Legislazione Giurisprudenza Vedi altre: Sentenze per esteso
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL CONSIGLIO DI STATO IN SEDE GIURISDIZIONALE (SEZIONE QUARTA) ha pronunciato la seguente
D E C I S I O N E
sul ricorso in appello iscritto al NRG 9728 dell’anno 2002 proposto da:
G.K.Srl - rappresentata e difesa da: Avv. ANTONIO PACIFICO con domicilio eletto
in Roma VIA ENNIO QUIRINI VISCONTI, 20 presso ANTONIO PACIFICO
contro
PROVINCIA AUTONOMA DI BOLZANO - rappresentata e difesa da: Avv. MARIA LARCHER
Avv. MICHELE COSTA Avv. RENATE VON GUGGENBERG
con domicilio eletto in Roma VIA ELEONORA PIMENTEL, 2 presso M.C.G.SRL non
costituitosi;
per l’annullamento
della sentenza del T.R.G.A. SEZIONE AUTONOMA DELLA PROVINCIA DI BOLZANO n.
259/2002;
Relatore alla pubblica udienza del 6 aprile 2004 il consigliere Carlo Deodato;
Uditi gli avvocati Pacifico Antonio e Costa Michele;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
FATTO
Con la sentenza appellata il T.R.G.A., sezione di Bolzano, annullava
l’aggiudicazione alla G. s.r.l. dell’ottavo lotto di un appalto di fornitura di
automezzi, indetto dalla Provincia di Bolzano con il criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa, sulla base del rilievo dell’illegittimità – per
disparità di trattamento – della clausola con cui si riconosceva il 5% del
punteggio al criterio dell’”uniformità con veicoli già in dotazione”, e
condannava l’amministrazione al risarcimento dei danni per equivalente in favore
della ricorrente G.K. Srl s.r.l., dettando, ai sensi dell’art.35 del decreto
legislativo 31 marzo 1998, n.80, il parametro determinativo del 5% delle spese
vive, a titolo di danno emergente, e del 10% dell’importo a base d’asta, quale
lucro cessante per perdita di chance.
Tale decisione veniva appellata dalla G.K. Srl s.r.l. (sostanzialmente
vincitrice nel giudizio di primo grado), nella parte in cui aveva omesso di
riconoscere la spettanza alla stessa ricorrente dell’aggiudicazione dell’appalto
e in quella in cui aveva stabilito insoddisfacenti criteri di liquidazione del
danno, che ne domandava, quindi, la riforma, con le conseguenti statuizioni
risarcitorie più favorevoli.
Resisteva la Provincia Autonoma di Bolzano che contestava la fondatezza
dell’impugnazione e che proponeva appello incidentale del capo con cui era stata
ritenuta tempestiva l’impugnazione del criterio di aggiudicazione relativo
all’”uniformità con veicoli già in dotazione” e di quello con cui era stata
accertata la ricorrenza della propria responsabilità, e, in particolare, del
requisito della colpa, concludendo per la riforma della sentenza appellata e per
la conseguente declaratoria di inammissibilità del ricorso di primo grado o, in
subordine, per la reiezione della pretesa risarcitoria.
Non si costituiva, invece, la G. s.r.l.
All’udienza del 6 aprile 2004 il ricorso veniva trattenuto in decisione.
DIRITTO
1.- Deve preliminarmente rilevarsi che l’omessa impugnazione incidentale del
capo della decisione con cui è stata accertata la sussistenza del vizio di
eccesso di potere per disparità di trattamento del criterio di valutazione
dell’offerta che assegnava il 5% del punteggio all’elemento dell’uniformità
degli automezzi offerti con quelli già in dotazione ed annullata, di
conseguenza, l’aggiudicazione alla società controinteressata dell’appalto
implica l’avvenuto passaggio in giudicato della relativa statuizione per
acquiescenza tacita ai sensi dell’art.329, comma 2, c.p.c., sicchè la questione
dell’illegittimità dell’atto conclusivo della procedura selettiva deve ritenersi
irrevocabilmente definita con la parte della decisione rimasta inappellata e, di
conseguenza, estranea all’oggetto della presente fase processale.
Il thema decidendum dell’attuale grado resta, quindi, circoscritto alla disamina delle questioni relative alla tempestività del ricorso di primo grado ed alla sussistenza della responsabilità dell’amministrazione aggiudicatrice in ordine ai danni patiti dalla ricorrente in conseguenza dell’illegittima selezione di altra impresa appaltatrice (sollevate dalla Provincia con l’appello incidentale) e di quelle attinenti alla misura del pregiudizio risarcibile (sollevate dalla ricorrente con l’appello principale).
2.- Così descritti i confini del dibattito processuale, si deve rilevare che
risulta logicamente antecedente l’esame dell’appello incidentale, discendendo
dal suo eventuale accoglimento, e, quindi, dall’accertamento dell’irricevibilità
del ricorso di primo grado o dell’infondatezza della pretesa risarcitoria, l’improcedibilità
dell’appello principale, siccome indirizzato a contestare il quantum debeatur
riconosciuto in prima istanza.
L’appello incidentale proposto dalla Provincia si fonda su due distinte ragioni
di impugnazione.
3.- Con il primo motivo si contesta la correttezza della statuizione reiettiva
dell’eccezione di tardività dell’impugnazione della clausola del bando
contenente il criterio di valutazione relativo all’”uniformità con i veicoli già
in dotazione”.
La Provincia continua, in particolare, a sostenere che quella prescrizione,
siccome immediatamente lesiva, avrebbe dovuto essere impugnata, a pena di
decadenza, con il bando, che la conteneva, e non unitamente all’aggiudicazione
della gara ad altra impresa.
3.1- L’assunto è infondato e va disatteso.
3.2- Come, infatti, affermato dall’indirizzo giurisprudenziale recentemente
consacrato dall’Adunanza Plenaria (cfr. Cons. St., Ad. Plen., 29 gennaio 2003, n.1),
e qui condiviso, devono essere impugnate immediatamente solo le clausole del
bando che stabiliscono i requisiti di partecipazione alla procedura e che
rivestono, quindi, valenza lesiva concreta e direttamente percepibile
dall'impresa che vede pregiudicato da subito il suo interesse partecipativo,
mentre quelle che concernono le regole della selezione ed i criteri di
aggiudicazione vanno impugnate unitamente all’atto applicativo, e, in
particolare, all’aggiudicazione, che, solo, ne rivela l’effettiva idoneità
lesiva ed attualizza l’interesse alla contestazione della loro legittimità.
4.- Con il secondo ordine di argomenti, si contesta la decisione appellata nella
parte in cui ha riconosciuto la responsabilità dell’amministrazione, in asserito
difetto di un apprezzamento adeguato della sussistenza dell’elemento soggettivo
e del nesso di causalità (anche se la contestazione relativa a quest’ultima
questione si rivela sprovvista di critiche specifiche).
4.1- Anche tale censura è infondata, alla stregua delle considerazioni che
seguono, e va disattesa.
4.2- Giova premettere alcune considerazioni di sistema in merito
all’accertamento del requisito dell’elemento soggettivo nella fattispecie di
responsabilità dell’amministrazione per attività provvedimentale illegittima,
dando conto, in particolare, del tormentato percorso evolutivo seguìto dalla
giurisprudenza nell’individuazione dei caratteri della colpa dell’apparato
pubblico.
4.3- Com’è noto, l’impostazione giurisprudenziale tradizionale (cfr. ex multis
Cass. Civ., sez. III, 9 giugno 1995, n.6542), formatasi prima della sentenza
delle Sezioni Unite n.500 del 22 luglio 1999, risolveva la questione ritenendo
la colpa dell’amministrazione insita nell’esecuzione di un provvedimento
amministrativo illegittimo.
Secondo tale ricostruzione, quindi,
l’illegittimità dell’atto amministrativo portato ad esecuzione integrava, di per
sé, gli estremi della colpevolezza postulata dall’art.2043 c.c. per la
costituzione dell’obbligazione risarcitoria.
La nozione di culpa in re ipsa si fondava, in particolare, sul rilievo che la
semplice adozione ed esecuzione di un provvedimento illegittimo da parte di un
soggetto dotato di capacità istituzionale e di competenza funzionale ad operare
nel settore di riferimento concretasse quella consapevole violazione di leggi,
regolamenti o norme di condotta non scritte nella quale si risolve la colpa,
secondo la definizione del suo contenuto essenziale fornita dall’art.43 c.p.
La categoria concettuale della presunzione assoluta di colpa (chè di questo si
tratta), concepita dalla giurisprudenza anche per semplificare l’accertamento
dell’illecito e per favorire la tutela risarcitoria del privato danneggiato
(altrimenti onerato di una prova complessa e priva di parametri certi), è parsa,
comunque, incompatibile con i principi generali della natura personale della
responsabilità civile e del carattere eccezionale di quella oggettiva,
risolvendosi nell’ingiusta assegnazione all’amministrazione di un trattamento
deteriore rispetto a quello degli altri soggetti di diritto.
4.4- Tali dubbi di coerenza sistematica della presunzione assoluta di colpa sono
stati risolti dalla Suprema Corte (con la nota sentenza a Sezioni Unite n.500/99),
mediante il superamento della teoria della culpa in re ipsa e la contestuale
definizione di indici identificativi della colpa, indicati nell’ascrizione
all’amministrazione, intesa come apparato, e non al funzionario agente, della
“violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona
amministrazione alle quali l’esercizio della funzione amministrativa deve
ispirarsi e che…si pongono come limiti esterni alla discrezionalità”.
Va, tuttavia, fin da subito rilevato che la scarna descrizione degli elementi
essenziali della colpa rinvenibile nel passaggio della motivazione della
sentenza n.500/99 dedicato alla questione si rivela carente ed inidonea a
fornire agli operatori paradigmi valutativi certi ed al sistema una
catalogazione concettuale definita.
La Suprema Corte chiarisce, innanzitutto, che l’indagine riservata al giudice
deve riferirsi alla pubblica amministrazione come apparato impersonale e non al
funzionario che ha adottato l’atto illegittimo.
Tale prima indicazione, se vale a svincolare l’accertamento giudiziale dai
canoni d’indagine utilizzati ordinariamente per la verifica della sussistenza
della colpevolezza in capo alle persone fisiche, non serve, tuttavia, in
positivo, ad orientare l’indagine verso un centro d’imputazione della
responsabilità agevolmente individuabile e, soprattutto, non offre sicuri
criteri di giudizio nel compimento della disamina contestualmente suggerita.
Le ragioni di tali difficoltà si risolvono, a ben vedere, sull’improprio
riferimento dello stato psicologico di colpevolezza all’organizzazione
dell’ente, anziché alla persona fisica legittimata ad esprimerne la volontà o ad
esso legata da un vincolo di subordinazione (come accade per le ipotesi di
responsabilità, diretta e indiretta, degli enti privati).
La colpa d’apparato sembra, quindi, coincidere con la verifica di una
disfunzione della funzione amministrativa, determinata dalla disorganizzazione
nella gestione del personale, dei mezzi e delle risorse degli uffici cui è
imputabile l’adozione o l’esecuzione dell’atto illegittimo.
Sennonchè, se tale è il carattere essenziale della colpa d’apparato la stessa si
rivela impropriamente introdotta nella struttura dell’illecito, sia perché
l’eventuale disorganizzazione amministrativa e gestionale non è necessariamente
causa dell’illegittimità dell’atto, sia perché la stessa risulta essenzialmente
estranea al profilo psicologico dell’azione amministrativa immediatamente
produttiva del danno e, quindi, al campo d’indagine riservato al giudice
chiamato a pronunciarsi sulla pretesa risarcitoria.
Non solo, ma la descrizione (appena riferita) dei requisiti della colpa omette
qualsiasi considerazione e valorizzazione di circostanze esimenti, con ciò
precludendo, di fatto, proprio quella penetrante indagine della riferibilità
soggettiva del danno alla colpevole azione amministrativa che si raccomanda
contestualmente al giudice del risarcimento.
4.5- Le ricostruzioni più recenti si sono, invece, basate, in antitesi
all’indirizzo della Suprema Corte, sul rilievo critico che il criterio della
“…violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona
amministrazione alle quali l’esercizio della funzione amministrativa deve
ispirarsi…” (indicato nella sentenza n.500/99) si risolve, se non attenuato da
uno spazio di non colpevolezza (tuttavia non evidenziato dalla Cassazione),
nella tautologica affermazione della coincidenza della colpa con l’illegittimità
del provvedimento, con surrettizia reintroduzione della tesi che si è dichiarato
di voler abbandonare.
4.6- In una delle prime e più importanti pronunce che si sono occupate della
questione (Cons. St., sez. IV, 14 giugno 2001, n.3169) è stata condivisa la
concezione oggettiva della colpa suggerita dalla Cassazione, che si basa cioè
sull’apprezzamento dei vizi che inficiano il provvedimento, ma sono stati
mutuati dalla giurisprudenza comunitaria diversi indici valutativi quali “…la
gravità della violazione commessa dall’amministrazione, anche alla luce
dell’ampiezza delle valutazioni discrezionali rimesse all’organo, dei precedenti
della giurisprudenza, delle condizioni concrete e dell’apporto eventualmente
dato dai privati nel procedimento”.
In applicazione di tali canoni di valutazione, il giudice deve, quindi,
formulare il giudizio sulla colpevolezza dell’amministrazione, affermandola
quando la violazione risulta grave e commessa in un contesto di circostanze di
fatto e in un quadro di riferimenti normativi e giuridici tale da palesare la
negligenza e l’imperizia dell’organo nell’assunzione del provvedimento viziato
e, viceversa, negandola quando l’indagine presupposta conduce al riconoscimento
di un errore scusabile (per la sussistenza di contrasti giurisprudenziali, per
l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della
situazione di fatto).
4.7- In una successiva pronuncia (Cons. St., sez. V, 6 agosto 2001, n.4239),
sono stati ulteriormente chiariti i caratteri della responsabilità della
pubblica amministrazione da attività provvedimentale ed, accedendo ad una
ricostruzione dogmatica della stessa in termini di responsabilità da contatto
sociale qualificato, si è precisato che, in analogia alle forme di accertamento
giudiziale dell’illecito contrattuale o precontrattuale (e, in particolare, del
criterio di imputazione del danno definito dall’art.1218 c.c.), la
responsabilità dell’amministrazione per l’adozione di un atto illegittimo può
presumersi, sotto il profilo dell’ascrivibilità del pregiudizio ad una condotta
colposa dell’apparato.
In esito alla presupposta catalogazione concettuale della natura della
responsabilità dell’amministrazione, svincolata dalla struttura e dalla
disciplina dell’illecito aquiliano, è stato, quindi, ammesso il privato alla
mera allegazione del danno patito e della sua riconducibilità eziologia
all’adozione od all’esecuzione di un provvedimento viziato ed imposto
all’amministrazione l’onere di dimostrare la propria incolpevolezza per mezzo
della deduzione di elementi di fatto e di diritto idonei a documentare la
ricorrenza di un errore scusabile e, quindi, a dimostrare l’assenza di colpa nel
proprio operato.
Tale semplificazione probatoria viene, in particolare, giustificata e
legittimata non tanto con il ricorso a presunzioni semplici, pure limitatamente
invocabili nell’accertamento dell’elemento soggettivo, ma con una distribuzione
dell’onere della prova che, sotto un profilo sostanziale, appare rispondere ad
esigenze di garanzia e di favore per la posizione processuale del privato e,
sotto un profilo di coerenza logico-sistematica dell’ordinamento processuale, si
fonda su una lettura dell’illecito dell’amministrazione in termini analoghi a
quelli propri dell’inadempimento di un’obbligazione contrattuale o dei doveri di
correttezza ravvisabili nella fase delle trattative (e, quindi, tipici della
responsabilità precontrattuale).
In tale ottica, viene superata l’equivalenza, precedentemente riconosciuta dalla
stessa giurisprudenza amministrativa, colpa-violazione grave, ritenendosi, di
contro, che quella enunciazione teorica si risolva in un’inammissibile
limitazione della responsabilità dell’amministrazione ai soli casi di colpa
grave (ma in difetto di una previsione positiva in tal senso) e che, quindi,
anche la sussistenza di un vizio non macroscopico possa implicare responsabilità
dell’amministrazione nella colpevole inosservanza dei pertinenti canoni
d’azione.
Siffatta ricostruzione teorica è stata, poi, confermata sia dalla giurisprudenza
amministrativa (Cons. St., sez. VI, 20 gennaio 2003, n.204), sia da quella
ordinaria (Cass. Civ., sez. I, 10 gennaio 2003, n.157) che, in conformità alla
riferita elaborazione concettuale, hanno condiviso l’assimilazione della
responsabilità dell’amministrazione per attività provvedimentale (segnatamente
per lesione degli interessi c.d. pretensivi) a quella contrattuale per
violazione di diritti relativi, con le implicazioni già evidenziate in tema di
accertamento della colpa.
4.8- Il Collegio dissente, tuttavia, dalla ricostruzione che ha fatto
applicazione dei principi che presiedono alla responsabilità contrattuale per
inadempimento al fine di giustificare l’affermazione della presunzione relativa
di colpa e l’ascrizione all’amministrazione dell’onere di dimostrare la propria
incolpevolezza e reputa, di contro, che le condivisibili esigenze di
semplificazione probatoria sottese all’impostazione criticata possono essere
parimenti soddisfatte restando all’interno dei più sicuri confini dello schema e
della disciplina della responsabilità aquiliana, che rivelano una maggiore
coerenza della struttura e delle regole di accertamento dell’illecito
extracontrattuale con i caratteri oggettivi della lesione di interessi legittimi
e con le connesse esigenze di tutela, ma utilizzando, per la verifica
dell’elemento soggettivo, le presunzioni semplici di cui agli artt.2727 e 2729
c.c.
In tale ottica, il privato danneggiato, ancorchè onerato della dimostrazione
della colpa dell’amministrazione, risulta agevolato dalla possibilità di offrire
al giudice elementi indiziari – acquisibili, sia pure con i connotati
normativamente previsti, con maggior facilità delle prove dirette - quali la
gravità della violazione (qui valorizzata quale presunzione semplice di colpa e
non come criterio di valutazione assoluto), il carattere vincolato dell’azione
amministrativa giudicata, l’univocità della normativa di riferimento ed il
proprio apporto partecipativo al procedimento.
Così che, acquisiti gli indici rivelatori della colpa, spetta poi
all’amministrazione l’allegazione degli elementi (pure indiziari) ascrivibili
allo schema dell’errore scusabile e, in definitiva, al giudice, così come, in
sostanza, voluto dalla Cassazione con la sentenza n.500/99, apprezzarne e
valutarne liberamente l’idoneità ad attestare o ad escludere la colpevolezza
dell’amministrazione.
4.9- La rilevata semplificazione dell’onere probatorio (a carico e a discarico)
appena descritta impone, quindi, di definire i caratteri che devono possedere
gli elementi addotti a propria discolpa dalla pubblica amministrazione, a fronte
della produzione degli indizi a suo carico, perché la situazione allegata
integri gli estremi dell’errore scusabile e consenta, perciò, di escludere la
colpa dell’apparato amministrativo.
Appare utile, al riguardo, riferirsi alla giurisprudenza comunitaria (Corte
Giustizia C.E., 5 marzo 1996, cause riunite nn.46 e 48 del 1993; 23 maggio 1996,
causa C5 del 1994) che, pur assegnando valenza pressoché decisiva alla gravità
della violazione, indica, quali parametri valutativi di quel carattere, il grado
di chiarezza e precisione della norma violata e la presenza di una
giurisprudenza consolidata sulla questione esaminata e definita
dall’amministrazione, nonché la novità di quest’ultima, riconoscendo così
portata esimente all’errore di diritto, in analogia all’elaborazione della
giurisprudenza penale in tema di buona fede nelle contravvenzioni.
Esclusa la correttezza di ogni riferimento, pure in astratto invocabile, al
livello culturale ed alle condizioni psicologiche soggettive del funzionario che
ha adottato l’atto, risulta, in proposito, accettabile il criterio della
comprensibilità della portata precettiva della disposizione inosservata e della
univocità e chiarezza della sua interpretazione, potendosi ammettere l’esenzione
da colpa solo in presenza di un quadro normativo confuso e privo di chiarezza;
restando, altrimenti, l’amministrazione soggetta all’inevitabile giudizio di
colpevolezza nella violazione di un canone di condotta agevolmente percepibile
nella sua portata vincolante.
Così come appaiono condivisibili i riferimenti, da più parti suggeriti, al
criterio di imputazione soggettiva della responsabilità del professionista di
cui all’art.2236 c.c. che, riconnettendo il grado di colpevolezza richiesto per
la costituzione dell’obbligazione risarcitoria alla difficoltà dei problemi
tecnici affrontati nell’esecuzione dell’opera, introduce un parametro di
ascrizione del danno che tiene conto del grado di complessità delle questioni
implicate dall’esecuzione della prestazione e che attenua la responsabilità del
prestatore d’opera quando il livello di difficoltà risulti rilevante.
La medesima ratio sottesa alla richiamata disposizione civilistica può, infatti,
ravvisarsi nelle fattispecie nelle quali la situazione di fatto esaminata dal
funzionario comporta la risoluzione di problemi tecnici particolarmente
rilevanti ed in cui, in definitiva, l’accertamento dei presupposti di fatto
dell’azione amministrativa implica valutazioni scientifiche complesse o
verifiche difficoltose della realtà fattuale.
A fronte, infatti, di una situazione connotata da apprezzabili profili di complessità, può, in particolare, ritenersi giustificata, in analogia con la disciplina della responsabilità del prestatore d’opera intellettuale, un’attenuazione di quella dell’amministrazione che la circoscriva alle sole ipotesi di colpa grave.
4.10- La ricostruzione appena esposta soddisfa, in particolare, al contempo, le
esigenze di superare l’inaccettabile equazione illegittimità dell’atto-colpa
dell’apparato pubblico, surrettiziamente reintrodotta con la sentenza n.500/99,
di valorizzare gli aspetti obiettivi della condotta antigiuridica
dell’amministrazione, di restituire coerenza sistematica alla regola di riparto
dell’onere della prova da applicarsi nello schema di responsabilità in questione
e, in definitiva, di agevolare le parti (rispettivamente interessate)
nell’adempimento del dovere di dimostrare la colpa, in prima battuta, o la sua
mancanza, negli estremi dell’esimente dell’errore scusabile.
4.11- Così definiti i caratteri costitutivi della colpa della pubblica
amministrazione, risulta agevole rilevare, in ordine alla fattispecie in esame,
che la predisposizione di una regola di gara che determina una disparità di
trattamento tra i concorrenti, favorendo una delle imprese partecipanti, si
rivela lesiva della regola di condotta più sicura ed evidente che deve osservare
l’amministrazione nella gestione di una procedura competitiva: la parità di
trattamento dei competitori.
A fronte della violazione del dovere di garantire la par condicio
(definitivamente accertata con il capo della decisione appellata passato in
giudicato), non risulta, di contro, apprezzabile alcun elemento, peraltro
neanche allegato dall’amministrazione (oneratavi), riconducibile ad una delle
situazioni, sopra descritte, che autorizzano la configurabilità dell’errore
scusabile.
4.12- Va, quindi, confermata la correttezza della statuizione appellata, là dove
ha riconosciuto gli estremi dell’elemento psicologico della condotta lesiva
scrutinata, con conseguente reiezione anche del secondo motivo dell’appello
incidentale.
5.-La reiezione dell’appello incidentale impone l’esame di quello principale.
5.1- Come già rilevato, la società ricorrente fonda la sua iniziativa
sull’insoddisfazione dei contenuti della tutela risarcitoria accordatale dai
primi giudici e sulla conseguente aspirazione ad ottenere, con l’accoglimento
dell’appello, un risultato più favorevole.
A tal fine, prospetta due distinte tesi difensive: con la prima invoca
l’accertamento incidentale della spettanza a sé dell’appalto, con conseguente
rideterminazione della misura del pregiudizio risarcibile; con la seconda si
duole dell’esiguità del quantum riconosciutole dai primi giudici, seppur nella
forma della fissazione dei criteri di determinazione ai sensi dell’art.35 d. lgs.
n.80/98.
5.2- Risulta indispensabile, anche qui, una preliminare ricognizione dei
parametri di determinazione del danno connesso alla lesione di interessi
pretensivi (con particolare riferimento a quelli emergenti nelle procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici).
Si deve premettere, in via generale, che la tutela risarcitoria serve ad
assicurare al danneggiato la restitutio in integrum del suo patrimonio e,
quindi, a garantire l’eliminazione delle conseguenze pregiudizievoli
dell’attività illecita ascritta al soggetto responsabile.
La riparazione delle conseguenze dannose viene garantita dall’ordinamento
mediante due modelli di tutela, tra loro alternativi: quello del risarcimento
per equivalente, che riconosce al danneggiato il diritto ad una somma di denaro
equivalente al valore della lesione patrimoniale patita e quello della
reintegrazione in forma specifica, che attribuisce al soggetto passivo la
medesima utilità, giuridica od economica, sacrificata o danneggiata dalla
condotta illecita.
5.3- L’analisi che segue viene circoscritta alla sola tecnica del risarcimento
per equivalente, unicamente rilevante in quanto l’unica nella specie invocata
dalla ricorrente (per come appresso evidenziato).
Tale modalità di riparazione si risolve, a ben vedere, in una forma di tutela
per così dire surrogatoria, nel senso che garantisce, non l’utilità perduta o
compromessa, ma, in sua sostituzione, una somma di denaro corrispondente al
valore del bene della vita pregiudicato.
Il vero problema di tale forma di tutela coincide, allora, con la liquidazione
del danno e cioè con la determinazione della misura dell’obbligazione pecuniaria
dovuta in sostituzione del bene della vita ormai irrimediabilmente perduto o
danneggiato.
Se tale opera di quantificazione risulta agevole nei casi, configurabili per lo
più nelle attività illecite materiali, in cui il valore del bene leso è
facilmente individuabile (si pensi ai danni subiti da un autoveicolo in un
incidente stradale), non altrettanto può dirsi per le ipotesi, quali quelle
interessate dall’attività provvedimentale lesiva, in cui la situazione
soggettiva pregiudicata è connessa ad aspettative o interessi difficilmente
apprezzabili nella loro consistenza economica.
Occorre, quindi, avvertire fin da ora che le maggiori difficoltà incontrate dal
legislatore e dalla giurisprudenza nel definire i contorni della nuova forma di
tutela introdotta nell’ordinamento con il riconoscimento della risarcibilità
della lesione degli interessi legittimi sono riconducibili proprio alla
catalogazione di criteri e parametri certi, funzionali alla determinazione della
misura del pregiudizio risarcibile.
E’ vero, infatti, che, nell’impossibilità di dimostrare la misura esatta del
danno, soccorre il metodo di liquidazione equitativa dettato dall’art.1226 c.c.,
certamente utilizzabile anche dal giudice amministrativo, ma, mentre nel sistema
delineato dal codice civile l’ipotesi considerata viene contemplata come
eccezionale, le pretese risarcitorie svolte contro la pubblica amministrazione
(soprattutto per lesione di interessi legittimi) risultano endemicamente
connotate da estrema difficoltà nella definizione del valore economico della
posizione soggettiva lesa dall’atto illegittimo, sicchè compete per lo più alla
giurisprudenza l’individuazione di canoni valutativi sufficientemente certi e
satisfattivi delle esigenze di effettività della tutela postulate dalla nuova
forma di protezione degli interessi legittimi.
Le difficoltà appena registrate risultano, in particolare, maggiormente
avvertite nei casi di lesione di interessi pretensivi e procedimentali (nei
quali la verifica della spettanza del bene della vita postula un’intermediazione
amministrativa favorevole e risultano, quindi, difficilmente apprezzabili le
effettive implicazioni economiche della violazione accertata), mentre si rivela
più agevole la quantificazione del danno nei casi di lesione di interessi
oppositivi (nei quali si tratta di determinare il valore del bene
illegittimamente sacrificato).
5.4- Così illustrati in astratto i confini problematici del tema della
quantificazione del danno, occorre esaminare i riflessi processuali della
dimostrazione e determinazione del pregiudizio risarcibile.
La comune ascrizione dell’illecito commesso dall’amministrazione nell’esercizio
dell’attività provvedimentale allo schema della responsabilità extracontrattuale
implica, innanzitutto, che incombe al ricorrente (presunto danneggiato) l’onere
di dimostrare l’esistenza di un pregiudizio patrimoniale, la sua riconducibilità
eziologia all’adozione del provvedimento illegittimo e la sua misura, come
riconosciuto dall’indirizzo prevalente formatosi in seno alla giurisprudenza
amministrativa (cfr. ex multis Cons. St., sez. V, 25 gennaio 2002, n.416, in cui
si ribadisce che incombe al danneggiato la prova di tutti gli elementi
costitutivi dell’illecito).
Ne consegue che il ricorrente non potrà limitarsi ad addurre l’illegittimità
dell’atto, valendosi, ai fini della sua quantificazione, del principio
dispositivo con metodo acquisitivo e, quindi, della sufficienza dell’allegazione
di un principio di prova, ma dovrà compiere l’ulteriore sforzo probatorio di
documentare il pregiudizio patrimoniale del quale chiede il ristoro nel suo
esatto ammontare (pur con i limiti ontologici dell’assolvimento di tale onere).
In merito al contenuto della dimostrazione richiesta, va, peraltro, precisato
che, poiché l’annullamento dell’atto illegittimo può determinare, da solo,
l’integrale riparazione delle sue conseguenze lesive, compete al ricorrente
provare che la rimozione del provvedimento non soddisfa, di per sé, l’interesse
azionato e che residua un danno ulteriore nella sua sfera patrimoniale, non
interamente reintegrato (in forma specifica) per effetto della caducazione
dell’atto.
5.5- Come già rilevato, tuttavia, quando la lesione lamentata concerne interessi
pretensivi o procedimentali la dimostrazione della misura del danno patrimoniale
patito dal privato si rivela difficile, se non impossibile.
A fronte, infatti, del diniego di un’autorizzazione, della mancata
aggiudicazione di un appalto o dell’omessa partecipazione al procedimento,
risulta estremamente arduo definire l’esatto ammontare della perdita economica
patita dall’interessato.
Appare utile, a tal riguardo, rammentare che il pregiudizio risarcibile si
compone, secondo la definizione offerta dall’art.1223 c.c., del danno emergente
e del lucro cessante: e cioè della diminuzione reale del patrimonio del privato,
per effetto di esborsi connessi alla (inutile) partecipazione al procedimento, e
della perdita di un’occasione di guadagno o, comunque, di un’utilità economica
connessa all’adozione o all’esecuzione del provvedimento illegittimo.
Se per la prima voce di danno (quello emergente) non si pongono particolari
problemi nell’assolvimento dell’onere della prova (è sufficiente documentare le
spese sostenute), per la seconda (lucro cessante) si configurano, viceversa,
rilevanti difficoltà.
Per avere accesso al risarcimento, infatti, il privato deve dimostrare, non solo
che la sua sfera giuridica ha subito una diminuzione per effetto dell’atto
illegittimo, ma che non si è accresciuta nella misura che avrebbe raggiunto se
il provvedimento viziato non fosse stato adottato o eseguito.
Come si vede, tale ultima dimostrazione presenta implicazioni di notevole
complessità, attenendo a profili prognostici difficilmente apprezzabili nella
loro effettiva consistenza ed attendibilità.
Soccorre, allora, l’applicazione di criteri presuntivi di determinazione del
quantum, certamente invocabili dal privato in presenza della lesione di
aspettative di ampliamento della sua sfera giuridica e patrimoniale.
Si tratta di presunzioni semplici che indicano, secondo la comune esperienza,
parametri valutativi sufficientemente puntuali dell’entità della perdita
economica patita dal privato per effetto dell’adozione dell’atto illegittimo
ovvero della colpevole inerzia dell’amministrazione.
Perché sia ritualmente assolto l’onere della prova, è, tuttavia, necessario che
il ricorrente danneggiato alleghi gli elementi di fatto e gli indizi sulla cui
base possono individuarsi i parametri presuntivi di determinazione del danno.
L’esigenza di ricorrere a criteri presuntivi ed astratti di determinazione del
danno è stata avvertita sia dalla giurisprudenza, che ha individuato un preciso
canone indiziario (di seguito illustrato) per la determinazione del pregiudizio
connesso alla perdita di un’occasione di successo in una procedura concorsuale,
sia dallo stesso legislatore, laddove ha definito, con l’art.35 d. lgs. n.80/98,
un peculiare metodo di liquidazione del danno fondato proprio sulla definizione
giudiziale di parametri valutativi indeterminati o quando ha previsto, all’art.17,
comma 1, lett. f), legge 15 marzo 1997, n.59, la definizione “di forme di
indennizzo automatico e forfettario a favore dei soggetti richiedenti il
provvedimento…per i casi di mancato rispetto del termine del procedimento o di
mancata o ritardata adozione del provvedimento” stesso.
Merita, ancora, avvertire che non può valere ad esonerare dalla prova del danno
la parte sulla quale incombe il relativo onere, il ricorso, anche su istanza del
ricorrente, alla consulenza tecnica d’ufficio (pure, ormai, utilizzabile dal
giudice amministrativo), posto che tale accertamento non si configura come un
mezzo di prova in senso tecnico e può essere disposto solo al fine di acquisire
apprezzamenti tecnici altrimenti non formulabili dal giudice, ma non può servire
ad acquisire gli elementi che compongono il danno lamentato e, quindi, la sua
dimostrazione (Cons. St., sez. IV, 14 giugno 2001, n.3169).
5.6- La più importante applicazione del ricorso a criteri presuntivi per la
quantificazione del danno è rinvenibile nell’elaborazione giurisprudenziale in
materia di valutazione del pregiudizio connesso a perdita di chance.
Si tratta dei casi in cui il ricorrente ha perso l’occasione di aggiudicarsi un
appalto o di vincere un concorso per effetto dell’illegittima selezione di un
altro concorrente o della propria indebita esclusione dal procedimento.
Si deve qui avvertire che, mentre non si pongono particolari problemi per la
liquidazione del danno emergente (pari alle spese - documentate - sostenute per
la partecipazione al procedimento), risulta più difficile la determinazione del
lucro cessante.
A proposito di quest’ultima voce, occorre, anzitutto, chiarire che il suo
contenuto cambia notevolmente se si accede alla qualificazione come
precontrattuale della responsabilità dell’amministrazione per illegittima
conduzione di una procedura ad evidenza pubblica.
Se si ravvisano, infatti, gli estremi della culpa in contraendo di cui agli artt.1337
e 1338 c.c., si deve, infatti, limitare l’area del pregiudizio risarcibile al
solo interesse negativo: composto dalle spese sostenute per partecipare al
procedimento ed alla perdita di occasioni di guadagno alternative, con
esclusione, quindi, del mancato conseguimento dell’utile ricavato
dall’esecuzione dell’appalto.
Se, invece, la violazione delle regole che presiedono alla corretta conduzione
delle procedure ad evidenza pubblica viene ascritta allo schema astratto
dell’illecito aquiliano, da valersi quale conclusione più plausibile della prima
e maggiormente coerente con le pregnanti esigenze di tutela postulate
dall’ordinamento comunitario in tema di competizioni concorrenziali per
l’accesso agli appalti pubblici, si deve conseguentemente ritenere risarcibile
anche l’interesse positivo e, cioè, nella voce relativa al lucro cessante, la
perdita del guadagno (o della sua occasione) connesso all’esecuzione del
contratto.
L’accesso a quest’ultima opzione, condivisa dalla Sezione, implica la necessità
di provvedere alla determinazione di criteri valutativi astratti e presuntivi
della misura del pregiudizio risarcibile, nella configurazione sopra
tratteggiata.
La giurisprudenza amministrativa si è fatta carico di quest’onere ed ha
individuato nell’art.345 della legge 20 marzo 1865, n.2248, Allegato F, un
prezioso riferimento positivo, laddove quantifica nel 10% del valore
dell’appalto l’importo da corrispondere all’appaltatore in caso di recesso
facoltativo dell’amministrazione, nella determinazione forfettaria ed automatica
del margine di guadagno presunto nell’esecuzione di appalti di lavori pubblici (cfr.
ex multis Cons. St., sez. V, 8 luglio 2002, n.3796).
Ulteriore conferma positiva della validità di tale criterio presuntivo è stata,
poi, rinvenuta nell’art.37 septies, comma 1, lett.c) della legge 11 febbraio
1994, n.109, laddove prevede, in materia di project financing, che, nelle
ipotesi in cui la concessione sia risolta per inadempimento del concedente o
revocata per motivi di interesse pubblico, al concessionario spetti un
indennizzo, a titolo di risarcimento del mancato guadagno, pari al 10% delle
opere ancora da eseguire.
Può, in definitiva, registrarsi il consolidamento di un indirizzo
giurisprudenziale, ormai univoco e dal quale non si ravvisano ragioni per
discostarsi, che, sulla base delle predette indicazioni normative, riconosce
nella misura del 10% dell’importo a base d’asta, per come eventualmente
ribassato dall’offerta dell’impresa interessata, l’entità del guadagno
presuntivamente ritratto dall’esecuzione dell’appalto.
Occorre, tuttavia, ancora distinguere la fattispecie in cui il ricorrente riesce
a dimostrare che, in mancanza dell’adozione del provvedimento illegittimo,
avrebbe vinto la gara (ad esempio perché, se non fosse stato indebitamente
escluso, sarebbe stata selezionata la sua offerta) dai casi in cui non è
possibile acquisire alcuna certezza su quale sarebbe stato l’esito della
procedura in mancanza della violazione riscontrata.
La dimostrazione della spettanza dell’appalto all’impresa danneggiata risulta
ovviamente configurabile nei soli casi in cui il criterio di aggiudicazione si
fonda su parametri vincolati e matematici (come, ad esempio, nel caso del
massimo ribasso in un pubblico incanto in cui l’impresa vincitrice avrebbe
dovuto essere esclusa), mentre si rivela impossibile là dove la selezione del
contraente viene operata sulla base di un apprezzamento tecnico-discrezionale
dell’offerta (come nel caso dell’offerta economicamente più vantaggiosa).
Nella prima ipotesi spetta, evidentemente, all’impresa danneggiata un
risarcimento pari al 10% del valore dell’appalto (come eventualmente ribassato
dalla sua offerta), ferma restando la possibilità di conseguire una somma
superiore, in presenza della dimostrazione che il margine di utile sarebbe stato
maggiore di quello presunto.
Viceversa, quando il ricorrente allega solo la perdita di una chance a sostegno
della pretesa risarcitoria (e cioè quando non riesce a provare che
l’aggiudicazione dell’appalto spettava proprio a lui, secondo le regole di
gara), la somma commisurata all’utile d’impresa deve essere proporzionalmente
ridotta in ragione delle concrete possibilità di vittoria risultanti dagli atti
della procedura.
Al fine di operare tale decurtazione vanno valorizzati tutti gli indici
significativi delle potenzialità di successo del ricorrente, quali, ad esempio,
il numero di concorrenti, la configurazione della graduatoria eventualmente
stilata ed il contenuto dell’offerta presentata dall’impresa danneggiata.
5.7- La verifica della fondatezza della pretesa risarcitoria in questione e la
conseguente determinazione dell’entità del pregiudizio risarcibile devono
essere, quindi, condotte in coerenza con i parametri valutativi sopra descritti.
5.8- Deve, anzitutto, rilevarsi che la domanda principale, fondata sui motivi
rubricati ai numeri I, II, e III dell’atto d’appello ed intesa ad ottenere
l’ordine che l’aggiudicazione “abbia luogo secondo i criteri corretti risultanti
dalla sentenza” (tali i termini letterali con cui è stata formulata nelle
conclusioni dell’atto d’appello), risulta inammissibile per difetto di
interesse, atteso che l’effetto precettivo voluto dalla ricorrente risulta già
prodotto dal giudicato demolitorio-conformativo del capo della decisione rimasto
inappellato, sicchè, con riferimento alla relativa statuizione, risulta
inconfigurabile qualsiasi ipotesi di riforma o di decisione sostituiva più
favorevole per la società appellante.
Tale conclusione si fonda anche sul rilievo che la causa pretendi ed il petitum
della domanda in esame, per come formulati nell’atto d’appello, non ne
consentono una qualificazione come richiesta di condanna alla reintegrazione in
forma specifica, difettando di tale peculiare strumento di tutela il carattere
indefettibile del riconoscimento diretto e privo di ulteriore intermediazione
provvedimentale del diritto al bene della vita asseritamente pregiudicato (nel
caso di specie: l‘aggiudicazione dell’appalto). La stessa ricorrente domanda, a
ben vedere, la statuizione che l’aggiudicazione venga disposta in conformità ai
“criteri corretti risultanti dalla sentenza” e non anche la condanna
dell’amministrazione all’assegnazione a sé dell’appalto, con la conseguenza che
va esclusa la configurabilità, nella pretesa in questione, dei connotati propri
della reintegrazione in forma specifica.
5.9- In subordine, la ricorrente pretende, innanzitutto, un risarcimento pari
all’intero utile che avrebbe ritratto dall’esecuzione dell’appalto e, in
ulteriore subordine, la correzione dei criteri stabiliti in prima istanza ed il
conseguente riconoscimento (almeno) della metà del mancato guadagno.
Entrambe tali domande risultano infondate e vanno disattese.
5.10- Anche prescindendo dall’assorbente rilievo che la ricorrente non ha
assolto l’onere di dimostrare l’inidoneità della rinnovazione degli atti di gara
annullati a riparare (in forma specifica) il pregiudizio patrimoniale lamentato,
è sufficiente rilevare, quanto alla prima delle domande, che l’invocato
accertamento, seppur in via incidentale, della spettanza all’appellante del
punteggio più elevato, per le caratteristiche tecniche degli automezzi offerti,
e, quindi, dell’aggiudicazione dell’appalto risulta precluso proprio dal metodo
di selezione nella specie previsto: l’offerta economicamente più vantaggiosa.
Quest’ultimo criterio di aggiudicazione, infatti, risulta fondato su
apprezzamenti tecnico-discrezionali delle caratteristiche qualitative
dell’offerta che non tollerano alcuna sostituzione da parte del giudice nel
compimento delle pertinenti valutazioni riservate in via esclusiva
all’amministrazione.
Come sopra rilevato, infatti, la verifica della spettanza dell’aggiudicazione
alla ricorrente è ammessa nelle sole ipotesi, diverse dalla presente, nelle
quali la selezione del contraente avviene in applicazione di parametri rigidi e
matematici, sicchè l’attività dell’amministrazione aggiudicatrice risulta
vincolata e priva di ogni discrezionalità nella scelta dell’offerta.
5.11- Esclusa, così, la praticabilità (anche con lo strumento della c.t.u.)
dell’invocata indagine sulla pretesa debenza alla ricorrente del punteggio più
alto e, quindi, della stessa aggiudicazione, deve rilevarsi che anche le
critiche rivolte alla presunta esiguità del risarcimento per perdita di chance
riconosciuto in prima istanza (per come determinato e condizionato dai criteri
valutativi dettati dai primi giudici) si rivelano destituite di fondamento.
Ribadito, infatti, che, nelle ipotesi in cui la ricorrente non può dimostrare
che avrebbe vinto la gara, la misura presunta del lucro cessante (pari al 10%
dell’importo del contratto) va decurtata in ragione degli indici sopra elencati
e che la relativa determinazione giurisdizionale dei criteri sfugge a canoni
valutativi rigidi (servendo solo ad orientare la successiva negoziazione delle
parti, ma senza statuire, con valenza di giudicato, sulla misura
dell’obbligazione risarcitoria), si rileva che la riduzione operata in prima
istanza (si ripete: ai soli fini della successiva pattuizione del quantum)
risulta immune da vizi di illogicità o di manifesta iniquità e si rivela, anzi,
coerente con l’esigenza di circoscrivere l’entità del pregiudizio risarcibile
(per perdita di chance), in ragione delle effettive e concrete possibilità di
aggiudicazione dell’appalto.
Resta inteso che eventuali contestazioni sulla misura concreta dell’importo
offerto dall’amministrazione e sulla sua conformità ai parametri stabiliti e,
più in generale, sulla sua coerenza con le regole che presiedono alla corretta
liquidazione del danno, e, in particolare, della voce del lucro cessante,
dovranno essere svolte nella sede processuale propria, definita e prevista
dall’art.35 d. lgs. n.80/98 mediante il richiamo della disciplina relativa al
ricorso per esecuzione del giudicato.
6.- Alle considerazioni che precedono conseguono, in definitiva, la reiezione
dell’appello principale e la conferma del capo della decisione di primo grado
con lo stesso impugnato.
7.- La reciprocità della soccombenza giustifica la compensazione tra le parti
delle spese processuali.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, respinge
l’appello principale e quello incidentale e compensa le spese processuali del
grado.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 6 aprile 2004, dal Consiglio
di Stato in sede giurisdizionale – Sezione Quarta - con la partecipazione dei
signori:
PAOLO SALVATORE - Presidente
BERNABE’ ROLAND ERNST - Consigliere
ANTONINO ANASTASI - Consigliere
VITO POLI - Consigliere
CARLO DEODATO - Consigliere Est.
L’ESTENSORE
IL PRESIDENTE
IL SEGRETARIO
Il Dirigente
Carlo Deodato
Paolo Salvatore
Giuseppe Testa
Giuseppe Testa
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
6 luglio 2004
(art. 55, L. 27.4.1982 n. 186)
1) Appalti – Pregiudizio dell’interesse partecipativo - Clausole del bando – Requisiti di partecipazione - Aggiudicazione - Procedura - Effettiva idoneità lesiva - Interesse alla contestazione della loro legittimità - Impugnazione. Devono essere impugnate immediatamente, solo le clausole del bando che stabiliscono i requisiti di partecipazione alla procedura e che rivestono, valenza lesiva concreta e direttamente percepibile dall'impresa che vede pregiudicato da subito il suo interesse partecipativo, mentre quelle che concernono le regole della selezione ed i criteri di aggiudicazione vanno impugnate unitamente all’atto applicativo, e, in particolare, all’aggiudicazione, che, solo, ne rivela l’effettiva idoneità lesiva ed attualizza l’interesse alla contestazione della loro legittimità. (cfr. Cons. St., Ad. Plen., 29 gennaio 2003, n.1). Pres. Salvatore - Est. Deodato - G. SRL c. PROVINCIA AUTONOMA DI BOLZANO (conferma T.R.G.A. SEZ. AUTONOMA DELLA PROVINCIA DI BOLZANO n. 259/2002). CONSIGLIO DI STATO Sez. IV, 6 luglio 2004 (ud. 6 aprile 2004), Sentenza n. 5012
2) Pubblica Amministrazione – Responsabilità amministrativa - Concezione oggettiva della colpa - Indici valutativi. La concezione oggettiva della colpa (suggerita dalla Cassazione), si basa sull’apprezzamento dei vizi che inficiano il provvedimento, mutuati dalla giurisprudenza comunitaria in diversi indici valutativi quali “…la gravità della violazione commessa dall’amministrazione, anche alla luce dell’ampiezza delle valutazioni discrezionali rimesse all’organo, dei precedenti della giurisprudenza, delle condizioni concrete e dell’apporto eventualmente dato dai privati nel procedimento”. (Cassazione Sezioni Unite n.500/99). Pres. Salvatore - Est. Deodato - G. SRL c. PROVINCIA AUTONOMA DI BOLZANO (conferma T.R.G.A. SEZ. AUTONOMA DELLA PROVINCIA DI BOLZANO n. 259/2002). CONSIGLIO DI STATO Sez. IV, 6 luglio 2004 (ud. 6 aprile 2004), Sentenza n. 5012
3) Pubblica Amministrazione – Responsabilità dell’amministrazione per attività provvedimentale - Criteri presuntivi ed astratti di determinazione del danno – Fattispecie: Appalti - Procedura concorsuale - Forme di indennizzo automatico e forfettario. L’esigenza di ricorrere a criteri presuntivi ed astratti di determinazione del danno è stata avvertita sia dalla giurisprudenza, che ha individuato un preciso canone indiziario (di seguito illustrato) per la determinazione del pregiudizio connesso alla perdita di un’occasione di successo in una procedura concorsuale, sia dallo stesso legislatore, laddove ha definito, con l’art.35 d. lgs. n.80/98, un peculiare metodo di liquidazione del danno fondato proprio sulla definizione giudiziale di parametri valutativi indeterminati o quando ha previsto, all’art.17, comma 1, lett. f), legge 15 marzo 1997, n.59, la definizione “di forme di indennizzo automatico e forfettario a favore dei soggetti richiedenti il provvedimento…per i casi di mancato rispetto del termine del procedimento o di mancata o ritardata adozione del provvedimento” stesso. Pres. Salvatore - Est. Deodato - G. SRL c. PROVINCIA AUTONOMA DI BOLZANO (conferma T.R.G.A. SEZ. AUTONOMA DELLA PROVINCIA DI BOLZANO n. 259/2002). CONSIGLIO DI STATO Sez. IV, 6 luglio 2004 (ud. 6 aprile 2004), Sentenza n. 5012
4) Pubblica Amministrazione – Responsabilità dell’amministrazione per attività provvedimentale - Appalti - Determinazione di criteri valutativi astratti e presuntivi della misura del pregiudizio risarcibile - Project financing - 10% del valore dell’appalto. Per la violazione delle regole che presiedono alla corretta conduzione delle procedure ad evidenza pubblica la giurisprudenza amministrativa ha individuato nell’art.345 della legge 20 marzo 1865, n.2248, Allegato F, un prezioso riferimento positivo, laddove quantifica nel 10% del valore dell’appalto l’importo da corrispondere all’appaltatore in caso di recesso facoltativo dell’amministrazione, nella determinazione forfettaria ed automatica del margine di guadagno presunto nell’esecuzione di appalti di lavori pubblici (cfr. ex multis Cons. St., sez. V, 8 luglio 2002, n.3796). Ulteriore conferma positiva della validità di tale criterio presuntivo è stata, poi, rinvenuta nell’art.37 septies, comma 1, lett.c) della legge 11 febbraio 1994, n.109, laddove prevede, in materia di project financing, che, nelle ipotesi in cui la concessione sia risolta per inadempimento del concedente o revocata per motivi di interesse pubblico, al concessionario spetti un indennizzo, a titolo di risarcimento del mancato guadagno, pari al 10% delle opere ancora da eseguire. Può, in definitiva, registrarsi il consolidamento di un indirizzo giurisprudenziale, ormai univoco e dal quale non si ravvisano ragioni per discostarsi, che, sulla base delle predette indicazioni normative, riconosce nella misura del 10% dell’importo a base d’asta, per come eventualmente ribassato dall’offerta dell’impresa interessata, l’entità del guadagno presuntivamente ritratto dall’esecuzione dell’appalto. Occorre, tuttavia, ancora distinguere la fattispecie in cui il ricorrente riesce a dimostrare che, in mancanza dell’adozione del provvedimento illegittimo, avrebbe vinto la gara (ad esempio perché, se non fosse stato indebitamente escluso, sarebbe stata selezionata la sua offerta) dai casi in cui non è possibile acquisire alcuna certezza su quale sarebbe stato l’esito della procedura in mancanza della violazione riscontrata. La dimostrazione della spettanza dell’appalto all’impresa danneggiata risulta ovviamente configurabile nei soli casi in cui il criterio di aggiudicazione si fonda su parametri vincolati e matematici (come, ad esempio, nel caso del massimo ribasso in un pubblico incanto in cui l’impresa vincitrice avrebbe dovuto essere esclusa), mentre si rivela impossibile là dove la selezione del contraente viene operata sulla base di un apprezzamento tecnico-discrezionale dell’offerta (come nel caso dell’offerta economicamente più vantaggiosa). Nella prima ipotesi spetta, evidentemente, all’impresa danneggiata un risarcimento pari al 10% del valore dell’appalto (come eventualmente ribassato dalla sua offerta), ferma restando la possibilità di conseguire una somma superiore, in presenza della dimostrazione che il margine di utile sarebbe stato maggiore di quello presunto. Viceversa, quando il ricorrente allega solo la perdita di una chance a sostegno della pretesa risarcitoria (e cioè quando non riesce a provare che l’aggiudicazione dell’appalto spettava proprio a lui, secondo le regole di gara), la somma commisurata all’utile d’impresa deve essere proporzionalmente ridotta in ragione delle concrete possibilità di vittoria risultanti dagli atti della procedura. Al fine di operare tale decurtazione vanno valorizzati tutti gli indici significativi delle potenzialità di successo del ricorrente, quali, ad esempio, il numero di concorrenti, la configurazione della graduatoria eventualmente stilata ed il contenuto dell’offerta presentata dall’impresa danneggiata. Pres. Salvatore - Est. Deodato - G. SRL c. PROVINCIA AUTONOMA DI BOLZANO (conferma T.R.G.A. SEZ. AUTONOMA DELLA PROVINCIA DI BOLZANO n. 259/2002). CONSIGLIO DI STATO Sez. IV, 6 luglio 2004 (ud. 6 aprile 2004), Sentenza n. 5012
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