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Per altre sentenze vedi: Sentenze per esteso

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CORTE DI CASSAZIONE Penale, sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402

 

RIFIUTI - Accumulo di rifiuti tossico-nocivo - Discarica non autorizzata - Tutela ambientale - Innocuizzazione - Disciplina applicabile - D.lgs. n. 22/1997 - D.Lgs. n. 36/2003 - D.Lgs. n. 152/2006. I materiali di risulta provenienti da attività metallurgiche, quali polveri di macinazione e schiumatura di alluminio e polveri da abbattimento di fumi, non costituiscono una particolare categoria di rifiuti, peculiarmente disciplinata ai fini di tutela ambientale, sicché per essi valgono i principi della normativa generale sui rifiuti. Nella specie, il sito di accumulo di rifiuti costituisce, "discarica non autorizzata " anche alla stregua della definizione fornita dall'art. 2, lett. g), del D.Lgs. n. 36/2003, non configurandosi, deposito temporaneo, né stoccaggio in attesa di recupero o trattamento, né stoccaggio di rifiuti in attesa di smaltimento per un periodo inferiore ad un anno. Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402

RIFIUTI - Accumulo di rifiuti - Discarica non autorizzata - Presupposti. Costituisce gestione di discarica non autorizzata l'accumulo di sostanze, (nella specie, polveri di macinazione e schiumatura di alluminio e polveri da abbattimento di fumi) quando non vi sia una loro selezione per omogeneità e risulti macroscopica l'eccedenza dei quantitativi delle scorie accumulate rispetto a quelli episodicamente rimossi, sicché può escludersi anche la mera eventualità di un reimpiego totale dei materiali in un ciclo produttivo o di consumo. Le deroghe introdotte dal 2° comma dell'art. 14 del D.L. n. 138/2002, dunque, non sono comunque applicabili nella specie per la carenza dei presupposti. Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402

RIFIUTI - Gestione di discarica - Tutela da rischi per la salute e l'ambiente - Gestione post-operativa - Fasi - Prescrizioni, manutenzione, sorveglianza e controlli. Ai sensi dell'art. 2, lett. o), le fasi di gestione di una discarica "vanno dalla realizzazione e gestione della discarica fino al termine della gestione post - operativa compresa" e la gestione post - operativa è attualmente disciplinata dall'art.13 del D.Lgs. n. 36/2003, il cui primo comma impone, anche in tale fase: il rispetto sia delle prescrizioni stabilite dall'autorizzazione e dai piani di gestione pure di ripristino ambientale sia delle norme in materia di gestione dei rifiuti, di scarichi idrici e tutela delle acque, di emissioni in atmosfera, di rumore, di igiene e salubrità degli ambienti di lavoro, di sicurezza e prevenzione incendi; nonché la necessità di assicurare la manutenzione ordinaria e straordinaria di tutte le opere funzionali ed impiantistiche della discarica. Mentre, il secondo comma dello stesso art. 13 stabilisce, inoltre, che "la manutenzione, la sorveglianza e i controlli della discarica devono essere assicurati anche nella fase della gestione successiva alla chiusura, fino a che l'ente territoriale competente accerti che la discarica non comporta rischi per la salute e l'ambiente. In particolare, devono essere garantiti i controlli e le analisi del biogas, del percolato e delle acque di falda che possano essere interessate". La permanenza del reato di discarica abusiva, però, si correla alla protrazione nel tempo della condotta materiale accompagnata dalla cosciente volontà di mantenimento della stessa. La legge punisce la mancanza di autorizzazione in un'ottica di funzionamento, mentre, allorquando ha effettivo inizio la gestione post - operativa, si pone in essere una condotta che pone fine alla situazione antigiuridica e viene meno la stessa "ratio" della richiesta di autorizzazione; il sito non è più destinato permanentemente a luogo di scarico e deposito di rifiuti, sicché a perdurare nel tempo sono soltanto gli effetti del precedente illecito accumulo. Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402

RIFIUTI - Nozione di rifiuto - Gestione post-operativa di una discarica - Permanenza del reato di discarica abusiva - Giurisprudenza. La nozione di "gestione dei rifiuti" (introdotta appunto dall'art. 6, 1° comma - lett. d, del D.Lgs. n. 22/1997) è un concetto nuovo e vastissimo - onnicomprensivo delle pur sempre diverse ed autonome fasi della raccolta, trasporto, smaltimento e recupero - rispetto al precedente impianto normativo espresso dal D.P.R. n. 915/1982, basato sulla più limitata nozione di "smaltimento". In tale prospettiva l'art. 2, lett. o), del D.Lgs. n. 36/2003 ha inteso affermare senza equivoci che va ricondotta, alla "gestione dei rifiuti" anche la gestione post - operativa di una discarica, in un'ottica di garanzia dello smaltimento "sicuro". Ciò non significa, però, che la discarica possa considerarsi tenuta in esercizio anche allorquando non è più operativa, (contra: sentenza 27.1.2004, n. 2662, ric. P.M, in proc. Zanoni, "la permanenza del reato di discarica abusiva verrà meno solo dopo dieci anni dalla cessazione dei conferimenti ovvero con l'ottenimento dell'autorizzazione o la rimozione dei rifiuti"). Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402

RIFIUTI - Nozione di rifiuto - Excursus normativo europeo - Trasporti transfrontalieri di rifiuti. Le caratteristiche principali della nozione di "rifiuto", in ambito europeo, sono individuate dall'art. 1 della direttiva del Consiglio 15.7.1975, n. 75/442/CEE (sui rifiuti in generale), modificata dalla direttiva 18.3.1991, n. 91/156/CEE e dall'art. 1 della direttiva del Consiglio 20.3.1979, n. 78/319/CEE (sui rifiuti tossici e pericolosi), modificata dalla direttiva 12.12.1991, n. 91/689/CEE. Secondo tali direttive "per rifiuto si intende qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'obbligo di disfarsi secondo le disposizioni nazionali vigenti". La direttiva n. 91/156/CEE ha ampliato e specificato tale nozione, riportandone le categorie nell'Allegato I e rinviando alla Commissione il compito di preparare, entro il 1° aprile del 1993, un elenco (suscettibile di riesame periodico) dei rifiuti rientranti nelle suddette categorie. La nozione medesima è stata altresì recepita dall'art. 2, lett. a), del Regolamento del Consiglio CEE 1 febbraio 1993, n. 259/93, relativo ai trasporti transfrontalieri di rifiuti (immediatamente e direttamente applicabile in Italia secondo Corte Cost. n. 170/1984). Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402

RIFIUTI - Attività di gestione di rifiuti pericolosi - Concorso di reato - Art. 51, 1° e 3° c., D.Lgs. n. 22/1997. L'art. 51, 1° comma, del D.Lgs. n. 22/1997 stabilisce un obbligo generale, penalmente sanzionato, di autorizzazione per chi esercita un'attività di gestione di rifiuti (stoccaggio, raccolta e trasporto, smaltimento, recupero, commercio ed intermediazione), con pene più severe se si tratta di rifiuti pericolosi. Il reato anzidetto sicuramente può concorrere con quello di discarica abusiva, autonomamente previsto dal 3° comma dell'art. 51, riferito ad una condotta reiterata nel tempo con cui si smaltiscono rifiuti in una determinata area, che assume una oggettiva e non equivoca destinazione alla definitiva ed incontrollata ricezione di rifiuti con immediato impatto ambientale. Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402

RIFIUTI - DANNO AMBIENTALE - Obbligo di rimozione dei rifiuti - Inadempimento - Effetti - Risarcimento - Recupero delle spese anticipate dal Comune - art. 14 e 17 D.Lgs. n. 22/1997. In relazione all'inadempimento dell'obbligo di rimozione dei rifiuti e di ripristino dello stato dei luoghi, previsto dall'art. 14 del D.Lgs. n. 22/1997, nonché dell'obbligo di bonifica, secondo le scansioni temporali stabilite dall'art. 17 dello stesso testo normativo e le prescrizioni stabilite in concreto dall'autorità, competente, il Comune può agire, in via di rivalsa, per il recupero delle spese anticipate. Nella specie è stato disposto il risarcimento "delle spese sostenute per la messa in sicurezza del capannone e per quelle di bonifica del sito", oltre che "per il danno ambientale e non patrimoniale, ricomprensivo di quello all'immagine". Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402

DANNO AMBIENTALE - Fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose - Risarcimento - Prova del nesso di causalità - Esclusione. Ai fini della pronuncia di condanna generica al risarcimento dei danni in favore della parte civile, non è necessario che il danneggiato dia la prova della effettiva sussistenza dei danni e del nesso di causalità tra questi e l'azione dell'autore dell'illecito, ma è sufficiente l'accertamento di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose: la suddetta pronuncia, infatti, costituisce una mera declaratoria iuris, da cui esula ogni accertamento relativo sia alla misura sia alla stessa esistenza del danno, il quale è rimesso al giudice della liquidazione (vedi Cass. pen.: Sez I, 18.3.1992, n. 3220, Sez. IV, 15.6.1994, n. 7008; Sez. VI, 26.8.1994, n. 9266). Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402

DANNO AMBIENTALE - Enti territoriali - Risarcimento del danno ambientale. Gli enti territoriali possono fare valere l'azione di risarcimento del danno ambientale, sia il diritto dello Stato in nome proprio, (art. 18, 1° comma, della legge 8.7.1986, n. 349 (istitutiva del Ministero dell'ambiente), sia gli interessi collettivi di cui sono esponenziali quali enti rappresentativi delle comunità insediate nei rispettivi territori, 3° comma L. 349/86 (vedi Cass., Sez. III, 19.6.2002, n. 22539, ric. Kiss Ghunter ed altri). In proposito, da un'originaria impostazione, che vedeva nello Stato il monopolista dell'azione di danno, si è passati ad ammettere, ormai pacificamente, l'azione autonoma e concorrente degli enti territoriali, quali titolari anch'essi del diritto al risarcimento, correlato alla ripartizione delle rispettive competenze pubblicistiche (vedi Cass. civ., Sez. Unite: 12.2.1988, n. 1491 e 17.1.1991, n. 400), come riconosciuto pure dalla Corte Costituzionale con l'ordinanza n. 195 del 12.4.1990 (vedi anche, al riguardo, Cass. pen., sez. III: 23.6.1994, n. 7275, ric. Galletti ed altri; 19.1.1994, n. 439, ric. Mattiuzzi; 28.10.1993, n. 9727, ric. Benericetti, ove è stato affermato che "la Regione e, più in generale, gli enti territoriali sono legittimati a costituirsi parte civile ai sensi dell'art. 18 legge n. 349/1986, perché il danno ambientale derivante dal reato incide sull'ambiente, come assetto qualificato del territorio, il quale è elemento costitutivo di tali enti e perciò oggetto di un loro diritto di personalità"). Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402

DANNO AMBIENTALE - Contenuto del danno ambientale - Risarcimento - Salvaguardia o pregiudizio ai valori ambientali. Il contenuto del danno ambientale viene a coincidere con la nozione non di danno patito bensì di danno provocato ed il danno ingiusto da risarcire si pone in modo indifferente rispetto alla produzione di danni - conseguenze, essendo sufficiente per la sua configurazione la lesione in sé di quell'interesse ampio e diffuso alla salvaguardia ambientale, secondo contenuti e dimensioni fissati da norme e provvedimenti. Il legislatore, in tema di pregiudizio ai valori ambientali, ha inteso prevedere un ristoro quanto più anticipato possibile rispetto al verificarsi delle conseguenze dannose, che presenterebbero situazioni di irreversibilità. Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402

DANNO AMBIENTALE - Risarcimento del danno - Tutela dell’ambiente - L. n. 349/1986. In materia di tutela ambientale, per integrare il fatto illecito, che obbliga al risarcimento del danno, non è necessario che l'ambiente in tutto o in parte venga alterato, deteriorato o distrutto, ma è sufficiente una condotta sia pure soltanto colposa "in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge", che l'art. 18 L. n. 349/86 specificamente riconosce idonea a compromettere l'ambiente quale fatto ingiusti implicante una lesione presunta del valore giuridico tutelato. Ciò trova conferma nella circostanza che, qualora non sia possibile una precisa quantificazione di un danno siffatto, il giudice - per espressa previsione dello stesso art. 18 della legge n. 349/1986 - procede in via equitativa, tenendo presenti parametri che prescindono da termini di ristoro soggettivo quali "la gravità della colpa individuale, il costo necessario per il ripristino, il profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo del bene ambientale". Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402

DANNO AMBIENTALE - Criterio di valutazione - Esame del giudice - Fondamento - Artt. 2, 3, 9, 32, 41 e 42 Cost. - L. n. 349/1986 - Art. 2043 cod. civ.. Per la valutazione del danno ambientale, non può farsi ricorso ai parametri utilizzati per i beni patrimoniali in senso stretto, ma deve tenersi conto della natura di bene immateriale dell'ambiente, nonché della particolare rilevanza del valore d'uso della collettività che usufruisce e gode di tale bene. Sicché, a fronte di un lamentato danno ambientale, l'esame del giudice non deve limitarsi a rilevare i tradizionali danni-conseguenza, assumendo autonoma rilevanza anche il danno-evento, inteso quale lesione in sé del bene ambientale (Cass. civ., sez. I, 1.9.1995, n. 9211); in base ad un'interpretazione sistematica degli artt. 2, 3, 9, 32, 41 e 42 Cost., che la risarcibilità del danno ambientale, pur specificamente regolato dall'art. 18 della legge n. 349/1986, "trova la sua fonte genetica direttamente nella Costituzione" e che pertanto, "anche prima della legge n. 349/1986", proprio la Carta fondamentale e la norma generale dell'art. 2043 cod. civ. già apprestavano all'ambiente una tutela organica (vedi Cass. civ.: 19.6.1996, n. 5650, e 3.2.1998, n. 1087). Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402

DANNO AMBIENTALE - Risarcimento - Giurisprudenza. Non è condivisibile, l'interpretazione riduttiva (seguita da Cass., Sez. III, 25.5.1992, n. 6297, ric. Barigazzi e riaffermata, più di recente, da Cass., Sez. III, 14.1.2002, n. 1145, ric. Cucchiara ed altro) secondo la quale l'azione di risarcimento del danno ambientale potrebbe essere promossa soltanto quando sussista un pregiudizio concreto alla qualità della vita della collettività, sotto il profilo dell'alterazione, del deterioramento o della distruzione, in tutto o in parte, dell'ambiente, mentre non darebbero luogo a risarcimento, di regola, violazioni meramente formali. Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402

DANNO AMBIENTALE - Triplice configurabilità - Dimensione: personale, sociale e pubblica. Il danno ambientale presenta una triplice dimensione: personale (quale lesione del diritto fondamentale dell'ambiente di ogni uomo); sociale (quale lesione del diritto fondamentale dell'ambiente nelle formazioni sociali in cui si sviluppa la personalità umana - art. 2 Cost.); pubblica (quale lesione del diritto - dovere pubblico delle istituzioni centrali e periferiche con specifiche competenze ambientali). (Cass. Sez. III, 19.1.1994, sentenza n. 439, ric. Mattiuzzi) Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402

DANNO AMBIENTALE - Tutela dell'immagine e della personalità dell'ente - Lesione non patrimoniale - Risarcimento. Per la ravvisabilità di una lesione del diritto dell'immagine e della personalità dell'ente, (che, dalla commissione dei reati, vede compromesso il prestigio derivante dall'affidamento di compiti di controllo o gestione) dovuto al discredito derivante alla propria sfera funzionale (riconosciuto anche alle associazioni ambientaliste da Cass. sez. III: 6.4.1996, n. 3503 e 26.9.1996, n. 8699), è necessario che la produzione dei danni sia conseguenza del danno ambientale, al quale sia collegata, come aspetto non patrimoniale, la menomazione del rilievo istituzionale dell'ente medesimo (Cass., Sez. III: n. 6297/1992 e n. 1145/2002). Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402

PROCEDURE E VARIE - DANNO AMBIENTALE - Condanna generica al risarcimento del danno ed alla provvisionale - Facoltà del giudice penale - Art. 651 c.p.p. - Art. 539 c.p.p..
La facoltà del giudice penale di pronunciare una condanna generica al risarcimento del danno ed alla provvisionale, prevista dall'art. 539 c.p.p., non incontra restrizioni di sorta in ipotesi di incompiutezza della prova sul quantum, bensì trova implicita conferma nei limiti dell'efficacia della sentenza penale di condanna nel giudizio civile per la restituzione e il risarcimento del danno fissati dall'art. 651 c.p.p. quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità ed all'affermazione che l'imputato l'ha commesso, escludendosi, perciò, l'estensione del giudicato penale alle conseguenze economiche del fatto illecito commesso dall'imputato (Cass. pen., Sez. IV, 26.1.1999, n. 1045). Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402

PROCEDURE E VARIE - Risarcimento dei danni - Presupposti. La condanna generica al risarcimento dei danni, contenuta nella sentenza penale, pur presupponendo che il giudice riconosca che la parte civile vi ha diritto, non esige alcun accertamento in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, ma postula soltanto l'accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e della probabile esistenza di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, salva restando nel giudizio di liquidazione del quantum la possibilità di esclusione dell'esistenza stessa di un danno unito da rapporto eziologico con il fatto illecito (Cass. civ., Sez. III, 11.1.2001, n. 329). Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402

PROCEDURE E VARIE - Colpevolezza - Cause di giustificazione e cause di esclusione - Principio della non esigibilità di una condotta diversa - Condizioni e limiti di applicazione. Il principio della non esigibilità di una condotta diversa - sia che lo si voglia ricollegare alla ratio della colpevolezza, riferendolo ai casi in cui l'agente operi in condizioni soggettive tali da non potersi da lui umanamente pretendere un comportamento diverso, sia che lo si voglia ricollegare alla ratio dell'antigiuridicità, riferendolo a situazioni in cui non sembri coerente ravvisare un dovere giuridico dell'agente di uniformare la condotta al precetto penale - non può trovare collocazione e spazio al di fuori delle cause di giustificazione e delle cause di esclusione della colpevolezza espressamente codificate, in quanto le condizioni e i limiti di applicazione delle norme penali sono posti dalle nome stesse, senza che sia consentito al giudice di ricercare cause ultralegali di esclusione della punibilità attraverso l'analogia iuris (Cass., Sez. VI, 31.5.1993, n. 973, ric. P.M, in proc. Bove. Vedi pure, in proposito, Cass., Sez. III, 27.9.1985, n. 8271, ric. Viti). Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402

PROCEDURE E VARIE - Notifica dell'avviso all'indagato - Scadenza del termine - Effetti - Principio di tassatività - Artt. 177, 405 e 415 bis c.p.p.. La notifica dell'avviso all'indagato previsto dall'art. 415 bis c.p.p. dopo la scadenza del termine fissato dal 2° comma dell'art. 405 c.p.p. non costituisce ragione di nullità, per il principio di tassatività di cui all'art. 177 c.p.p.. Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402

PROCEDURE E VARIE - Reato permanente - Nozione unitaria - bifasica - pluralista - Interpretazione dalla Corte Costituzionale. La c.d. concezione "bifasica" del reato permanente (che imposta la condotta di tale reato su due tempi: il primo di aggressione dell'interesse tutelato, ed il secondo di rimozione di tale illiceità), al pari di quella "pluralista", è stata da tempo abbandonata in dottrina ed in giurisprudenza, essendo stata privilegiata, invece, la nozione unitaria (vedi Cass., sez. Unite: 13.7.1998, Montanari; 28.4.1999, P.M. in proc. Palma ed altro; 14.7.1999, P.M. in proc. Lauriola ed altri; 27.2.2002, Cavallaro), confortata pure dall'interpretazione dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 520 del 26.11.1987). Pertanto, il reato permanente trova caratterizzazione nel tipo di condotta e nella correlazione di questa con l'offesa all'interesse protetto, sulla base della descrizione contenuta nella norma incriminatrice. Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402

PROCEDURE E VARIE - Continuazione del reato - Attuazione di un unitario disegno criminoso - Reati permanenti - Decorrenza del termine prescrizionale (art. 158 c.p.) - Art. 81 cod. pen. (Concorso formale. Reato continuato). Si configura, la continuazione del reato, ex art. 81 cpv. cod. pen., quando in attuazione di un unitario disegno criminoso, questo, solo apparentemente si fraziona in singoli episodi, che invece, costituiscono tappe intermedie di un unico iter, il cui integrale compimento si ha soltanto con la consumazione dell'ultimo episodio, sicché è da quest'ultimo momento che, ai sensi dell'art. 158 cod. pen., comincia a decorrere il termine prescrizionale (vedi Cass.: Sez. III, 27.4.1990, n. 6155). Se, inoltre, tra i vari reati da considerarsi in modo unitario, figurano reati permanenti, il termine prescrizionale inizia a decorrere dal momento in cui la permanenza viene a cessare (vedi Cass., Sez. III, 4.2.1999, n. 1454). Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402

PROCEDURE E VARIE - Impugnazione pubblico ministero, imputato o parti civili - Pagamento delle spese - Principio di solidarietà tra condebitori - Disciplina - Art. 1294 cod. civ.. Qualora all'impugnazione del pubblico ministero si affianchi l'impugnazione dell'imputato o quella delle parti civili ai soli effetti civili, ed i gravami proposti dalle parti private vengano rigettati, si accollano pur sempre a tali parti spese provocate (anche) dalla propria impugnazione e trattandosi di obbligazione con unicità di causa, di oggetto e di titolo, per essa opera il principio di solidarietà tra condebitori stabilito dall'art. 1294 cod. civ. Proprio in considerazione della natura officiosa del procedimento, poi, non è possibile distinguere tra spese ricollegate all'impugnazione della parte pubblica o di quella privata, non esistendo, nel processo penale, alcun criterio idoneo a disciplinare una ripartizione delle spese tra le parti. (contra, Cass. Sez. IV - n. 14406 del 16.4.2002, ric. P.M. in proc. La Torre ed altri). Rigon ed altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402


 

CORTE DI CASSAZIONE Penale, sez. III, dep. 16/12/2004 (ud. 11/11/2004), Sentenza n. 48402

 


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Paolino Dell'Anno Presidente
Dott. Amedeo Postiglione Consigliere
Dott. Mario Gentile "
Dott. Vittorio Vangelista "
Dott. Aldo Fiale (relatore) "
ha pronunciato la seguente:


SENTENZA


sui ricorsi proposti da:
1) PROCURATORE GENERALE della REPUBBLICA presso la CORTE di APPELLO di VENEZIA

2) B. O., n. a San Giorgio in Bosco xxx
3) N. F., n. a Cittadella il xxx
4) R. M., n. a Campo San Martino il xxx
5) responsabile civile s.r.l. "B. A."
6) parte civile MINISTERO dell'AMBIENTE e della TUTELA del TERRITORIO

7) parte civile COMUNE di SAN GIORGIO IN BOSCO
avverso la sentenza 14.11.2003 della Corte di Appello di Venezia.

Visti gli atti, la sentenza impugnata ed i ricorsi.

Udita, in pubblica udienza, la relazione fatta dal Consigliere dr.Aldo Fiale.
Udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del dr. Gioacchino Izzo, che ha concluso per la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi proposti dal P.G., dal responsabile civile e dalle parti civili e per il rigetto dei ricorsi degli imputati.
Uditi i difensori: Avv.to dello Stato Antonio Volpe ed Avv.ti Luigi Verzotto, Remo De Nard, Alfonso Gentile e Giuseppe Campanelli,quest'ultimo quale sostituto processuale dell'Avv.to Roberto De Nicolao.


Fatto


Con sentenza del 14.11.2003 la Corte di Appello di Venezia, in parziale riforma della sentenza 14.5.2003 del Tribunale di Padova - Sezione distaccata di Cittadella:

- dichiarava non doversi procedere, per intervenuta prescrizione, nei confronti di B. O. e R. M., in ordine ai reati di cui:
a) agli artt. 81 cpv., 110 cod. pen. e 51, 1° comma - lett. b), D.Lgs. 5.2.1997, n. 22, come successivamente integrato e modificato [perché, in concorso tra loro, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, nelle rispettive qualità di legali rappresentanti e comunque soci di fatto delle società s.r.l. "F." ed s.r.l. "B. A.", quali committenti, commissionari e trasportatori, effettuavano un'illecita gestione di rifiuti pericolosi prodotti da terzi, costituiti da polveri di macinazione di alluminio e polveri da abbattimento di fumi, raccogliendoli in assenza delle prescritte autorizzazioni amministrative - in San Giorgio in Bosco, dal 5.10.1995 al 2.12.1997];

b) agli artt. 81 pv., 110 cod. pen. e 51, 3° comma, D.Lgs. 5.2.1997, n. 22, come successivamente integrato e modificato [perché, in concorso tra loro, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, nelle rispettive qualità di legali rappresentanti e comunque soci di fatto delle società s.r.l. "F." ed s.r.l. "B. A.", mediante le operazioni di raccolta di cui al precedente capo di imputazione e successivamente abbandonando il sito dove avevano accumulato i rifiuti limitandosi a movimentarli all'interno del perimetro aziendale, realizzavano e gestivano una discarica non autorizzata, costituita da circa 5.000 tonnellate di materiali di risulta da attività metallurgiche, quali polveri di macinazione e schiumatura di alluminio, e polveri da abbattimento di fumi, classificabili tra i rifiuti tossico/nocivi, raccogliendoli in assenza di autorizzazione - in San Giorgio in Bosco, dal 5.10.1995 e con permanenza in atto];

c) agli artt. 110 cod. pen., 14, 3° comma - seconda parte, e 50, 2° comma, D.Lgs. 5.2.1997, n. 22, [perché, in concorso tra loro, non ottemperavano agli ordini di ripristino ambientale contenuti nell'ordinanza del Sindaco di S. Giorgio in Bosco n. 41/1998 del 3.11.1998 - in San Giorgio in Bosco, dal 23.12.1998 e con Permanenza in atto];

- confermava le condanne del B. e del R., nonché dei responsabili civili s.r.l. "F.." ed s.r.l. "B. A.", al risarcimento dei danni in favore delle parti civili Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio, Regione Veneto e Comune di San Giorgio in Bosco, da liquidarsi con separato giudizio, ed il pagamento di una provvisionale di euro 350.000 per ciascuna di esse;

- confermava il proscioglimento di N. F. dalle medesime contravvenzioni di cui ai capi a) e b), per intervenuta prescrizione, e l'assoluzione dello stesso dalla contravvenzione di cui al capo c), per non avere commesso il fatto.

Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per Cassazione il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Venezia, i tre imputati, la s.r.l. "B. A.", in persona dell'amministratore unico pro tempore, quale responsabile civile, e le parti civili Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e Comune di San Giorgio in Bosco.

Il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Venezia, riferendo il ricorso ai soli B. e N., ha eccepito violazione di legge in ordine all'applicazione della prescrizione, prospettando illogicità della motivazione circa la ritenuta perdita del possesso, da parte degli anzidetti imputati dell'area relativa alla discarica abusiva, che incongruamente sarebbe stata fatta coincidere con il 13 gennaio 1999 (data dell'avvenuta consegna al Comune di San Giorgio in Bosco delle chiavi del capannone in cui erano ammassati i rifiuti, per l'esercizio dei poteri sostitutivi in relazione agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale).

La consegna delle chiavi, infatti, non potrebbe considerarsi atto idoneo a trasferire il possesso e, comunque, non esonerebbe il privato dall'obbligo di provvedere direttamente agli interventi di bonifica.

M. R. ha eccepito:
- violazione del divieto del "bis in idem" posto dall'art. 649 c.p.p., con riferimento ai reati contestati ai capi a) e b), in quanto il Tribunale di Padova - Sezione distaccata di Cittadella, Con sentenza n. 5/1999, aveva già dichiarato tali reati estinti per prescrizione, considerando l'azione esaurita entro il 18.10.1995;

- erronea applicazione dell'art. 158 cod. pen., e contraddittorietà della motivazione sul punto, poiché il termine per il computo della prescrizione si sarebbe dovuto fare decorrere dal sequestro disposto dalla Procura della Repubblica di Padova in data 5.10.1995 o, al massimo, dalla cessazione definitiva dell'attività, comunque avvenuta il 17.11.1997;

- violazione dell'art. 14 del D.L. n. 138/2002, che ha introdotto l'interpretazione autentica della definizione normativa di "rifiuto", escludendo da tale nozione le sostanze o materiali residuali di produzione o di consumo [come quelli oggetto del presente procedimento], "qualora siano effettivamente ed oggettivamente riutilizzati, senza alcun trattamento preventivo ed anche dopo il trattamento preventivo, purché non vi sia pregiudizio all'ambiente";

- vizio di motivazione, riferito all'imputazione di cui al capo c), quanto alla mancata applicazione, nel caso di specie, del principio "ad impossibilia nemo tenetur";

- vizio di motivazione per quanto riguarda la condanna al risarcimento del presunto danno patito dalle parti civili: danno che non potrebbe configurarsi, poiché non sarebbe stata realizzata né gestita alcuna discarica e non si sarebbero mai verificati i pretesi incendi all'interno del capannone contenente i rifiuti;

- vizio di motivazione nelle parti in cui, pure a fronte di specifiche contestazioni svolte con l'atto di appello, la Corte di merito si era riferita esclusivamente "per relationem", alle argomentazioni svolte dal primo giudice, senza esaminare le censure di esso appellante.

F. N. ha eccepito:
- di non avere mai fatto parte della struttura societaria della s.r.l. "B. A." e di non avere mai assunto la qualifica di legale rappresentante della s.r.l."F.". Egli, in data 5.12.1994, acquistò alcune quote di tale ultima società e fu contestualmente nominato membro del consiglio di amministrazione, mentre presidente e consigliere delegato era il R.. Questi divenne amministratore unico il 27.10.1995, in seguito alle dimissioni degli altri membri del consiglio di amministrazione (B. e N.). Esso N., infine, in data 30.8.1996, cedette le sue quote a R. e B. e uscì dalla società;

- di non avere messo a disposizione della s.r.l. "F." gli strumenti per la movimentazione dei big bags, contenenti polveri di lavorazione, ammassati nel capannone di detta società.

Egli era soltanto dipendente, e non socio, della s.n.c. "F.lli N." e, a decorrere dal 17.10.1995, la s.r.l. "F." non aveva più avuto alcun rapporto con detta società. La Corte territoriale aveva acquisito, ai sensi dell'art. 603 c.p.p., la documentazione da lui prodotta in tal senso, ma aveva poi fondato la propria decisione esclusivamente sull'attività istruttoria svolta dal giudice di primo grado, omettendo ogni doveroso riferimento alle nuove prove ed alle specifiche doglianze di estraneità formulate con i motivi di appello.

O. B. ha eccepito:
- la nullità dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari, emesso dopo la scadenza del termine di sei mesi prescritto dall'art. 415 bis c.p.p. ed in assenza di qualsiasi provvedimento di proroga.


L'avviso notificato ad esso B., inoltre, non conteneva, nell'enunciazione dei fatti, la contestazione del vincolo della continuazione e della permanenza in atto (specificazioni poi riportate, invece, per tutti gli imputati, nel decreto di citazione a giudizio);

- la nullità del decreto di citazione a giudizio, ex art. 552, 2° comma, c.p.p., per indeterminatezza delle imputazioni;

- la inammissibilità della costituzione di parte civile del Comune di San Giorgio in Bosco, in quanto l'atto di costituzione era stato notificato ad esso imputato senza essere stato previamente depositato in Cancelleria, in violazione dell'art. 78, 2° comma, c.p.p. Le copie notificate, altresì, non erano copie autentiche dell'originale ed in esse mancava la sottoscrizione di pugno del difensore prescritta dall'art. 125 c.p.c.;

- la incongrua configurazione quale "discarica", anche alla stregua della definizione normativa fornita dall'art. 2, comma 1 - lett. g), del D.Lgs. n. 36/2003, del capannone della s.r.l. "F.", nel quale non vi era stato "un accumulo ripetuto di sostanze oggettivamente destinate all'abbandono, con tendenziale carattere di definitività". Tutte le tipologie di materiali presenti in quel capannone sono state riutilizzate - nel contesto delle operazioni di bonifica del sito svolte dal Comune - "esattamente come avrebbe continuato a fare la F., se non le fosse stato inibito di proseguire nella sua attività";

- l'erroneo computo della prescrizione, tenuto conto che la contravvenzione di cui al capo a) è stata temporalmente limitata, nella stessa contestazione, al 2.12.1997 e che ogni attività della s.r.l. "F." risulta cessata alla data del 28.11.1997, in seguito al divieto di prosecuzione impartito dalla Provincia. Rileva, in proposito, il ricorrente che la prescrizione - peri i reati di cui ai capi a) e b) - sarebbe maturata in epoca anteriore alla sentenza di primo grado (poiché il decreto di citazione a giudizio porta la data del 13.9.2001), sicché non sussisterebbero i presupposti di operatività dell'art. 578 c.p.p. ed il Tribunale avrebbe dovuto conseguentemente astenersi da qualsivoglia pronuncia in ordine alle pretese civilistiche;

- l'illegittimità dell'ordinanza n. 41 del 3.11.1998, che, in quanto emessa dal Comune di San Giorgio in Bosco in violazione degli artt. 14 e 17 del D.Lgs. n. 22/1997, avrebbe dovuto essere disapplicata dal giudice penale;

- la carenza e manifesta illogicità della motivazione sulle censure svolte in riferimento al capo c) dell'imputazione (esso imputato non poteva ritenersi destinatario dell'ordinanza comunale che imponeva la presentazione di un piano di smaltimento - si configurava, in ogni caso, una situazione di inesigibilità, poiché era impossibile rispettare il prescritto esiguo termine di trenta giorni);

- la manifesta illogicità della motivazione sulla questione della "pericolosità" dei rifiuti. Il relativo accertamento, infatti, difformemente da quanto ritenuto dalla Corte territoriale, non può considerarsi irrilevante (poiché destinato ad incidere soltanto sulla quantificazione della pena, a fronte di reati prescritti), ma si pone come direttamente influente sulle statuizioni civili riferite al risarcimento dei danni ed alla determinazione delle provvisionali;

- l'immotivata violazione del principio del "ne bis in idem" sostanziale, in quanto il reato contestato al capo a) deve considerarsi assorbito in quello contestato al capo b), in virtù del rapporto di consunzione intercorrente tra le due norme che si assumono violate;

- la mancanza di motivazione in ordine al preteso apporto concorsuale a lui riferibile, con particolare riguardo alla sua partecipazione alla gestione di fatto della società "F.";

- l'erronea applicazione dell'art. 57 del D.Lgs. n. 22/1997, in quanto non potrebbe estendersi ai rifiuti "pericolosi" il riferimento ai rifiuti "tossici e nocivi" contenuto nell'imputazione di cui al capo b);

- la omessa valutazione del concorso di colpa del Comune di San Giorgio in Bosco, con riferimento all'art. 1227 cod. civ., a cagione della tardività dell'esecuzione in danno del disposto intervento di bonifica.

Le medesime doglianze sono state ribadite dallo stesso B., quale amministratore unico e legale rappresentante della responsabile civile s.r.l. "D. A.", che, in tale qualità, ha lamentato pure:
- la mancanza od illogicità della motivazione in ordino al coinvolgimento della società a titolo di responsabilità extracontrattuale, avendo la stessa società eccepito il difetto di legittimazione passiva;
- l'erronea affermazione della responsabilità civile societaria a favore della Regione Veneto e del Comune di San Giorgio in Bosco, che non avevano chiesto la citazione del responsabile civile.

L'Avvocatura distrettuale dello Stato di Venezia, quale difensore ex lege della parte civile Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio, ha lamentato:
- l'ingiusta condanna del Ministero alle spese del grado di appello, a causa del rigetto del gravame proposto dalla stessa parte civile. Tale condanna non avrebbe potuto essere disposta, in quanto aveva proposto appello anche il Procuratore della Repubblica, "non potendosi far gravare sulla parte civile anche gli oneri derivanti dall'attività del rappresentante della pubblica accusa e non essendo possibile discernere tra le spese derivate dall'impugnazione dell'una o dell'altra parte";
- violazione di legge nonché mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione quanto alla erronea declaratoria di prescrizione dei reati, dovendo ritenersi incongrue le argomentazioni svolte dalla Corte territoriale in ordine alla pretesa perdita di possesso della discarica abusiva, da parte degli imputati, in conseguenza della consegna delle chiavi al Comune di San Giorgio in Bosco, per l'esercizio dei poteri sostitutivi in relazione agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale;
- l'omessa condanna degli imputati al ripristino dello stato dei luoghi, a loro spese, ai sensi, tra l'altro, dell'art. 18 della legge n. 349/1986 e successive modifiche;
- l'erronea attribuzione, al Comune di San Giorgio in Bosco, di una quota del risarcimento del danno ambientale, che, come specificamente previsto dal 1° comma dell'art. 18 della legge n. 349/1986, può essere liquidato soltanto in favore dello Stato.

La parte civile Comune di San Giorgio in Bosco ha prospettato, infine, a sua volta, l'erronea declaratoria di prescrizione dei reati ascritti a tutti i tre imputati.

La stessa parte civile ha depositato memoria (del 2.11.2004) rivolta ad illustrare ulteriormente la natura del reato di realizzazione e gestione di discarica abusiva.


Diritto


1. La ricostruzione fattuale della vicenda.

La vicenda, in punto di fatto, può compendiarsi come segue:
La s.r.l. "F." venne costituita nel marzo del 1992 ed aveva come oggetto sociale lo stoccaggio di rifiuti per smaltimento e riutilizzo. Il 5.12.1994 le quote sociali furono acquistate da N., B. e R. e quest'ultimo venne nominato presidente del consiglio di amministrazione, divenendo poi amministratore unico dal 27.10.1995.

Nel giugno del 1995 la "F." (attraverso l'intervento dello stesso N., titolare di agenzia immobiliare e che prestava la propria attività lavorativa anche in un'impresa operante nel settore degli scavi e dell'edilizia) prese in affitto circa la metà di un capannone, con attigua area scoperta, sito nel Comune di San Giorgio in Bosco, e comunicò quindi, alla Provincia di Padova ed all'Albo delle imprese esercenti servizi di smaltimento rifiuti di Venezia l'intenzione di effettuarvi un'attività di stoccaggio provvisorio di terre di fonderia finalizzato al riutilizzo per la realizzazione di sottofondi e rilevati stradali e ripristini ambientali. In epoca appena successiva giunsero nel capannone stesso circa 4.000 tonnellate di materiali, stipati in big bags privi di qualsiasi indicazione individualizzante, che furono ammassati, quasi fino al tetto, lungo le pareti del capannone.

Il 5.10.1995 i materiali depositati nel capannone furono sottoposti a sequestro dalla Guardia di Finanza, ex art. 254 c.p.p., e le analisi effettuate sugli stessi ne evidenziarono la natura di polveri provenienti da lavorazioni della metallurgia dell'alluminio e da abbattimento di fumi, nonché il carattere tossico - nocivo.

Il N., in data 30.8.1996, cedette le sue quote e uscì dalla società.

La s.r.l. "F." riprese la sua attività nel 1997 e continuò ad introitare altre migliaia di tonnellate di big bags, quasi sempre portati sul posto da mezzi della s.r.l. "B. A.", legalmente rappresentata da B. O., socio pure della "F.".

In data 18.11.1997, il Procuratore della Repubblica di Padova dispose il dissequestro dei rifiuti già assoggettati a misura cautelare, previa innocuizzazione ed individuazione delle ditte in grado di effettuare il trasporto, e lo smaltimento definitivo in luoghi idonei.

Il 17.11.1997 si erano verificati, però, degli episodi incendiari, a seguito dei quali venne interrotta l'attività di trasporto dei rifiuti all'interno del capannone (l'ultima registrazione di scarico risale al 3.12.1997).

Nel marzo del 1998 venne intimato lo sfratto per morosità della "F." dal capannone, ma l'immobile continuò comunque a rimanere nella disponibilità del R. e del B..

In data 3.11.1998 il Sindaco del Comune di San Giorgio in Bosco emanò - nei confronti della s.r.l. "F.", della s.r.l. "B. A." e delle ditte che avevano conferito i rifiuti - un'ordinanza con la quale imponeva la presentazione, entro 30 giorni, di un piano di bonifica del sito - discarica. Le società "F." e "B. A." non ottemperarono a tale provvedimento, sicché il Comune, il 13.1.1999, si fece consegnare dal R. le chiavi del capannone in cui erano ammassati i rifiuti ed iniziò, esercitando i poteri sostitutivi, le operazioni di bonifica, non ancora ultimate nel maggio del 2003.

2. I ricorsi inammissibili

Va rilevata, anzitutto, la inammissibilità dei ricorsi per cassazione rispettivamente proposti dal responsabile civile s.r.l. "B. A.", dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Venezia e delle parti civili Ministero dell'ambiente e Comune di San Giorgio in Bosco.

Il ricorso del responsabile civile s.r.l. "B. A." presentato il 16.2.2004, deve considerarsi tardivo poiché alla suddetta data era già inutilmente decorso il termine per proporre impugnazione di giorni 45, decorrente dal 29.12.2003 (sentenza pronunciata il 14.11.2003, con la previsione di 45 giorni per il deposito, ed effettivamente depositata il 23.12.2003).

Detta società, invero, era presente nel giudizio di appello, sicché per essa è irrilevante la data di notifica della sentenza impugnata.

Quanto al ricorso del Procuratore Generale - che non è riferito al R. - esso, nella parte riguardante il N., è assolutamente carente di motivi.

Manifestamente infondate, infine, sono le ulteriori doglianze svolte nel medesimo ricorso del P.G. e nei ricorsi delle parti civili Ministero dell'ambiente e Comune di San Giorgio in Bosco.

3. La prescrizione dei reati

3.1 Le Sezioni Unite penali di questa Corte Suprema - con la sentenza n. 13 del 5.10.1994, ric. Maccarelli, riferita alle analoghe previsioni degli artt. 16, 2° comma, e 25, 2° comma, del D.P.R. n. 915/1982 - hanno evidenziato che il legislatore, quanto alla discarica abusiva, ha previsto due distinte ipotesi di reato: quella di realizzazione e quella di gestione della discarica:

a) La realizzazione consiste nella destinazione e allestimento a discarica di una data area, con la effettuazione, di norma, delle opere a tal fine occorrenti.

Tale ipotesi è permanente fino all'ultimazione dell'opera; dopodiché diventa ad effetti permanenti.

b) La gestione di discarica senza autorizzazione presuppone che un sito sia stato già apprestato per raccogliervi i rifiuti e consiste nell'attivazione di una organizzazione anche rudimentale, di persone, cose e/o macchine diretta al funzionamento della discarica stessa.

Il reato è permanente per tutto il tempo in cui l'organizzazione è presente ed attiva.

Nella fattispecie in esame la Corte di merito correttamente ha considerato che la discarica deve ritenersi "disattivata" a decorrere dal 13 gennaio 1999 (data dell'avvenuta consegna al Comune di San Giorgio in Bosco delle chiavi del capannone in cui erano ammassati i rifiuti, per l'esercizio dei poteri sostitutivi in relazione agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale).

Il fatto che da qualche tempo non venissero scaricati rifiuti in quel sito, a causa di circostanze contingenti non fa cessare la permanenza né riconduce la vicenda ad un mero mantenimento dei rifiuti fattivi scaricare da altri. La s.r.l. "F.", infatti - alla quale non era estranea un'attività, sia pure residuale, di commercio di rifiuti - anche dopo essere stata convenuta in giudizio con atto di intimazione di sfratto per morosità, non rilasciava il capannone, né revocava le richieste di autorizzazioni ambientali in precedenza inoltrate: razionalmente, dunque, è stata evidenziata l'esistenza di una "organizzazione presente ed attiva" (alla stregua delle argomentazioni svolte dalle Sezioni Unite) fino alla consegna al Comune delle chiavi del capannone.

La permanenza del reato di discarica, però, non può considerarsi protratta oltre tale data, in quanto, al di là di ogni questione riferita alla perdita di possesso del sito, certamente non può più ravvisarsi alcuna possibilità di "funzionamento" successiva ad una chiusura "definitiva".

È vero che l'art. 6, lett. d), del D.Lgs. n. 22/1997 riconduce al concetto di "gestione dei rifiuti" anche "... il controllo delle discariche e degli impianti di smaltimento dopo la chiusura". Dalla lettura degli Allegati B) e C) si evince, però, che le ulteriori attività di controllo dopo la chiusura degli impianti non sono comprese nelle autonome nozioni di smaltimento o recupero, e l'anzidetto controllo successivo non può riferirsi comunque a colui che tenga un comportamento inerte dopo l'inizio dell'intervento esecutivo "in danno" ad opera del Comune.

3.2 Le argomentazioni anzidette conservano l'abilità pure nel vigore della disciplina posta dal D.Lgs. 13.1.2003, n. 36 (Attuazione della direttiva 1999/31/CE relativa alle discariche di rifiuti), che non contiene disposizioni più favorevoli per gli imputati.

Il sito di accumulo di rifiuti valutato nel presente giudizio va considerato, infatti, "discarica" anche alla stregua della definizione fornita dall'art. 2, lett. g), del D.Lgs. n. 36/2003, non configurandosi, nella specie, deposito temporaneo, né stoccaggio in attesa di recupero o trattamento, né stoccaggio di rifiuti in attesa di smaltimento per un periodo inferiore ad un anno.


Ai sensi dell'art. 2, lett. o), le fasi di gestione di una discarica "vanno dalla realizzazione e gestione della discarica fino al termine della gestione post - operativa compresa" e la gestione post - operativa è attualmente disciplinata dall'art.13 del D.Lgs. n. 36/2003, il cui primo comma impone, anche in tale fase: il rispetto sia delle prescrizioni stabilite dall'autorizzazione e dai piani di gestione pure di ripristino ambientale sia delle norme in materia di gestione dei rifiuti, di scarichi idrici e tutela delle acque, di emissioni in atmosfera, di rumore, di igiene e salubrità degli ambienti di lavoro, di sicurezza e prevenzione incendi; nonché la necessità di assicurare la manutenzione ordinaria e straordinaria di tutte le opere funzionali ed impiantistiche della discarica.

Il secondo comma dello stesso art. 13 stabilisce, inoltre, che "la manutenzione, la sorveglianza e i controlli della discarica devono essere assicurati anche nella fase della gestione successiva alla chiusura, fino a che l'ente territoriale competente accerti che la discarica non comporta rischi per la salute e l'ambiente. In particolare, devono essere garantiti i controlli e le analisi del biogas, del percolato e delle acque di falda che possano essere interessate".

La permanenza del reato di discarica abusiva, però, si correla alla protrazione nel tempo della condotta materiale accompagnata dalla cosciente volontà di mantenimento della stessa. La legge punisce la mancanza di autorizzazione in un'ottica di funzionamento, mentre, allorquando ha effettivo inizio la gestione post - operativa, si pone in essere una condotta che pone fine alla situazione antigiuridica e viene meno la stessa "ratio" della richiesta di autorizzazione; il sito non è più destinato permanentemente a luogo di scarico e deposito di rifiuti, sicché a perdurare nel tempo sono soltanto gli effetti del precedente illecito accumulo.

La c.d. concezione "bifasica" del reato permanente (che imposta la condotta di tale reato su due tempi: il primo di aggressione dell'interesse tutelato, ed il secondo di rimozione di tale illiceità), al pari di quella "pluralista", è stata da tempo abbandonata in dottrina ed in giurisprudenza, essendo stata privilegiata, invece, la nozione unitaria (vedi Cass., sez. Unite: 13.7.1998, Montanari; 28.4.1999, P.M. in proc. Palma ed altro; 14.7.1999, P.M. in proc. Lauriola ed altri; 27.2.2002, Cavallaro), confortata pure dall'interpretazione dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 520 del 26.11.1987).

Il reato permanente trova caratterizzazione nel tipo di condotta e nella correlazione di questa con l'offesa all'interesse protetto, sulla base della descrizione contenuta nella norma incriminatrice.

Il fatto che la legge (all'art. 6, 1° comma - lett. d, del D.Lgs. n. 22/1997) riconduce al concetto di "gestione dei rifiuti" anche "... il controllo delle discariche e degli impianti di smaltimento dopo la chiusura" non significa che, dopo la chiusura della discarica possa parlarsi ancora di funzionamento della stessa.

La nozione di "gestione dei rifiuti" (introdotta appunto dall'art. 6, 1° comma - lett. d, del D.Lgs. n. 22/1997) è un concetto nuovo e vastissimo - onnicomprensivo delle pur sempre diverse ed autonome fasi della raccolta, trasporto, smaltimento e recupero - rispetto al precedente impianto normativo espresso dal D.P.R. n. 915/1982, basato sulla più limitata nozione di "smaltimento".

In tale prospettiva l'art. 2, lett. o), del D.Lgs. n. 36/2003 ha inteso affermare senza equivoci che va ricondotta, alla "gestione dei rifiuti" anche la gestione post - operativa di una discarica, in un'ottica di garanzia dello smaltimento "sicuro". Ciò non significa, però, che la discarica possa considerarsi tenuta in esercizio anche allorquando non è più operativa, sicché questo Collegio non condivide le conclusioni tratte dalla sentenza 27.1.2004, n. 2662, ric. P.M, in proc. Zanoni, secondo le quali "ormai la permanenza del reato di discarica abusiva verrà meno solo dopo dieci anni dalla cessazione dei conferimenti ovvero con l'ottenimento dell'autorizzazione o la rimozione dei rifiuti".

Deve convenirsi che l'intervento di rimozione dei rifiuti, attuato in via sostitutiva dal Comune ex art. 14, 3° comma, del D.Lgs. n. 22/1997, non "consuma" il corrispondente obbligo posto a carico di chiunque abbia violato il divieto di abbandono. A tale obbligo si correla la necessità delle iscrizioni, comunicazioni ed autorizzazioni prescritte per il trasporto, lo smaltimento e l'eventuale recupero, ma non dell'autorizzazione prodromica al funzionamento di una discarica (nel caso in cui l'abbandono sia stato sistematico e si sia protratto per un tempo considerevole) e, pur configurandosi l'esecuzione di doveri concernenti, non possono porsi, a carico di chi non esegue, obblighi strettamente collegati alle modalità esecutive scelte ed attuate da soggetto diverso.

3.3 Il reato di cui all'art. 50, 2° comma, del D.Lgs. n. 22/1997 si perfeziona con la scadenza dei termini previsti nell'ordinanza sindacale e tali termini devono considerarsi perentori in quanto alla scadenza di essi si collega l'obbligo, per il Comune, di procedere all'esecuzione in danno. Dall'inizio effettivo di tale esecuzione (cui si correla il recupero delle somme anticipate) la condotta dell'agente non è più necessaria affinché venga rimossa la situazione antigiuridica.

3.4 Nella fattispecie in esame è stata enunciata, già nella formale contestazione, la continuazione fra tutte le contravvenzioni ex art. 81 cpv. cod. pen., in attuazione di un unitario disegno criminoso: questo, pertanto, solo apparentemente si fraziona nei singoli episodi, che costituiscono, invece, tappe intermedie di un unico iter, il cui integrale compimento si ha soltanto con la consumazione dell'ultimo episodio, sicché è da quest'ultimo momento che, ai sensi dell'art. 158 cod. pen., comincia a decorrere il termine prescrizionale (vedi Cass.: Sez. III, 27.4.1990, n. 6155).

Se, inoltre, tra i vari reati da considerarsi in modo unitario, inoltre, figurano reati permanenti, il termine prescrizionale inizia a decorrere dal momento in cui la permanenza viene a cessare (vedi Cass., Sez. III, 4.2.1999, n. 1454).

Infondata, pertanto, è la prospettazione del ricorrente B., secondo la quale la prescrizione - per i reati di cui ai capi a) e b) - sarebbe maturata in epoca anteriore alla sentenza di primo grado (poiché il decreto di citazione a giudizio porta la data del 13.9.2001), sicché non sussisterebbero i presupposti di operatività dell'art. 578 c.p.p. ed il Tribunale avrebbe dovuto conseguentemente astenersi da qualsivoglia pronuncia in ordine alle pretese civilistiche.

4. La qualificazione come "rifiuti" delle sostanze accatastate nel capannone.

Infondata è la prospettazione di insussistenza dei reati, svolta dagli imputati ricorrenti, sul presupposto che le sostanze accatastate nel capannone non potrebbero considerarsi "rifiuti".

4.1 Le caratteristiche principali della nozione di "rifiuto", in ambito europeo, sono individuate dall'art. 1 della direttiva del Consiglio 15.7.1975, n. 75/442/CEE (sui rifiuti in generale), modificata dalla direttiva 18.3.1991, n. 91/156/CEE e dall'art. 1 della direttiva del Consiglio 20.3.1979, n. 78/319/CEE (sui rifiuti tossici e pericolosi), modificata dalla direttiva 12.12.1991, n. 91/689/CEE.

Secondo tali direttive "per rifiuto si intende qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'obbligo di disfarsi secondo le disposizioni nazionali vigenti".

La direttiva n. 91/156/CEE ha ampliato e specificato tale nozione, riportandone le categorie nell'Allegato I e rinviando alla Commissione il compito di preparare, entro il 1° aprile del 1993, un elenco (suscettibile di riesame periodico) dei rifiuti rientranti nelle suddette categorie.

La nozione medesima è stata altresì recepita dall'art. 2, lett. a), del Regolamento del Consiglio CEE 1 febbraio 1993, n. 259/93, relativo ai trasporti transfrontalieri di rifiuti (immediatamente e direttamente applicabile in Italia secondo Corte Cost. n. 170/1984).

4.2 La Corte europea di Giustizia si è pronunziata, in diverse occasioni, sulla delimitazione della nozione di "rifiuto" [si ricordino, tra le decisioni più recenti, quelle: della Sez. III, 15.1.2004, causa C-235/02, Saetti e Freudiani; della Sez. VI, 11.9.2003, C-114/01, Avesta Polarit Chrome Oy; della Sez. VI, 18.4.2002, C-9/00, Palin Granit Oy; della Sez. V, 15.6.2000, C-418/97 e 419/97, Arco] ed ha affermato che:
a) Il campo di applicazione della nozione di "rifiuto" dipende essenzialmente dal corretto significato da attribuire al termine "disfarsi".

b) L'inclusione di un determinato materiale nell'elenco dei rifiuti (in attuazione delle disposizioni contenute nell'art. 1, lett. a, della direttiva 75/442/CEE) non significa, tuttavia, che un tale materiale sia un rifiuto in ogni circostanza.

c) "Dalla circostanza che su una sostanza venga eseguita un'operazione menzionata nell'Allegato II della direttiva 75/442/CEE non discende che l'operazione consista nel disfarsene e che quindi tale sostanza vada considerata rifiuto".


d) Possono considerarsi indizi rilevanti, nel senso di escludere la natura di rifiuto, i seguenti:
- la circostanza che un bene, un materiale o una sostanza derivino "da un processo produttivo che non è principalmente destinato a produrli" e costituiscano "non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto ... che l'impresa intende sfruttare o mettere in commercio, a condizioni ad essa favorevoli, in un processo produttivo, senza operare trasformazioni preliminari";
- la certezza - e non la mera eventualità - del reimpiego del materiale o della sostanza senza operazioni di trasformazione preliminare. Il che comporta la necessità che la sostanza stessa venga reimpiegata nella sua totalità, dovendosi escludere la possibilità che una parte di essa venga separata ed avviata a smaltimento in quanto non utilizzabile;
- il riscontro che il metodo di trattamento della sostanza non costituisca una modalità corrente di trattamento dei rifiuti.


4.3 Nel nostro Paese le caratteristiche che, in ambito comunitario, individuano la nozione di "rifiuto" sono riprodotte nell'art.6, comma 1 - lett. a), del D.Lgs. 5.2.1997, n. 22 (che ha recepito le modifiche del 1991 alle due direttive comunitarie sui rifiuti) secondo cui "è rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'Allegato A e di cui il detentore si disfi e abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi".

Tale normativa - attraverso il rinvio all'Allegato A), che riproduce l'Allegato I della direttiva n. 75/442/CEE - riporta l'elenco delle 16 categorie di rifiuti individuate in sede comunitaria, mentre gli Allegati II A e II B della direttiva sono riprodotti, rispettivamente, negli Allegati B) e C) al D.Lgs. n. 22/1997.

Il primo elemento essenziale della nozione di "rifiuto", nel nostro ordinamento, è costituito, pertanto, dall'appartenenza ad una delle categorie di materiali e sostanze individuate nel citato Allegato A), ma l'elenco delle 16 categorie di rifiuti in esso contenuto non è esaustivo ed ha un valore puramente indicativo, poiché lo stesso Allegato "A) - Parte 1" comprende due voci residuali capaci di includere qualsiasi sostanza od oggetto, da qualunque attività prodotti:
- la voce Q1, che riguarda "i residui di produzione o di consumo in appresso non specificati";
- la voce Q16, che riguarda "qualunque sostanza, materia o prodotto che non rientri nelle categorie sopra elencate".

È necessario tenere essenzialmente conto, pertanto, delle ulteriori condizioni imposte dalla legge, e verificare cioè, anche e soprattutto, che il detentore della sostanza o del materiale:
- se ne disfi,
- o abbia deciso di disfarsene,
- o abbia l'obbligo di disfarsene.

L'art. 2 della direttiva n. 91/156/CEE prevede, al 1° comma, alcune specifiche esclusioni del proprio campo di applicazione mentre, al 2° comma, delinea in termini di complementarietà ed integrazione i rapporti della normativa generale sui rifiuti, da essa fissata, con alcune normative comunitarie specifiche, relativo a particolari categorie e la legislazione italiana ribadisce la valenza generale del D.Lgs. n. 22/1997 "fatte salve disposizioni specifiche particolari o complementari, conformi ai principi del presente decreto, adottate in attuazione di direttive comunitarie che disciplinano la gestione di determinate categorie di rifiuti" (art. 1, comma 1).

I materiali di risulta da attività metallurgiche, quali polveri di macinazione e schiumatura di alluminio e polveri da abbattimento di fumi, non costituiscono una particolare categoria di rifiuti, peculiarmente disciplinata ai fini di tutela ambientale, sicché per essi valgono i principi della normativa generale sui rifiuti.

4.4 Le tre diverse previsioni del concetto di "disfarsi" (riprodotte nell'art. 6,comma 1 - lett. a), del D.Lgs. n. 22/1997) hanno trovato "interpretazione autentica" nell'art. 14 del D.L. 8.7.2002, 138, pubblicato in pari data nella Gazzetta Ufficiale e convertito nella legge 8.8.2002, n. 178.

Secondo questa interpretazione:
a) "si disfi" deve intendersi: qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale o un bene sono avviati sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B) e C) del D.Lgs. n. 22/1997;
b) "abbia deciso di disfarsi" deve intendersi: la volontà di destinare sostanze, materiali o beni ad operazioni di smaltimento e di recupero, secondo gli allegati B) e C) del D.Lgs. n. 22/1997;
c) "abbia l'obbligo di disfarsi" deve intendersi: l'obbligo di avviare un materiale, una sostanza o un bene ad operazioni di recupero o di smaltimento, stabilito da una disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche autorità o imposto dalla natura stessa del materiale, della sostanza e del bene o dal fatto che i medesimi siano compresi nell'elenco dei rifiuti pericolosi di cui all'Allegato D) del D.Lgs. n. 22/1997 (che riproduce la lista di rifiuti che, a norma della direttiva n. 91/689/CEE, sono classificati come pericolosi).

Ai sensi della nuova normativa, le sole fattispecie di cui alle lettere b) e C) [cioè le ipotesi in cui il detentore della sostanza o del materiale "abbia deciso" ovvero "abbia l'obbligo di disfarsi" e non anche l'ipotesi in cui esso "si disfi"] non ricorrono - per beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo - ove sussista una delle seguenti condizioni:
1) gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all'ambiente;
2) gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo, senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'Allegato C) del D.Lgs. n. 22/1997.

È stata così introdotta una doppia deroga alla nozione generale di "rifiuto", in relazione alla quale:
- la Commissione Europea, il 16.10.2002, ha deciso di aprire una procedura di infrazione (ex art. 169/226 del Trattato) nei confronti del Governo italiano per mancato rispetto della direttiva n. 75/442/CEE come modificata dalla direttiva n. 91/156/CEE, ritenendo configurabile "un'indebita limitazione del campo di applicazione della nozione di rifiuto".


La Commissione, anche con riferimento alla giurisprudenza della Corte Europea di Giustizia, ha evidenziato che "la nozione di rifiuto non può essere commisurata allo specifico tipo di operazione di recupero o smaltimento che viene effettuata" e, con parere motivato del 9.7.2003, ha invitato il Governo italiano ad adeguarsi alla normativa europea.

- il Tribunale monocratico di Terni, con ordinanza 20.11.2002, ha richiesto alla Corte Europea di Giustizia di stabilire, con sentenza interpretativa (ex art. 177/234 del Trattato), se la nozione di rifiuto introdotta con le citate direttive CEE debba continuare ad essere intesa ed interpretata in Italia alla luce delle pregresse sentenze emesse in materia dalla stessa Corte di Giustizia ovvero alla stregua dell'art. 14 della legge n. 178/2002.

Tale ultima disposizione, infatti, avrebbe introdotto delle presunzioni "iuris et de iure" di esclusione dell'applicabilità dell'art. 6 del D.Lgs. n. 22/1997, dalle quali risulterebbe fortemente limitato e circoscritto l'ambito di applicazione della definizione europea di rifiuto, che non esclude, in via di principio, alcun tipo di residuo, di prodotto di scarto o di altro materiale e sostanza derivante dai vari processi industriali.

4.5 Nella situazione normativa dianzi delineata, questa Sezione ha espresso due diversi orientamenti:
- Con la sentenza 27.11.2002, n. 2125, Ferretti ha sostenuto la necessità di non applicare la normativa nazionale contrastante con il Regolamento del Consiglio CEE 1 febbraio 1993, n. 259/93 sui trasporti transfrontalieri [direttamente applicabile nell'ordinamento degli stati membri ai sensi dell'art. 249 (ex 189) del Trattato] e con l'interpretazione delle sentenze della Corte Europea di Giustizia.

- Con la sentenza 13.11.2001, n. 4052, Passerotti ha affermato, al contrario, che la nuova disciplina del 2002 - benché modificativa, della nozione di rifiuto dettata dall'art. 6, 1° comma - lett. a), del D.Lgs. n. 22/1997 - è vincolante per il giudice, in quanto introdotta con atto avente pari efficacia legislativa della norma precedente.

Essa inoltre - benché modificativa anche della nozione di rifiuto dettata dall'art. 1 della direttiva europea 91/156/CEE - resta vincolante per il giudice italiano, posto che tale direttiva non è autoapplicativa (self executing) e costituisce obblighi per gli Stati dell'Unione Europea ma non direttamente situazioni giuridiche attive o passive per i soggetti intrastatali, sicché ha necessità di essere recepita dagli ordinamenti nazionali per diventare efficace verso questi ultimi [Nel senso che anche la direttiva 91/689/CEE, in materia di rifiuti pericolosi, neutra tra le direttive aventi l'obiettivo di armonizzare le diverse normative nazionali e non fra quelle con prescrizioni incondizionate e dettagliate, immediatamente applicabili nell'ordinamento interno, vedi Cass., Sez. III, 26.6.1997, n. 1699].

- Tale secondo orientamento ha ribadito con le sentenze 22.1.2003, Costa; 11.2.2003, Mortellaro; 31.7.2003, Agogliati; 9.10.2003, De Fronzo ha applicato l'art. 14 del D.L. n. 138/2002.

- Con la sentenza 15.4.2003, n. 17656, Gonzales si è soffermata, in particolare, sulla distinzione tra i residui ed i sottoprodotti dei quali l'impresa non ha intenzione di disfarsi ai sensi dell'art. 1, lett. a, comma 1, della direttiva 75/442, ma che essa intende sfruttare o commercializzare a condizioni favorevoli, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari.

4.6 Nella fattispecie in esame, però, è l'oggettività del fatto ad escludere l'applicazione dell'art. 14 del D.L n. 138/2002.


Nel capannone gestito dalla s.r.l. "F." erano depositati - infatti - materiali di risulta da attività produttive metallurgiche, quali polveri di macinazione e schiumatura di alluminio e polveri da abbattimento di fumi, di cui le imprese produttrici sicuramente aveva "deciso di disfarsi", nonché sostanze comprese nell'elenco dei rifiuti pericolosi di cui all'Allegato D) del D.Lgs. n. 22/1997, per i quali sussisteva "l'obbligo di disfarsi".

I big bags raccolti nel capannone, pur provenendo da imprese produttrici diverse, erano tutti anonimi, in quanto non riportavano alcuna indicazione circa la provenienza e la tipologia delle sostanze contenute.

L'indeterminatezza dell'accumulo di tali sostanze, pertanto, già per la carenza di qualsiasi selezione di omogeneità, escludeva anche la "mera eventualità" di un reimpiego totale, in un ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all'ambiente. La concreta e totale destinazione al reimpiego, al contrario, era esclusa dalla circostanza che, per tutto il periodo in esame, i quantitativi di materiali registrati in uscita potevano considerarsi "quasi simbolici", sì da evidenziare una macroscopica eccedenza dei quantitativi di scorie accumulati rispetto a quelli episodicamente rimossi (vedi Cass., sez. IV, 4.7.2002, Costa).

Le deroghe introdotte dal 2° comma dell'art. 14 del D.L. n. 138/2002, dunque, non sono comunque applicabili nella specie per la carenza dei presupposti.

5. La possibilità di concorso tra i reati di illecita gestione di rifiuti e di discarica abusiva e la qualificazione dei rifiuti.


5.1 L'art. 51, 1° comma, del D.Lgs. n. 22/1997 stabilisce un obbligo generale, penalmente sanzionato, di autorizzazione per chi esercita un'attività di gestione di rifiuti (stoccaggio, raccolta e trasporto, smaltimento, recupero, commercio ed intermediazione), con pene più severe se si tratta di rifiuti pericolosi.

Il reato anzidetto sicuramente può concorrere con quello di discarica abusiva, autonomamente previsto dal 3° comma dell'art. 51, riferito ad una condotta reiterata nel tempo con cui si smaltiscono rifiuti in una determinata area, che assume una oggettiva e non equivoca destinazione alla definitiva ed incontrollata ricezione di rifiuti con immediato impatto ambientale.


5.2 I rifiuti, nella specie, in seguito ad accertamento peritale, sono stati qualificati dal primo giudice come tossico - nocivi all'epoca dei fatti, "anche dal solo punto di vista dell'analisi chimica degli stessi".

Secondo lo stesso giudice, "la successiva e incalzante produzione di articolati normativi da cui potrebbero inferirsi modifiche, correlate alla valorizzazione della provenienza dei rifiuti, dei parametri di tollerabilità dal punto di vista chimico, influenti su diversi campioni presi in esame, non supera ... il principio - base dell'art. 57 del D.Lgs. n. 22 del 1997, secondo cui - nonostante l'abrogazione (operata dalla lett. b dell'art. 56), del D.P.R. 915/1982 - per ogni riferimento regolamentare relativo al trasporto e allo smaltimento dei rifiuti, i rifiuti già definibili tossico - nocivi prima dell'attuazione delle norme regolamentari del decreto legislativo citato diventano automaticamente qualificabili come pericolosi".

Deve ricordarsi, inoltre, che anche una decisione di questa Corte (Cass., Sez. III, 3.8.1999, n. 2358, Belcari) ha affermato che il D.Lgs. n. 22/1997, per effetto della norma transitoria di cui all'art. 57, comma 1, equipara i rifiuti tossici e nocivi della normativa precedente (D.P.R. n. 915 del 1982) ai rifiuti pericolosi della normativa vigente.

Le anzidette affermazioni vanno precisate ricordando che l'ambito dei rifiuti già considerati "tossici e nocivi" non coincide con quelle degli attuali rifiuti "pericolosi" e che la norma transitoria in oggetto ha equiparato le due categorie al solo fine di fare salva temporaneamente (in attesa della fissazione delle nuove norme) l'applicazione delle precedenti norme regolamentari e tecniche di salvaguardia per la raccolta, il trasporto e lo smaltimento dei rifiuti.

La Corte territoriale ha rilevato, in proposito, l'irrilevanza della questione a fronte dell'accertata prescrizione, perché, anche qualora i rifiuti in questione dovessero considerarsi non - pericolosi, ciò "non escluderebbe la responsabilità degli imputati per i fatti contestati, ma imporrebbe solo una diversa quantificazione delle pene".

Si afferma invece, nel ricorso del B., che l'accertamento della "pericolosità" dei rifiuti non può considerarsi irrilevante (poiché destinato ad incidere soltanto sulla quantificazione della pena, a fronte di reati prescritti), ma si pone come direttamente influente sulle statuizioni civili riferite al risarcimento dei danni ed alla determinazione delle provvisionali.

La doglianza è infondata in quanto, secondo la giurisprudenza di questa Corte Suprema:
- "Ai fini della pronuncia di condanna generica al risarcimento dei danni in favore della parte civile, non è necessario che il danneggiato dia la prova della effettiva sussistenza dei danni e del nesso di causalità tra questi e l'azione dell'autore dell'illecito, ma è sufficiente l'accertamento di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose: la suddetta pronuncia, infatti, costituisce una mera declaratoria iuris, da cui esula ogni accertamento relativo sia alla misura sia alla stessa esistenza del danno, il quale è rimesso al giudice della liquidazione" (vedi Cass. pen.: Sez I, 18.3.1992, n. 3220, Sez. IV, 15.6.1994, n. 7008; Sez. VI, 26.8.1994, n. 9266).

- "La facoltà del giudice penale di pronunciare una condanna generica al risarcimento del danno ed alla provvisionale, prevista dall'art. 539 c.p.p., non incontra restrizioni di sorta in ipotesi di incompiutezza della prova sul quantum, bensì trova implicita conferma nei limiti dell'efficacia della sentenza penale di condanna nel giudizio civile per la restituzione e il risarcimento del danno fissati dall'art. 651 c.p.p. quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità ed all'affermazione che l'imputato l'ha commesso, escludendosi, perciò, l'estensione del giudicato penale alle conseguenze economiche del fatto illecito commesso dall'imputato" (Cass. pen., Sez. IV, 26.1.1999, n. 1045).

- "La condanna generica al risarcimento dei danni, contenuta nella sentenza penale, pur presupponendo che il giudice riconosca che la parte civile vi ha diritto, non esige alcun accertamento in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, ma postula soltanto l'accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e della probabile esistenza di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, salva restando nel giudizio di liquidazione del quantum la possibilità di esclusione dell'esistenza stessa di un danno unito da rapporto eziologico con il fatto illecito" (Cass. civ., Sez. III, 11.1.2001, n. 329).

Nella fattispecie in esame la determinazione della provvisionale non risulta correlata alla pericolosità dei rifiuti ed il giudice civile, in sede di determinazione concreta del danno, potrà specificamente valutare l'incidenza dell'eventuale pericolosità delle sostanze, tenuto conto anche dei criteri fissati con la decisione CE n. 532 del 3 maggio 2000 e successive modifiche.


6. Il reato di cui all'art. 50, 2° comma, del D.Lgs. n. 22/1997.

Il Tribunale ha qualificato la contravvenzione contestata al capo C) come violazione degli artt. 14, 3° comma - seconda parte, e 50, 2° comma, del D.Lgs. n. 22/1997 (piuttosto che come violazione degli artt. 17 e 51 bis).

Incongruenti sono pertanto tutte le argomentazioni riferite dal ricorrente B. alla insussistenza delle condizioni, di cui all'art. 17, per l'obbligo di bonifica del sito.

Né può condividersi l'ulteriore prospettazione secondo la quale il provvedimento emanato in concreto avrebbe dovuto essere disapplicato per illegittimità palese, in quanto l'ordinanza sindacale prevista dall'art. 14 del D.Lgs. n. 22/1997 potrebbe emettersi esclusivamente in relazione ad "un fatto minimale consistente nell'abbandono e/o nel deposito incontrollato di rifiuti". Affatto disancorata dal dato normativo appare, invero, l'affermazione che detta ordinanza possa riguardare soltanto "attività modesta ed un fatto proporzionalmente circoscritto, a livello di evento e di danno" ed "imporre una mera ripulitura superficiale dell'area".

In ordine a tale reato, inoltre, gli imputati non possono invocare l'inesigibilità della condotta (in applicazione della teoria secondo la quale verrebbe meno la colpevolezza, quando sia impossibile pretendere dal soggetto una condotta conforme al precetto), sia perché nel nostro ordinamento penale, ispirato al principio di legalità, non sono ipotizzabili cause di esclusione della punibilità diverse da quelle legislativamente previste, sia perché gli stessi imputati non hanno dimostrato di avere fatto tutto quanto era nelle loro possibilità, per evitare il comportamento illecito.

Questa Corte si è già pronunciata nel senso che "il principio della non esigibilità di una condotta diversa - sia che lo si voglia ricollegare alla ratio della colpevolezza, riferendolo ai casi in cui l'agente operi in condizioni soggettive tali da non potersi da lui umanamente pretendere un comportamento diverso, sia che lo si voglia ricollegare alla ratio dell'antigiuridicità, riferendolo a situazioni in cui non sembri coerente ravvisare un dovere giuridico dell'agente di uniformare la condotta al precetto penale - non può trovare collocazione e spazio al di fuori delle cause di giustificazione e delle cause di esclusione della colpevolezza espressamente codificate, in quanto le condizioni e i limiti di applicazione delle norme penali sono posti dalle nome stesse, senza che sia consentito al giudice di ricercare cause ultralegali di esclusione della punibilità attraverso l'analogia iuris" (Cass., Sez. VI, 31.5.1993, n. 973, ric. P.M, in proc. Bove. Vedi pure, in proposito, Cass., Sez. III, 27.9.1985, n. 8271, ric. Viti).

7. La pretesa evidenza della irresponsabilità degli imputati.

La Corte territoriale ha valutato i profili di responsabilità civile degli imputati sulla base dei seguenti elementi:
- il R. ed il B. sono stati, rispettivamente, amministratori unici della s.r.l. "F." (a fare data dal 27.10.1995) e della s.r.l. "D. A.": agli stessi, che avevano effettivamente esplicato funzioni gestionali, era riconducibile la contestata attività di conferimento e raccolta dei rifiuti nel capannone;

- il N., oltre ad essersi personalmente occupato dell'affitto del capannone, aveva in concreto messo a disposizione della s.r.l. "F." gli strumenti per la movimentazione dei big bags, contenenti i rifiuti. Ciò indipendentemente dalla qualifica formale rivestita all'interno della s.n.c. "F.lli N.". Correttamente, pertanto, la sua condotta è stata ritenuta concorrente nei fatti - reato di cui ai capi a) e b) secondo i principi generali.

Dal verbale di udienza del giudizio di appello non risulta disposta alcuna acquisizione documentate ai sensi dell'art. 603 c.p.p.;
- gli imputati R. e B. erano sicuramente destinatari degli obblighi imposti dal Sindaco del Comune di San Giorgio in Bosco con l'ordinanza del 3.11.1998 (espressamente emanata anche nei loro confronti) - con la quale imponeva la presentazione, entro 30 giorni, di un piano di bonifica del sito - discarica - ed essi tutti non avevano ottemperato a tale provvedimento.


Quanto al R., non può trovare integrale applicazione il principio del "ne bis in idem" di cui all'art. 649 c.p.p., perché egli risulta prosciolto per prescrizione - con la sentenza 9.6.1999 del Tribunale di Padova - Sezione distaccata di Cittadella - per il fatto di smaltimento non autorizzato di rifiuti pericolosi, attualmente contestato al capo a), riguardato soltanto nel suo momento iniziale (fino al 18.10.1995) e non esteso a tutta la successiva esplicazione dota illecita condotta. Quel giudice non ha affermato che la s.r.l. "F." abbia esaurito la gestione antigiuridica dei rifiuti alla data del 18.10.1995: correttamente, pertanto, l'odierno giudizio non ha riguardato la condotta tenuta dal R. per il solo periodo dal 5 al 18 ottobre 1995.

8. Le eccezioni procedurali proposte dal B.

Con statuizioni corrette i giudici del merito hanno ritenuto che:
- La notifica dell'avviso all'indagato previsto dall'art. 415 bis c.p.p. dopo la scadenza del termine fissato dal 2° comma dell'art. 405 c.p.p. non costituisce ragione di nullità, per il principio di tassatività di cui all'art. 177 c.p.p..

La circostanza che l'avviso debba contenere soltanto "la sommaria enunciazione del fatto per il quale si procede" esclude altresì che possa configurarsi nullità dello stesso per il mancato riferimento al "vincolo della continuazione ed alla permanenza in atto", riportato, invece, per tutti gli imputati nel decreto di citazione a giudizio. La doglianza, del resto, appare speciosa perché anche nella copia dell'avviso notificata al B. i reati di cui ai capi b) e c) risultavano contestati "sino ad oggi".
- Il deposito in Cancelleria della costituzione di parte civile effettuato successivamente alla notificazione alla controparte non comporta alcuna inefficacia della costituzione medesima. La legge dispone che l'atto di costituzione è improduttivo di effetti se non è depositato nella cancelleria del giudice che procede o presentato in udienza. Nel primo caso, inoltre, per produrre effetti, esso deve essere altresì notificato alle altre parti del rapporto processuale civile ed al P.M..

Non produce alcun effetto il mero deposito nella cancelleria della dichiarazione di costituzione non notificata alle altre parti, mentre il deposito della dichiarazione precedentemente notificata rende la costituzione processualmente perfetta dalla data di esso, in quanto solo da tale data, il rapporto processuale potrà dirsi perfezionato.

L'atto di costituzione di parte civile del comune di San Giorgio in Bosco risulta ritualmente sottoscritto dal difensore e l'ufficiale giudiziario notificante ha rilasciato attestazione (non contestata) di conformità della copia notificata all'originale, applicandosi le norme del codice di procedura penale sulle notificazioni all'imputato.

- Non sussiste alcuna nullità del decreto di citazione a giudizio, ai sensi del 2° comma dell'art. 552 c.p.p., tenuto conto che, nella formulazione delle imputazioni, il complesso delle informazioni portate a conoscenza degli imputati esclude ad evidenza la pretesa insufficienza della contestazione. I fatti di reato attribuiti risultano dotati di adeguata specificità e nessun dubbio può sorgere circa lo loro idoneità a consentire l'apprestamento di adeguate difese.

9. Gli enti territoriali ed il risarcimento del danno.

9.1 Viene eccepito - nel ricorso proposto dall'Avvocatura distrettuale dello Stato di Venezia, quale difensore ex lege della parte civile Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio, che al Comune di San Giorgio in Bosco, anch'esso costituitosi parte civile, sarebbe stato erroneamente riconosciuto il risarcimento del danno ambientale, ai sensi dell'art. 18 della legge n. 349/1986, in quanto il Comune sarebbe mero soggetto legittimato all'azione ma non titolare del diritto al risarcimento.


9.2 La doglianza deve ritenersi manifestamente infondata, per le considerazioni che vengono svolte di seguito.

L'art. 18, 1° comma, della legge 8.7.1996, n. 349 (istitutiva del Ministero dell'ambiente) stabilisce che "qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l'ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l'autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato" ed il 3° comma dello stesso articolo prevede che "l'azione di risarcimento del danno ambientale, anche se esercitata in sede penale, è promossa dallo Stato, nonché dagli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo".

Tali enti territoriali possono fare valere sia il diritto dello Stato in nome proprio sia gli interessi collettivi di cui sono esponenziali quali enti rappresentativi delle comunità insediate nei rispettivi territori (vedi Cass., Sez. III, 19.6.2002, n. 22539, ric. Kiss Ghunter ed altri).

In proposito, da un'originaria impostazione, che vedeva nello Stato il monopolista dell'azione di danno, si è passati ad ammettere, ormai pacificamente, l'azione autonoma e concorrente degli enti territoriali, quali titolari anch'essi del diritto al risarcimento, correlato alla ripartizione delle rispettive competenze pubblicistiche (vedi Cass. civ., Sez. Unite: 12.2.1988, n. 1491 e 17.1.1991, n. 400), come riconosciuto pure dalla Corte Costituzionale con l'ordinanza n. 195 del 12.4.1990 (vedi anche, al riguardo, Cass. pen., sez. III: 23.6.1994, n. 7275, ric. Galletti ed altri; 19.1.1994, n. 439, ric. Mattiuzzi; 28.10.1993, n. 9727, ric. Benericetti, ove è stato affermato che "la Regione e, più in generale, gli enti territoriali sono legittimati a costituirsi parte civile ai sensi dell'art. 18 legge n. 349/1986, perché il danno ambientale derivante dal reato incide sull'ambiente, come assetto qualificato del territorio, il quale è elemento costitutivo di tali enti e perciò oggetto di un loro diritto di personalità").

9.3 In relazione, poi, alla nozione di danno all'ambiente, questa Corte Suprema, con la decisione n. 22539/2002 (ric. Kiss Ghunter ed altri), ha già evidenziato che la Corte Costituzionale - nella sentenza n. 641 del 30.12.1987 - conferisce al danno ambientale una rilevanza patrimoniale indiretta, nel senso che "la tendenziale scarsità delle risorse ambientali naturali impone una disciplina che eviti gli sprechi e i danni sicché si determina una economicità e un valore di scambio del bene. Pur non trattandosi di un bene appropriabile, esso si presta a essere valutato in termini economici e può ad esso attribuirsi un prezzo. Consentono di misurare l'ambiente in termini economici una serie di funzioni con i relativi costi, tra cui ... la gestione del bene in senso economico con fine di rendere massimo il godimento e la fruibilità della collettività e dei singoli e di sviluppare le risorse ambientali ... E per tutto questo l'impatto ambientale può essere ricondotto in termini monetari. Il tutto consente di date all'ambiente e quindi al danno ambientale un valore patrimoniale".

Avverte ancora il giudice delle leggi che "risulta superata la considerazione secondo cui il diritto al risarcimento del danno sorge solo a seguito della perdita finanziaria contabile nel bilancio dell'ente pubblico, cioè della lesione del patrimonio dell'ente, non incidendosi su un bene appartenente allo Stato ... La legittimazione ad agire, che è attribuita allo Stato ed agli enti minori, non trova fondamento nell'atto che essi hanno affrontato spese per riparare il danno, o nel fatto che essi abbiano subito una perdita economica ma nella loro funzione a tutela della collettività e delle comunità nel proprio ambito territoriale e degli interessi all'equilibrio ecologico, biologico e sociologico del territorio che ad essi fanno capo".

Lo schema di azione adottato - riconducibile al paradigma dell'art. 2043 cod. civ. - porta "ad identificare il danno risarcibile come perdita subita, indipendentemente sia dal costo della rimessione in pristino, peraltro non sempre possibile, sia dalla diminuzione delle risorse finanziarie dello Stato e degli enti minori".

Questo Collegio ribadisce che, dalle anzidette argomentazioni della Corte Costituzionale deve legittimamente desumersi che il contenuto stesso del danno ambientale viene a coincidere con la nozione non di danno patito bensì di danno provocato ed il danno ingiusto da risarcire si pone in modo indifferente rispetto alla produzione di danni - conseguenze, essendo sufficiente per la sua configurazione la lesione in sé di quell'interesse ampio e diffuso alla salvaguardia ambientale, secondo contenuti e dimensioni fissati da norme e provvedimenti. Il legislatore, invero, in tema di pregiudizio ai valori ambientali, ha inteso prevedere un ristoro quanto più anticipato possibile rispetto al verificarsi delle conseguenze dannose, che presenterebbero situazioni di irreversibilità.

Per integrare il fatto illecito, che obbliga al risarcimento del danno, non è necessario che l'ambiente in tutto o in parte venga alterato, deteriorato o distrutto, ma è sufficiente una condotta sia pure soltanto colposa "in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge", che l'art. 18 specificamente riconosce idonea a compromettere l'ambiente quale fatto ingiusti implicante una lesione presunta del valore giuridico tutelato.

Ciò trova conferma nella circostanza che, qualora non sia possibile una precisa quantificazione di un danno siffatto, il giudice - per espressa previsione dello stesso art. 18 della legge n. 349/1986 - procede in via equitativa, tenendo presenti parametri che prescindono da termini di ristoro soggettivo quali "la gravità della colpa individuale, il costo necessario per il ripristino, il profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo del bene ambientale".

9.4 La giurisprudenza civilistica di questa Corte Suprema, in relazione all'art. 18 della legge n. 349/1986:
a) ha dapprima evidenziato la specialità (e le differenze formali e sostanziali) della nuova disciplina rispetto alle previsioni generali dell'art. 2043 cod. civ. (vedi Cass. civ., Sez. Unite, 25.1.1989, n. 440);
b) ha poi innestato la disciplina speciale dell'art. 18 della legge n. 349/1986 in quella codicistica generale della responsabilità per danno (artt. 2043 e 2050 cod. civ.), ribadendo la peculiarità del danno ambientale, pur nello schema della responsabilità civile, e rilevando che esso consiste nell'alterazione, deterioramento, distruzione, in tutto o in parte dell'ambiente, inteso quale insieme che, pur comprendendo vari beni appartenenti a soggetti pubblici o privati, si distingue ontologicamente da questi e si identifica in una realtà immateriale, ma espressiva di un autonomo valore collettivo, che costituisce, come tale, specifico oggetto di tutela da parte dell'ordinamento (vedi Cass. civ., 9.4.1992, n. 4362).

Per la valutazione del danno ambientale, dunque, non può farsi ricorso ai parametri utilizzati per i beni patrimoniali in senso stretto, ma deve tenersi conto della natura di bene immateriale dell'ambiente, nonché della particolare rilevanza del valore d'uso della collettività che usufruisce e gode di tale bene.

Da ciò discende il superamento della funzione compensativa del risarcimento, che risulta evidenziato nello stesso testo legislativo:
- dalla individuazione (art. 18, comma 8) del ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile (prescindendosi da ogni valutazione di eccessiva onerosità per il debitore ex art. 2058, 2° comma, cod. civ.) quale strumento prioritario di riparazione del danno nei casi in cui esso sia concretamente possibile;
- dall'introduzione (art. 18, comma 6) di nuovi criteri di quantificazione equitativa del danno patrimoniale (gravità della colpa individuale; profitto conseguito dal trasgressore attraverso la propria condotta inquinante, costo necessario per il ripristino);
- dalla deroga (art. 18, comma 7), nel caso di più corresponsabili del fatto illecito, al principio di solidarietà posto dall'art.2055 cod. civ., attraverso la previsione che ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità individuale.

A fronte di un lamentato danno ambientale, dunque, l'esame del giudice non deve limitarsi a rilevare i tradizionali danni - conseguenza, assumendo autonoma rilevanza anche il danno - evento, inteso quale lesione in sé del bene ambientale (vedi Cass. civ., sez. I, 1.9.1995, n. 9211);
c) ha sostenuto, infine, in base ad un'interpretazione sistematica degli artt. 2, 3, 9, 32, 41 e 42 Cost., che la risarcibilità del danno ambientale, pur specificamente regolato dall'art. 18 della legge n. 349/1986, "trova la sua fonte genetica direttamente nella Costituzione" e che pertanto, "anche prima della legge n. 349/1986", proprio la Carta fondamentale e la norma generale dell'art. 2043 cod. civ. già apprestavano all'ambiente una tutela organica (vedi Cass. civ.: 19.6.1996, n. 5650, e 3.2.1998, n. 1087).

9.5 Non appare condivisibile, pertanto, l'interpretazione riduttiva (seguita da Cass., Sez. III, 25.5.1992, n. 6297, ric. Barigazzi e riaffermata, più di recente, da Cass., Sez. III, 14.1.2002, n. 1145, ric. Cucchiara ed altro) secondo la quale l'azione di risarcimento del danno ambientale potrebbe essere promossa soltanto quando sussista un pregiudizio concreto alla qualità della vita della collettività, sotto il profilo dell'alterazione, del deterioramento o della distruzione, in tutto o in parte, dell'ambiente, mentre non darebbero luogo a risarcimento, di regola, violazioni meramente formali.

Non vi è dubbio, poi, che - in relazione all'inadempimento dell'obbligo di rimozione dei rifiuti e di ripristino dello stato dei luoghi, previsto dall'art. 14 del D.Lgs. n. 22/1997, nonché dell'obbligo di bonifica, secondo le scansioni temporali stabilite dall'art. 17 dello stesso testo normativo e le prescrizioni stabilite in concreto dall'autorità, competente - il Comune può agire, in via di rivalsa, per il recupero delle spese anticipate e, nella fattispecie in esame è stato appunto disposto il risarcimento "delle spese sostenute per la messa in sicurezza del capannone e per quelle di bonifica del sito", oltre che "per il danno ambientale e non patrimoniale, ricomprensivo di quello all'immagine".

Quanto alla ravvisabilità di una lesione del diritto alla personalità dell'ente, per il discredito derivante alla propria sfera funzionale (riconosciuto anche alle associazioni ambientaliste da Cass. sez. III: 6.4.1996, n. 3503 e 26.9.1996, n. 8699), va ricordato che questa Sezione - con la sentenza 19.1.1994, n. 439, ric. Mattiuzzi - ha affermato che "il danno ambientale presenta una triplice dimensione: personale (quale lesione del diritto fondamentale dell'ambiente di ogni uomo); sociale (quale lesione del diritto fondamentale dell'ambiente nelle formazioni sociali in cui si sviluppa la personalità umana - art. 2 Cost.); pubblica (quale lesione del diritto - dovere pubblico delle istituzioni centrali e periferiche con specifiche competenze ambientali).

Lo stesso orientamento che afferma, la necessità della produzione di danni - conseguenze, del resto, ammette la risarcibilità della lesione dell'immagine dell'ente (che, dalla commissione dei reati, vede compromesso il prestigio derivante dall'affidamento di compiti di controllo o gestione) nei casi in cui sia stato concretamente accertato il danno ambientale, al quale sia collegata, come aspetto non patrimoniale, la menomazione del rilievo istituzionale dell'ente medesimo (Cass., Sez. III: n. 6297/1992 e n. 1145/2002).

10. La prospettazione dell'evitabilità del danno da parte del Comune.

Lamenta il B. la omessa valutazione del concorso di colpa del Comune di San Giorgio in Bosco, con riferimento all'art. 1227 cod. civ., a cagione della tardività dell'esecuzione in danno del disposto intervento di bonifica.

A tal proposito deve rilevarsi che l'art. 1227 cod. civ. - applicabile, per giurisprudenza costante, anche alle ipotesi di illecito extracontrattuale - disciplina, al primo e al secondo comma, due fattispecie differenziate:

- il primo comma (che comporta la diminuzione del risarcimento, tenuto conto sia della gravità della colpa, come consistenza della diligenza violata, sia dell'entità delle conseguenze che ne sono derivate) è riferito al concorso colposo del danneggiato nella produzione del danno e dispone che questi non può ripetere quella parte dell'evento dannoso, da esso causato, perché non costituisce danno ingiusto e quindi risarcibile;

- il secondo comma (che comporta l'esclusione del risarcimento) riguarda, invece, le ipotesi in cui il danno sia eziologicamente imputabile al solo danneggiante ma il creditore avrebbe potuto escluderlo o limitarlo, usando l'ordinaria diligenza.

Nella specie - come si è detto dianzi - il Tribunale ha qualificato la contravvenzione contestata al capo C) come violazione degli artt. 14, 3° comma - seconda parte, e 50, 2° comma, del D.Lgs. n. 22/1997 (piuttosto che come violazione degli artt. 17 e 51 bis). Non è stata neppure ipotizzata, pertanto, "una situazione di pericolo concreto ed attuale" di supermento dei limiti di accettabilità della contaminazione del suolo ovvero di acque superficiali o sotterranee in relazione alla specifica destinazione d'uso dei siti.

In tale contesto - tenuto anche conto del sequestro penale e della interruzione di fatto dell'attività di trasporto dei rifiuti all'interno del capannone - non è neppure ipotizzabile (e, comunque, non è stato dimostrato) che il Comune abbia concorso nella produzione del danno né che sia venuto meno a quei doveri di ordinaria diligenza (non identificabile con quella di cui all'art. 1176 cod. civ.), nel cui ambito possono ricomprendersi soltanto attività che non siano gravose o eccezionali.

11. Manifestamente infondate sono altresì le ulteriori doglianze svolte nel ricorso proposto dall'Avvocatura dello Stato, in quanto:
- l'art. 18, 8° comma, della legge n. 349/1986 stabilisce che "il giudice, nella sentenza di condanna, dispone, ove possibile, il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile"; nella specie, però, non è intervenuta condanna, sicché l'ordine di ripristino legittimamente non è stato impartito;
- altrettanto legittimamente il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio è stato condannato - in seguito all'integrale rigetto del suo gravame - al pagamento delle spese del grado di appello.

Ai sensi dell'art. 592, 1° comma, c.p.p. "con il provvedimento che rigetta o dichiara inammissibile l'impugnazione, la parte privata che l'ha proposta è condannata alle spese del procedimento".

La regola è estremamente chiara e si fonda sul principio della soccombenza correlato alla natura officiosa del procedimento penale.

È vero che un'isolata sentenza della IV Sezione di questa Corte Suprema - n. 14406 del 16.4.2002, ric. P.M. in proc. La Torre ed altri - ha ritenuto che "nel caso di mancato accoglimento delle impugnazioni proposte avverso sentenza di assoluzione tanto dal P.M. quanto dalla parte civile, non può darsi luogo alla condanna di quest'ultima al pagamento delle spese, come previsto in via generale dall'art. 592, comma 1, c.p.p., non potendosi far gravare sulla parte civile anche gli oneri derivanti dall'attività del rappresentante della pubblica accusa e non essendo possibile discernere tra le spese derivate dall'impugnazione dell'una o dell'altra parte".

Quest'orientamento, però, non è condivisibile poiché, qualora all'impugnazione del pubblico ministero si affianchi l'impugnazione dell'imputato o quella delle parti civili ai soli effetti civili, ed i gravami proposti dalle parti private vengano rigettati, si accollano pur sempre a tali parti spese provocate (anche) dalla propria impugnazione e trattandosi di obbligazione con unicità di causa, di oggetto e di titolo, per essa opera il principio di solidarietà tra condebitori stabilito dall'art. 1294 cod. civ. Proprio in considerazione della natura officiosa del procedimento, poi, non è possibile distinguere tra spese ricollegate all'impugnazione della parte pubblica o di quella privata, non esistendo, nel processo penale, alcun criterio idoneo a disciplinare una ripartizione delle spese tra le parti.

L'accoglimento dell'impugnazione del P.M. avverso una sentenza di proscioglimento, del resto, non comporta necessariamente un giudizio di fondatezza ed accoglibilità dell'azione civile, tanto dovendo risultare da un ulteriore esame delle condizioni necessarie per l'accoglimento della domanda, esame che è precluso in difetto di apposita impugnazione della parte civile. Nella specie, inoltre, il P.M. aveva impugnato la sentenza di primo grado limitatamente alla pronuncia di improcedibilità nei confronti del solo N. per prescrizione del reato, mentre le doglianze svolte dalla parte civile Ministero dell'ambiente si rivolgevano anche nei confronti degli altri imputati.

12. La prescrizione dei reati preclude la valutazione degli altri motivi di ricorso, riferiti a pretesi vizi di motivazione, il cui eventuale accoglimento imporrebbe un non consentito annullamento con rinvio della sentenza impugnata.


Alla stregua di tutte le argomentazioni dianzi svolte devono dichiararsi inammissibili i ricorsi del responsabile civile s.r.l. "B. A.", del Procuratore generale e delle parti civili Ministero dell'ambiente e Comune di San Giorgio in Bosco, mentre vanno rigettati i ricorsi proposti dagli imputati.

Alle declaratorie di inammissibilità e di rigetto dei rispettivi ricorsi si connette la condanna delle parti private, in solido, al pagamento delle spese processuali, nonché quella delle parti civili Ministero dell'ambiente e Comune di San Giorgio in Bosco e del responsabile civile s.r.l. "B. A." al versamento della somma di euro 500,00 ciascuno, in favore della Cassa delle ammende.


P.Q.M


la Corte Suprema di Cassazione,
Visti gli artt. 607, 608, 615 e 616 c.p.p.,
dichiara inammissibili i ricorsi del responsabile civile s.r.l. "B. A.", del procuratore generale e delle parti civili Ministero dell'ambiente e Comune di San Giorgio in Bosco.

Rigetta i ricorsi di R. M., N. F. e B. O..
Condanna le parti private, in solido, al pagamento delle spese processuali e le parti civili ed il responsabile civile, ciascuno, al versamento della somma di euro 500,00 in favore della Cassa delle ammende.

ROMA, 11.11.2004


Depositata in cancelleria il 16 dicembre 2004.

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