENTALE - Condanna generica al risarcimento del
danno ed alla provvisionale - Facoltà del giudice penale - Art. 651 c.p.p. -
Art. 539 c.p.p.. La facoltà del giudice penale di pronunciare una condanna
generica al risarcimento del danno ed alla provvisionale, prevista dall'art. 539
c.p.p., non incontra restrizioni di sorta in ipotesi di incompiutezza della
prova sul quantum, bensì trova implicita conferma nei limiti dell'efficacia
della sentenza penale di condanna nel giudizio civile per la restituzione e il
risarcimento del danno fissati dall'art. 651 c.p.p. quanto all'accertamento
della sussistenza del fatto, della sua illiceità ed all'affermazione che
l'imputato l'ha commesso, escludendosi, perciò, l'estensione del giudicato
penale alle conseguenze economiche del fatto illecito commesso dall'imputato
(Cass. pen., Sez. IV, 26.1.1999, n. 1045). Rigon ed altri. CORTE DI
CASSAZIONE Penale Sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402
PROCEDURE E VARIE - Risarcimento dei danni - Presupposti. La condanna
generica al risarcimento dei danni, contenuta nella sentenza penale, pur
presupponendo che il giudice riconosca che la parte civile vi ha diritto, non
esige alcun accertamento in ordine alla concreta esistenza di un danno
risarcibile, ma postula soltanto l'accertamento della potenziale capacità lesiva
del fatto dannoso e della probabile esistenza di un nesso di causalità tra
questo ed il pregiudizio lamentato, salva restando nel giudizio di liquidazione
del quantum la possibilità di esclusione dell'esistenza stessa di un danno unito
da rapporto eziologico con il fatto illecito (Cass. civ., Sez. III, 11.1.2001,
n. 329). Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, dep. 16/12/2004
(ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402
PROCEDURE E VARIE - Colpevolezza - Cause di giustificazione e cause di
esclusione - Principio della non esigibilità di una condotta diversa -
Condizioni e limiti di applicazione. Il principio della non esigibilità di
una condotta diversa - sia che lo si voglia ricollegare alla ratio della
colpevolezza, riferendolo ai casi in cui l'agente operi in condizioni soggettive
tali da non potersi da lui umanamente pretendere un comportamento diverso, sia
che lo si voglia ricollegare alla ratio dell'antigiuridicità, riferendolo
a situazioni in cui non sembri coerente ravvisare un dovere giuridico
dell'agente di uniformare la condotta al precetto penale - non può trovare
collocazione e spazio al di fuori delle cause di giustificazione e delle cause
di esclusione della colpevolezza espressamente codificate, in quanto le
condizioni e i limiti di applicazione delle norme penali sono posti dalle nome
stesse, senza che sia consentito al giudice di ricercare cause ultralegali di
esclusione della punibilità attraverso l'analogia iuris (Cass., Sez. VI,
31.5.1993, n. 973, ric. P.M, in proc. Bove. Vedi pure, in proposito, Cass., Sez.
III, 27.9.1985, n. 8271, ric. Viti). Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE
Penale Sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402
PROCEDURE E VARIE - Notifica dell'avviso all'indagato - Scadenza del termine
- Effetti - Principio di tassatività - Artt. 177, 405 e 415 bis c.p.p.. La
notifica dell'avviso all'indagato previsto dall'art. 415 bis c.p.p. dopo la
scadenza del termine fissato dal 2° comma dell'art. 405 c.p.p. non costituisce
ragione di nullità, per il principio di tassatività di cui all'art. 177 c.p.p..
Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, dep. 16/12/2004 (ud.
11/11/2004), Sentenza n. 48402
PROCEDURE E VARIE - Reato permanente - Nozione unitaria - bifasica -
pluralista - Interpretazione dalla Corte Costituzionale. La c.d. concezione
"bifasica" del reato permanente (che imposta la condotta di tale reato su due
tempi: il primo di aggressione dell'interesse tutelato, ed il secondo di
rimozione di tale illiceità), al pari di quella "pluralista", è stata da tempo
abbandonata in dottrina ed in giurisprudenza, essendo stata privilegiata,
invece, la nozione unitaria (vedi Cass., sez. Unite: 13.7.1998, Montanari;
28.4.1999, P.M. in proc. Palma ed altro; 14.7.1999, P.M. in proc. Lauriola ed
altri; 27.2.2002, Cavallaro), confortata pure dall'interpretazione dalla Corte
Costituzionale (sentenza n. 520 del 26.11.1987). Pertanto, il reato permanente
trova caratterizzazione nel tipo di condotta e nella correlazione di questa con
l'offesa all'interesse protetto, sulla base della descrizione contenuta nella
norma incriminatrice. Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III,
dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402
PROCEDURE E VARIE - Continuazione del reato - Attuazione di un unitario
disegno criminoso - Reati permanenti - Decorrenza del termine prescrizionale
(art. 158 c.p.) - Art. 81 cod. pen. (Concorso formale. Reato continuato). Si
configura, la continuazione del reato, ex art. 81 cpv. cod. pen., quando in
attuazione di un unitario disegno criminoso, questo, solo apparentemente si
fraziona in singoli episodi, che invece, costituiscono tappe intermedie di un
unico iter, il cui integrale compimento si ha soltanto con la consumazione
dell'ultimo episodio, sicché è da quest'ultimo momento che, ai sensi dell'art.
158 cod. pen., comincia a decorrere il termine prescrizionale (vedi Cass.: Sez.
III, 27.4.1990, n. 6155). Se, inoltre, tra i vari reati da considerarsi in modo
unitario, figurano reati permanenti, il termine prescrizionale inizia a
decorrere dal momento in cui la permanenza viene a cessare (vedi Cass., Sez. III,
4.2.1999, n. 1454). Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, dep.
16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402
PROCEDURE E VARIE - Impugnazione pubblico ministero, imputato o parti civili
- Pagamento delle spese - Principio di solidarietà tra condebitori - Disciplina
- Art. 1294 cod. civ.. Qualora all'impugnazione del pubblico ministero si
affianchi l'impugnazione dell'imputato o quella delle parti civili ai soli
effetti civili, ed i gravami proposti dalle parti private vengano rigettati, si
accollano pur sempre a tali parti spese provocate (anche) dalla propria
impugnazione e trattandosi di obbligazione con unicità di causa, di oggetto e di
titolo, per essa opera il principio di solidarietà tra condebitori stabilito
dall'art. 1294 cod. civ. Proprio in considerazione della natura officiosa del
procedimento, poi, non è possibile distinguere tra spese ricollegate
all'impugnazione della parte pubblica o di quella privata, non esistendo, nel
processo penale, alcun criterio idoneo a disciplinare una ripartizione delle
spese tra le parti. (contra, Cass. Sez. IV - n. 14406 del 16.4.2002, ric. P.M.
in proc. La Torre ed altri). Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez.
III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402
CORTE DI CASSAZIONE Penale, sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri
Magistrati:
Dott. Paolino Dell'Anno Presidente
Dott. Amedeo Postiglione Consigliere
Dott. Mario Gentile "
Dott. Vittorio Vangelista "
Dott. Aldo Fiale (relatore) "
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
1) PROCURATORE GENERALE della REPUBBLICA presso la CORTE di APPELLO di VENEZIA
2) B. O., n. a San Giorgio in Bosco
xxx
3) N. F., n. a Cittadella il xxx
4) R. M., n. a Campo San Martino il xxx
5) responsabile civile s.r.l. "B. A."
6) parte civile MINISTERO dell'AMBIENTE e della TUTELA del TERRITORIO
7) parte
civile COMUNE di SAN GIORGIO IN BOSCO
avverso la sentenza 14.11.2003 della Corte di Appello di Venezia.
Visti gli atti, la sentenza impugnata ed i ricorsi.
Udita, in pubblica udienza, la
relazione fatta dal Consigliere dr.Aldo Fiale.
Udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del dr. Gioacchino Izzo,
che ha concluso per la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi proposti dal
P.G., dal responsabile civile e dalle parti civili e per il rigetto dei ricorsi
degli imputati.
Uditi i difensori: Avv.to dello Stato Antonio Volpe ed Avv.ti Luigi Verzotto,
Remo De Nard, Alfonso Gentile e Giuseppe Campanelli,quest'ultimo quale sostituto
processuale dell'Avv.to Roberto De Nicolao.
Fatto
Con sentenza del 14.11.2003 la Corte di Appello di Venezia, in parziale riforma
della sentenza 14.5.2003 del Tribunale di Padova - Sezione distaccata di
Cittadella:
- dichiarava non doversi procedere, per intervenuta prescrizione, nei confronti
di B. O. e R. M., in ordine ai reati di cui:
a) agli artt. 81 cpv., 110 cod. pen. e 51, 1° comma - lett. b), D.Lgs. 5.2.1997,
n. 22, come successivamente integrato e modificato [perché, in concorso tra
loro, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, nelle rispettive
qualità di legali rappresentanti e comunque soci di fatto delle società s.r.l.
"F." ed s.r.l. "B. A.", quali committenti, commissionari e trasportatori,
effettuavano un'illecita gestione di rifiuti pericolosi prodotti da terzi,
costituiti da polveri di macinazione di alluminio e polveri da abbattimento di
fumi, raccogliendoli in assenza delle prescritte autorizzazioni amministrative -
in San Giorgio in Bosco, dal 5.10.1995 al 2.12.1997];
b) agli artt. 81 pv., 110 cod. pen. e 51, 3° comma, D.Lgs. 5.2.1997, n. 22, come
successivamente integrato e modificato [perché, in concorso tra loro, con più
azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, nelle rispettive qualità di
legali rappresentanti e comunque soci di fatto delle società s.r.l. "F." ed
s.r.l. "B. A.", mediante le operazioni di raccolta di cui al precedente capo di
imputazione e successivamente abbandonando il sito dove avevano accumulato i
rifiuti limitandosi a movimentarli all'interno del perimetro aziendale,
realizzavano e gestivano una discarica non autorizzata, costituita da circa
5.000 tonnellate di materiali di risulta da attività metallurgiche, quali
polveri di macinazione e schiumatura di alluminio, e polveri da abbattimento di
fumi, classificabili tra i rifiuti tossico/nocivi, raccogliendoli in assenza di
autorizzazione - in San Giorgio in Bosco, dal 5.10.1995 e con permanenza in
atto];
c) agli artt. 110 cod. pen., 14, 3° comma - seconda parte, e 50, 2° comma,
D.Lgs. 5.2.1997, n. 22, [perché, in concorso tra loro, non ottemperavano agli
ordini di ripristino ambientale contenuti nell'ordinanza del Sindaco di S.
Giorgio in Bosco n. 41/1998 del 3.11.1998 - in San Giorgio in Bosco, dal
23.12.1998 e con Permanenza in atto];
- confermava le condanne del B. e del R., nonché dei responsabili civili s.r.l.
"F.." ed s.r.l. "B. A.", al risarcimento dei danni in favore delle parti civili
Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio, Regione Veneto e Comune
di San Giorgio in Bosco, da liquidarsi con separato giudizio, ed il pagamento di
una provvisionale di euro 350.000 per ciascuna di esse;
- confermava il proscioglimento di N. F. dalle medesime contravvenzioni di cui
ai capi a) e b), per intervenuta prescrizione, e l'assoluzione dello stesso
dalla contravvenzione di cui al capo c), per non avere commesso il fatto.
Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per Cassazione il Procuratore
Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Venezia, i tre imputati,
la s.r.l. "B. A.", in persona dell'amministratore unico pro tempore, quale
responsabile civile, e le parti civili Ministero dell'ambiente e della tutela
del territorio e Comune di San Giorgio in Bosco.
Il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Venezia,
riferendo il ricorso ai soli B. e N., ha eccepito violazione di legge in ordine
all'applicazione della prescrizione, prospettando illogicità della motivazione
circa la ritenuta perdita del possesso, da parte degli anzidetti imputati
dell'area relativa alla discarica abusiva, che incongruamente sarebbe stata
fatta coincidere con il 13 gennaio 1999 (data dell'avvenuta consegna al Comune
di San Giorgio in Bosco delle chiavi del capannone in cui erano ammassati i
rifiuti, per l'esercizio dei poteri sostitutivi in relazione agli interventi di
messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale).
La consegna delle chiavi, infatti, non potrebbe considerarsi atto idoneo a
trasferire il possesso e, comunque, non esonerebbe il privato dall'obbligo di
provvedere direttamente agli interventi di bonifica.
M. R. ha eccepito:
- violazione del divieto del "bis in idem" posto dall'art. 649 c.p.p., con
riferimento ai reati contestati ai capi a) e b), in quanto il Tribunale di
Padova - Sezione distaccata di Cittadella, Con sentenza n. 5/1999, aveva già
dichiarato tali reati estinti per prescrizione, considerando l'azione esaurita
entro il 18.10.1995;
- erronea applicazione dell'art. 158 cod. pen., e contraddittorietà della
motivazione sul punto, poiché il termine per il computo della prescrizione si
sarebbe dovuto fare decorrere dal sequestro disposto dalla Procura della
Repubblica di Padova in data 5.10.1995 o, al massimo, dalla cessazione
definitiva dell'attività, comunque avvenuta il 17.11.1997;
- violazione dell'art. 14 del D.L. n. 138/2002, che ha introdotto
l'interpretazione autentica della definizione normativa di "rifiuto", escludendo
da tale nozione le sostanze o materiali residuali di produzione o di consumo
[come quelli oggetto del presente procedimento], "qualora siano effettivamente
ed oggettivamente riutilizzati, senza alcun trattamento preventivo ed anche dopo
il trattamento preventivo, purché non vi sia pregiudizio all'ambiente";
- vizio di motivazione, riferito all'imputazione di cui al capo c), quanto alla
mancata applicazione, nel caso di specie, del principio "ad impossibilia nemo
tenetur";
- vizio di motivazione per quanto riguarda la condanna al risarcimento del
presunto danno patito dalle parti civili: danno che non potrebbe configurarsi,
poiché non sarebbe stata realizzata né gestita alcuna discarica e non si
sarebbero mai verificati i pretesi incendi all'interno del capannone contenente
i rifiuti;
- vizio di motivazione nelle parti in cui, pure a fronte di specifiche
contestazioni svolte con l'atto di appello, la Corte di merito si era riferita
esclusivamente "per relationem", alle argomentazioni svolte dal primo giudice,
senza esaminare le censure di esso appellante.
F. N. ha eccepito:
- di non avere mai fatto parte della struttura societaria della s.r.l. "B. A." e
di non avere mai assunto la qualifica di legale rappresentante della s.r.l."F.".
Egli, in data 5.12.1994, acquistò alcune quote di tale ultima società e fu
contestualmente nominato membro del consiglio di amministrazione, mentre
presidente e consigliere delegato era il R.. Questi divenne amministratore unico
il 27.10.1995, in seguito alle dimissioni degli altri membri del consiglio di
amministrazione (B. e N.). Esso N., infine, in data 30.8.1996, cedette le sue
quote a R. e B. e uscì dalla società;
- di non avere messo a disposizione della s.r.l. "F." gli strumenti per la
movimentazione dei big bags, contenenti polveri di lavorazione, ammassati nel
capannone di detta società.
Egli era soltanto dipendente, e non socio, della s.n.c. "F.lli N." e, a
decorrere dal 17.10.1995, la s.r.l. "F." non aveva più avuto alcun rapporto con
detta società. La Corte territoriale aveva acquisito, ai sensi dell'art. 603
c.p.p., la documentazione da lui prodotta in tal senso, ma aveva poi fondato la
propria decisione esclusivamente sull'attività istruttoria svolta dal giudice di
primo grado, omettendo ogni doveroso riferimento alle nuove prove ed alle
specifiche doglianze di estraneità formulate con i motivi di appello.
O. B. ha eccepito:
- la nullità dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari, emesso dopo
la scadenza del termine di sei mesi prescritto dall'art. 415 bis c.p.p. ed in
assenza di qualsiasi provvedimento di proroga.
L'avviso notificato ad esso B.,
inoltre, non conteneva, nell'enunciazione dei fatti, la contestazione del
vincolo della continuazione e della permanenza in atto (specificazioni poi
riportate, invece, per tutti gli imputati, nel decreto di citazione a giudizio);
- la nullità del decreto di citazione a giudizio, ex art. 552, 2° comma, c.p.p.,
per indeterminatezza delle imputazioni;
- la inammissibilità della costituzione di parte civile del Comune di San
Giorgio in Bosco, in quanto l'atto di costituzione era stato notificato ad esso
imputato senza essere stato previamente depositato in Cancelleria, in violazione
dell'art. 78, 2° comma, c.p.p. Le copie notificate, altresì, non erano copie
autentiche dell'originale ed in esse mancava la sottoscrizione di pugno del
difensore prescritta dall'art. 125 c.p.c.;
- la incongrua configurazione quale "discarica", anche alla stregua della
definizione normativa fornita dall'art. 2, comma 1 - lett. g), del D.Lgs. n.
36/2003, del capannone della s.r.l. "F.", nel quale non vi era stato "un
accumulo ripetuto di sostanze oggettivamente destinate all'abbandono, con
tendenziale carattere di definitività". Tutte le tipologie di materiali presenti
in quel capannone sono state riutilizzate - nel contesto delle operazioni di
bonifica del sito svolte dal Comune - "esattamente come avrebbe continuato a
fare la F., se non le fosse stato inibito di proseguire nella sua attività";
- l'erroneo computo della prescrizione, tenuto conto che la contravvenzione di
cui al capo a) è stata temporalmente limitata, nella stessa contestazione, al
2.12.1997 e che ogni attività della s.r.l. "F." risulta cessata alla data del
28.11.1997, in seguito al divieto di prosecuzione impartito dalla Provincia.
Rileva, in proposito, il ricorrente che la prescrizione - peri i reati di cui ai
capi a) e b) - sarebbe maturata in epoca anteriore alla sentenza di primo grado
(poiché il decreto di citazione a giudizio porta la data del 13.9.2001), sicché
non sussisterebbero i presupposti di operatività dell'art. 578 c.p.p. ed il
Tribunale avrebbe dovuto conseguentemente astenersi da qualsivoglia pronuncia in
ordine alle pretese civilistiche;
- l'illegittimità dell'ordinanza n. 41 del 3.11.1998, che, in quanto emessa dal
Comune di San Giorgio in Bosco in violazione degli artt. 14 e 17 del D.Lgs. n.
22/1997, avrebbe dovuto essere disapplicata dal giudice penale;
- la carenza e manifesta illogicità della motivazione sulle censure svolte in
riferimento al capo c) dell'imputazione (esso imputato non poteva ritenersi
destinatario dell'ordinanza comunale che imponeva la presentazione di un piano
di smaltimento - si configurava, in ogni caso, una situazione di inesigibilità,
poiché era impossibile rispettare il prescritto esiguo termine di trenta
giorni);
- la manifesta illogicità della motivazione sulla questione della "pericolosità"
dei rifiuti. Il relativo accertamento, infatti, difformemente da quanto ritenuto
dalla Corte territoriale, non può considerarsi irrilevante (poiché destinato ad
incidere soltanto sulla quantificazione della pena, a fronte di reati
prescritti), ma si pone come direttamente influente sulle statuizioni civili
riferite al risarcimento dei danni ed alla determinazione delle provvisionali;
- l'immotivata violazione del principio del "ne bis in idem" sostanziale, in
quanto il reato contestato al capo a) deve considerarsi assorbito in quello
contestato al capo b), in virtù del rapporto di consunzione intercorrente tra le
due norme che si assumono violate;
- la mancanza di motivazione in ordine al preteso apporto concorsuale a lui
riferibile, con particolare riguardo alla sua partecipazione alla gestione di
fatto della società "F.";
- l'erronea applicazione dell'art. 57 del D.Lgs. n. 22/1997, in quanto non
potrebbe estendersi ai rifiuti "pericolosi" il riferimento ai rifiuti "tossici e
nocivi" contenuto nell'imputazione di cui al capo b);
- la omessa valutazione del concorso di colpa del Comune di San Giorgio in
Bosco, con riferimento all'art. 1227 cod. civ., a cagione della tardività
dell'esecuzione in danno del disposto intervento di bonifica.
Le medesime doglianze sono state ribadite dallo stesso B., quale amministratore
unico e legale rappresentante della responsabile civile s.r.l. "D. A.", che, in
tale qualità, ha lamentato pure:
- la mancanza od illogicità della motivazione in ordino al coinvolgimento della
società a titolo di responsabilità extracontrattuale, avendo la stessa società
eccepito il difetto di legittimazione passiva;
- l'erronea affermazione della responsabilità civile societaria a favore della
Regione Veneto e del Comune di San Giorgio in Bosco, che non avevano chiesto la
citazione del responsabile civile.
L'Avvocatura distrettuale dello Stato di Venezia, quale difensore ex lege della
parte civile Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio, ha
lamentato:
- l'ingiusta condanna del Ministero alle spese del grado di appello, a causa del
rigetto del gravame proposto dalla stessa parte civile. Tale condanna non
avrebbe potuto essere disposta, in quanto aveva proposto appello anche il
Procuratore della Repubblica, "non potendosi far gravare sulla parte civile
anche gli oneri derivanti dall'attività del rappresentante della pubblica accusa
e non essendo possibile discernere tra le spese derivate dall'impugnazione
dell'una o dell'altra parte";
- violazione di legge nonché mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione
quanto alla erronea declaratoria di prescrizione dei reati, dovendo ritenersi
incongrue le argomentazioni svolte dalla Corte territoriale in ordine alla
pretesa perdita di possesso della discarica abusiva, da parte degli imputati, in
conseguenza della consegna delle chiavi al Comune di San Giorgio in Bosco, per
l'esercizio dei poteri sostitutivi in relazione agli interventi di messa in
sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale;
- l'omessa condanna degli imputati al ripristino dello stato dei luoghi, a loro
spese, ai sensi, tra l'altro, dell'art. 18 della legge n. 349/1986 e successive
modifiche;
- l'erronea attribuzione, al Comune di San Giorgio in Bosco, di una quota del
risarcimento del danno ambientale, che, come specificamente previsto dal 1°
comma dell'art. 18 della legge n. 349/1986, può essere liquidato soltanto in
favore dello Stato.
La parte civile Comune di San Giorgio in Bosco ha prospettato, infine, a sua
volta, l'erronea declaratoria di prescrizione dei reati ascritti a tutti i tre
imputati.
La stessa parte civile ha depositato memoria (del 2.11.2004) rivolta ad
illustrare ulteriormente la natura del reato di realizzazione e gestione di
discarica abusiva.
Diritto
1. La ricostruzione fattuale della vicenda.
La vicenda, in punto di fatto, può compendiarsi come segue:
La s.r.l. "F." venne costituita nel marzo del 1992 ed aveva come oggetto sociale
lo stoccaggio di rifiuti per smaltimento e riutilizzo. Il 5.12.1994 le quote
sociali furono acquistate da N., B. e R. e quest'ultimo venne nominato
presidente del consiglio di amministrazione, divenendo poi amministratore unico
dal 27.10.1995.
Nel giugno del 1995 la "F." (attraverso l'intervento dello stesso N., titolare
di agenzia immobiliare e che prestava la propria attività lavorativa anche in
un'impresa operante nel settore degli scavi e dell'edilizia) prese in affitto
circa la metà di un capannone, con attigua area scoperta, sito nel Comune di San
Giorgio in Bosco, e comunicò quindi, alla Provincia di Padova ed all'Albo delle
imprese esercenti servizi di smaltimento rifiuti di Venezia l'intenzione di
effettuarvi un'attività di stoccaggio provvisorio di terre di fonderia
finalizzato al riutilizzo per la realizzazione di sottofondi e rilevati stradali
e ripristini ambientali. In epoca appena successiva giunsero nel capannone
stesso circa 4.000 tonnellate di materiali, stipati in big bags privi di
qualsiasi indicazione individualizzante, che furono ammassati, quasi fino al
tetto, lungo le pareti del capannone.
Il 5.10.1995 i materiali depositati nel capannone furono sottoposti a sequestro
dalla Guardia di Finanza, ex art. 254 c.p.p., e le analisi effettuate sugli
stessi ne evidenziarono la natura di polveri provenienti da lavorazioni della
metallurgia dell'alluminio e da abbattimento di fumi, nonché il carattere
tossico - nocivo.
Il N., in data 30.8.1996, cedette le sue quote e uscì dalla società.
La s.r.l. "F." riprese la sua attività nel 1997 e continuò ad introitare altre
migliaia di tonnellate di big bags, quasi sempre portati sul posto da mezzi
della s.r.l. "B. A.", legalmente rappresentata da B. O., socio pure della "F.".
In data 18.11.1997, il Procuratore della Repubblica di Padova dispose il
dissequestro dei rifiuti già assoggettati a misura cautelare, previa
innocuizzazione ed individuazione delle ditte in grado di effettuare il
trasporto, e lo smaltimento definitivo in luoghi idonei.
Il 17.11.1997 si erano verificati, però, degli episodi incendiari, a seguito dei
quali venne interrotta l'attività di trasporto dei rifiuti all'interno del
capannone (l'ultima registrazione di scarico risale al 3.12.1997).
Nel marzo del 1998 venne intimato lo sfratto per morosità della "F." dal
capannone, ma l'immobile continuò comunque a rimanere nella disponibilità del R.
e del B..
In data 3.11.1998 il Sindaco del Comune di San Giorgio in Bosco emanò - nei
confronti della s.r.l. "F.", della s.r.l. "B. A." e delle ditte che avevano
conferito i rifiuti - un'ordinanza con la quale imponeva la presentazione, entro
30 giorni, di un piano di bonifica del sito - discarica. Le società "F." e "B.
A." non ottemperarono a tale provvedimento, sicché il Comune, il 13.1.1999, si
fece consegnare dal R. le chiavi del capannone in cui erano ammassati i rifiuti
ed iniziò, esercitando i poteri sostitutivi, le operazioni di bonifica, non
ancora ultimate nel maggio del 2003.
2. I ricorsi inammissibili
Va rilevata, anzitutto, la inammissibilità dei ricorsi per cassazione
rispettivamente proposti dal responsabile civile s.r.l. "B. A.", dal Procuratore
generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Venezia e delle parti
civili Ministero dell'ambiente e Comune di San Giorgio in Bosco.
Il ricorso del responsabile civile s.r.l. "B. A." presentato il 16.2.2004, deve
considerarsi tardivo poiché alla suddetta data era già inutilmente decorso il
termine per proporre impugnazione di giorni 45, decorrente dal 29.12.2003
(sentenza pronunciata il 14.11.2003, con la previsione di 45 giorni per il
deposito, ed effettivamente depositata il 23.12.2003).
Detta società, invero, era presente nel giudizio di appello, sicché per essa è
irrilevante la data di notifica della sentenza impugnata.
Quanto al ricorso del Procuratore Generale - che non è riferito al R. - esso,
nella parte riguardante il N., è assolutamente carente di motivi.
Manifestamente infondate, infine, sono le ulteriori doglianze svolte nel
medesimo ricorso del P.G. e nei ricorsi delle parti civili Ministero
dell'ambiente e Comune di San Giorgio in Bosco.
3. La prescrizione dei reati
3.1 Le Sezioni Unite penali di questa Corte Suprema - con la sentenza n. 13 del
5.10.1994, ric. Maccarelli, riferita alle analoghe previsioni degli artt. 16, 2°
comma, e 25, 2° comma, del D.P.R. n. 915/1982 - hanno evidenziato che il
legislatore, quanto alla discarica abusiva, ha previsto due distinte ipotesi di
reato: quella di realizzazione e quella di gestione della discarica:
a) La realizzazione consiste nella destinazione e allestimento a discarica di
una data area, con la effettuazione, di norma, delle opere a tal fine
occorrenti.
Tale ipotesi è permanente fino all'ultimazione dell'opera; dopodiché diventa ad
effetti permanenti.
b) La gestione di discarica senza autorizzazione presuppone che un sito sia
stato già apprestato per raccogliervi i rifiuti e consiste nell'attivazione di
una organizzazione anche rudimentale, di persone, cose e/o macchine diretta al
funzionamento della discarica stessa.
Il reato è permanente per tutto il tempo in cui l'organizzazione è presente ed
attiva.
Nella fattispecie in esame la Corte di merito correttamente ha considerato che
la discarica deve ritenersi "disattivata" a decorrere dal 13 gennaio 1999 (data
dell'avvenuta consegna al Comune di San Giorgio in Bosco delle chiavi del
capannone in cui erano ammassati i rifiuti, per l'esercizio dei poteri
sostitutivi in relazione agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di
ripristino ambientale).
Il fatto che da qualche tempo non venissero scaricati rifiuti in quel sito, a
causa di circostanze contingenti non fa cessare la permanenza né riconduce la
vicenda ad un mero mantenimento dei rifiuti fattivi scaricare da altri. La
s.r.l. "F.", infatti - alla quale non era estranea un'attività, sia pure
residuale, di commercio di rifiuti - anche dopo essere stata convenuta in
giudizio con atto di intimazione di sfratto per morosità, non rilasciava il
capannone, né revocava le richieste di autorizzazioni ambientali in precedenza
inoltrate: razionalmente, dunque, è stata evidenziata l'esistenza di una
"organizzazione presente ed attiva" (alla stregua delle argomentazioni svolte
dalle Sezioni Unite) fino alla consegna al Comune delle chiavi del capannone.
La permanenza del reato di discarica, però, non può considerarsi protratta oltre
tale data, in quanto, al di là di ogni questione riferita alla perdita di
possesso del sito, certamente non può più ravvisarsi alcuna possibilità di
"funzionamento" successiva ad una chiusura "definitiva".
È vero che l'art. 6, lett. d), del D.Lgs. n. 22/1997 riconduce al concetto di
"gestione dei rifiuti" anche "... il controllo delle discariche e degli impianti
di smaltimento dopo la chiusura". Dalla lettura degli Allegati B) e C) si
evince, però, che le ulteriori attività di controllo dopo la chiusura degli
impianti non sono comprese nelle autonome nozioni di smaltimento o recupero, e
l'anzidetto controllo successivo non può riferirsi comunque a colui che tenga un
comportamento inerte dopo l'inizio dell'intervento esecutivo "in danno" ad opera
del Comune.
3.2 Le argomentazioni anzidette conservano l'abilità pure nel vigore della
disciplina posta dal D.Lgs. 13.1.2003, n. 36 (Attuazione della direttiva
1999/31/CE relativa alle discariche di rifiuti), che non contiene disposizioni
più favorevoli per gli imputati.
Il sito di accumulo di rifiuti valutato nel presente giudizio va considerato,
infatti, "discarica" anche alla stregua della definizione fornita dall'art. 2,
lett. g), del D.Lgs. n. 36/2003, non configurandosi, nella specie, deposito
temporaneo, né stoccaggio in attesa di recupero o trattamento, né stoccaggio di
rifiuti in attesa di smaltimento per un periodo inferiore ad un anno.
Ai sensi dell'art. 2, lett. o), le fasi di gestione di una discarica "vanno
dalla realizzazione e gestione della discarica fino al termine della gestione
post - operativa compresa" e la gestione post - operativa è attualmente
disciplinata dall'art.13 del D.Lgs. n. 36/2003, il cui primo comma impone, anche
in tale fase: il rispetto sia delle prescrizioni stabilite dall'autorizzazione e
dai piani di gestione pure di ripristino ambientale sia delle norme in materia
di gestione dei rifiuti, di scarichi idrici e tutela delle acque, di emissioni
in atmosfera, di rumore, di igiene e salubrità degli ambienti di lavoro, di
sicurezza e prevenzione incendi; nonché la necessità di assicurare la
manutenzione ordinaria e straordinaria di tutte le opere funzionali ed
impiantistiche della discarica.
Il secondo comma dello stesso art. 13 stabilisce, inoltre, che "la manutenzione,
la sorveglianza e i controlli della discarica devono essere assicurati anche
nella fase della gestione successiva alla chiusura, fino a che l'ente
territoriale competente accerti che la discarica non comporta rischi per la
salute e l'ambiente. In particolare, devono essere garantiti i controlli e le
analisi del biogas, del percolato e delle acque di falda che possano essere
interessate".
La permanenza del reato di discarica abusiva, però, si correla alla protrazione
nel tempo della condotta materiale accompagnata dalla cosciente volontà di
mantenimento della stessa. La legge punisce la mancanza di autorizzazione in
un'ottica di funzionamento, mentre, allorquando ha effettivo inizio la gestione
post - operativa, si pone in essere una condotta che pone fine alla situazione
antigiuridica e viene meno la stessa "ratio" della richiesta di autorizzazione;
il sito non è più destinato permanentemente a luogo di scarico e deposito di
rifiuti, sicché a perdurare nel tempo sono soltanto gli effetti del precedente
illecito accumulo.
La c.d. concezione "bifasica" del reato permanente (che imposta la condotta di
tale reato su due tempi: il primo di aggressione dell'interesse tutelato, ed il
secondo di rimozione di tale illiceità), al pari di quella "pluralista", è stata
da tempo abbandonata in dottrina ed in giurisprudenza, essendo stata
privilegiata, invece, la nozione unitaria (vedi Cass., sez. Unite: 13.7.1998,
Montanari; 28.4.1999, P.M. in proc. Palma ed altro; 14.7.1999, P.M. in proc.
Lauriola ed altri; 27.2.2002, Cavallaro), confortata pure dall'interpretazione
dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 520 del 26.11.1987).
Il reato permanente trova caratterizzazione nel tipo di condotta e nella
correlazione di questa con l'offesa all'interesse protetto, sulla base della
descrizione contenuta nella norma incriminatrice.
Il fatto che la legge (all'art. 6, 1° comma - lett. d, del D.Lgs. n. 22/1997)
riconduce al concetto di "gestione dei rifiuti" anche "... il controllo delle
discariche e degli impianti di smaltimento dopo la chiusura" non significa che,
dopo la chiusura della discarica possa parlarsi ancora di funzionamento della
stessa.
La nozione di "gestione dei rifiuti" (introdotta appunto dall'art. 6, 1° comma -
lett. d, del D.Lgs. n. 22/1997) è un concetto nuovo e vastissimo -
onnicomprensivo delle pur sempre diverse ed autonome fasi della raccolta,
trasporto, smaltimento e recupero - rispetto al precedente impianto normativo
espresso dal D.P.R. n. 915/1982, basato sulla più limitata nozione di
"smaltimento".
In tale prospettiva l'art. 2, lett. o), del D.Lgs. n. 36/2003 ha inteso
affermare senza equivoci che va ricondotta, alla "gestione dei rifiuti" anche la
gestione post - operativa di una discarica, in un'ottica di garanzia dello
smaltimento "sicuro". Ciò non significa, però, che la discarica possa
considerarsi tenuta in esercizio anche allorquando non è più operativa, sicché
questo Collegio non condivide le conclusioni tratte dalla sentenza 27.1.2004, n.
2662, ric. P.M, in proc. Zanoni, secondo le quali "ormai la permanenza del reato
di discarica abusiva verrà meno solo dopo dieci anni dalla cessazione dei
conferimenti ovvero con l'ottenimento dell'autorizzazione o la rimozione dei
rifiuti".
Deve convenirsi che l'intervento di rimozione dei rifiuti, attuato in via
sostitutiva dal Comune ex art. 14, 3° comma, del D.Lgs. n. 22/1997, non
"consuma" il corrispondente obbligo posto a carico di chiunque abbia violato il
divieto di abbandono. A tale obbligo si correla la necessità delle iscrizioni,
comunicazioni ed autorizzazioni prescritte per il trasporto, lo smaltimento e
l'eventuale recupero, ma non dell'autorizzazione prodromica al funzionamento di
una discarica (nel caso in cui l'abbandono sia stato sistematico e si sia
protratto per un tempo considerevole) e, pur configurandosi l'esecuzione di
doveri concernenti, non possono porsi, a carico di chi non esegue, obblighi
strettamente collegati alle modalità esecutive scelte ed attuate da soggetto
diverso.
3.3 Il reato di cui all'art. 50, 2° comma, del D.Lgs. n. 22/1997 si perfeziona
con la scadenza dei termini previsti nell'ordinanza sindacale e tali termini
devono considerarsi perentori in quanto alla scadenza di essi si collega
l'obbligo, per il Comune, di procedere all'esecuzione in danno. Dall'inizio
effettivo di tale esecuzione (cui si correla il recupero delle somme anticipate)
la condotta dell'agente non è più necessaria affinché venga rimossa la
situazione antigiuridica.
3.4 Nella fattispecie in esame è stata enunciata, già nella formale
contestazione, la continuazione fra tutte le contravvenzioni ex art. 81 cpv.
cod. pen., in attuazione di un unitario disegno criminoso: questo, pertanto,
solo apparentemente si fraziona nei singoli episodi, che costituiscono, invece,
tappe intermedie di un unico iter, il cui integrale compimento si ha soltanto
con la consumazione dell'ultimo episodio, sicché è da quest'ultimo momento che,
ai sensi dell'art. 158 cod. pen., comincia a decorrere il termine prescrizionale
(vedi Cass.: Sez. III, 27.4.1990, n. 6155).
Se, inoltre, tra i vari reati da considerarsi in modo unitario, inoltre,
figurano reati permanenti, il termine prescrizionale inizia a decorrere dal
momento in cui la permanenza viene a cessare (vedi Cass., Sez. III, 4.2.1999, n.
1454).
Infondata, pertanto, è la prospettazione del ricorrente B., secondo la quale la
prescrizione - per i reati di cui ai capi a) e b) - sarebbe maturata in epoca
anteriore alla sentenza di primo grado (poiché il decreto di citazione a
giudizio porta la data del 13.9.2001), sicché non sussisterebbero i presupposti
di operatività dell'art. 578 c.p.p. ed il Tribunale avrebbe dovuto
conseguentemente astenersi da qualsivoglia pronuncia in ordine alle pretese
civilistiche.
4. La qualificazione come "rifiuti" delle sostanze accatastate nel capannone.
Infondata è la prospettazione di insussistenza dei reati, svolta dagli imputati
ricorrenti, sul presupposto che le sostanze accatastate nel capannone non
potrebbero considerarsi "rifiuti".
4.1 Le caratteristiche principali della nozione di "rifiuto", in ambito europeo,
sono individuate dall'art. 1 della direttiva del Consiglio 15.7.1975, n.
75/442/CEE (sui rifiuti in generale), modificata dalla direttiva 18.3.1991, n.
91/156/CEE e dall'art. 1 della direttiva del Consiglio 20.3.1979, n. 78/319/CEE
(sui rifiuti tossici e pericolosi), modificata dalla direttiva 12.12.1991, n.
91/689/CEE.
Secondo tali direttive "per rifiuto si intende qualsiasi sostanza od oggetto di
cui il detentore si disfi o abbia l'obbligo di disfarsi secondo le disposizioni
nazionali vigenti".
La direttiva n. 91/156/CEE ha ampliato e specificato tale nozione, riportandone
le categorie nell'Allegato I e rinviando alla Commissione il compito di
preparare, entro il 1° aprile del 1993, un elenco (suscettibile di riesame
periodico) dei rifiuti rientranti nelle suddette categorie.
La nozione medesima è stata altresì recepita dall'art. 2, lett. a), del
Regolamento del Consiglio CEE 1 febbraio 1993, n. 259/93, relativo ai trasporti
transfrontalieri di rifiuti (immediatamente e direttamente applicabile in Italia
secondo Corte Cost. n. 170/1984).
4.2 La Corte europea di Giustizia si è pronunziata, in diverse occasioni, sulla
delimitazione della nozione di "rifiuto" [si ricordino, tra le decisioni più
recenti, quelle: della Sez. III, 15.1.2004, causa C-235/02, Saetti e Freudiani;
della Sez. VI, 11.9.2003, C-114/01, Avesta Polarit Chrome Oy; della Sez. VI,
18.4.2002, C-9/00, Palin Granit Oy; della Sez. V, 15.6.2000, C-418/97 e 419/97,
Arco] ed ha affermato che:
a) Il campo di applicazione della nozione di "rifiuto" dipende essenzialmente
dal corretto significato da attribuire al termine "disfarsi".
b) L'inclusione di un determinato materiale nell'elenco dei rifiuti (in
attuazione delle disposizioni contenute nell'art. 1, lett. a, della direttiva
75/442/CEE) non significa, tuttavia, che un tale materiale sia un rifiuto in
ogni circostanza.
c) "Dalla circostanza che su una sostanza venga eseguita un'operazione
menzionata nell'Allegato II della direttiva 75/442/CEE non discende che
l'operazione consista nel disfarsene e che quindi tale sostanza vada considerata
rifiuto".
d) Possono considerarsi indizi rilevanti, nel senso di escludere la natura di
rifiuto, i seguenti:
- la circostanza che un bene, un materiale o una sostanza derivino "da un
processo produttivo che non è principalmente destinato a produrli" e
costituiscano "non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto ... che l'impresa
intende sfruttare o mettere in commercio, a condizioni ad essa favorevoli, in un
processo produttivo, senza operare trasformazioni preliminari";
- la certezza - e non la mera eventualità - del reimpiego del materiale o della
sostanza senza operazioni di trasformazione preliminare. Il che comporta la
necessità che la sostanza stessa venga reimpiegata nella sua totalità, dovendosi
escludere la possibilità che una parte di essa venga separata ed avviata a
smaltimento in quanto non utilizzabile;
- il riscontro che il metodo di trattamento della sostanza non costituisca una
modalità corrente di trattamento dei rifiuti.
4.3 Nel nostro Paese le caratteristiche che, in ambito comunitario, individuano
la nozione di "rifiuto" sono riprodotte nell'art.6, comma 1 - lett. a), del
D.Lgs. 5.2.1997, n. 22 (che ha recepito le modifiche del 1991 alle due direttive
comunitarie sui rifiuti) secondo cui "è rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto
che rientra nelle categorie riportate nell'Allegato A e di cui il detentore si
disfi e abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi".
Tale normativa - attraverso il rinvio all'Allegato A), che riproduce l'Allegato
I della direttiva n. 75/442/CEE - riporta l'elenco delle 16 categorie di rifiuti
individuate in sede comunitaria, mentre gli Allegati II A e II B della direttiva
sono riprodotti, rispettivamente, negli Allegati B) e C) al D.Lgs. n. 22/1997.
Il primo elemento essenziale della nozione di "rifiuto", nel nostro ordinamento,
è costituito, pertanto, dall'appartenenza ad una delle categorie di materiali e
sostanze individuate nel citato Allegato A), ma l'elenco delle 16 categorie di
rifiuti in esso contenuto non è esaustivo ed ha un valore puramente indicativo,
poiché lo stesso Allegato "A) - Parte 1" comprende due voci residuali capaci di
includere qualsiasi sostanza od oggetto, da qualunque attività prodotti:
- la voce Q1, che riguarda "i residui di produzione o di consumo in appresso non
specificati";
- la voce Q16, che riguarda "qualunque sostanza, materia o prodotto che non
rientri nelle categorie sopra elencate".
È necessario tenere essenzialmente conto, pertanto, delle ulteriori condizioni
imposte dalla legge, e verificare cioè, anche e soprattutto, che il detentore
della sostanza o del materiale:
- se ne disfi,
- o abbia deciso di disfarsene,
- o abbia l'obbligo di disfarsene.
L'art. 2 della direttiva n. 91/156/CEE prevede, al 1° comma, alcune specifiche
esclusioni del proprio campo di applicazione mentre, al 2° comma, delinea in
termini di complementarietà ed integrazione i rapporti della normativa generale
sui rifiuti, da essa fissata, con alcune normative comunitarie specifiche,
relativo a particolari categorie e la legislazione italiana ribadisce la valenza
generale del D.Lgs. n. 22/1997 "fatte salve disposizioni specifiche particolari
o complementari, conformi ai principi del presente decreto, adottate in
attuazione di direttive comunitarie che disciplinano la gestione di determinate
categorie di rifiuti" (art. 1, comma 1).
I materiali di risulta da attività metallurgiche, quali polveri di macinazione e
schiumatura di alluminio e polveri da abbattimento di fumi, non costituiscono
una particolare categoria di rifiuti, peculiarmente disciplinata ai fini di
tutela ambientale, sicché per essi valgono i principi della normativa generale
sui rifiuti.
4.4 Le tre diverse previsioni del concetto di "disfarsi" (riprodotte nell'art.
6,comma 1 - lett. a), del D.Lgs. n. 22/1997) hanno trovato "interpretazione
autentica" nell'art. 14 del D.L. 8.7.2002, 138, pubblicato in pari data nella
Gazzetta Ufficiale e convertito nella legge 8.8.2002, n. 178.
Secondo questa interpretazione:
a) "si disfi" deve intendersi: qualsiasi comportamento attraverso il quale in
modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale o un bene sono avviati
sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B) e
C) del D.Lgs. n. 22/1997;
b) "abbia deciso di disfarsi" deve intendersi: la volontà di destinare sostanze,
materiali o beni ad operazioni di smaltimento e di recupero, secondo gli
allegati B) e C) del D.Lgs. n. 22/1997;
c) "abbia l'obbligo di disfarsi" deve intendersi: l'obbligo di avviare un
materiale, una sostanza o un bene ad operazioni di recupero o di smaltimento,
stabilito da una disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche
autorità o imposto dalla natura stessa del materiale, della sostanza e del bene
o dal fatto che i medesimi siano compresi nell'elenco dei rifiuti pericolosi di
cui all'Allegato D) del D.Lgs. n. 22/1997 (che riproduce la lista di rifiuti
che, a norma della direttiva n. 91/689/CEE, sono classificati come pericolosi).
Ai sensi della nuova normativa, le sole fattispecie di cui alle lettere b) e C)
[cioè le ipotesi in cui il detentore della sostanza o del materiale "abbia
deciso" ovvero "abbia l'obbligo di disfarsi" e non anche l'ipotesi in cui esso
"si disfi"] non ricorrono - per beni o sostanze e materiali residuali di
produzione o di consumo - ove sussista una delle seguenti condizioni:
1) gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati
nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire
alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio
all'ambiente;
2) gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati
nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver
subito un trattamento preventivo, senza che si renda necessaria alcuna
operazione di recupero tra quelle individuate nell'Allegato C) del D.Lgs. n.
22/1997.
È stata così introdotta una doppia deroga alla nozione generale di "rifiuto", in
relazione alla quale:
- la Commissione Europea, il 16.10.2002, ha deciso di aprire una procedura di
infrazione (ex art. 169/226 del Trattato) nei confronti del Governo italiano per
mancato rispetto della direttiva n. 75/442/CEE come modificata dalla direttiva
n. 91/156/CEE, ritenendo configurabile "un'indebita limitazione del campo di
applicazione della nozione di rifiuto".
La Commissione, anche con riferimento alla giurisprudenza della Corte Europea di
Giustizia, ha evidenziato che "la nozione di rifiuto non può essere commisurata
allo specifico tipo di operazione di recupero o smaltimento che viene
effettuata" e, con parere motivato del 9.7.2003, ha invitato il Governo italiano
ad adeguarsi alla normativa europea.
- il Tribunale monocratico di Terni, con ordinanza 20.11.2002, ha richiesto alla
Corte Europea di Giustizia di stabilire, con sentenza interpretativa (ex art.
177/234 del Trattato), se la nozione di rifiuto introdotta con le citate
direttive CEE debba continuare ad essere intesa ed interpretata in Italia alla
luce delle pregresse sentenze emesse in materia dalla stessa Corte di Giustizia
ovvero alla stregua dell'art. 14 della legge n. 178/2002.
Tale ultima disposizione, infatti, avrebbe introdotto delle presunzioni "iuris
et de iure" di esclusione dell'applicabilità dell'art. 6 del D.Lgs. n. 22/1997,
dalle quali risulterebbe fortemente limitato e circoscritto l'ambito di
applicazione della definizione europea di rifiuto, che non esclude, in via di
principio, alcun tipo di residuo, di prodotto di scarto o di altro materiale e
sostanza derivante dai vari processi industriali.
4.5 Nella situazione normativa dianzi delineata, questa Sezione ha espresso due
diversi orientamenti:
- Con la sentenza 27.11.2002, n. 2125, Ferretti ha sostenuto la necessità di non
applicare la normativa nazionale contrastante con il Regolamento del Consiglio
CEE 1 febbraio 1993, n. 259/93 sui trasporti transfrontalieri [direttamente
applicabile nell'ordinamento degli stati membri ai sensi dell'art. 249 (ex 189)
del Trattato] e con l'interpretazione delle sentenze della Corte Europea di
Giustizia.
- Con la sentenza 13.11.2001, n. 4052, Passerotti ha affermato, al contrario,
che la nuova disciplina del 2002 - benché modificativa, della nozione di rifiuto
dettata dall'art. 6, 1° comma - lett. a), del D.Lgs. n. 22/1997 - è vincolante
per il giudice, in quanto introdotta con atto avente pari efficacia legislativa
della norma precedente.
Essa inoltre - benché modificativa anche della nozione di rifiuto dettata
dall'art. 1 della direttiva europea 91/156/CEE - resta vincolante per il giudice
italiano, posto che tale direttiva non è autoapplicativa (self executing) e
costituisce obblighi per gli Stati dell'Unione Europea ma non direttamente
situazioni giuridiche attive o passive per i soggetti intrastatali, sicché ha
necessità di essere recepita dagli ordinamenti nazionali per diventare efficace
verso questi ultimi [Nel senso che anche la direttiva 91/689/CEE, in materia di
rifiuti pericolosi, neutra tra le direttive aventi l'obiettivo di armonizzare le
diverse normative nazionali e non fra quelle con prescrizioni incondizionate e
dettagliate, immediatamente applicabili nell'ordinamento interno, vedi Cass.,
Sez. III, 26.6.1997, n. 1699].
- Tale secondo orientamento ha ribadito con le sentenze 22.1.2003, Costa;
11.2.2003, Mortellaro; 31.7.2003, Agogliati; 9.10.2003, De Fronzo ha applicato
l'art. 14 del D.L. n. 138/2002.
- Con la sentenza 15.4.2003, n. 17656, Gonzales si è soffermata, in particolare,
sulla distinzione tra i residui ed i sottoprodotti dei quali l'impresa non ha
intenzione di disfarsi ai sensi dell'art. 1, lett. a, comma 1, della direttiva
75/442, ma che essa intende sfruttare o commercializzare a condizioni
favorevoli, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari.
4.6 Nella fattispecie in esame, però, è l'oggettività del fatto ad escludere
l'applicazione dell'art. 14 del D.L n. 138/2002.
Nel capannone gestito dalla s.r.l. "F." erano depositati - infatti - materiali
di risulta da attività produttive metallurgiche, quali polveri di macinazione e
schiumatura di alluminio e polveri da abbattimento di fumi, di cui le imprese
produttrici sicuramente aveva "deciso di disfarsi", nonché sostanze comprese
nell'elenco dei rifiuti pericolosi di cui all'Allegato D) del D.Lgs. n. 22/1997,
per i quali sussisteva "l'obbligo di disfarsi".
I big bags raccolti nel capannone, pur provenendo da imprese produttrici
diverse, erano tutti anonimi, in quanto non riportavano alcuna indicazione circa
la provenienza e la tipologia delle sostanze contenute.
L'indeterminatezza dell'accumulo di tali sostanze, pertanto, già per la carenza
di qualsiasi selezione di omogeneità, escludeva anche la "mera eventualità" di
un reimpiego totale, in un ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun
intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all'ambiente. La
concreta e totale destinazione al reimpiego, al contrario, era esclusa dalla
circostanza che, per tutto il periodo in esame, i quantitativi di materiali
registrati in uscita potevano considerarsi "quasi simbolici", sì da evidenziare
una macroscopica eccedenza dei quantitativi di scorie accumulati rispetto a
quelli episodicamente rimossi (vedi Cass., sez. IV, 4.7.2002, Costa).
Le deroghe introdotte dal 2° comma dell'art. 14 del D.L. n. 138/2002, dunque,
non sono comunque applicabili nella specie per la carenza dei presupposti.
5. La possibilità di concorso tra i reati di illecita gestione di rifiuti e di
discarica abusiva e la qualificazione dei rifiuti.
5.1 L'art. 51, 1° comma, del D.Lgs. n. 22/1997 stabilisce un obbligo generale,
penalmente sanzionato, di autorizzazione per chi esercita un'attività di
gestione di rifiuti (stoccaggio, raccolta e trasporto, smaltimento, recupero,
commercio ed intermediazione), con pene più severe se si tratta di rifiuti
pericolosi.
Il reato anzidetto sicuramente può concorrere con quello di discarica abusiva,
autonomamente previsto dal 3° comma dell'art. 51, riferito ad una condotta
reiterata nel tempo con cui si smaltiscono rifiuti in una determinata area, che
assume una oggettiva e non equivoca destinazione alla definitiva ed
incontrollata ricezione di rifiuti con immediato impatto ambientale.
5.2 I rifiuti, nella specie, in seguito ad accertamento peritale, sono stati
qualificati dal primo giudice come tossico - nocivi all'epoca dei fatti, "anche
dal solo punto di vista dell'analisi chimica degli stessi".
Secondo lo stesso giudice, "la successiva e incalzante produzione di articolati
normativi da cui potrebbero inferirsi modifiche, correlate alla valorizzazione
della provenienza dei rifiuti, dei parametri di tollerabilità dal punto di vista
chimico, influenti su diversi campioni presi in esame, non supera ... il
principio - base dell'art. 57 del D.Lgs. n. 22 del 1997, secondo cui -
nonostante l'abrogazione (operata dalla lett. b dell'art. 56), del D.P.R.
915/1982 - per ogni riferimento regolamentare relativo al trasporto e allo
smaltimento dei rifiuti, i rifiuti già definibili tossico - nocivi prima
dell'attuazione delle norme regolamentari del decreto legislativo citato
diventano automaticamente qualificabili come pericolosi".
Deve ricordarsi, inoltre, che anche una decisione di questa Corte (Cass., Sez.
III, 3.8.1999, n. 2358, Belcari) ha affermato che il D.Lgs. n. 22/1997, per
effetto della norma transitoria di cui all'art. 57, comma 1, equipara i rifiuti
tossici e nocivi della normativa precedente (D.P.R. n. 915 del 1982) ai rifiuti
pericolosi della normativa vigente.
Le anzidette affermazioni vanno precisate ricordando che l'ambito dei rifiuti
già considerati "tossici e nocivi" non coincide con quelle degli attuali rifiuti
"pericolosi" e che la norma transitoria in oggetto ha equiparato le due
categorie al solo fine di fare salva temporaneamente (in attesa della fissazione
delle nuove norme) l'applicazione delle precedenti norme regolamentari e
tecniche di salvaguardia per la raccolta, il trasporto e lo smaltimento dei
rifiuti.
La Corte territoriale ha rilevato, in proposito, l'irrilevanza della questione a
fronte dell'accertata prescrizione, perché, anche qualora i rifiuti in questione
dovessero considerarsi non - pericolosi, ciò "non escluderebbe la responsabilità
degli imputati per i fatti contestati, ma imporrebbe solo una diversa
quantificazione delle pene".
Si afferma invece, nel ricorso del B., che l'accertamento della "pericolosità"
dei rifiuti non può considerarsi irrilevante (poiché destinato ad incidere
soltanto sulla quantificazione della pena, a fronte di reati prescritti), ma si
pone come direttamente influente sulle statuizioni civili riferite al
risarcimento dei danni ed alla determinazione delle provvisionali.
La doglianza è infondata in quanto, secondo la giurisprudenza di questa Corte
Suprema:
- "Ai fini della pronuncia di condanna generica al risarcimento dei danni in
favore della parte civile, non è necessario che il danneggiato dia la prova
della effettiva sussistenza dei danni e del nesso di causalità tra questi e
l'azione dell'autore dell'illecito, ma è sufficiente l'accertamento di un fatto
potenzialmente produttivo di conseguenze dannose: la suddetta pronuncia,
infatti, costituisce una mera declaratoria iuris, da cui esula ogni accertamento
relativo sia alla misura sia alla stessa esistenza del danno, il quale è rimesso
al giudice della liquidazione" (vedi Cass. pen.: Sez I, 18.3.1992, n. 3220, Sez.
IV, 15.6.1994, n. 7008; Sez. VI, 26.8.1994, n. 9266).
- "La facoltà del giudice penale di pronunciare una condanna generica al
risarcimento del danno ed alla provvisionale, prevista dall'art. 539 c.p.p., non
incontra restrizioni di sorta in ipotesi di incompiutezza della prova sul
quantum, bensì trova implicita conferma nei limiti dell'efficacia della sentenza
penale di condanna nel giudizio civile per la restituzione e il risarcimento del
danno fissati dall'art. 651 c.p.p. quanto all'accertamento della sussistenza del
fatto, della sua illiceità ed all'affermazione che l'imputato l'ha commesso,
escludendosi, perciò, l'estensione del giudicato penale alle conseguenze
economiche del fatto illecito commesso dall'imputato" (Cass. pen., Sez. IV,
26.1.1999, n. 1045).
- "La condanna generica al risarcimento dei danni, contenuta nella sentenza
penale, pur presupponendo che il giudice riconosca che la parte civile vi ha
diritto, non esige alcun accertamento in ordine alla concreta esistenza di un
danno risarcibile, ma postula soltanto l'accertamento della potenziale capacità
lesiva del fatto dannoso e della probabile esistenza di un nesso di causalità
tra questo ed il pregiudizio lamentato, salva restando nel giudizio di
liquidazione del quantum la possibilità di esclusione dell'esistenza stessa di
un danno unito da rapporto eziologico con il fatto illecito" (Cass. civ., Sez.
III, 11.1.2001, n. 329).
Nella fattispecie in esame la determinazione della provvisionale non risulta
correlata alla pericolosità dei rifiuti ed il giudice civile, in sede di
determinazione concreta del danno, potrà specificamente valutare l'incidenza
dell'eventuale pericolosità delle sostanze, tenuto conto anche dei criteri
fissati con la decisione CE n. 532 del 3 maggio 2000 e successive modifiche.
6. Il reato di cui all'art. 50, 2° comma, del D.Lgs. n. 22/1997.
Il Tribunale ha qualificato la contravvenzione contestata al capo C) come
violazione degli artt. 14, 3° comma - seconda parte, e 50, 2° comma, del D.Lgs.
n. 22/1997 (piuttosto che come violazione degli artt. 17 e 51 bis).
Incongruenti sono pertanto tutte le argomentazioni riferite dal ricorrente B.
alla insussistenza delle condizioni, di cui all'art. 17, per l'obbligo di
bonifica del sito.
Né può condividersi l'ulteriore prospettazione secondo la quale il provvedimento
emanato in concreto avrebbe dovuto essere disapplicato per illegittimità palese,
in quanto l'ordinanza sindacale prevista dall'art. 14 del D.Lgs. n. 22/1997
potrebbe emettersi esclusivamente in relazione ad "un fatto minimale consistente
nell'abbandono e/o nel deposito incontrollato di rifiuti". Affatto disancorata
dal dato normativo appare, invero, l'affermazione che detta ordinanza possa
riguardare soltanto "attività modesta ed un fatto proporzionalmente
circoscritto, a livello di evento e di danno" ed "imporre una mera ripulitura
superficiale dell'area".
In ordine a tale reato, inoltre, gli imputati non possono invocare
l'inesigibilità della condotta (in applicazione della teoria secondo la quale
verrebbe meno la colpevolezza, quando sia impossibile pretendere dal soggetto
una condotta conforme al precetto), sia perché nel nostro ordinamento penale,
ispirato al principio di legalità, non sono ipotizzabili cause di esclusione
della punibilità diverse da quelle legislativamente previste, sia perché gli
stessi imputati non hanno dimostrato di avere fatto tutto quanto era nelle loro
possibilità, per evitare il comportamento illecito.
Questa Corte si è già pronunciata nel senso che "il principio della non
esigibilità di una condotta diversa - sia che lo si voglia ricollegare alla
ratio della colpevolezza, riferendolo ai casi in cui l'agente operi in
condizioni soggettive tali da non potersi da lui umanamente pretendere un
comportamento diverso, sia che lo si voglia ricollegare alla ratio
dell'antigiuridicità, riferendolo a situazioni in cui non sembri coerente
ravvisare un dovere giuridico dell'agente di uniformare la condotta al precetto
penale - non può trovare collocazione e spazio al di fuori delle cause di
giustificazione e delle cause di esclusione della colpevolezza espressamente
codificate, in quanto le condizioni e i limiti di applicazione delle norme
penali sono posti dalle nome stesse, senza che sia consentito al giudice di
ricercare cause ultralegali di esclusione della punibilità attraverso l'analogia
iuris" (Cass., Sez. VI, 31.5.1993, n. 973, ric. P.M, in proc. Bove. Vedi pure,
in proposito, Cass., Sez. III, 27.9.1985, n. 8271, ric. Viti).
7. La pretesa evidenza della irresponsabilità degli imputati.
La Corte territoriale ha valutato i profili di responsabilità civile degli
imputati sulla base dei seguenti elementi:
- il R. ed il B. sono stati, rispettivamente, amministratori unici della s.r.l.
"F." (a fare data dal 27.10.1995) e della s.r.l. "D. A.": agli stessi, che
avevano effettivamente esplicato funzioni gestionali, era riconducibile la
contestata attività di conferimento e raccolta dei rifiuti nel capannone;
- il N., oltre ad essersi personalmente occupato dell'affitto del capannone,
aveva in concreto messo a disposizione della s.r.l. "F." gli strumenti per la
movimentazione dei big bags, contenenti i rifiuti. Ciò indipendentemente dalla
qualifica formale rivestita all'interno della s.n.c. "F.lli N.". Correttamente,
pertanto, la sua condotta è stata ritenuta concorrente nei fatti - reato di cui
ai capi a) e b) secondo i principi generali.
Dal verbale di udienza del giudizio di appello non risulta disposta alcuna
acquisizione documentate ai sensi dell'art. 603 c.p.p.;
- gli imputati R. e B. erano sicuramente destinatari degli obblighi imposti dal
Sindaco del Comune di San Giorgio in Bosco con l'ordinanza del 3.11.1998
(espressamente emanata anche nei loro confronti) - con la quale imponeva la
presentazione, entro 30 giorni, di un piano di bonifica del sito - discarica -
ed essi tutti non avevano ottemperato a tale provvedimento.
Quanto al R., non può trovare integrale applicazione il principio del "ne bis in
idem" di cui all'art. 649 c.p.p., perché egli risulta prosciolto per
prescrizione - con la sentenza 9.6.1999 del Tribunale di Padova - Sezione
distaccata di Cittadella - per il fatto di smaltimento non autorizzato di
rifiuti pericolosi, attualmente contestato al capo a), riguardato soltanto nel
suo momento iniziale (fino al 18.10.1995) e non esteso a tutta la successiva
esplicazione dota illecita condotta. Quel giudice non ha affermato che la s.r.l.
"F." abbia esaurito la gestione antigiuridica dei rifiuti alla data del
18.10.1995: correttamente, pertanto, l'odierno giudizio non ha riguardato la
condotta tenuta dal R. per il solo periodo dal 5 al 18 ottobre 1995.
8. Le eccezioni procedurali proposte dal B.
Con statuizioni corrette i giudici del merito hanno ritenuto che:
- La notifica dell'avviso all'indagato previsto dall'art. 415 bis c.p.p. dopo la
scadenza del termine fissato dal 2° comma dell'art. 405 c.p.p. non costituisce
ragione di nullità, per il principio di tassatività di cui all'art. 177 c.p.p..
La circostanza che l'avviso debba contenere soltanto "la sommaria enunciazione
del fatto per il quale si procede" esclude altresì che possa configurarsi
nullità dello stesso per il mancato riferimento al "vincolo della continuazione
ed alla permanenza in atto", riportato, invece, per tutti gli imputati nel
decreto di citazione a giudizio. La doglianza, del resto, appare speciosa perché
anche nella copia dell'avviso notificata al B. i reati di cui ai capi b) e c)
risultavano contestati "sino ad oggi".
- Il deposito in Cancelleria della costituzione di parte civile effettuato
successivamente alla notificazione alla controparte non comporta alcuna
inefficacia della costituzione medesima. La legge dispone che l'atto di
costituzione è improduttivo di effetti se non è depositato nella cancelleria del
giudice che procede o presentato in udienza. Nel primo caso, inoltre, per
produrre effetti, esso deve essere altresì notificato alle altre parti del
rapporto processuale civile ed al P.M..
Non produce alcun effetto il mero deposito nella cancelleria della dichiarazione
di costituzione non notificata alle altre parti, mentre il deposito della
dichiarazione precedentemente notificata rende la costituzione processualmente
perfetta dalla data di esso, in quanto solo da tale data, il rapporto
processuale potrà dirsi perfezionato.
L'atto di costituzione di parte civile del comune di San Giorgio in Bosco
risulta ritualmente sottoscritto dal difensore e l'ufficiale giudiziario
notificante ha rilasciato attestazione (non contestata) di conformità della
copia notificata all'originale, applicandosi le norme del codice di procedura
penale sulle notificazioni all'imputato.
- Non sussiste alcuna nullità del decreto di citazione a giudizio, ai sensi del
2° comma dell'art. 552 c.p.p., tenuto conto che, nella formulazione delle
imputazioni, il complesso delle informazioni portate a conoscenza degli imputati
esclude ad evidenza la pretesa insufficienza della contestazione. I fatti di
reato attribuiti risultano dotati di adeguata specificità e nessun dubbio può
sorgere circa lo loro idoneità a consentire l'apprestamento di adeguate difese.
9. Gli enti territoriali ed il risarcimento del danno.
9.1 Viene eccepito - nel ricorso proposto dall'Avvocatura distrettuale dello
Stato di Venezia, quale difensore ex lege della parte civile Ministero
dell'ambiente e della tutela del territorio, che al Comune di San Giorgio in
Bosco, anch'esso costituitosi parte civile, sarebbe stato erroneamente
riconosciuto il risarcimento del danno ambientale, ai sensi dell'art. 18 della
legge n. 349/1986, in quanto il Comune sarebbe mero soggetto legittimato
all'azione ma non titolare del diritto al risarcimento.
9.2 La doglianza deve ritenersi manifestamente infondata, per le considerazioni
che vengono svolte di seguito.
L'art. 18, 1° comma, della legge 8.7.1996, n. 349 (istitutiva del Ministero
dell'ambiente) stabilisce che "qualunque fatto doloso o colposo in violazione di
disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che
comprometta l'ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o
distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l'autore del fatto al risarcimento
nei confronti dello Stato" ed il 3° comma dello stesso articolo prevede che
"l'azione di risarcimento del danno ambientale, anche se esercitata in sede
penale, è promossa dallo Stato, nonché dagli enti territoriali sui quali
incidano i beni oggetto del fatto lesivo".
Tali enti territoriali possono fare valere sia il diritto dello Stato in nome
proprio sia gli interessi collettivi di cui sono esponenziali quali enti
rappresentativi delle comunità insediate nei rispettivi territori (vedi Cass.,
Sez. III, 19.6.2002, n. 22539, ric. Kiss Ghunter ed altri).
In proposito, da un'originaria impostazione, che vedeva nello Stato il
monopolista dell'azione di danno, si è passati ad ammettere, ormai
pacificamente, l'azione autonoma e concorrente degli enti territoriali, quali
titolari anch'essi del diritto al risarcimento, correlato alla ripartizione
delle rispettive competenze pubblicistiche (vedi Cass. civ., Sez. Unite:
12.2.1988, n. 1491 e 17.1.1991, n. 400), come riconosciuto pure dalla Corte
Costituzionale con l'ordinanza n. 195 del 12.4.1990 (vedi anche, al riguardo,
Cass. pen., sez. III: 23.6.1994, n. 7275, ric. Galletti ed altri; 19.1.1994, n.
439, ric. Mattiuzzi; 28.10.1993, n. 9727, ric. Benericetti, ove è stato
affermato che "la Regione e, più in generale, gli enti territoriali sono
legittimati a costituirsi parte civile ai sensi dell'art. 18 legge n. 349/1986,
perché il danno ambientale derivante dal reato incide sull'ambiente, come
assetto qualificato del territorio, il quale è elemento costitutivo di tali enti
e perciò oggetto di un loro diritto di personalità").
9.3 In relazione, poi, alla nozione di danno all'ambiente, questa Corte Suprema,
con la decisione n. 22539/2002 (ric. Kiss Ghunter ed altri), ha già evidenziato
che la Corte Costituzionale - nella sentenza n. 641 del 30.12.1987 - conferisce
al danno ambientale una rilevanza patrimoniale indiretta, nel senso che "la
tendenziale scarsità delle risorse ambientali naturali impone una disciplina che
eviti gli sprechi e i danni sicché si determina una economicità e un valore di
scambio del bene. Pur non trattandosi di un bene appropriabile, esso si presta a
essere valutato in termini economici e può ad esso attribuirsi un prezzo.
Consentono di misurare l'ambiente in termini economici una serie di funzioni con
i relativi costi, tra cui ... la gestione del bene in senso economico con fine
di rendere massimo il godimento e la fruibilità della collettività e dei singoli
e di sviluppare le risorse ambientali ... E per tutto questo l'impatto
ambientale può essere ricondotto in termini monetari. Il tutto consente di date
all'ambiente e quindi al danno ambientale un valore patrimoniale".
Avverte ancora il giudice delle leggi che "risulta superata la considerazione
secondo cui il diritto al risarcimento del danno sorge solo a seguito della
perdita finanziaria contabile nel bilancio dell'ente pubblico, cioè della
lesione del patrimonio dell'ente, non incidendosi su un bene appartenente allo
Stato ... La legittimazione ad agire, che è attribuita allo Stato ed agli enti
minori, non trova fondamento nell'atto che essi hanno affrontato spese per
riparare il danno, o nel fatto che essi abbiano subito una perdita economica ma
nella loro funzione a tutela della collettività e delle comunità nel proprio
ambito territoriale e degli interessi all'equilibrio ecologico, biologico e
sociologico del territorio che ad essi fanno capo".
Lo schema di azione adottato - riconducibile al paradigma dell'art. 2043 cod.
civ. - porta "ad identificare il danno risarcibile come perdita subita,
indipendentemente sia dal costo della rimessione in pristino, peraltro non
sempre possibile, sia dalla diminuzione delle risorse finanziarie dello Stato e
degli enti minori".
Questo Collegio ribadisce che, dalle anzidette argomentazioni della Corte
Costituzionale deve legittimamente desumersi che il contenuto stesso del danno
ambientale viene a coincidere con la nozione non di danno patito bensì di danno
provocato ed il danno ingiusto da risarcire si pone in modo indifferente
rispetto alla produzione di danni - conseguenze, essendo sufficiente per la sua
configurazione la lesione in sé di quell'interesse ampio e diffuso alla
salvaguardia ambientale, secondo contenuti e dimensioni fissati da norme e
provvedimenti. Il legislatore, invero, in tema di pregiudizio ai valori
ambientali, ha inteso prevedere un ristoro quanto più anticipato possibile
rispetto al verificarsi delle conseguenze dannose, che presenterebbero
situazioni di irreversibilità.
Per integrare il fatto illecito, che obbliga al risarcimento del danno, non è
necessario che l'ambiente in tutto o in parte venga alterato, deteriorato o
distrutto, ma è sufficiente una condotta sia pure soltanto colposa "in
violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a
legge", che l'art. 18 specificamente riconosce idonea a compromettere l'ambiente
quale fatto ingiusti implicante una lesione presunta del valore giuridico
tutelato.
Ciò trova conferma nella circostanza che, qualora non sia possibile una precisa
quantificazione di un danno siffatto, il giudice - per espressa previsione dello
stesso art. 18 della legge n. 349/1986 - procede in via equitativa, tenendo
presenti parametri che prescindono da termini di ristoro soggettivo quali "la
gravità della colpa individuale, il costo necessario per il ripristino, il
profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo
del bene ambientale".
9.4 La giurisprudenza civilistica di questa Corte Suprema, in relazione all'art.
18 della legge n. 349/1986:
a) ha dapprima evidenziato la specialità (e le differenze formali e sostanziali)
della nuova disciplina rispetto alle previsioni generali dell'art. 2043 cod.
civ. (vedi Cass. civ., Sez. Unite, 25.1.1989, n. 440);
b) ha poi innestato la disciplina speciale dell'art. 18 della legge n. 349/1986
in quella codicistica generale della responsabilità per danno (artt. 2043 e 2050
cod. civ.), ribadendo la peculiarità del danno ambientale, pur nello schema
della responsabilità civile, e rilevando che esso consiste nell'alterazione,
deterioramento, distruzione, in tutto o in parte dell'ambiente, inteso quale
insieme che, pur comprendendo vari beni appartenenti a soggetti pubblici o
privati, si distingue ontologicamente da questi e si identifica in una realtà
immateriale, ma espressiva di un autonomo valore collettivo, che costituisce,
come tale, specifico oggetto di tutela da parte dell'ordinamento (vedi Cass.
civ., 9.4.1992, n. 4362).
Per la valutazione del danno ambientale, dunque, non può farsi ricorso ai
parametri utilizzati per i beni patrimoniali in senso stretto, ma deve tenersi
conto della natura di bene immateriale dell'ambiente, nonché della particolare
rilevanza del valore d'uso della collettività che usufruisce e gode di tale
bene.
Da ciò discende il superamento della funzione compensativa del risarcimento, che
risulta evidenziato nello stesso testo legislativo:
- dalla individuazione (art. 18, comma 8) del ripristino dello stato dei luoghi
a spese del responsabile (prescindendosi da ogni valutazione di eccessiva
onerosità per il debitore ex art. 2058, 2° comma, cod. civ.) quale strumento
prioritario di riparazione del danno nei casi in cui esso sia concretamente
possibile;
- dall'introduzione (art. 18, comma 6) di nuovi criteri di quantificazione
equitativa del danno patrimoniale (gravità della colpa individuale; profitto
conseguito dal trasgressore attraverso la propria condotta inquinante, costo
necessario per il ripristino);
- dalla deroga (art. 18, comma 7), nel caso di più corresponsabili del fatto
illecito, al principio di solidarietà posto dall'art.2055 cod. civ., attraverso
la previsione che ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità
individuale.
A fronte di un lamentato danno ambientale, dunque, l'esame del giudice non deve
limitarsi a rilevare i tradizionali danni - conseguenza, assumendo autonoma
rilevanza anche il danno - evento, inteso quale lesione in sé del bene
ambientale (vedi Cass. civ., sez. I, 1.9.1995, n. 9211);
c) ha sostenuto, infine, in base ad un'interpretazione sistematica degli artt.
2, 3, 9, 32, 41 e 42 Cost., che la risarcibilità del danno ambientale, pur
specificamente regolato dall'art. 18 della legge n. 349/1986, "trova la sua
fonte genetica direttamente nella Costituzione" e che pertanto, "anche prima
della legge n. 349/1986", proprio la Carta fondamentale e la norma generale
dell'art. 2043 cod. civ. già apprestavano all'ambiente una tutela organica (vedi
Cass. civ.: 19.6.1996, n. 5650, e 3.2.1998, n. 1087).
9.5 Non appare condivisibile, pertanto, l'interpretazione riduttiva (seguita da
Cass., Sez. III, 25.5.1992, n. 6297, ric. Barigazzi e riaffermata, più di
recente, da Cass., Sez. III, 14.1.2002, n. 1145, ric. Cucchiara ed altro)
secondo la quale l'azione di risarcimento del danno ambientale potrebbe essere
promossa soltanto quando sussista un pregiudizio concreto alla qualità della
vita della collettività, sotto il profilo dell'alterazione, del deterioramento o
della distruzione, in tutto o in parte, dell'ambiente, mentre non darebbero
luogo a risarcimento, di regola, violazioni meramente formali.
Non vi è dubbio, poi, che - in relazione all'inadempimento dell'obbligo di
rimozione dei rifiuti e di ripristino dello stato dei luoghi, previsto dall'art.
14 del D.Lgs. n. 22/1997, nonché dell'obbligo di bonifica, secondo le scansioni
temporali stabilite dall'art. 17 dello stesso testo normativo e le prescrizioni
stabilite in concreto dall'autorità, competente - il Comune può agire, in via di
rivalsa, per il recupero delle spese anticipate e, nella fattispecie in esame è
stato appunto disposto il risarcimento "delle spese sostenute per la messa in
sicurezza del capannone e per quelle di bonifica del sito", oltre che "per il
danno ambientale e non patrimoniale, ricomprensivo di quello all'immagine".
Quanto alla ravvisabilità di una lesione del diritto alla personalità dell'ente,
per il discredito derivante alla propria sfera funzionale (riconosciuto anche
alle associazioni ambientaliste da Cass. sez. III: 6.4.1996, n. 3503 e
26.9.1996, n. 8699), va ricordato che questa Sezione - con la sentenza
19.1.1994, n. 439, ric. Mattiuzzi - ha affermato che "il danno ambientale
presenta una triplice dimensione: personale (quale lesione del diritto
fondamentale dell'ambiente di ogni uomo); sociale (quale lesione del diritto
fondamentale dell'ambiente nelle formazioni sociali in cui si sviluppa la
personalità umana - art. 2 Cost.); pubblica (quale lesione del diritto - dovere
pubblico delle istituzioni centrali e periferiche con specifiche competenze
ambientali).
Lo stesso orientamento che afferma, la necessità della produzione di danni -
conseguenze, del resto, ammette la risarcibilità della lesione dell'immagine
dell'ente (che, dalla commissione dei reati, vede compromesso il prestigio
derivante dall'affidamento di compiti di controllo o gestione) nei casi in cui
sia stato concretamente accertato il danno ambientale, al quale sia collegata,
come aspetto non patrimoniale, la menomazione del rilievo istituzionale
dell'ente medesimo (Cass., Sez. III: n. 6297/1992 e n. 1145/2002).
10. La prospettazione dell'evitabilità del danno da parte del Comune.
Lamenta il B. la omessa valutazione del concorso di colpa del Comune di San
Giorgio in Bosco, con riferimento all'art. 1227 cod. civ., a cagione della
tardività dell'esecuzione in danno del disposto intervento di bonifica.
A tal proposito deve rilevarsi che l'art. 1227 cod. civ. - applicabile, per
giurisprudenza costante, anche alle ipotesi di illecito extracontrattuale -
disciplina, al primo e al secondo comma, due fattispecie differenziate:
- il primo comma (che comporta la diminuzione del risarcimento, tenuto conto sia
della gravità della colpa, come consistenza della diligenza violata, sia
dell'entità delle conseguenze che ne sono derivate) è riferito al concorso
colposo del danneggiato nella produzione del danno e dispone che questi non può
ripetere quella parte dell'evento dannoso, da esso causato, perché non
costituisce danno ingiusto e quindi risarcibile;
- il secondo comma (che comporta l'esclusione del risarcimento) riguarda,
invece, le ipotesi in cui il danno sia eziologicamente imputabile al solo
danneggiante ma il creditore avrebbe potuto escluderlo o limitarlo, usando
l'ordinaria diligenza.
Nella specie - come si è detto dianzi - il Tribunale ha qualificato la
contravvenzione contestata al capo C) come violazione degli artt. 14, 3° comma -
seconda parte, e 50, 2° comma, del D.Lgs. n. 22/1997 (piuttosto che come
violazione degli artt. 17 e 51 bis). Non è stata neppure ipotizzata, pertanto,
"una situazione di pericolo concreto ed attuale" di supermento dei limiti di
accettabilità della contaminazione del suolo ovvero di acque superficiali o
sotterranee in relazione alla specifica destinazione d'uso dei siti.
In tale contesto - tenuto anche conto del sequestro penale e della interruzione
di fatto dell'attività di trasporto dei rifiuti all'interno del capannone - non
è neppure ipotizzabile (e, comunque, non è stato dimostrato) che il Comune abbia
concorso nella produzione del danno né che sia venuto meno a quei doveri di
ordinaria diligenza (non identificabile con quella di cui all'art. 1176 cod.
civ.), nel cui ambito possono ricomprendersi soltanto attività che non siano
gravose o eccezionali.
11. Manifestamente infondate sono altresì le ulteriori doglianze svolte nel
ricorso proposto dall'Avvocatura dello Stato, in quanto:
- l'art. 18, 8° comma, della legge n. 349/1986 stabilisce che "il giudice, nella
sentenza di condanna, dispone, ove possibile, il ripristino dello stato dei
luoghi a spese del responsabile"; nella specie, però, non è intervenuta
condanna, sicché l'ordine di ripristino legittimamente non è stato impartito;
- altrettanto legittimamente il Ministero dell'ambiente e della tutela del
territorio è stato condannato - in seguito all'integrale rigetto del suo gravame
- al pagamento delle spese del grado di appello.
Ai sensi dell'art. 592, 1° comma, c.p.p. "con il provvedimento che rigetta o
dichiara inammissibile l'impugnazione, la parte privata che l'ha proposta è
condannata alle spese del procedimento".
La regola è estremamente chiara e si fonda sul principio della soccombenza
correlato alla natura officiosa del procedimento penale.
È vero che un'isolata sentenza della IV Sezione di questa Corte Suprema - n.
14406 del 16.4.2002, ric. P.M. in proc. La Torre ed altri - ha ritenuto che "nel
caso di mancato accoglimento delle impugnazioni proposte avverso sentenza di
assoluzione tanto dal P.M. quanto dalla parte civile, non può darsi luogo alla
condanna di quest'ultima al pagamento delle spese, come previsto in via generale
dall'art. 592, comma 1, c.p.p., non potendosi far gravare sulla parte civile
anche gli oneri derivanti dall'attività del rappresentante della pubblica accusa
e non essendo possibile discernere tra le spese derivate dall'impugnazione
dell'una o dell'altra parte".
Quest'orientamento, però, non è condivisibile poiché, qualora all'impugnazione
del pubblico ministero si affianchi l'impugnazione dell'imputato o quella delle
parti civili ai soli effetti civili, ed i gravami proposti dalle parti private
vengano rigettati, si accollano pur sempre a tali parti spese provocate (anche)
dalla propria impugnazione e trattandosi di obbligazione con unicità di causa,
di oggetto e di titolo, per essa opera il principio di solidarietà tra
condebitori stabilito dall'art. 1294 cod. civ. Proprio in considerazione della
natura officiosa del procedimento, poi, non è possibile distinguere tra spese
ricollegate all'impugnazione della parte pubblica o di quella privata, non
esistendo, nel processo penale, alcun criterio idoneo a disciplinare una
ripartizione delle spese tra le parti.
L'accoglimento dell'impugnazione del P.M. avverso una sentenza di
proscioglimento, del resto, non comporta necessariamente un giudizio di
fondatezza ed accoglibilità dell'azione civile, tanto dovendo risultare da un
ulteriore esame delle condizioni necessarie per l'accoglimento della domanda,
esame che è precluso in difetto di apposita impugnazione della parte civile.
Nella specie, inoltre, il P.M. aveva impugnato la sentenza di primo grado
limitatamente alla pronuncia di improcedibilità nei confronti del solo N. per
prescrizione del reato, mentre le doglianze svolte dalla parte civile Ministero
dell'ambiente si rivolgevano anche nei confronti degli altri imputati.
12. La prescrizione dei reati preclude la valutazione degli altri motivi di
ricorso, riferiti a pretesi vizi di motivazione, il cui eventuale accoglimento
imporrebbe un non consentito annullamento con rinvio della sentenza impugnata.
Alla stregua di tutte le argomentazioni dianzi svolte devono dichiararsi
inammissibili i ricorsi del responsabile civile s.r.l. "B. A.", del Procuratore
generale e delle parti civili Ministero dell'ambiente e Comune di San Giorgio in
Bosco, mentre vanno rigettati i ricorsi proposti dagli imputati.
Alle declaratorie di inammissibilità e di rigetto dei rispettivi ricorsi si
connette la condanna delle parti private, in solido, al pagamento delle spese
processuali, nonché quella delle parti civili Ministero dell'ambiente e Comune
di San Giorgio in Bosco e del responsabile civile s.r.l. "B. A." al versamento
della somma di euro 500,00 ciascuno, in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M
la Corte Suprema di Cassazione,
Visti gli artt. 607, 608, 615 e 616 c.p.p.,
dichiara inammissibili i ricorsi del responsabile civile s.r.l. "B. A.", del
procuratore generale e delle parti civili Ministero dell'ambiente e Comune di
San Giorgio in Bosco.
Rigetta i ricorsi di R. M., N. F. e B. O..
Condanna le parti private, in solido, al pagamento delle spese processuali e le
parti civili ed il responsabile civile, ciascuno, al versamento della somma di
euro 500,00 in favore della Cassa delle ammende.
ROMA, 11.11.2004
Depositata in cancelleria il 16 dicembre 2004.
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