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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Tribunale di BARI
sezione del riesame
riunito in camera di consiglio nelle persone dei seguenti magistrati:
- dr. Ambrogio Marrone presidente
- dr. Oronzo Putignano giudice rel.
- dr. Giovanni Anglana giudice
decidendo sull’appello ex art. 322
bis c.p.p. presentato il 30.10.2003 dal Pubblico Ministero presso il Tribunale
di Trani avverso il decreto di rigetto della richiesta di sequestro preventivo
emesso, in data 21.10.2003 dal GIP della stessa città, nei confronti di LOPRIENO
Domenico, nato a Trani il 19.3.1933, LOPETUSO Michele, nato ad Andria il
12.5.1974, DI LEO Antonio, nato ad Andria il 31.3.1941, GRILLO Antonio, nato ad
Andria il 7.10.1944, FIONDA Francesco, nato ad Andria il 14.10.1951, SINISI
Francesco, nato ad Andria il 9.6.1960 e TUCCI Nicola, nato ad Andria l’1.12.1940
(ciascuno nella qualità di titolare di ditte addette alla gestione di cave);
esaminati gli atti del procedimento, uditi nell’odierna udienza camerale il PM e
i difensori degli indagati, e sciogliendo la riserva di cui al separato verbale
d’udienza, il Collegio
PREMETTE
Agli inizi del 2001, a seguito di alcune denunce, la Procura di Trani
avviava complesse indagini intese all’accertamento di reati ambientali e in tema
di rifiuti commessi nel corso delle attività estrattive realizzate in alcune
cave situate nel territorio della Murgia.
Le investigazioni condotte anche con l’intervento dei CC. preposti alla tutela
dell’ambiente (consistenti in sopralluoghi, acquisizione di documentazione e
assunzione di informazioni) trovavano compendio e supporto negli esiti di
apposite consulenze tecniche (geologiche, catastali, amministrative) disposte
dal PM, sfociando in provvedimenti di sequestro di numerose cave.
In particolare, si accertava che l’attività estrattiva compiuta in quella zona
aveva comportato sostanziali modificazioni del paesaggio e del territorio
circostante: intere colline risultavano disboscate e successivamente spianate,
con la creazione di ampie depressioni e con il caotico ed indiscriminato
accumulo di materiale di risulta, di scarti e fanghi di lavorazione della
pietra, di rifiuti domestici e pneumatici, che avevano dato vita a discariche a
cielo aperto; erano scomparsi i confini e i muretti a secco tra le proprietà;
risultava distrutta la vegetazione boschiva; v’era stata la deviazione dei
tratturi per agevolare l’accesso alle rispettive aree di cava. Tutto ciò aveva
prodotto come conseguenza la progressiva menomazione dell’ecosistema naturale,
il cui già fragile equilibrio era reso ancor più preoccupante dalla possibile
verificazione (in ragione del non trascurabile grado di sismicità che connota il
territorio della Murgia) di movimenti franosi dovuti alla disordinata
sistemazione degli scarti ammassati a ridosso delle cave con rilevante pericolo
per la pubblica incolumità.
Per quel che qui maggiormente interessa, il GIP di Trani con decreto del
28.8.2002, accogliendo la richiesta di misura cautelare reale presentata
dall’organo giudiziario procedente, disponeva il sequestro preventivo delle cave
gestite dagli odierni appellati, site nelle località “Iambrenghi” e “Macchia del
Fico” in agro di Minervino Murge, per avere i rispettivi gestori esercitato
continuativamente l’attività estrattiva in zona sottoposta a protezione
speciale, in area naturale protetta ed assoggettata a vincolo da usi civici e
boschivo senza la prescritta autorizzazione paesaggistica, nonché per avere
danneggiato e deturpato le bellezze naturali del luogo (le imputazioni, tranne
quelle relative alla violazione della normativa sui rifiuti, sono confluite ed
analiticamente riprodotte nella disattesa richiesta di sequestro preventivo del
24.9.2003, cui si rinvia).
Adito in sede di riesame, il Tribunale di Bari con distinte pronunce del
settembre 2002 riteneva non sufficientemente chiari e definiti gli elementi
posti a base delle accuse ai fini del dovuto controllo di legittimità in ordine
al disposto provvedimento cautelare, che era annullato al di là di una
valutazione di merito sui fatti illeciti denunciati, con restituzione dei beni
ablati agli aventi diritto.
Dopo la pronuncia di annullamento del decreto cautelare per motivi formali da
parte del Tribunale, il PM di Trani il 24.9.2003 avanzava al GIP richiesta di
adozione di nuovo sequestro preventivo sulla scorta di una più approfondita
disamina del corredo probatorio acquisito, corroborato da consulenze tecniche e
da dettagliate informative della PG.
Il giudice di prime cure respingeva la predetta domanda cautelare del PM, sul
sostanziale rilievo dell’assenza del necessario fumus dei reati contestati e del
mancato riscontro di un diretto ed attuale nesso di strumentalità tra gli
illeciti ipotizzati e le cave gestite da FIONDA Francesco, GRILLO Antonio e
SINISI Francesco (cfr. pagg. 7 e 8 del decreto di rigetto del GIP).
Contro tale provvedimento reiettivo proponeva articolato appello l’Ufficio
inquirente (che esprimeva acquiescienza, tra gli altri, con riferimento al capo
6, sub B, e al capo 7, sub B della rubrica, riguardanti le posizioni di SINISI
Francesco e TUCCI Nicola), censurando argomentatamente e partitamente ogni punto
della gravata decisione ed il percorso logico-interpretativo seguito dal GIP nel
giungere alla resa statuizione negativa ed illustrando doviziosamente – con
puntuale ricostruzione della legislazione in materia e attraverso il supporto di
allegazioni giurisprudenziali e normative, statali e regionali, strettamente
concernenti la questione delle caratteristiche
giuridico-paesaggistiche-territoriali della zona in cui sorgono le cave, nonché
dell’individuazione ed operatività dei relativi vincoli - le ragioni per le
quali deve, viceversa, ritenersi sicuramente fondato il costrutto accusatorio
circa l’avvenuto compimento delle condotte illecite a ciascuno degli indagati
ascritte nelle rispettive imputazioni.
Sulla base dei cennati rilievi, il PM chiedeva al Tribunale l’accoglimento
dell’appello con il conseguente sequestro preventivo delle cave di che trattasi.
Ciò posto, non è forse superfluo precisare che l’esame delle consulenze di parte
prodotte dagli interessati all’Ufficio Minerario, ai fini dell’autorizzazione
per l’esercizio di attività estrattiva, consegna i dati tecnici schematicamente
rappresentati nel modo che segue:
ditta di FIONDA Francesco operante su cava sita in località “Iambrenghi”,
riferita dal consulente al foglio di mappa n. 154, p.lle 41, 56, 80, 24, 23, 58,
87 e parte della 59; dalla consulenza emerge che l’area oggetto dell’attività
estrattiva non è interessata da vincoli ambientali e che la stessa non è gravata
da uso civico come attestato da certificazione rilasciata dall’Ufficio Usi
Civici di Bari; invece dagli accertamenti eseguiti dalla PG e dal consulente del
PM si evince che l’area è soggetta a vincolo idrogeologico, Ambito D, ZPS e SIC
dal ’98, uso civico, faunistico, boschivo ex L.R. n. 30/90 giacchè l’area sulla
quale v’è attività estrattiva dista circa 50 metri dal confine di area boschiva;
ditta “Estrazioni Serpeggianti” di LOPRIENO Domenico operante su cava sita in
località “Macchia del Fico”, riferita al foglio di mappa n. 87, p.lla 47 e
foglio di mappa nr. 95, p.lla 111 e 2, foglio di mappa 94, p.lle 32, 37, 39, 44,
545 e 204; la consulenza di parte ammette l’esistenza del vincolo idrogeologico,
ma esclude l’onere dell’uso civico; dagli accertamenti eseguiti dalla PG e dal
consulente del PM emerge che l’area è interessata, oltre che dal vincolo
idrogeologico, da ambito C, uso civico, ZPS e SIC e faunistico;
ditta “K.F. Marmi s.r.l./Estrazioni Serpeggianti” di LOPRIENO Domenico operante
in località “Iambrenghi”, riferita al foglio di mappa n. 154, p.lla 79 (ora
2067, 2068 e 2069); la consulenza di parte ammette l’esistenza del vincolo
idrogeologico, ma esclude quello da uso civico; dagli accertamenti eseguiti
dalla PG e dal consulente del PM emerge che l’area è interessata, oltre che dal
vincolo idrogeologico, da ambito D, ZPS e SIC, faunistico e boschivo poiché
l’area al cui interno si svolge l’attività cavatoria dista circa 6 metri del
confine del bosco;
ditta TUCCI Nicola operante su cava sita in località “Macchia del Fico”,
riferita al foglio di mappa n. 87, p.lle 3, 52 e 78, foglio di mappa n. 95,
p.lle 4, 5, 8, 103, 113, 117, foglio di mappa nn. 94 e 95, p.lle 28, 38, 37, 48,
119, 74, 85, 36, 34, 55, 57/a, 64/a, 73/a, 75/a, 47, 27, 43, 58, 59, 79; dalla
consulenza di parte si evince l’assenza di vincoli; dagli accertamenti eseguiti
dalla PG e dal consulente del PM emerge che l’area è interessata da vincolo
idrogeologico, ambito D, uso civico, ZPS e SIC, faunistico;
ditta GRILLO Antonio operante su cava sita in località “Iambrenghi”, riferita al
foglio di mappa 154, p.lle 52 e 62; nessun vincolo rilevante si desume dalla
consulenza di parte mentre dagli accertamenti eseguiti dalla PG e dal consulente
del PM emerge che l’area è soggetta a vincolo idrogeologico, ambito D, uso
civico, ZPS e SIC, faunistico;
ditta DI LEO Antonio operante su cava sita in località “Iambrenghi”, riferita al
foglio di mappa n. 153, p.lla 191, foglio di mappa n. 154, p.lla 10; la
consulenza di parte ammette l’esistenza del vincolo idrogeologico, ma esclude il
gravame da uso civico; dagli accertamenti eseguiti dalla PG e dal consulente del
PM emerge che l’area è connotata da vincolo idrogeologico per il foglio 154,
ambito D, uso civico, ZPS e SIC, faunistico e boschivo in quanto l’attività
estrattiva si svolge ad una distanza di circa 50 metri dal complesso boschivo
“Intacca”;
ditta “Central Scambi Universal di SINISI Francesco” operante su cava sita in
località “Macchia del Fico”, riferita al foglio di mappa n. 93, p.lle 39, 53 e
63, foglio di mappa n. 95, p.lla 69; la consulenza di parte ammette l’esistenza
del vincolo idrogeologico, ma non di quello da uso civico; dagli accertamenti
eseguiti dalla PG e dal consulente del PM emergono, oltre ai predetti vincoli,
quello di ZPS, SIC, Ambito C, faunistico;
ditta “Elle Due di LOPETUSO Michele” operante su cava sita in località “Iambrenghi”,
riferita al foglio di mappa n. 153, p.lla 120; alcun vincolo è indicato nella
consulenza di parte mentre dagli accertamenti eseguiti dalla PG e dal consulente
del PM emerge che l’area è assoggettata a vincolo idrogeologico, ambito C, uso
civico, ZPS e SIC, faunistico e boschivo in quanto l’attività estrattiva è
svolta ad una distanza di circa 70 metri dal complesso boschivo “Intacca”.
Inoltre, l’esame della documentazione acquisita dagli investigatori ha permesso
di chiarire quanto segue (in breve):
ditta di DI LEO Antonio: istanza di prosecuzione presentata il 19.12.1985 sulle
p.lle 91 del foglio di mappa 153 e 10 del foglio di mappa 154; l’Ufficio
Minerario il 29.3.1996 avvertiva il titolare della ditta che l’autorizzazione
all’esercizio della cava era scaduta; l’impresa svolge attività di coltivazione
anche sul foglio di mappa 153, p.lla 121 (già 90) per la quale non risulta
presentata domanda di prosecuzione o autorizzazione;
ditta di FIONDA Francesco: istanza di prosecuzione del 19.12.1985; l’8.2.1993
era autorizzata per otto anni la coltivazione sulla p.lla 41 del foglio 154 poi
prorogata il 29.9.2000 per altri otto anni; l’attività estrattiva risulta svolta
anche sulla p.lla 24 e in passato essa ha interessato anche le p.lle 24, 23, 47,
58 e 87 del foglio 154, per le quali non sarebbe stata presentata domanda di
prosecuzione o autorizzazione; con riferimento alle p.lle 80 e 56 risulta che
sulle stesse v’è stata coltivazione (ora sospesa) priva di autorizzazione, che
secondo i verbalizzanti può riprendere in qualsiasi momento;
ditta “Estrazioni Serpeggianti” di LOPRIENO Domenico: domanda di autorizzazione
alla coltivazione di una nuova cava insistente sulla p.lla 79 del foglio di
mappa 154 del 21.11.96; il 14.1.1999 la ditta “K.F. Marmi s.r.l.” era
autorizzata alla coltivazione della cava; il 9.11.1999 l’autorizzazione era
trasferita alla “Estrazioni Serpeggianti” del LOPRIENO; alcuna procedura di
valutazione ambientale risulta attivata; i lavori sulla p.lla 2 del foglio 95
non risultano autorizzati; in relazione alle restanti p.lle il 20.11.2000
l’Assessorato all’Urbanistica comunicava che l’area interessata dalla cava è
sottoposta a vincolo paesaggistico; sulle p.lle 32, 37, 39, 44, 54 e 204 del
foglio 94 l’attività svolta è abusiva; del pari priva di autorizzazione è
l’attività svolta sulla p.lla 39 del foglio 87;
ditta di GRILLO Antonio: domanda di autorizzazione alla coltivazione di nuova
cava del 31.1.1995; comunicazione dell’Assessorato all’Urbanistica
dell’esistenza del vincolo da uso civico e necessità del nulla-osta
paesaggistico; l’attività sulle p.lle 52 e 62 del foglio 154 è ora sospesa e non
risulta autorizzata;
ditta di SINISI Francesco: domanda di autorizzazione alla coltivazione di nuova
cava sulle p.lle 39, 53, 63 e 69 del foglio di mappa 95 del 4.10.1999;
comunicazione dell’esistenza del vincolo paesaggistico; l’attività svolta sulle
p.lle 67, 71 e 72 del foglio 95 non è stata autorizzata; invero, il difensore ha
odiernamente dedotto che sulle predette p.lle già insiste il vincolo ablatorio
per effetto del decreto del GIP di Trani del 28.8.2002 non impugnato in sede di
riesame; di conseguenza in relazione a tale area di cava, già sottoposta a
sequestro preventivo, l’appello del PM non può essere accolto;
ditta “Elle Due” di LOPETUSO Michele: domanda di autorizzazione alla
coltivazione di una nuova cava sulla p.lla 120 del foglio di mappa 153;
comunicazione dell’esistenza dei vincoli paesaggistici;
ditta “CO.MAR” di LOPETUSO Michele: domanda di prosecuzione del 19.12.1985
relativa alla p.lle 1-111 del foglio 95; non è chiaro se l’attività di
coltivazione su tali p.lle e su quelle 41, 42 e 54 sia stata svolta prima della
L.R. n. 22.5.1985;
ditta di TUCCI Nicola: istanza di prosecuzione del 19.12.1985 per una parte
delle p.lle del foglio di mappa 95; domanda di autorizzazione alla coltivazione
di nuova cava sulle p.lle 4, 5, 8, 103, 117 del foglio 95 e 3, 52, 78 del foglio
87; con riguardo a tali p.lle v’è comunicazione dell’esistenza dei vincoli
paesaggistici e riferimento alla necessità di esperire i preventivi procedimenti
di valutazione ambientale (per ulteriori rilevi in ordine alle singole cave, si
rinvia alle pagg. 5-8 dell’appello del PM e al prospetto allegato al decreto di
sequestro preventivo emesso dal GIP di Trani il 28.8.2002, poi annullato in sede
di riesame per motivi formali).
Ed infine nelle schede redatte da personale del Corpo Forestale dello Stato
(alle quali si rinvia), corredate da rilievi fotografici, è indicato lo stato
dei luoghi riscontrato dai verbalizzanti nel corso dei sopralluoghi effettuati
sulle cave interessate dall’attività di indagine.
Tirando riassuntivamente le fila dei dati tecnico-catastali dianzi riportati,
può dirsi – per quanto è dato comprendere - che per le cave di LOPRIENO Domenico
(foglio 154, p.lla 79; foglio 95, p.lla 111 e foglio 87, p.lla 47, a seguito del
trasferimento dalla ditta “K.F. Marmi s.r.l.”), di LOPETUSO Michele (foglio 153,
p.lla 120) e di FIONDA Francesco (foglio 154, p.lla 41) risulta rilasciata
autorizzazione all’attività estrattiva. Con riferimento a tutte le altre cave,
per ciascuna delle rispettive p.lle sulle quali insistono, risulta invece
presentata solo richiesta di prosecuzione (non autorizzata) ovvero domanda di
coltivazione di nuova cava (pur essa non autorizzata) o veruna istanza.
Il difensore di DI LEO Antonio depositava ritualmente il 17.1.2004 memoria con
la quale chiedeva la reiezione dell’impugnazione proposta. Nell’interesse di
TUCCI Nicola e LOPETUSO Michele il 4.2.2004, di FIONDA Francesco e SINISI
Francesco il 5.2.2004, erano depositate memorie difensive con documentazione
allegata (sulla cui ricevibilità cfr. artt. 322 bis, co.2, 310, co.2, 127, co.2,
c.p.p.), parimenti tese ad ottenere la conferma del decreto di rigetto della
richiesta di sequestro preventivo.
Tanto brevemente premesso, il Tribunale
OSSERVA
Occorre anzitutto rammentare che la motivazione “indiretta” è legittima allorchè
fornisca la dimostrazione che il giudice abbia preso cognizione del contenuto
sostanziale delle ragioni dell’atto di riferimento e le abbia meditate e
ritenute coerenti con la sua decisione (così, Cass., SS.UU., 21 giugno 2000,
Primavera).
E’ opportuno anche precisare che, ai fini dell’emissione di un provvedimento di
sequestro preventivo, non è richiesta l’esistenza di gravi indizi di
colpevolezza, essendo sufficiente che la condotta addebitata sia sussumibile in
una determinata norma incriminatrice e che, rispetto ad essa, la cosa o le cose
colpite dal vincolo si pongano in relazione di pertinenza (art. 321 co. 1 c.p.p.)
con pericolo inerente alla loro libera disponibilità, ovvero costituiscano corpo
del reato o comunque suscettibili di confisca (art. 321 co. 2 c.p.p.).
Sicchè il giudice, nel disporre la misura, e il tribunale del riesame, nel
valutarne la legittimità, non devono accertare la fondatezza dell’accusa,
nemmeno a livello indiziario (ossia di mera, se pur qualificata probabilità), ma
la sola astratta configurabilità dell’ipotesi criminosa tipica in relazione al
quadro fattuale prospettato dal PM e la possibilità di qualificazione dei beni
nei termini di cui sopra, ovviamente in assenza di dati che all’evidenza
escludano la concreta ricorrenza del reato e/o il collegamento di quanto
sequestrato con quest’ultimo (in tal senso, recentemente, ex plurimis, Cass.,
sez. V, 24 settembre-22 ottobre 2002, Carucci).
Ai fini dell’adozione del sequestro preventivo, il pericolo rilevante va inteso
in senso oggettivo, come probabilità di danno futuro, connessa all’effettiva
disponibilità materiale o giuridica della cosa pertinente al reato o al suo uso,
e deve essere concreto ed attuale. Al riguardo, per cose pertinenti al reato
sulle quali può cadere il sequestro preventivo, debbono intendersi non solo
quelle caratterizzate da un’intrinseca, specifica e strutturale strumentalità
rispetto al reato commesso e a quelli futuri di cui si paventa la commissione,
ma anche quelle che risultino indirettamente legate al reato per cui si procede,
sempre che la libera disponibilità di esse possa dar luogo al pericolo di
aggravamento o di protrazione delle conseguenze del reato ovvero
all’agevolazione della commissione di altri (Cass., sez. V, 1.10-7.11.2002
Papini).
A tal punto, non è inutile dar conto - sia pure in termini essenziali, in ordine
sparso e, quindi, in maniera non organica - della normativa che disciplina
l’attività di estrazione, nonchè di quella strettamente inerente al thema
decidendum.
Sotto il vigore del D.P.R. n. 128/1959, per poter esercitare detta attività era
sufficiente una denuncia rivolta dall’esercente all’Autorità competente almeno
otto giorni prima dell’inizio dei lavori.
Con la legge regionale della Puglia n. 37/85 è richiesta un’autorizzazione per
l’apertura di una cava e un’istanza di prosecuzione nel caso in cui essa sia già
attiva, stabilendosi un termine semestrale per la presentazione della predetta
istanza, decorrente dall’entrata in vigore della legge regionale, il cui art.
35, commi 3 e 4, limita i casi di cessazione dell’attività estrattiva in corso a
due ipotesi: contrasto dell’attività con i vincoli urbanistici, paesaggistici,
archeologici o derivanti da altre leggi, con conseguente diniego all’esercizio
dell’attività cavatoria; mancata richiesta dell’autorizzazione alla prosecuzione
dell’attività nel termine di sei mesi dell’entrata in vigore della L.R. n.
37/85. Da tali previsioni normative sembrerebbe inferirsi che, ove non sia stata
presentata la richiesta di autorizzazione alla prosecuzione dell’attività o tale
richiesta sia stata inoltrata oltre il termine di sei mesi, si determina il
presupposto per la cessazione dell’attività estrattiva. Nel caso diverso in cui
la richiesta alla prosecuzione dell’attività estrattiva sia stata invece
presentata tempestivamente, allora l’attività potrà nelle more proseguire (pur
in difetto del rilascio del relativo titolo autorizzatorio), fatto salvo
l’eventuale diniego dell’autorizzazione nell’ipotesi di accertato riscontro di
ragioni ostative in esito all’istruttoria procedimentale (con la doverosa
precisazione che tale disciplina regionale dell’attività cavatoria dev’essere
razionalmente coordinata con la legislazione ambientale ed interpretata in
maniera tale da non porsi in contrasto con quest’ultima regolamentazione di
settore, spesso successiva e di superiore rango normativo).
Con la L.R. n. 13/87 il termine di sei mesi per la presentazione della domanda
di prosecuzione era prorogato al 31.12.1987. In tal modo, erano sanate tutte
quelle situazioni di mancata tempestiva presentazione dell’istanza ai sensi
dell’art. 35 L.R. n. 37/85, talchè gli esercenti le cave che pure avrebbero
dovuto cessare l’attività con tale sopravvenienza legislativa potevano
continuare a svolgerla purchè la richiesta di autorizzazione fosse inoltrata
entro il nuovo termine scadente l’ultimo giorno del 1987.
La L.R. n. 30/90, però, all’art. 1 sancisce che fino all’approvazione del PUTT è
vietata ogni modificazione dell’assetto del territorio nonché opera edilizia -
tra gli altri - nei territori coperti da boschi o macchia mediterranea, ancorchè
percorsi o danneggiati dal fuoco, e in quelli sottoposti a vincolo di
rimboschimento e nelle fasce con termine di cento metri.
Il D.P.R. 12.4.1996, attuativo della direttiva CEE n. 85/337, prevede per i
progetti che possono incidere in maniera rilevante sul territorio in cui deve
essere realizzato un intervento invasivo per l’ambiente circostante la
valutazione di impatto ambientale (V.I.A.); tale procedura preventiva è
necessaria nel caso di cave e torbiere con più di 500.000 mc/a di materiale
estratto o nel caso di un’area interessata superiore a 20 ha ovvero di area
ricadente in aree naturali protette.
L’art. 5 D.P.R. n. 357/1997 stabilisce che se la cava rientra in un sito di
interesse comunitario (S.I.C.) e/o in zona di protezione speciale (Z.P.S.) e non
deve essere assoggettata a V.I.A., soggiace alla procedura di valutazione
d’incidenza, mirante a valutare i principali effetti che i progetti possono
comportare sui siti comunitari e sulle zone speciali protette, avuto preminente
riguardo agli obiettivi di conservazione naturalistico ambientale.
La legge della Regione Puglia n. 19 del 24.7.’97 prevede l’istituzione, quale
area naturale protetta, della “Alta Murgia”, formata dai comuni di Altamura,
Gravina in Puglia, Minervino Murge, Poggiorsini, Corato, Ruvo di Puglia,
Santeramo in Colle, Cassano delle Murge, Andria, Spinazzola, Grumo Appulo,
Bitonto, Toritto, Acquaviva delle Fonti.
Ancor prima, la legge quadro sulle aree naturali protette (art. 34, punto 6,
lett. l) L. n. 394 del 6.12.’91) aveva considerato l’Alta Murgia come
prioritaria area di reperimento (e quindi meritevole di protezione anche dal
punto di vista naturalistico ambientale). Al suo art.6 essa dispone che “dalla
pubblicazione del programma fino all’istituzione delle singole aree protette
operano direttamente le misure di salvaguardia di cui al comma 3…sono vietati
fuori dai centri abitati…l’esecuzione di nuove costruzioni e le trasformazioni
di quelle esistenti, qualsiasi mutamento dell’utilizzazione di terreni con
destinazione diversa da quella agricola e quant’altro possa incidere sulla
morfologia del territorio, sugli equilibri ecologici, idraulici ed
idrogeotermici e sulle finalità istitutive dell’area protetta”.
Con deliberazione del 2.12.1996 del Ministero dell’Ambiente erano classificate e
definite le aree naturali protette e, tra le altre, le zone di speciale
conservazione relative alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali.
Con delibera del 15.12.2000 la Regione Puglia ha approvato il piano urbanistico
territoriale tematico (P.U.T.T.), rivolto – attraverso la perimetrazione e la
definizione dell’intero territorio regionale - a disciplinare i processi di
trasformazione fisica e l’uso del territorio allo scopo di tutelarne l’identità
storica e culturale; a rendere compatibili la qualità del paesaggio, le sue
componenti strutturali e il suo uso sociale; a promuovere la salvaguardia e la
valorizzazione delle risorse territoriali.
L’art. 3.13.4 del P.U.T.T. ha previsto che nelle aree protette non sono
autorizzabili piani e/o progetti e interventi comportanti, tra l’altro,
movimenti di terra che alterino in modo sostanziale e/o stabilmente la
morfologia del sito (eccettuate opere strettamente connesse con la difesa
idrogeologica) e la discarica di rifiuti, sancendo poi che negli ambiti
territoriali di valore distinguibile “C” (in cui ricadono le cave site in
località “Macchia del Fico” dell’agro di Minervino Murge) le nuove
localizzazioni di attività estrattive vanno limitate ai materiali di
inderogabile necessità e di difficile reperibilità.
Come si è sopra notato, il D.P.R. del 12.4.’96 ha previsto come obbligatoria la
valutazione di impatto ambientale da parte del competente comitato regionale nel
caso di cave o torbiere con più di 500.000 mc/a di materiale estratto o di
un’area interessata superiore a 20 ha ovvero di un’area ricadente in aree
naturali protette. Tale procedura ha lo scopo di individuare, descrivere e
valutare, in via preventiva, l'impatto ambientale di determinati progetti
pubblici o privati. Essa non è quindi da intendersi "strumento" necessario per
verificare il rispetto di standard o per imporre nuovi vincoli, oltre quelli già
operanti, ma come un "processo coordinato" per raggiungere un elevato grado di
protezione ambientale, realizzando l'obiettivo di migliorare la qualità della
vita, mantenere la varietà delle specie, e conservare la capacità
dell’ecosistema in quanto risorsa essenziale. La V.I.A. mira ad introdurre,
nella prassi tecnica ed amministrativa ed in una fase precoce della
progettazione, una valutazione sistematica degli effetti prodotti dalle opere in
progetto sull'ambiente, intendendo quest'ultimo come un sistema complesso di
risorse naturali e umane e delle loro interazioni.
Con delibera del 22.7.’97 la Giunta pugliese, in attesa della definizione della
legge regionale in materia di V.I.A., recependo il D.P.R. 12.4.1996, individuava
nell’Assessorato all’Ambiente – Settore Ecologia l’Autorità competente ai sensi
della predetta normativa. Con delibera del 18.11.’97 la Regione incaricava un
gruppo di lavoro, già costituito con delibera di G.R. n. 806/94, di effettuare
le valutazioni degli studi di impatto ambientale, prevedendo che i termini per
l’applicazione delle relative procedure sarebbero decorsi dalla data di
esecutività della stessa delibera. La Giunta in data 27.1.’98 deliberava di
modificare la deliberazione del 18.11.1997, con l’indicazione definitiva dei
componenti del Comitato V.I.A. (tra la corposa documentazione trasmessa
dall’Ufficio del PM v’è in atti anche una determinazione del Dirigente del
Settore Ecologia della Regione Puglia del 10.4.2000 dalla quale si ricava ad es.
che la coltivazione della cava da parte della ditta di TUCCI Nicola era
espressamente assoggettata alla procedura di verifica di impatto ed incidenza
ambientale).
L’area in cui ricadono le cave è definita area naturale protetta denominata
“Alta Murgia” ed è ricompresa tra le zone di protezione speciale sicchè ogni
intervento di alterazione dell’aspetto esteriore del luoghi necessita di
autorizzazione e i relativi progetti di apertura, ai sensi della normativa in
materia, devono essere indefettibilmente assoggettati almeno alla procedura di
valutazione di impatto ambientale da parte dell’Autorità amministrativa preposta
alla tutela del bene avente speciale rilevanza naturalistico-ambientale.
Dall’esame delle risultanze investigative e dalle acquisizioni documentali
relative ai provvedimenti della Regione Puglia non risulta – almeno fino al
momento della prima richiesta di sequestro preventivo del PM - che i progetti di
coltivazione mineraria delle cave siano stati assoggettati ad alcuna delle
preventive procedure di garanzia (V.I.A. e incidenza ambientale), né tantomeno
emerge che gli interessati abbiano attivato le iniziative necessarie a tal fine
e abbiano osservato gli adempimenti prescritti anche successivamente ai decreti
di autorizzazione al trasferimento dell’attività estrattiva se è vero che già in
data 22.7.’97 la Giunta regionale pugliese aveva recepito il contenuto del
D.P.R. 12.4.1996 e aveva interinalmente individuato l’Assessorato all’Ambiente
quale l’Autorità competente in materia di V.I.A. ai sensi del citato decreto
presidenziale.
Avendo così la Regione – attesa la scadenza del termine di nove mesi ad essa
imposto per disciplinare i contenuti e le procedure di V.I.A. - fatte proprie
nel luglio ’97 le disposizioni dettate dalla normativa in esame (tra cui quelle
che prevedono l’obbligatorietà della V.I.A. per l’apertura di cave situate, tra
l’altro, in aree naturali protette, come l’Alta Murgia nella quale ricade in
base alla L.R. n. 19 del 24.7.’97 proprio il territorio di Minervino Murge),
deve ritenersi che l’autorizzazione alla coltivazione della cava non può essere
rilasciata prima e al di fuori della rituale procedura di V.I.A..
Tra l’altro, l’utilizzazione di una cava costituisce certamente attività
pericolosa per l’ambiente poichè, in difetto di un preventivo studio di impatto
ambientale, gli effetti sinergici e cumulativi dell’inquinamento inevitabilmente
prodotto, di regola, tendono a trasferirsi più facilmente alle falde profonde,
agevolati dalla ferita operata nel terreno non preventivamente impermeabilizzato
e la relativa attività estrattiva comporta pur sempre la propagazione di
emissioni inquinanti nell’atmosfera. Il mancato rilascio del titolo
autorizzatorio e l’inosservanza dei necessari e preventivi incombenti valutativi
da parte dell’Autorità competente non può non tradursi nella violazione della
normativa ambientale.
Ancora, con nota prot. 1234 del febbraio 2000 la Regione Puglia-Assessorato
all’Ambiente, Settore Ecologia, Ufficio Parchi e Riserve Naturali faceva
presente che il sito “Murgia Alta” è stato dichiarato ZPS ai sensi della
direttiva 79/409/CEE con nota del 24.12.1998 del Ministero dell’Ambiente e come
tale fa parte della “Rete Natura” con la conseguenza che le amministrazioni
regionali sono responsabili di attivare le misure di conservazione necessarie,
nonché le misure per evitare il degrado degli habitat e delle specie.
Inoltre, il decreto 3.4.2000 del Ministero dell’Ambiente (“Elenco dei siti di
importanza comunitaria e delle zone di protezione speciali, individuati ai sensi
delle direttive 92/43/CEE e 79/409/CEE”) indica la “Murgia Alta” nell’allegato A
relativo alle zone di protezione speciale designate ai sensi della direttiva CEE
da ultimo citata (nello stesso senso risulta la recente decisione del GIP di
Trani del 18.9.2003, allegata all’odierno appello del PM).
Dalla nota del Ministero dell’Ambiente del 24.12.’98, inviata alla Commissione
CEE, risulta che in quella data la “Murgia Alta” era già ricompresa tra le zone
a protezione speciale. Per tale area la procedura di individuazione non ha
previsto un’istruttoria da parte della Commissione Europea giusta la nota prot.
n. 1234 dell’8.2.2000 dell’Assessorato all’Ambiente-Ufficio Parchi e Riserve
della Regione Puglia.
In particolare con deliberazione della Giunta Regionale della Puglia n. 1157
dell’8.8.2002 si evidenziava che con il suddetto D.M. 3.4.2000 il Ministro
dell’Ambiente ha solo reso ulteriormente pubblico l’elenco dei pSIC e delle ZPS
già individuati e designati con le direttive comunitarie.
Per la conferma dell’esistenza di tali caratteri vincolistici impressi sul
territorio dell’Alta Murgia, deve farsi anche riferimento alle determinazioni
prot. 10761/06 e 10762/06 adottate dalla Regione Puglia-Assessorato Assetto del
territorio-Urbanistica E.R.P.-Settore Urbanistico, portate a conoscenza del PM
di Trani il 7.8.2003 (in atti), con le quali era dichiarata l’improcedibilità al
rilascio dell’autorizzazione paesaggistica da parte della Giunta Regionale delle
istanze presentate dalla ditta “Centro Scambi Universal s.r.l.” e dalla ditta
“Estrazioni Serpeggianti s.r.l.”, operanti in località “Macchia del Fico” del
Comune di Minervino Murge. In tali note si evidenzia che l’area in esame è
classificata SIC e ZPS; che per l’attività di coltivazione risultano già
presentati studi di verifica di compatibilità e di incidenza ambientale; che,
ricadendo gli interventi in area classificata ZPS ovvero rientrante nella
nozione di “area protetta” di cui alla classificazione operata con delibera
ministeriale del 2.12.1996, “risultano vigenti nell’area d’intervento le
disposizioni di divieto di cui all’art. 11, 3° comma, della L. n. 394/91 in
assenza di regolamento come peraltro acclarato anche dalla giurisprudenza
(sentenza Corte Suprema di Cass. pen. Sez. III, 5.1.2000 n° 30)”; che pertanto,
le predette disposizioni di divieto, anche a prescindere dall’entità
dell’impatto ambientale delle opere e/o dall’incidenza ambientale
dell’intervento in progetto, comunque escludono del tutto, in aree classificate
ZPS “l’apertura e l’esercizio di cave, di miniere e di discariche nonché
l’asportazione di materiale” (anche se l’8.10.2001 l’Assessorato all’Ambiente
della Regione Puglia con una nota di chiarimento precisava che le ZPS sono state
solo formalmente designate e non ancora formalmente istituite).
Dal panorama normativo sommariamente delineato si ricavano alcuni principi. Dopo
l’entrata in vigore della L.R. n. 37/85 la denuncia è sostituita
dall’autorizzazione amministrativa rilasciata dalla Regione Puglia con parere
preventivo necessario del Comitato Tecnico Regionale per le Attività Estrattive,
ove dette attività ricadano in territori sui quali insistono vincoli
idrogeologico-forestale, paesaggistico, culturale, ambientale, urbanistico etc..
Per le cave in attività la prosecuzione dell’attività è subordinata alla
presentazione della richiesta di autorizzazione entro il 31.12.1987; se la cava
è impiantata dopo il 12.4.1996, la stessa dev’essere sottoposta, in presenza dei
presupposti previsti, alle procedure di V.I.A.; se la cava rientra in un SIC e/o
in ZPS e non deve essere esperita la VIA, è prescritta quale fase preparatoria
necessaria la valutazione di incidenza ambientale. A seguito dell’entrata in
vigore del PUTT, nell’ambito “C”, le nuove localizzazioni di attività estrattive
si intendono limitate ai materiali di inderogabile necessità e di difficile
reperibilità e nelle aree naturali protette non sono autorizzabili.
Sotto un distinto profilo, è necessario sottolineare che la L. n. 431/85
contiene una disciplina vincolistica con carattere di inderogabilità, introdotta
nell’ordinamento al precipuo scopo di arginare il crescente degrado del
territorio ed il progressivo deturpamento delle bellezze naturali attuato
attraverso una gestione delle risorse naturali non rispondente ai precetti
costituzionali dettati in materia (cfr., al riguardo, Cass., sez. III, 21
gennaio ’97, Volpe, il cui ampio apparato argomentativo investe, tra l’altro, la
specifica questione dell’incidenza della legislazione vincolistica sulla
strumentazione urbanistica).
Quello di cui all’art. 1 sexies è un reato formale di pericolo che prescinde dal
verificarsi di un evento di danno, essendo sufficiente per la sua esistenza che
l’agente faccia del bene protetto dal vincolo paesaggistico un uso diverso da
quello cui esso è destinato o ponga in essere sullo stesso interventi
astrattamente idonei a metterlo in pericolo, talchè sono escluse dal novero
delle condotte penalmente rilevanti solo quelle che si prospettano inidonee, pur
in astratto, a compromettere i valori del paesaggio (così, Cass., sez. III, 26
febbraio-23 maggio 2003, PM Bergamo in proc. Invernici).
Per la giurisprudenza di legittimità tra l’art. 1 sexies L. n. 431/85 ed il
D.lvo n. 490/’99 vi è una continuità normativa che investe sia l’oggetto della
tutela che il regime sanzionatorio (ex plurimis, tra le più recenti, Cass., sez.
III, 22 novembre 2002-30 gennaio 2003, Ferrari).
Infine, come hanno chiarito SS.UU., 15 marzo 1989, Graziani, la ratio della L.
n. 431/85 poggia sulla piena aderenza al precetto costituzionale di tutela
primaria del paesaggio, sia attraverso il vincolo paesaggistico su zone e
territori la cui individuazione è connessa non tanto a specifiche ed individuate
bellezze naturali, come quelle su cui operava la L. n. 1497/39, ma al paesaggio
inteso nella sua globalità e valorizzato per le valenze estetico-culturali che
rappresenta.
D’altro canto, nella sua richiesta di misura cautelare, il PM mostra di aderire,
in ordine alla nozione di bosco, all’indirizzo ermeneutico estensivo del giudice
di legittimità (esemplificativamente espresso da Cass., sez. III, 9 giugno ’94,
Da Roit; Cass., sez. III, 12 febbraio ’93, Quartiero ed altro; Cass., sez. III,
31 marzo ’94, Gorraz; nonché Cass., sez. III, 26 marzo ’97, Lui), teso ad
includere nella porzione boschiva anche le aree contigue, sì da garantire una
più penetrante salvaguardia della fascia protetta, con la conseguenza che ove
resti accertato che l’area su cui si svolge l’attività sia posta sul confine e
nelle immediate vicinanze di un bosco, allora essa non può che ricadere nei
“territori coperti da foreste e da boschi” di cui all’art. 1, comma 2, lett. g),
L. n. 431/85 (trasfuso nell’art. 146, comma 1, lett. g), D.lvo n. 490/99), di
guisa che l’attività realizzata nella medesima zona richiede l’autorizzazione
paesaggistica.
Con riferimento a tale ultimo aspetto, risulta dall’annotazione di indagine
redatta il 31.10.2002 dal Nucleo Investigativo di Polizia Ambientale e Forestale
del CFS di Bari che non poche cave si trovano nelle immediate vicinanze del
confine boschivo (v. supra).
Orbene, in tema di cave, uno dei più controversi problemi è rappresentato dalla
valutazione dell’incidenza dei vincoli paesaggistici sopravvenuti rispetto alle
attività estrattive in corso. Tale nodo problematico è principalmente dovuto al
silenzio serbato sul punto dalla “legge Galasso”, la quale, sebbene prescriva
vincoli ambientali operanti ex lege, nulla ha invece previsto – quanto al
profilo transitorio – per le opere già iniziate anteriormente alla sua entrata
in vigore.
In proposito, la circolare n. 8 del 31 agosto ’85 del Ministero dei Beni
Culturali ed Ambientali ha escluso la necessità di richiedere l’autorizzazione
paesaggistica regionale per le “opere in corso debitamente autorizzate”. Ma la
portata di tale previsione - contenuta in un atto puramente interno
all’Amministrazione - non può essere sopravvalutata non solo stante la
genericità dell’espressione utilizzata che nella sua vaghezza semantica non
aiuta certo l’interprete a trarre appaganti conclusioni, ma anche appunto in
ragione della natura non normativa della fonte da cui essa scaturisce.
In ordine alla disciplina penale delle cave parrebbe comunque ricavarsi il
principio dell’inoperatività dei vincoli paesaggistici alle opere già in corso e
regolarmente autorizzate giacchè - si afferma - sarebbe inutile munirsi
dell’autorizzazione ai fini della tutela di un interesse ambientale allorchè sia
già intervenuto l’inizio dei lavori, con la trasformazione dello stato dei
luoghi. In particolare, mutuando la definizione dalla giurisprudenza della
Suprema Corte, le opere iniziate sono quelle che hanno avuto un concreto e
visibile inizio, al di là delle attività meramente preparatorie, con
un’apprezzabile modificazione dello stato dei luoghi.
A ben vedere, con l’entrata in vigore della L. n. 431/85 si è manifestato in
tutta la sua dirompente rilevanza il contrasto esistente tra la finalità
produttiva connessa all’attività estrattiva e la contrapposta esigenza di
garantire l’integrità del paesaggio. Al riguardo, può affermarsi che il
legislatore, quantunque teoricamente non abbia reputato del tutto inconciliabili
i confliggenti interessi (cercando – ove possibile - di ottenere la loro
armonizzazione), ha tuttavia innegabilmente optato per la preminenza
dell’esigenza di tutela ambientale rispetto a quella relativa alla produzione,
non fosse altro per la diversa natura degli interessi in gioco, quello
privatistico vantato dal coltivatore della cava e quello invece a sfondo
pubblicistico (in quanto riferibile alla generalità dei consociati) alla tutela
del paesaggio (persino oggetto di specifica protezione costituzionale ex art. 9
comma 2 tra i principi fondamentali, diversamente dal diritto di iniziativa
economica privata assoggettato ad una serie di limitazioni ai sensi dell’art. 41
Cost.), talchè il primo interesse non può che ritenersi subvalente e recessivo
rispetto a quest’ultimo a motivo del differente rango rivestito nella scala dei
valori giuridici. Da ciò derivando, quale logico corollario, la legittimità di
negare l’autorizzazione alla prosecuzione dell’attività cavatoria tutte le volte
in cui non vi sia la possibilità di svolgere l’attività estrattiva senza
arrecare pregiudizio ai preminenti interessi paesaggistico-ambientali, il cui
raccordo con l’interesse privato risulti dunque concretamente precluso.
Ciò posto, deve evidenziarsi che con particolare riguardo alla materia delle
cave si segnalano - data l’autorevolezza del consesso emittente le pronunzie -
due importanti decisioni delle Sezioni Unite della Suprema Corte, che si sono
occupate di tale tematica, sviluppandone gli aspetti maggiormente dibattuti.
Nella sentenza 7 novembre 1992, Midolini, i supremi giudici affrontano, tra
l’altro, la tematica dell’eventuale automatica caducazione del provvedimento
autorizzatorio dell’attività cavatoria rilasciato antecedentemente alla
sopravvenienza del vincolo paesaggistico previsto dalla L. n. 431/85,
risolvendolo negativamente, nel senso cioè che il sopravvenire dello stesso non
determina ipso iure l’illegittimità dell’autorizzazione preesistente, né rende
sempre illecita la prosecuzione dell’attività estrattiva, così finendosi con
l’affermare che, pur attribuendosi al valore ambientale prioritaria tutela
rispetto all’interesse economico connesso allo sfruttamento della cava,
cionondimeno deve escludersi che l’operatività della c.d. “legge Galasso” possa
espandersi fino al punto di dar vita ad inaccettabili fenomeni di retroattività
della legge penale. Nella pronuncia si evidenzia, tuttavia, che i vincoli
introdotti dalla L. n. 431/85 sono da ritenersi di immediata operatività,
precisandosi ulteriormente che la coltivazione di una cava in un’area protetta
dalla predetta normativa, ancorchè la relativa autorizzazione ai fini estrattivi
sia stata rilasciata prima della sua entrata in vigore, non esime l’interessato
dall’obbligo di munirsi dell’autorizzazione ambientale prevista per gli
interventi che alterino lo stato del luoghi.
Con la più recente sentenza 31.10-12.12.2001, De Marinis, il giudice
nomofilattico era invece chiamato a dirimere un radicato contrasto in ordine
all’interpretazione della normativa regionale campana (L.R. n. 54 del 13.12.85)
e in particolare la questione se nel caso di prosecuzione dell’attività di
coltivazione in corso al momento dell’entrata in vigore della predetta legge
fosse sufficiente la domanda di prosecuzione della coltivazione o occorresse
l’autorizzazione regionale ai fini della configurabilità del reato di cui
all’art. 20 lett. a) L. n. 47/85.
I principi generali che si desumono dall’ampia e puntuale ricognizione della
materia contenuta in tale ultima pronuncia dispiegano la loro efficacia anche
oltre la decisione del caso esaminato, proiettandone gli effetti nella vicenda
odiernamente scrutinata. Pur riconfermandosi il consolidato assunto che nega
l’automatica invalidità della precedente autorizzazione al sopravvenire di un
vincolo in una determinata zona, in definitiva dalle predette decisioni sembra
trarsi, quale rilevante conclusione, l’inderogabile necessità, in relazione alle
cave già in esercizio, dell’intervento dell’Autorità competente al fine di
valutare se il titolo abilitativo già esistente debba essere confermato o,
invece, revocato dopo una concreta ponderazione bilanciata tra l’interesse
economico strettamente correlato alla prosecuzione dell’attività estrattiva e
quello preminente di natura paesaggistica ed ambientale (sul punto, cfr. anche
Cass., sez. III, 10 novembre 2000-10 gennaio 2001, Cupo, nonché Cass., sez. III,
27 marzo-9 giugno ’98, Izzo, secondo la quale quando la cava è già
legittimamente in atto in una zona vincolata ed ha già compromesso gli interessi
ambientali o urbanistici, spetta all’Autorità competente valutare
discrezionalmente se la prosecuzione dell’attività estrattiva aggravi in modo
intollerabile, oppure non aggravi, il vulnus apportato alla tutela del
territorio).
Si vuol cioè sostenere – al di là del singolo caso deciso dalla Suprema Corte
con riguardo alla legislazione campana - che non può in alcun modo farsi a meno
di procedere ad un vaglio aggiornato dei titoli abilitativi preesistenti,
rendendo quindi sempre doverosamente possibile una rivalutazione degli interessi
coinvolti alla luce della normativa sopravvenuta, onde consentire che la
prosecuzione dell’attività cavatoria non sia sottratta alla riponderazione e
alla decisione da parte dell’Autorità pubblica preposta ad assicurare il
rispetto del vincolo.
Se così è, allora non può che inferirsi la correttezza del ragionamento del PM
di Trani che esclude dal tema dell’accusa da provare le aree coltivate a cava
che risultavano operanti prima del 7.9.85 (data dell’entrata in vigore della L.
n. 431/85) e poi legalizzate con l’istanza di prosecuzione dell’attività di
coltivazione, quelle che risultavano dismesse già prima dell’85 e quelle che
risultavano comunque legalmente autorizzate allo svolgimento dell’attività
estrattiva, con il logico corollario che le cave soggiacenti alla sanzione
penale sono quelle per le quali manca ab initio qualsiasi autorizzazione o
quelle per le quali i relativi gestori non abbiano proposto tempestiva e
regolare istanza di prosecuzione ai sensi della L.R. n. 37/85, per esse in
pratica operando gli effetti della sopravvenuta normativa che ha introdotto i
vincoli ambientali e paesaggistici.
Tuttavia, il Tribunale non può fare a meno di rimarcare come una simile
conclusione esegetica possa apparire improntata ad un approccio metodologico non
del tutto corretto e ad una visione parziale ed impropria delle nozioni di
ambiente e paesaggio, alla cui tutela deve attribuirsi valore sostanziale e
prioritario. Ad esplicazione di quanto appena esposto, deve sottolinearsi che
l’attività di escavazione comporta una “ferita” continua che incide in senso
modificativo sul territorio e sul paesaggio. Costituisce infatti un dato di
comune esperienza che lo svolgimento permanente dell’attività cavatoria in una
determinata zona determini – a causa del progressivo esaurimento del giacimento
- sia un’espansione superficiale che un approfondimento dell’area di cava,
talvolta dando luogo ad una vera e propria soluzione di continuità topografica
dei lavori di escavazione (come è stato accertato nella vicenda in esame in
relazione ad alcune cave che hanno invaso particelle attigue). In tali evenienze
non può allora negarsi che la pur autorizzata prosecuzione dell’attività
estrattiva (che nella specie riguarda, comunque, ben poche particelle: v. supra)
e delle relative opere produca una graduale alterazione dell’assetto
territoriale ed apporti un aggravamento della situazione paesaggistica o un
deterioramento ulteriore o un pregiudizio qualitativamente diverso
dell’ambiente, il quale va correttamente inteso – con tutte le sue implicazioni
– in modo complessivo ed unitario e va apprezzato come un bene mutevole che si
evolve verso un equilibrio dinamico, suscettibile di subire gli effetti di
qualsiasi opera umana che su di esso venga ad incidere di volta in volta e non,
dunque, quale bene ontologicamente statico ed immodificabile, incapace di
risentire delle ulteriori conseguenze pregiudizievoli inferte dall’attività
dell’uomo. Persino la giurisprudenza, con lodevole sforzo definitorio, si è
impegnata nell’individuare le variegate implicazioni del concetto di ambiente,
cogliendo primariamente la sua tendenziale proiezione sullo sviluppo della
persona, elevato a valore fondamentale: “Per ambiente deve intendersi il
contesto delle risorse naturali e delle stesse opere più significative dell’uomo
protetto dall’ordinamento perché la loro conservazione è ritenuta fondamentale
per il pieno sviluppo della persona. L’ambiente è una nozione, oltrechè
unitaria, anche generale, comprensiva delle risorse naturali e culturali,
veicolata nell’ordinamento italiano dal diritto comunitario” (così, Cass., sez.
III, 15 giugno-28 ottobre 1993, Benericetti). Di guisa che la reiterazione nel
tempo dei lavori estrattivi produce l’approfondimento del vulnus al territorio e
all’ambiente ed un’ulteriore peggiorativa compromissione dei valori
paesaggistici. Senza contare, peraltro, la particolare difficoltà e la
correlativa opinabilità che si annida in ogni accertamento volto a verificare in
concreto (ciò che resta sicuramente precluso al Tribunale del riesame,
sprovvisto com’è di poteri istruttori) se e fino a che punto una determinata
modificazione dello stato dei luoghi possa ritenersi davvero irreversibile per
l’ambiente, il quale, ove qualificato da uno spiccato pregio estetico e
paesaggistico, esige l’apprestamento di misure che tendano comunque a favorire
la sempre possibile “rivitalizzazione” naturalistica ed il recupero delle
condizioni di godimento e di fruibilità.
Proprio la produzione giurisprudenziale sembra convalidare i suesposti approdi
ermeneutici. Infatti, in materia di cave deve ritenersi, in ordine alla
configurabilità del reato di cui all’art. 1 sexies L. n. 431/85, che la
prosecuzione dell’attività di coltivazione, in zona sottoposta da questa legge a
vincolo paesaggistico, è possibile soltanto a seguito di autorizzazione espressa
e specifica dell’autorità competente, che possa valutare l’interesse pubblico e
la compatibilità con esso dell’attività economica espletata (Cass., sez. III, 1
ottobre-19 novembre ’96, Locatelli). Inoltre, in materia di esercizio di cave in
zone sottoposte a vincolo ai sensi della c.d. “legge Galasso”, il fatto che la
cava sia in attività da lungo tempo (nel caso di specie dal ’61) non è
sufficiente ad escludere di per sé la sussistenza delle ipotesi illecite
previste dall’art. 1 sexies L. n. 431/85 e dell’art. 734 c.p. sul presupposto
della già compiuta modificazione dell’ambiente, ma è necessario verificare in
ogni caso se l’attività è stata legittimamente iniziata (essendo comunque
necessaria l’autorizzazione ex art. 7 L. n. 1497/39 come regolata dalla L. n.
431/85), se siano state rispettate le prescrizioni della normativa regionale, se
si sia verificato in fatto un’irreversibile compromissione dei valori
paesaggistici, se la prosecuzione dell’attività estrattiva sia suscettibile, in
astratto, di recare ulteriore pregiudizio al bene vincolato (Cass., sez. III, 16
aprile-17 maggio ’96, Buttitta). Ed ancora, nel caso di attività di coltivazione
di cava in zona sottoposta a vincolo ex L. n. 1497/39 con autorizzazione
rilasciata prima dell’apposizione del vincolo, si è esclusa la possibilità di
proseguire nell’attività estrattiva in attesa dell’apposito titolo autorizzativo
da parte dell’autorità preposta al vincolo, concretando la relativa attività
svolta tanto la violazione dell’art. 1 sexies L. n. 431/85 che quella di cui
all’art. 734 c.p. (così Cass., sez. III, 13 dicembre ’96-7 febbraio ’97, Mirto).
Sicchè, pur tralasciando la più o meno validità delle osservazioni svolte dal
Collegio, appare comunque difficile sostenere - specie in un’ottica di
delibazione sommaria limitata alla possibile riconducibilità del fatto illecito
alla fattispecie astratta di reato – che i principi enunciati nelle predette
pronunzie di legittimità non valgano a delineare il richiesto fumus dei reati
ipotizzati.
Ora, al di là dei già evidenziati connotati vincolistici caratterizzanti le aree
in questione (area naturale protetta e prioritaria area di reperimento, zona di
protezione speciale, sito di importanza comunitaria, nonché territorio coperto
da bosco), direttamente desumibili dalla normativa nazionale e regionale di
settore, non può essere inoltre sottaciuto che esse risultano possedere il
carattere di zone gravate da usi civici, come tali pur sempre ascrivibili –
quand’anche ipoteticamente si voglia ammettere la non sanzionabilità ex L. n.
394/91 delle condotte realizzate e la non ancora avvenuta operatività delle ZPS
e dei SIC, già da tempo designati – al novero dei beni legalmente tutelati, con
la conseguente necessità di ottenere il previo rilascio dell’autorizzazione per
l’esercizio dell’attività estrattiva nella zona interessata.
Ai sensi dell’art. 146 D.lvo n. 490/99 e dell’art. 1-sexies L. n. 431/85 le zone
gravate da usi civici costituiscono beni ambientali tutelati per legge. I
proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di questi beni non
possono distruggerli né introdurvi modificazioni, che rechino pregiudizio a quel
loro esteriore aspetto che è oggetto di protezione ed hanno l’obbligo di
sottoporre alla Regione i progetti delle opere di qualunque genere che intendano
seguire, al fine di ottenere la preventiva autorizzazione (art. 151). Deve
significativamente ricordarsi, al riguardo, che ad es. è versata in atti una
nota dell’Assessorato all’urbanistica della Regione Puglia dell’11.10.1998 dalla
quale emerge che la cava sita in località “Iambrenghi” coltivata dalla ditta di
GRILLO Antonio interessa un’area gravata da uso civico ed è pertanto soggetta al
regime di cui alla “legge Galasso”. Nella nota assessorile si aggiunge che la
richiesta di coltivazione poteva essere esaminata “solo dopo l’affrancamento di
detto gravame e l’acquisizione del prescritto nulla-osta paesaggistico”.
In proposito, l’organo giudiziario procedente (la cui opzione ermeneutica, in
quanto motivata con riferimento a principi dettati dalla giurisprudenza di
legittimità, non può essere in alcun modo censurata da questo Tribunale) ha
aderito recettiziamente ad una pronuncia della Suprema Corte (sez. III, 11
novembre-18 dicembre ’93, PM Palermo in proc. Lo Vesco), intesa ad attribuire
all’accertamento dell’esistenza degli usi civici la sua esatta natura di atto
meramente dichiarativo, con la conseguenza che di detto accertamento non può che
essere investito incidentalmente il giudice penale, il quale nel far ciò ben
potrà ravvisarne l’esistenza a seguito dell’esame delle complessive risultanze
documentali riferibili alla zona interessata: “In tema di tutela del paesaggio,
rientrano tra le zone vincolate ex lege i territori gravati da usi civici. Tali
sono quei fondi, sui quali si esercitano diritti risalenti ad epoca
immemorabile, spettanti alla collettività e ai singoli che la compongono e
consistenti nel trarre talune utilità dalle terre, dai boschi o dalle acque.
L’accertamento di tale natura non discende da alcun atto costitutivo e, qualora
esso venga compiuto, assume soltanto valore ricognitivo. Ne deriva che
l’indagine relativa all’esistenza dell’uso stesso – ove necessaria – è demandata
incidentalmente al giudice penale…”.
Invero, proprio la dibattuta questione dell’esistenza degli usi civici sui fondi
nei quali insistono le cave per cui sono in corso le indagini è stata ex
professo affrontata e risolta – in termini di consonanza con l’assunto
accusatorio - dal consulente del PM (dott. F. MASTROMARCO, uno dei massimi
esperti del settore, persino incaricato dalla Regione Puglia di redigere le
mappe del PUTT relative agli usi civici). Nel suo elaborato depositato il
16.12.2002 il CTP, dopo aver esaminato numerosi documenti anche di archivio
relativi alle zone in cui sorgono i fondi sui quali insistono le cave, ha
concluso nel senso che entrambe le contrade “Iambrenghi” e “Macchia del Fico” in
agro di Minervino Murge sono soggette al vincolo demaniale dell’uso civico; che
le eventuali recenti certificazioni che attestino essere le terre di cui
all’indagine libere da vincoli demaniali da uso civico non trovano – allo stato
attuale della documentazione agli atti – fondamento tecnico, amministrativo e
tantomeno giuridico e che “dovranno essere i possessori a dimostrare l’eventuale
“legale svincolo dalla demanialità”, l’eventuale “allodialità”, l’eventuale
“legale appadronamento” – sovranamente approvati e sanciti secondo le norme e
prassi demaniali – delle terre da loro possedute; a meno che – in seguito – ciò
venga dimostrato dalle ulteriori indagini e ricerche “di ufficio”…stante
l’essere ancore tutte le verifiche, effettuate dagli Uffici preposti sia
commissariali che regionali, nella fase amministrativa non definita e non
definitiva”.
In definitiva, tali ultime considerazioni – anche a prescindere dalla questione
relativa all’effettiva operatività delle aree naturali protette, delle ZPS e dei
SIC - non possono che comprovare in ogni caso la fondatezza della richiesta di
sequestro preventivo di tutte le cave indicate nell’appello del PM, in quanto
comunque situate in zone gravate da uso civico e alcune anche contigue al
territorio boschivo, per le quali non risulta che gli interessati si siano
preventivamente muniti della prescritta autorizzazione paesaggistica, non solo
necessaria nei casi di progetto di coltivazione di una cava, ma anche – alla
stegua del suddetto orientamento della Corte di legittimità - per la
continuazione dell’attività estrattiva.
Deve pertanto conclusivamente affermarsi - nei ristretti limiti cognitivi del
giudice dell’incidente cautelare tipici della presente fase preliminare del
procedimento - l’esistenza del fumus del reato di cui all’art. 1-sexies L. n.
431/85, trasfuso nel testo del D.lvo n. 490/99, alla luce delle osservazioni
sopra formulate circa la necessità dell’autorizzazione paesistica anche in
presenza di attività estrattiva già autorizzata nella sua prosecuzione, così
come del resto statuito nelle indicate pronunce della Suprema Corte, in presenza
delle quali risulta alquanto arduo escludere, allo stato delle indagini e fatti
salvi i futuri accertamenti, la ravvisabilità dell’astratta sussumibilità
dell’attività compiuta dagli interessati nel paradigma legale ipotizzato
dall’organo dell’accusa.
In ordine al reato di cui all’art. 734 c.p. (che, in ragione della diversa
oggettività giuridica, può concorrere con il reato ambientale) deve rimarcarsi
che gli interventi non autorizzati connessi all’attività di scavo hanno
determinato, in una zona di particolare interesse ambientale, l’alterazione
rilevante ed apprezzabile sotto il profilo temporale delle bellezza panoramica
ed estetica dei luoghi sottoposti a speciale tutela e, quindi, l’aggravamento
del processo di compromissione dei valori paesaggistici.
Deve, invece, allo stato, ragionevolmente escludersi – in assenza di indicazioni
minime (con riferimento a ciascun indagato), da parte del titolare dell’azione
penale circa la distruzione o il deterioramento (soltanto affermati nei capi
d’imputazione) di beni circostanti le cave aventi destinazione pubblica e anche
in ossequio al generale principio della disponibilità della prova, in capo alle
parti, tipico del processo accusatorio, sia pure da adattarsi alle peculiari
caratteristiche connesse al presente procedimento cautelare - la sussistenza del
reato di cui all’art. 635 c.p. nella sua forma aggravata, in relazione al quale
spetterà al PM fornire idonea e concreta dimostrazione.
Infine, sussiste il nesso di strumentalità tra le cave delle quali è richiesto
il sequestro ed i reati contestati (eccettuato, allo stato, quello di
danneggiamento aggravato), posto che l'attività illecita risulta concretamente
attuata proprio attraverso la disponibilità e l'utilizzo delle cave (la cui
attività produttiva, anche se in taluni casi e su alcune particelle è
temporaneamente sospesa, ben può riprendere in qualsiasi momento), onde si
manifesta l’esigenza di approntare cautelativamente un efficace strumento
preventivo preordinato a scongiurare la possibile protrazione degli effetti
antigiuridici della condotta lesiva. Infatti, si profila il concreto ed attuale
rischio che la conservazione della disponibilità delle stesse aree di cava e la
prosecuzione dell’attività estrattiva possa arrecare ulteriore pregiudizio ai
beni giuridici sottoposti a tutela, così approfondendone la lesione.
P.Q.M.
Accoglie l’appello proposto dal PM avverso il decreto di rigetto emesso il 21.10.2003 dal GIP presso il Tribunale di Trani e, per l’effetto, dispone il sequestro preventivo delle aree adibite a cava, site nelle località “Iambrenghi” e “Macchia del Fico” dell’agro di Minervino Murge, nelle particelle per ciascuno specificate nella richiesta avanzata dal PM ex art. 321 in data 23.9.2003, nei confronti di LOPRIENO Domenico, LOPETUSO Michele, DI LEO Antonio, GRILLO Antonio, FIONDA Francesco e TUCCI Nicola (limitatamente al capo A della rubrica).
Non accoglie la richiesta di sequestro preventivo con riferimento all’area di
cava gestita da SINISI Francesco.
Manda alla cancelleria per la trasmissione di copia della presente ordinanza al
PM presso il Tribunale di Trani per l’esecuzione del sequestro preventivo,
nonchè per gli altri adempimenti di rito.
Così deciso in Bari, il 6 febbraio 2004
1) Beni culturali e ambientali - Tutela primaria del paesaggio - Bellezze naturali - Tutela costituzionale - L. n. 431/85 - L. n. 1497/39. La ratio della L. n. 431/85 poggia sulla piena aderenza al precetto costituzionale di tutela primaria del paesaggio, sia attraverso il vincolo paesaggistico su zone e territori la cui individuazione è connessa non tanto a specifiche ed individuate bellezze naturali, come quelle su cui operava la L. n. 1497/39, ma al paesaggio inteso nella sua globalità e valorizzato per le valenze estetico-culturali che rappresenta. Graziani, CASSAZIONE, SS.UU., 15 marzo 1989. Pres. Marrone - Rel. Putignano. TRIBUNALE DI BARI sezione del riesame, 6 febbraio 2004, Ordinanza n. 271
2) Beni culturali e ambientali - Ambiente - Definizione. Per ambiente deve intendersi il contesto delle risorse naturali e delle stesse opere più significative dell’uomo protetto dall’ordinamento perché la loro conservazione è ritenuta fondamentale per il pieno sviluppo della persona. L’ambiente è una nozione, oltrechè unitaria, anche generale, comprensiva delle risorse naturali e culturali, veicolata nell’ordinamento italiano dal diritto comunitario” (Cass., sez. III, 15 giugno-28 ottobre 1993, Benericetti). Pres. Marrone - Rel. Putignano. TRIBUNALE DI BARI sezione del riesame, 6 febbraio 2004, Ordinanza n. 271
3) Beni culturali e ambientali - Cave - Prosecuzione dell’attività di coltivazione, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico - Autorizzazione espressa e specifica dell’autorità competente - Necessità - Attività di cava da lungo tempo - Ininfluenza - Art. 1 sexies L. n. 431/85 - Art. 734 c.p. - Art. 7 L. n. 1497/39 - Giurisprudenza. In materia di cave deve ritenersi, in ordine alla configurabilità del reato di cui all’art. 1 sexies L. n. 431/85, che la prosecuzione dell’attività di coltivazione, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, è possibile soltanto a seguito di autorizzazione espressa e specifica dell’autorità competente, che possa valutare l’interesse pubblico e la compatibilità con esso dell’attività economica espletata (Cass., sez. III, 1 ottobre-19 novembre ’96, Locatelli). Sempre, in materia di esercizio di cave in zone sottoposte a vincolo ai sensi della c.d. “legge Galasso”, il fatto che la cava sia in attività da lungo tempo (nel caso di specie dal ’61) non è sufficiente ad escludere di per sé la sussistenza delle ipotesi illecite previste dall’art. 1 sexies L. n. 431/85 e dell’art. 734 c.p. sul presupposto della già compiuta modificazione dell’ambiente, ma è necessario verificare in ogni caso se l’attività è stata legittimamente iniziata (essendo comunque necessaria l’autorizzazione ex art. 7 L. n. 1497/39 come regolata dalla L. n. 431/85), se siano state rispettate le prescrizioni della normativa regionale, se si sia verificato in fatto un’irreversibile compromissione dei valori paesaggistici, se la prosecuzione dell’attività estrattiva sia suscettibile, in astratto, di recare ulteriore pregiudizio al bene vincolato (Cass., sez. III, 16 aprile-17 maggio ’96, Buttitta). Ed ancora, nel caso di attività di coltivazione di cava in zona sottoposta a vincolo ex L. n. 1497/39 con autorizzazione rilasciata prima dell’apposizione del vincolo, si è esclusa la possibilità di proseguire nell’attività estrattiva in attesa dell’apposito titolo autorizzativo da parte dell’autorità preposta al vincolo, concretando la relativa attività svolta tanto la violazione dell’art. 1 sexies L. n. 431/85 che quella di cui all’art. 734 c.p. (così Cass., sez. III, 13 dicembre ’96-7 febbraio ’97, Mirto). Pres. Marrone - Rel. Putignano. TRIBUNALE DI BARI sezione del riesame, 6 febbraio 2004, Ordinanza n. 271
4) Beni culturali e ambientali - Tutela del paesaggio - Zone gravate da usi civici - Vincolo ex lege - Sussiste - Preventiva autorizzazione - Necessità - Usi civici - Nozione - Art. 146 D.lvo n. 490/99 - Art. 1-sexies L. n. 431/85. In tema di tutela del paesaggio, le zone gravate da usi civici (ai sensi dell’art. 146 D.lvo n. 490/99 e dell’art. 1-sexies L. n. 431/85) costituiscono beni ambientali tutelati rientrando tra le zone vincolate ex lege. I proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di questi beni non possono distruggerli né introdurvi modificazioni, che rechino pregiudizio a quel loro esteriore aspetto che è oggetto di protezione ed hanno l’obbligo di sottoporre alla Regione i progetti delle opere di qualunque genere che intendano seguire, al fine di ottenere la preventiva autorizzazione (art. 151). I territori gravati da usi civici sono quei fondi, sui quali si esercitano diritti risalenti ad epoca immemorabile, spettanti alla collettività e ai singoli che la compongono e consistenti nel trarre talune utilità dalle terre, dai boschi o dalle acque. L’accertamento di tale natura non discende da alcun atto costitutivo e, qualora esso venga compiuto, assume soltanto valore ricognitivo. Ne deriva che l’indagine relativa all’esistenza dell’uso stesso – ove necessaria – è demandata incidentalmente al giudice penale”. Pres. Marrone - Rel. Putignano. TRIBUNALE DI BARI sezione del riesame, 6 febbraio 2004, Ordinanza n. 271
5) Cave miniere e torbiere - Attività estrattiva già autorizzata nella sua prosecuzione - Autorizzazione paesistica - Necessità. Vi è l’esistenza del fumus del reato di cui all’art. 1-sexies L. n. 431/85, trasfuso nel testo del D.lvo n. 490/99, in quanto sussiste la necessità dell’autorizzazione paesistica anche in presenza di attività estrattiva già autorizzata nella sua prosecuzione. Pres. Marrone - Rel. Putignano. TRIBUNALE DI BARI sezione del riesame, 6 febbraio 2004, Ordinanza n. 271
6) Cave miniere e torbiere - Coltivazione di cava - Cave situate in zone gravate da uso civico o contigue al territorio boschivo - Autorizzazione paesaggistica - Necessità. Si configura l’esistenza del fumus del reato di cui all’art. 1-sexies L. n. 431/85, trasfuso nel testo del D.lvo n. 490/99 anche per le cave situate in zone gravate da uso civico o contigue al territorio boschivo, per le quali non risulta che gli interessati si siano preventivamente muniti della prescritta autorizzazione paesaggistica, non solo necessaria nei casi di progetto di coltivazione di una cava, ma anche per la continuazione dell’attività estrattiva. Pres. Marrone - Rel. Putignano. TRIBUNALE DI BARI sezione del riesame, 6 febbraio 2004, Ordinanza n. 271
7) Cave - Distruzione o il deterioramento di beni (Usi civici) - Configurazione del reato di cui all’art. 734 c.p. - Esclusione - Idonea e concreta dimostrazione - Necessità. Deve escludersi, la configurazione del reato di cui all’art. 734 c.p., in assenza di indicazioni minime da parte del titolare dell’azione penale circa la distruzione o il deterioramento di beni (in specie: beni circostanti cave aventi destinazione pubblica - usi civici) e anche in ossequio al generale principio della disponibilità della prova, in capo alle parti, tipico del processo accusatorio, sia pure da adattarsi alle peculiari caratteristiche connesse al presente procedimento cautelare - la sussistenza del reato di cui all’art. 635 c.p. nella sua forma aggravata, in relazione al quale spetterà al PM fornire idonea e concreta dimostrazione. Pres. Marrone - Rel. Putignano. TRIBUNALE DI BARI sezione del riesame, 6 febbraio 2004, Ordinanza n. 271
8) Cave miniere e torbiere - Attività di cava - Inquinamento - Attività pericolosa per l’ambiente - Emissioni inquinanti nell’atmosfera - Mancato rilascio del titolo autorizzatorio - Violazione della normativa ambientale - Sussiste. L’utilizzazione di una cava costituisce certamente attività pericolosa per l’ambiente poichè, in difetto di un preventivo studio di impatto ambientale, gli effetti sinergici e cumulativi dell’inquinamento inevitabilmente prodotto, di regola, tendono a trasferirsi più facilmente alle falde profonde, agevolati dalla ferita operata nel terreno non preventivamente impermeabilizzato e la relativa attività estrattiva comporta pur sempre la propagazione di emissioni inquinanti nell’atmosfera. Il mancato rilascio del titolo autorizzatorio e l’inosservanza dei necessari e preventivi incombenti valutativi da parte dell’Autorità competente non può non tradursi nella violazione della normativa ambientale. Pres. Marrone - Rel. Putignano. TRIBUNALE DI BARI sezione del riesame, 6 febbraio 2004, Ordinanza n. 271
9) Procedure e varie - Adozione del sequestro preventivo - Pericolo rilevante - Presupposti. Ai fini dell’adozione del sequestro preventivo, il pericolo rilevante va inteso in senso oggettivo, come probabilità di danno futuro, connessa all’effettiva disponibilità materiale o giuridica della cosa pertinente al reato o al suo uso, e deve essere concreto ed attuale. Al riguardo, per cose pertinenti al reato sulle quali può cadere il sequestro preventivo, debbono intendersi non solo quelle caratterizzate da un’intrinseca, specifica e strutturale strumentalità rispetto al reato commesso e a quelli futuri di cui si paventa la commissione, ma anche quelle che risultino indirettamente legate al reato per cui si procede, sempre che la libera disponibilità di esse possa dar luogo al pericolo di aggravamento o di protrazione delle conseguenze del reato ovvero all’agevolazione della commissione di altri (Cass., sez. V, 1.10-7.11.2002 Papini). Pres. Marrone - Rel. Putignano. TRIBUNALE DI BARI sezione del riesame, 6 febbraio 2004, Ordinanza n. 271
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