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 Massime della sentenza

  

 

TRIBUNALE DI BARI sezione del riesame, 6 febbraio 2004, Ordinanza n. 271

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


Tribunale di BARI
sezione del riesame

riunito in camera di consiglio nelle persone dei seguenti magistrati:

- dr. Ambrogio Marrone presidente
- dr. Oronzo Putignano giudice rel.
- dr. Giovanni Anglana giudice
 

decidendo sull’appello ex art. 322 bis c.p.p. presentato il 30.10.2003 dal Pubblico Ministero presso il Tribunale di Trani avverso il decreto di rigetto della richiesta di sequestro preventivo emesso, in data 21.10.2003 dal GIP della stessa città, nei confronti di LOPRIENO Domenico, nato a Trani il 19.3.1933, LOPETUSO Michele, nato ad Andria il 12.5.1974, DI LEO Antonio, nato ad Andria il 31.3.1941, GRILLO Antonio, nato ad Andria il 7.10.1944, FIONDA Francesco, nato ad Andria il 14.10.1951, SINISI Francesco, nato ad Andria il 9.6.1960 e TUCCI Nicola, nato ad Andria l’1.12.1940 (ciascuno nella qualità di titolare di ditte addette alla gestione di cave);
esaminati gli atti del procedimento, uditi nell’odierna udienza camerale il PM e i difensori degli indagati, e sciogliendo la riserva di cui al separato verbale d’udienza, il Collegio


PREMETTE


Agli inizi del 2001, a seguito di alcune denunce, la Procura di Trani avviava complesse indagini intese all’accertamento di reati ambientali e in tema di rifiuti commessi nel corso delle attività estrattive realizzate in alcune cave situate nel territorio della Murgia.


Le investigazioni condotte anche con l’intervento dei CC. preposti alla tutela dell’ambiente (consistenti in sopralluoghi, acquisizione di documentazione e assunzione di informazioni) trovavano compendio e supporto negli esiti di apposite consulenze tecniche (geologiche, catastali, amministrative) disposte dal PM, sfociando in provvedimenti di sequestro di numerose cave.


In particolare, si accertava che l’attività estrattiva compiuta in quella zona aveva comportato sostanziali modificazioni del paesaggio e del territorio circostante: intere colline risultavano disboscate e successivamente spianate, con la creazione di ampie depressioni e con il caotico ed indiscriminato accumulo di materiale di risulta, di scarti e fanghi di lavorazione della pietra, di rifiuti domestici e pneumatici, che avevano dato vita a discariche a cielo aperto; erano scomparsi i confini e i muretti a secco tra le proprietà; risultava distrutta la vegetazione boschiva; v’era stata la deviazione dei tratturi per agevolare l’accesso alle rispettive aree di cava. Tutto ciò aveva prodotto come conseguenza la progressiva menomazione dell’ecosistema naturale, il cui già fragile equilibrio era reso ancor più preoccupante dalla possibile verificazione (in ragione del non trascurabile grado di sismicità che connota il territorio della Murgia) di movimenti franosi dovuti alla disordinata sistemazione degli scarti ammassati a ridosso delle cave con rilevante pericolo per la pubblica incolumità.


Per quel che qui maggiormente interessa, il GIP di Trani con decreto del 28.8.2002, accogliendo la richiesta di misura cautelare reale presentata dall’organo giudiziario procedente, disponeva il sequestro preventivo delle cave gestite dagli odierni appellati, site nelle località “Iambrenghi” e “Macchia del Fico” in agro di Minervino Murge, per avere i rispettivi gestori esercitato continuativamente l’attività estrattiva in zona sottoposta a protezione speciale, in area naturale protetta ed assoggettata a vincolo da usi civici e boschivo senza la prescritta autorizzazione paesaggistica, nonché per avere danneggiato e deturpato le bellezze naturali del luogo (le imputazioni, tranne quelle relative alla violazione della normativa sui rifiuti, sono confluite ed analiticamente riprodotte nella disattesa richiesta di sequestro preventivo del 24.9.2003, cui si rinvia).


Adito in sede di riesame, il Tribunale di Bari con distinte pronunce del settembre 2002 riteneva non sufficientemente chiari e definiti gli elementi posti a base delle accuse ai fini del dovuto controllo di legittimità in ordine al disposto provvedimento cautelare, che era annullato al di là di una valutazione di merito sui fatti illeciti denunciati, con restituzione dei beni ablati agli aventi diritto.


Dopo la pronuncia di annullamento del decreto cautelare per motivi formali da parte del Tribunale, il PM di Trani il 24.9.2003 avanzava al GIP richiesta di adozione di nuovo sequestro preventivo sulla scorta di una più approfondita disamina del corredo probatorio acquisito, corroborato da consulenze tecniche e da dettagliate informative della PG.


Il giudice di prime cure respingeva la predetta domanda cautelare del PM, sul sostanziale rilievo dell’assenza del necessario fumus dei reati contestati e del mancato riscontro di un diretto ed attuale nesso di strumentalità tra gli illeciti ipotizzati e le cave gestite da FIONDA Francesco, GRILLO Antonio e SINISI Francesco (cfr. pagg. 7 e 8 del decreto di rigetto del GIP).


Contro tale provvedimento reiettivo proponeva articolato appello l’Ufficio inquirente (che esprimeva acquiescienza, tra gli altri, con riferimento al capo 6, sub B, e al capo 7, sub B della rubrica, riguardanti le posizioni di SINISI Francesco e TUCCI Nicola), censurando argomentatamente e partitamente ogni punto della gravata decisione ed il percorso logico-interpretativo seguito dal GIP nel giungere alla resa statuizione negativa ed illustrando doviziosamente – con puntuale ricostruzione della legislazione in materia e attraverso il supporto di allegazioni giurisprudenziali e normative, statali e regionali, strettamente concernenti la questione delle caratteristiche giuridico-paesaggistiche-territoriali della zona in cui sorgono le cave, nonché dell’individuazione ed operatività dei relativi vincoli - le ragioni per le quali deve, viceversa, ritenersi sicuramente fondato il costrutto accusatorio circa l’avvenuto compimento delle condotte illecite a ciascuno degli indagati ascritte nelle rispettive imputazioni.


Sulla base dei cennati rilievi, il PM chiedeva al Tribunale l’accoglimento dell’appello con il conseguente sequestro preventivo delle cave di che trattasi.


Ciò posto, non è forse superfluo precisare che l’esame delle consulenze di parte prodotte dagli interessati all’Ufficio Minerario, ai fini dell’autorizzazione per l’esercizio di attività estrattiva, consegna i dati tecnici schematicamente rappresentati nel modo che segue:
ditta di FIONDA Francesco operante su cava sita in località “Iambrenghi”, riferita dal consulente al foglio di mappa n. 154, p.lle 41, 56, 80, 24, 23, 58, 87 e parte della 59; dalla consulenza emerge che l’area oggetto dell’attività estrattiva non è interessata da vincoli ambientali e che la stessa non è gravata da uso civico come attestato da certificazione rilasciata dall’Ufficio Usi Civici di Bari; invece dagli accertamenti eseguiti dalla PG e dal consulente del PM si evince che l’area è soggetta a vincolo idrogeologico, Ambito D, ZPS e SIC dal ’98, uso civico, faunistico, boschivo ex L.R. n. 30/90 giacchè l’area sulla quale v’è attività estrattiva dista circa 50 metri dal confine di area boschiva;
ditta “Estrazioni Serpeggianti” di LOPRIENO Domenico operante su cava sita in località “Macchia del Fico”, riferita al foglio di mappa n. 87, p.lla 47 e foglio di mappa nr. 95, p.lla 111 e 2, foglio di mappa 94, p.lle 32, 37, 39, 44, 545 e 204; la consulenza di parte ammette l’esistenza del vincolo idrogeologico, ma esclude l’onere dell’uso civico; dagli accertamenti eseguiti dalla PG e dal consulente del PM emerge che l’area è interessata, oltre che dal vincolo idrogeologico, da ambito C, uso civico, ZPS e SIC e faunistico;
ditta “K.F. Marmi s.r.l./Estrazioni Serpeggianti” di LOPRIENO Domenico operante in località “Iambrenghi”, riferita al foglio di mappa n. 154, p.lla 79 (ora 2067, 2068 e 2069); la consulenza di parte ammette l’esistenza del vincolo idrogeologico, ma esclude quello da uso civico; dagli accertamenti eseguiti dalla PG e dal consulente del PM emerge che l’area è interessata, oltre che dal vincolo idrogeologico, da ambito D, ZPS e SIC, faunistico e boschivo poiché l’area al cui interno si svolge l’attività cavatoria dista circa 6 metri del confine del bosco;
ditta TUCCI Nicola operante su cava sita in località “Macchia del Fico”, riferita al foglio di mappa n. 87, p.lle 3, 52 e 78, foglio di mappa n. 95, p.lle 4, 5, 8, 103, 113, 117, foglio di mappa nn. 94 e 95, p.lle 28, 38, 37, 48, 119, 74, 85, 36, 34, 55, 57/a, 64/a, 73/a, 75/a, 47, 27, 43, 58, 59, 79; dalla consulenza di parte si evince l’assenza di vincoli; dagli accertamenti eseguiti dalla PG e dal consulente del PM emerge che l’area è interessata da vincolo idrogeologico, ambito D, uso civico, ZPS e SIC, faunistico;
ditta GRILLO Antonio operante su cava sita in località “Iambrenghi”, riferita al foglio di mappa 154, p.lle 52 e 62; nessun vincolo rilevante si desume dalla consulenza di parte mentre dagli accertamenti eseguiti dalla PG e dal consulente del PM emerge che l’area è soggetta a vincolo idrogeologico, ambito D, uso civico, ZPS e SIC, faunistico;
ditta DI LEO Antonio operante su cava sita in località “Iambrenghi”, riferita al foglio di mappa n. 153, p.lla 191, foglio di mappa n. 154, p.lla 10; la consulenza di parte ammette l’esistenza del vincolo idrogeologico, ma esclude il gravame da uso civico; dagli accertamenti eseguiti dalla PG e dal consulente del PM emerge che l’area è connotata da vincolo idrogeologico per il foglio 154, ambito D, uso civico, ZPS e SIC, faunistico e boschivo in quanto l’attività estrattiva si svolge ad una distanza di circa 50 metri dal complesso boschivo “Intacca”;
ditta “Central Scambi Universal di SINISI Francesco” operante su cava sita in località “Macchia del Fico”, riferita al foglio di mappa n. 93, p.lle 39, 53 e 63, foglio di mappa n. 95, p.lla 69; la consulenza di parte ammette l’esistenza del vincolo idrogeologico, ma non di quello da uso civico; dagli accertamenti eseguiti dalla PG e dal consulente del PM emergono, oltre ai predetti vincoli, quello di ZPS, SIC, Ambito C, faunistico;
ditta “Elle Due di LOPETUSO Michele” operante su cava sita in località “Iambrenghi”, riferita al foglio di mappa n. 153, p.lla 120; alcun vincolo è indicato nella consulenza di parte mentre dagli accertamenti eseguiti dalla PG e dal consulente del PM emerge che l’area è assoggettata a vincolo idrogeologico, ambito C, uso civico, ZPS e SIC, faunistico e boschivo in quanto l’attività estrattiva è svolta ad una distanza di circa 70 metri dal complesso boschivo “Intacca”.


Inoltre, l’esame della documentazione acquisita dagli investigatori ha permesso di chiarire quanto segue (in breve):
ditta di DI LEO Antonio: istanza di prosecuzione presentata il 19.12.1985 sulle p.lle 91 del foglio di mappa 153 e 10 del foglio di mappa 154; l’Ufficio Minerario il 29.3.1996 avvertiva il titolare della ditta che l’autorizzazione all’esercizio della cava era scaduta; l’impresa svolge attività di coltivazione anche sul foglio di mappa 153, p.lla 121 (già 90) per la quale non risulta presentata domanda di prosecuzione o autorizzazione;
ditta di FIONDA Francesco: istanza di prosecuzione del 19.12.1985; l’8.2.1993 era autorizzata per otto anni la coltivazione sulla p.lla 41 del foglio 154 poi prorogata il 29.9.2000 per altri otto anni; l’attività estrattiva risulta svolta anche sulla p.lla 24 e in passato essa ha interessato anche le p.lle 24, 23, 47, 58 e 87 del foglio 154, per le quali non sarebbe stata presentata domanda di prosecuzione o autorizzazione; con riferimento alle p.lle 80 e 56 risulta che sulle stesse v’è stata coltivazione (ora sospesa) priva di autorizzazione, che secondo i verbalizzanti può riprendere in qualsiasi momento;
ditta “Estrazioni Serpeggianti” di LOPRIENO Domenico: domanda di autorizzazione alla coltivazione di una nuova cava insistente sulla p.lla 79 del foglio di mappa 154 del 21.11.96; il 14.1.1999 la ditta “K.F. Marmi s.r.l.” era autorizzata alla coltivazione della cava; il 9.11.1999 l’autorizzazione era trasferita alla “Estrazioni Serpeggianti” del LOPRIENO; alcuna procedura di valutazione ambientale risulta attivata; i lavori sulla p.lla 2 del foglio 95 non risultano autorizzati; in relazione alle restanti p.lle il 20.11.2000 l’Assessorato all’Urbanistica comunicava che l’area interessata dalla cava è sottoposta a vincolo paesaggistico; sulle p.lle 32, 37, 39, 44, 54 e 204 del foglio 94 l’attività svolta è abusiva; del pari priva di autorizzazione è l’attività svolta sulla p.lla 39 del foglio 87;
ditta di GRILLO Antonio: domanda di autorizzazione alla coltivazione di nuova cava del 31.1.1995; comunicazione dell’Assessorato all’Urbanistica dell’esistenza del vincolo da uso civico e necessità del nulla-osta paesaggistico; l’attività sulle p.lle 52 e 62 del foglio 154 è ora sospesa e non risulta autorizzata;
ditta di SINISI Francesco: domanda di autorizzazione alla coltivazione di nuova cava sulle p.lle 39, 53, 63 e 69 del foglio di mappa 95 del 4.10.1999; comunicazione dell’esistenza del vincolo paesaggistico; l’attività svolta sulle p.lle 67, 71 e 72 del foglio 95 non è stata autorizzata; invero, il difensore ha odiernamente dedotto che sulle predette p.lle già insiste il vincolo ablatorio per effetto del decreto del GIP di Trani del 28.8.2002 non impugnato in sede di riesame; di conseguenza in relazione a tale area di cava, già sottoposta a sequestro preventivo, l’appello del PM non può essere accolto;
ditta “Elle Due” di LOPETUSO Michele: domanda di autorizzazione alla coltivazione di una nuova cava sulla p.lla 120 del foglio di mappa 153; comunicazione dell’esistenza dei vincoli paesaggistici;
ditta “CO.MAR” di LOPETUSO Michele: domanda di prosecuzione del 19.12.1985 relativa alla p.lle 1-111 del foglio 95; non è chiaro se l’attività di coltivazione su tali p.lle e su quelle 41, 42 e 54 sia stata svolta prima della L.R. n. 22.5.1985;
ditta di TUCCI Nicola: istanza di prosecuzione del 19.12.1985 per una parte delle p.lle del foglio di mappa 95; domanda di autorizzazione alla coltivazione di nuova cava sulle p.lle 4, 5, 8, 103, 117 del foglio 95 e 3, 52, 78 del foglio 87; con riguardo a tali p.lle v’è comunicazione dell’esistenza dei vincoli paesaggistici e riferimento alla necessità di esperire i preventivi procedimenti di valutazione ambientale (per ulteriori rilevi in ordine alle singole cave, si rinvia alle pagg. 5-8 dell’appello del PM e al prospetto allegato al decreto di sequestro preventivo emesso dal GIP di Trani il 28.8.2002, poi annullato in sede di riesame per motivi formali).


Ed infine nelle schede redatte da personale del Corpo Forestale dello Stato (alle quali si rinvia), corredate da rilievi fotografici, è indicato lo stato dei luoghi riscontrato dai verbalizzanti nel corso dei sopralluoghi effettuati sulle cave interessate dall’attività di indagine.


Tirando riassuntivamente le fila dei dati tecnico-catastali dianzi riportati, può dirsi – per quanto è dato comprendere - che per le cave di LOPRIENO Domenico (foglio 154, p.lla 79; foglio 95, p.lla 111 e foglio 87, p.lla 47, a seguito del trasferimento dalla ditta “K.F. Marmi s.r.l.”), di LOPETUSO Michele (foglio 153, p.lla 120) e di FIONDA Francesco (foglio 154, p.lla 41) risulta rilasciata autorizzazione all’attività estrattiva. Con riferimento a tutte le altre cave, per ciascuna delle rispettive p.lle sulle quali insistono, risulta invece presentata solo richiesta di prosecuzione (non autorizzata) ovvero domanda di coltivazione di nuova cava (pur essa non autorizzata) o veruna istanza.


Il difensore di DI LEO Antonio depositava ritualmente il 17.1.2004 memoria con la quale chiedeva la reiezione dell’impugnazione proposta. Nell’interesse di TUCCI Nicola e LOPETUSO Michele il 4.2.2004, di FIONDA Francesco e SINISI Francesco il 5.2.2004, erano depositate memorie difensive con documentazione allegata (sulla cui ricevibilità cfr. artt. 322 bis, co.2, 310, co.2, 127, co.2, c.p.p.), parimenti tese ad ottenere la conferma del decreto di rigetto della richiesta di sequestro preventivo.


Tanto brevemente premesso, il Tribunale


OSSERVA


Occorre anzitutto rammentare che la motivazione “indiretta” è legittima allorchè fornisca la dimostrazione che il giudice abbia preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni dell’atto di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione (così, Cass., SS.UU., 21 giugno 2000, Primavera).


E’ opportuno anche precisare che, ai fini dell’emissione di un provvedimento di sequestro preventivo, non è richiesta l’esistenza di gravi indizi di colpevolezza, essendo sufficiente che la condotta addebitata sia sussumibile in una determinata norma incriminatrice e che, rispetto ad essa, la cosa o le cose colpite dal vincolo si pongano in relazione di pertinenza (art. 321 co. 1 c.p.p.) con pericolo inerente alla loro libera disponibilità, ovvero costituiscano corpo del reato o comunque suscettibili di confisca (art. 321 co. 2 c.p.p.).


Sicchè il giudice, nel disporre la misura, e il tribunale del riesame, nel valutarne la legittimità, non devono accertare la fondatezza dell’accusa, nemmeno a livello indiziario (ossia di mera, se pur qualificata probabilità), ma la sola astratta configurabilità dell’ipotesi criminosa tipica in relazione al quadro fattuale prospettato dal PM e la possibilità di qualificazione dei beni nei termini di cui sopra, ovviamente in assenza di dati che all’evidenza escludano la concreta ricorrenza del reato e/o il collegamento di quanto sequestrato con quest’ultimo (in tal senso, recentemente, ex plurimis, Cass., sez. V, 24 settembre-22 ottobre 2002, Carucci).


Ai fini dell’adozione del sequestro preventivo, il pericolo rilevante va inteso in senso oggettivo, come probabilità di danno futuro, connessa all’effettiva disponibilità materiale o giuridica della cosa pertinente al reato o al suo uso, e deve essere concreto ed attuale. Al riguardo, per cose pertinenti al reato sulle quali può cadere il sequestro preventivo, debbono intendersi non solo quelle caratterizzate da un’intrinseca, specifica e strutturale strumentalità rispetto al reato commesso e a quelli futuri di cui si paventa la commissione, ma anche quelle che risultino indirettamente legate al reato per cui si procede, sempre che la libera disponibilità di esse possa dar luogo al pericolo di aggravamento o di protrazione delle conseguenze del reato ovvero all’agevolazione della commissione di altri (Cass., sez. V, 1.10-7.11.2002 Papini).


A tal punto, non è inutile dar conto - sia pure in termini essenziali, in ordine sparso e, quindi, in maniera non organica - della normativa che disciplina l’attività di estrazione, nonchè di quella strettamente inerente al thema decidendum.


Sotto il vigore del D.P.R. n. 128/1959, per poter esercitare detta attività era sufficiente una denuncia rivolta dall’esercente all’Autorità competente almeno otto giorni prima dell’inizio dei lavori.


Con la legge regionale della Puglia n. 37/85 è richiesta un’autorizzazione per l’apertura di una cava e un’istanza di prosecuzione nel caso in cui essa sia già attiva, stabilendosi un termine semestrale per la presentazione della predetta istanza, decorrente dall’entrata in vigore della legge regionale, il cui art. 35, commi 3 e 4, limita i casi di cessazione dell’attività estrattiva in corso a due ipotesi: contrasto dell’attività con i vincoli urbanistici, paesaggistici, archeologici o derivanti da altre leggi, con conseguente diniego all’esercizio dell’attività cavatoria; mancata richiesta dell’autorizzazione alla prosecuzione dell’attività nel termine di sei mesi dell’entrata in vigore della L.R. n. 37/85. Da tali previsioni normative sembrerebbe inferirsi che, ove non sia stata presentata la richiesta di autorizzazione alla prosecuzione dell’attività o tale richiesta sia stata inoltrata oltre il termine di sei mesi, si determina il presupposto per la cessazione dell’attività estrattiva. Nel caso diverso in cui la richiesta alla prosecuzione dell’attività estrattiva sia stata invece presentata tempestivamente, allora l’attività potrà nelle more proseguire (pur in difetto del rilascio del relativo titolo autorizzatorio), fatto salvo l’eventuale diniego dell’autorizzazione nell’ipotesi di accertato riscontro di ragioni ostative in esito all’istruttoria procedimentale (con la doverosa precisazione che tale disciplina regionale dell’attività cavatoria dev’essere razionalmente coordinata con la legislazione ambientale ed interpretata in maniera tale da non porsi in contrasto con quest’ultima regolamentazione di settore, spesso successiva e di superiore rango normativo).


Con la L.R. n. 13/87 il termine di sei mesi per la presentazione della domanda di prosecuzione era prorogato al 31.12.1987. In tal modo, erano sanate tutte quelle situazioni di mancata tempestiva presentazione dell’istanza ai sensi dell’art. 35 L.R. n. 37/85, talchè gli esercenti le cave che pure avrebbero dovuto cessare l’attività con tale sopravvenienza legislativa potevano continuare a svolgerla purchè la richiesta di autorizzazione fosse inoltrata entro il nuovo termine scadente l’ultimo giorno del 1987.


La L.R. n. 30/90, però, all’art. 1 sancisce che fino all’approvazione del PUTT è vietata ogni modificazione dell’assetto del territorio nonché opera edilizia - tra gli altri - nei territori coperti da boschi o macchia mediterranea, ancorchè percorsi o danneggiati dal fuoco, e in quelli sottoposti a vincolo di rimboschimento e nelle fasce con termine di cento metri.


Il D.P.R. 12.4.1996, attuativo della direttiva CEE n. 85/337, prevede per i progetti che possono incidere in maniera rilevante sul territorio in cui deve essere realizzato un intervento invasivo per l’ambiente circostante la valutazione di impatto ambientale (V.I.A.); tale procedura preventiva è necessaria nel caso di cave e torbiere con più di 500.000 mc/a di materiale estratto o nel caso di un’area interessata superiore a 20 ha ovvero di area ricadente in aree naturali protette.


L’art. 5 D.P.R. n. 357/1997 stabilisce che se la cava rientra in un sito di interesse comunitario (S.I.C.) e/o in zona di protezione speciale (Z.P.S.) e non deve essere assoggettata a V.I.A., soggiace alla procedura di valutazione d’incidenza, mirante a valutare i principali effetti che i progetti possono comportare sui siti comunitari e sulle zone speciali protette, avuto preminente riguardo agli obiettivi di conservazione naturalistico ambientale.


La legge della Regione Puglia n. 19 del 24.7.’97 prevede l’istituzione, quale area naturale protetta, della “Alta Murgia”, formata dai comuni di Altamura, Gravina in Puglia, Minervino Murge, Poggiorsini, Corato, Ruvo di Puglia, Santeramo in Colle, Cassano delle Murge, Andria, Spinazzola, Grumo Appulo, Bitonto, Toritto, Acquaviva delle Fonti.


Ancor prima, la legge quadro sulle aree naturali protette (art. 34, punto 6, lett. l) L. n. 394 del 6.12.’91) aveva considerato l’Alta Murgia come prioritaria area di reperimento (e quindi meritevole di protezione anche dal punto di vista naturalistico ambientale). Al suo art.6 essa dispone che “dalla pubblicazione del programma fino all’istituzione delle singole aree protette operano direttamente le misure di salvaguardia di cui al comma 3…sono vietati fuori dai centri abitati…l’esecuzione di nuove costruzioni e le trasformazioni di quelle esistenti, qualsiasi mutamento dell’utilizzazione di terreni con destinazione diversa da quella agricola e quant’altro possa incidere sulla morfologia del territorio, sugli equilibri ecologici, idraulici ed idrogeotermici e sulle finalità istitutive dell’area protetta”.


Con deliberazione del 2.12.1996 del Ministero dell’Ambiente erano classificate e definite le aree naturali protette e, tra le altre, le zone di speciale conservazione relative alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali.


Con delibera del 15.12.2000 la Regione Puglia ha approvato il piano urbanistico territoriale tematico (P.U.T.T.), rivolto – attraverso la perimetrazione e la definizione dell’intero territorio regionale - a disciplinare i processi di trasformazione fisica e l’uso del territorio allo scopo di tutelarne l’identità storica e culturale; a rendere compatibili la qualità del paesaggio, le sue componenti strutturali e il suo uso sociale; a promuovere la salvaguardia e la valorizzazione delle risorse territoriali.


L’art. 3.13.4 del P.U.T.T. ha previsto che nelle aree protette non sono autorizzabili piani e/o progetti e interventi comportanti, tra l’altro, movimenti di terra che alterino in modo sostanziale e/o stabilmente la morfologia del sito (eccettuate opere strettamente connesse con la difesa idrogeologica) e la discarica di rifiuti, sancendo poi che negli ambiti territoriali di valore distinguibile “C” (in cui ricadono le cave site in località “Macchia del Fico” dell’agro di Minervino Murge) le nuove localizzazioni di attività estrattive vanno limitate ai materiali di inderogabile necessità e di difficile reperibilità.


Come si è sopra notato, il D.P.R. del 12.4.’96 ha previsto come obbligatoria la valutazione di impatto ambientale da parte del competente comitato regionale nel caso di cave o torbiere con più di 500.000 mc/a di materiale estratto o di un’area interessata superiore a 20 ha ovvero di un’area ricadente in aree naturali protette. Tale procedura ha lo scopo di individuare, descrivere e valutare, in via preventiva, l'impatto ambientale di determinati progetti pubblici o privati. Essa non è quindi da intendersi "strumento" necessario per verificare il rispetto di standard o per imporre nuovi vincoli, oltre quelli già operanti, ma come un "processo coordinato" per raggiungere un elevato grado di protezione ambientale, realizzando l'obiettivo di migliorare la qualità della vita, mantenere la varietà delle specie, e conservare la capacità dell’ecosistema in quanto risorsa essenziale. La V.I.A. mira ad introdurre, nella prassi tecnica ed amministrativa ed in una fase precoce della progettazione, una valutazione sistematica degli effetti prodotti dalle opere in progetto sull'ambiente, intendendo quest'ultimo come un sistema complesso di risorse naturali e umane e delle loro interazioni.


Con delibera del 22.7.’97 la Giunta pugliese, in attesa della definizione della legge regionale in materia di V.I.A., recependo il D.P.R. 12.4.1996, individuava nell’Assessorato all’Ambiente – Settore Ecologia l’Autorità competente ai sensi della predetta normativa. Con delibera del 18.11.’97 la Regione incaricava un gruppo di lavoro, già costituito con delibera di G.R. n. 806/94, di effettuare le valutazioni degli studi di impatto ambientale, prevedendo che i termini per l’applicazione delle relative procedure sarebbero decorsi dalla data di esecutività della stessa delibera. La Giunta in data 27.1.’98 deliberava di modificare la deliberazione del 18.11.1997, con l’indicazione definitiva dei componenti del Comitato V.I.A. (tra la corposa documentazione trasmessa dall’Ufficio del PM v’è in atti anche una determinazione del Dirigente del Settore Ecologia della Regione Puglia del 10.4.2000 dalla quale si ricava ad es. che la coltivazione della cava da parte della ditta di TUCCI Nicola era espressamente assoggettata alla procedura di verifica di impatto ed incidenza ambientale).


L’area in cui ricadono le cave è definita area naturale protetta denominata “Alta Murgia” ed è ricompresa tra le zone di protezione speciale sicchè ogni intervento di alterazione dell’aspetto esteriore del luoghi necessita di autorizzazione e i relativi progetti di apertura, ai sensi della normativa in materia, devono essere indefettibilmente assoggettati almeno alla procedura di valutazione di impatto ambientale da parte dell’Autorità amministrativa preposta alla tutela del bene avente speciale rilevanza naturalistico-ambientale.


Dall’esame delle risultanze investigative e dalle acquisizioni documentali relative ai provvedimenti della Regione Puglia non risulta – almeno fino al momento della prima richiesta di sequestro preventivo del PM - che i progetti di coltivazione mineraria delle cave siano stati assoggettati ad alcuna delle preventive procedure di garanzia (V.I.A. e incidenza ambientale), né tantomeno emerge che gli interessati abbiano attivato le iniziative necessarie a tal fine e abbiano osservato gli adempimenti prescritti anche successivamente ai decreti di autorizzazione al trasferimento dell’attività estrattiva se è vero che già in data 22.7.’97 la Giunta regionale pugliese aveva recepito il contenuto del D.P.R. 12.4.1996 e aveva interinalmente individuato l’Assessorato all’Ambiente quale l’Autorità competente in materia di V.I.A. ai sensi del citato decreto presidenziale.


Avendo così la Regione – attesa la scadenza del termine di nove mesi ad essa imposto per disciplinare i contenuti e le procedure di V.I.A. - fatte proprie nel luglio ’97 le disposizioni dettate dalla normativa in esame (tra cui quelle che prevedono l’obbligatorietà della V.I.A. per l’apertura di cave situate, tra l’altro, in aree naturali protette, come l’Alta Murgia nella quale ricade in base alla L.R. n. 19 del 24.7.’97 proprio il territorio di Minervino Murge), deve ritenersi che l’autorizzazione alla coltivazione della cava non può essere rilasciata prima e al di fuori della rituale procedura di V.I.A..


Tra l’altro, l’utilizzazione di una cava costituisce certamente attività pericolosa per l’ambiente poichè, in difetto di un preventivo studio di impatto ambientale, gli effetti sinergici e cumulativi dell’inquinamento inevitabilmente prodotto, di regola, tendono a trasferirsi più facilmente alle falde profonde, agevolati dalla ferita operata nel terreno non preventivamente impermeabilizzato e la relativa attività estrattiva comporta pur sempre la propagazione di emissioni inquinanti nell’atmosfera. Il mancato rilascio del titolo autorizzatorio e l’inosservanza dei necessari e preventivi incombenti valutativi da parte dell’Autorità competente non può non tradursi nella violazione della normativa ambientale.


Ancora, con nota prot. 1234 del febbraio 2000 la Regione Puglia-Assessorato all’Ambiente, Settore Ecologia, Ufficio Parchi e Riserve Naturali faceva presente che il sito “Murgia Alta” è stato dichiarato ZPS ai sensi della direttiva 79/409/CEE con nota del 24.12.1998 del Ministero dell’Ambiente e come tale fa parte della “Rete Natura” con la conseguenza che le amministrazioni regionali sono responsabili di attivare le misure di conservazione necessarie, nonché le misure per evitare il degrado degli habitat e delle specie.


Inoltre, il decreto 3.4.2000 del Ministero dell’Ambiente (“Elenco dei siti di importanza comunitaria e delle zone di protezione speciali, individuati ai sensi delle direttive 92/43/CEE e 79/409/CEE”) indica la “Murgia Alta” nell’allegato A relativo alle zone di protezione speciale designate ai sensi della direttiva CEE da ultimo citata (nello stesso senso risulta la recente decisione del GIP di Trani del 18.9.2003, allegata all’odierno appello del PM).


Dalla nota del Ministero dell’Ambiente del 24.12.’98, inviata alla Commissione CEE, risulta che in quella data la “Murgia Alta” era già ricompresa tra le zone a protezione speciale. Per tale area la procedura di individuazione non ha previsto un’istruttoria da parte della Commissione Europea giusta la nota prot. n. 1234 dell’8.2.2000 dell’Assessorato all’Ambiente-Ufficio Parchi e Riserve della Regione Puglia.


In particolare con deliberazione della Giunta Regionale della Puglia n. 1157 dell’8.8.2002 si evidenziava che con il suddetto D.M. 3.4.2000 il Ministro dell’Ambiente ha solo reso ulteriormente pubblico l’elenco dei pSIC e delle ZPS già individuati e designati con le direttive comunitarie.


Per la conferma dell’esistenza di tali caratteri vincolistici impressi sul territorio dell’Alta Murgia, deve farsi anche riferimento alle determinazioni prot. 10761/06 e 10762/06 adottate dalla Regione Puglia-Assessorato Assetto del territorio-Urbanistica E.R.P.-Settore Urbanistico, portate a conoscenza del PM di Trani il 7.8.2003 (in atti), con le quali era dichiarata l’improcedibilità al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica da parte della Giunta Regionale delle istanze presentate dalla ditta “Centro Scambi Universal s.r.l.” e dalla ditta “Estrazioni Serpeggianti s.r.l.”, operanti in località “Macchia del Fico” del Comune di Minervino Murge. In tali note si evidenzia che l’area in esame è classificata SIC e ZPS; che per l’attività di coltivazione risultano già presentati studi di verifica di compatibilità e di incidenza ambientale; che, ricadendo gli interventi in area classificata ZPS ovvero rientrante nella nozione di “area protetta” di cui alla classificazione operata con delibera ministeriale del 2.12.1996, “risultano vigenti nell’area d’intervento le disposizioni di divieto di cui all’art. 11, 3° comma, della L. n. 394/91 in assenza di regolamento come peraltro acclarato anche dalla giurisprudenza (sentenza Corte Suprema di Cass. pen. Sez. III, 5.1.2000 n° 30)”; che pertanto, le predette disposizioni di divieto, anche a prescindere dall’entità dell’impatto ambientale delle opere e/o dall’incidenza ambientale dell’intervento in progetto, comunque escludono del tutto, in aree classificate ZPS “l’apertura e l’esercizio di cave, di miniere e di discariche nonché l’asportazione di materiale” (anche se l’8.10.2001 l’Assessorato all’Ambiente della Regione Puglia con una nota di chiarimento precisava che le ZPS sono state solo formalmente designate e non ancora formalmente istituite).


Dal panorama normativo sommariamente delineato si ricavano alcuni principi. Dopo l’entrata in vigore della L.R. n. 37/85 la denuncia è sostituita dall’autorizzazione amministrativa rilasciata dalla Regione Puglia con parere preventivo necessario del Comitato Tecnico Regionale per le Attività Estrattive, ove dette attività ricadano in territori sui quali insistono vincoli idrogeologico-forestale, paesaggistico, culturale, ambientale, urbanistico etc.. Per le cave in attività la prosecuzione dell’attività è subordinata alla presentazione della richiesta di autorizzazione entro il 31.12.1987; se la cava è impiantata dopo il 12.4.1996, la stessa dev’essere sottoposta, in presenza dei presupposti previsti, alle procedure di V.I.A.; se la cava rientra in un SIC e/o in ZPS e non deve essere esperita la VIA, è prescritta quale fase preparatoria necessaria la valutazione di incidenza ambientale. A seguito dell’entrata in vigore del PUTT, nell’ambito “C”, le nuove localizzazioni di attività estrattive si intendono limitate ai materiali di inderogabile necessità e di difficile reperibilità e nelle aree naturali protette non sono autorizzabili.


Sotto un distinto profilo, è necessario sottolineare che la L. n. 431/85 contiene una disciplina vincolistica con carattere di inderogabilità, introdotta nell’ordinamento al precipuo scopo di arginare il crescente degrado del territorio ed il progressivo deturpamento delle bellezze naturali attuato attraverso una gestione delle risorse naturali non rispondente ai precetti costituzionali dettati in materia (cfr., al riguardo, Cass., sez. III, 21 gennaio ’97, Volpe, il cui ampio apparato argomentativo investe, tra l’altro, la specifica questione dell’incidenza della legislazione vincolistica sulla strumentazione urbanistica).


Quello di cui all’art. 1 sexies è un reato formale di pericolo che prescinde dal verificarsi di un evento di danno, essendo sufficiente per la sua esistenza che l’agente faccia del bene protetto dal vincolo paesaggistico un uso diverso da quello cui esso è destinato o ponga in essere sullo stesso interventi astrattamente idonei a metterlo in pericolo, talchè sono escluse dal novero delle condotte penalmente rilevanti solo quelle che si prospettano inidonee, pur in astratto, a compromettere i valori del paesaggio (così, Cass., sez. III, 26 febbraio-23 maggio 2003, PM Bergamo in proc. Invernici).


Per la giurisprudenza di legittimità tra l’art. 1 sexies L. n. 431/85 ed il D.lvo n. 490/’99 vi è una continuità normativa che investe sia l’oggetto della tutela che il regime sanzionatorio (ex plurimis, tra le più recenti, Cass., sez. III, 22 novembre 2002-30 gennaio 2003, Ferrari).


Infine, come hanno chiarito SS.UU., 15 marzo 1989, Graziani, la ratio della L. n. 431/85 poggia sulla piena aderenza al precetto costituzionale di tutela primaria del paesaggio, sia attraverso il vincolo paesaggistico su zone e territori la cui individuazione è connessa non tanto a specifiche ed individuate bellezze naturali, come quelle su cui operava la L. n. 1497/39, ma al paesaggio inteso nella sua globalità e valorizzato per le valenze estetico-culturali che rappresenta.


D’altro canto, nella sua richiesta di misura cautelare, il PM mostra di aderire, in ordine alla nozione di bosco, all’indirizzo ermeneutico estensivo del giudice di legittimità (esemplificativamente espresso da Cass., sez. III, 9 giugno ’94, Da Roit; Cass., sez. III, 12 febbraio ’93, Quartiero ed altro; Cass., sez. III, 31 marzo ’94, Gorraz; nonché Cass., sez. III, 26 marzo ’97, Lui), teso ad includere nella porzione boschiva anche le aree contigue, sì da garantire una più penetrante salvaguardia della fascia protetta, con la conseguenza che ove resti accertato che l’area su cui si svolge l’attività sia posta sul confine e nelle immediate vicinanze di un bosco, allora essa non può che ricadere nei “territori coperti da foreste e da boschi” di cui all’art. 1, comma 2, lett. g), L. n. 431/85 (trasfuso nell’art. 146, comma 1, lett. g), D.lvo n. 490/99), di guisa che l’attività realizzata nella medesima zona richiede l’autorizzazione paesaggistica.


Con riferimento a tale ultimo aspetto, risulta dall’annotazione di indagine redatta il 31.10.2002 dal Nucleo Investigativo di Polizia Ambientale e Forestale del CFS di Bari che non poche cave si trovano nelle immediate vicinanze del confine boschivo (v. supra).


Orbene, in tema di cave, uno dei più controversi problemi è rappresentato dalla valutazione dell’incidenza dei vincoli paesaggistici sopravvenuti rispetto alle attività estrattive in corso. Tale nodo problematico è principalmente dovuto al silenzio serbato sul punto dalla “legge Galasso”, la quale, sebbene prescriva vincoli ambientali operanti ex lege, nulla ha invece previsto – quanto al profilo transitorio – per le opere già iniziate anteriormente alla sua entrata in vigore.


In proposito, la circolare n. 8 del 31 agosto ’85 del Ministero dei Beni Culturali ed Ambientali ha escluso la necessità di richiedere l’autorizzazione paesaggistica regionale per le “opere in corso debitamente autorizzate”. Ma la portata di tale previsione - contenuta in un atto puramente interno all’Amministrazione - non può essere sopravvalutata non solo stante la genericità dell’espressione utilizzata che nella sua vaghezza semantica non aiuta certo l’interprete a trarre appaganti conclusioni, ma anche appunto in ragione della natura non normativa della fonte da cui essa scaturisce.


In ordine alla disciplina penale delle cave parrebbe comunque ricavarsi il principio dell’inoperatività dei vincoli paesaggistici alle opere già in corso e regolarmente autorizzate giacchè - si afferma - sarebbe inutile munirsi dell’autorizzazione ai fini della tutela di un interesse ambientale allorchè sia già intervenuto l’inizio dei lavori, con la trasformazione dello stato dei luoghi. In particolare, mutuando la definizione dalla giurisprudenza della Suprema Corte, le opere iniziate sono quelle che hanno avuto un concreto e visibile inizio, al di là delle attività meramente preparatorie, con un’apprezzabile modificazione dello stato dei luoghi.


A ben vedere, con l’entrata in vigore della L. n. 431/85 si è manifestato in tutta la sua dirompente rilevanza il contrasto esistente tra la finalità produttiva connessa all’attività estrattiva e la contrapposta esigenza di garantire l’integrità del paesaggio. Al riguardo, può affermarsi che il legislatore, quantunque teoricamente non abbia reputato del tutto inconciliabili i confliggenti interessi (cercando – ove possibile - di ottenere la loro armonizzazione), ha tuttavia innegabilmente optato per la preminenza dell’esigenza di tutela ambientale rispetto a quella relativa alla produzione, non fosse altro per la diversa natura degli interessi in gioco, quello privatistico vantato dal coltivatore della cava e quello invece a sfondo pubblicistico (in quanto riferibile alla generalità dei consociati) alla tutela del paesaggio (persino oggetto di specifica protezione costituzionale ex art. 9 comma 2 tra i principi fondamentali, diversamente dal diritto di iniziativa economica privata assoggettato ad una serie di limitazioni ai sensi dell’art. 41 Cost.), talchè il primo interesse non può che ritenersi subvalente e recessivo rispetto a quest’ultimo a motivo del differente rango rivestito nella scala dei valori giuridici. Da ciò derivando, quale logico corollario, la legittimità di negare l’autorizzazione alla prosecuzione dell’attività cavatoria tutte le volte in cui non vi sia la possibilità di svolgere l’attività estrattiva senza arrecare pregiudizio ai preminenti interessi paesaggistico-ambientali, il cui raccordo con l’interesse privato risulti dunque concretamente precluso.


Ciò posto, deve evidenziarsi che con particolare riguardo alla materia delle cave si segnalano - data l’autorevolezza del consesso emittente le pronunzie - due importanti decisioni delle Sezioni Unite della Suprema Corte, che si sono occupate di tale tematica, sviluppandone gli aspetti maggiormente dibattuti.
Nella sentenza 7 novembre 1992, Midolini, i supremi giudici affrontano, tra l’altro, la tematica dell’eventuale automatica caducazione del provvedimento autorizzatorio dell’attività cavatoria rilasciato antecedentemente alla sopravvenienza del vincolo paesaggistico previsto dalla L. n. 431/85, risolvendolo negativamente, nel senso cioè che il sopravvenire dello stesso non determina ipso iure l’illegittimità dell’autorizzazione preesistente, né rende sempre illecita la prosecuzione dell’attività estrattiva, così finendosi con l’affermare che, pur attribuendosi al valore ambientale prioritaria tutela rispetto all’interesse economico connesso allo sfruttamento della cava, cionondimeno deve escludersi che l’operatività della c.d. “legge Galasso” possa espandersi fino al punto di dar vita ad inaccettabili fenomeni di retroattività della legge penale. Nella pronuncia si evidenzia, tuttavia, che i vincoli introdotti dalla L. n. 431/85 sono da ritenersi di immediata operatività, precisandosi ulteriormente che la coltivazione di una cava in un’area protetta dalla predetta normativa, ancorchè la relativa autorizzazione ai fini estrattivi sia stata rilasciata prima della sua entrata in vigore, non esime l’interessato dall’obbligo di munirsi dell’autorizzazione ambientale prevista per gli interventi che alterino lo stato del luoghi.


Con la più recente sentenza 31.10-12.12.2001, De Marinis, il giudice nomofilattico era invece chiamato a dirimere un radicato contrasto in ordine all’interpretazione della normativa regionale campana (L.R. n. 54 del 13.12.85) e in particolare la questione se nel caso di prosecuzione dell’attività di coltivazione in corso al momento dell’entrata in vigore della predetta legge fosse sufficiente la domanda di prosecuzione della coltivazione o occorresse l’autorizzazione regionale ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 20 lett. a) L. n. 47/85.


I principi generali che si desumono dall’ampia e puntuale ricognizione della materia contenuta in tale ultima pronuncia dispiegano la loro efficacia anche oltre la decisione del caso esaminato, proiettandone gli effetti nella vicenda odiernamente scrutinata. Pur riconfermandosi il consolidato assunto che nega l’automatica invalidità della precedente autorizzazione al sopravvenire di un vincolo in una determinata zona, in definitiva dalle predette decisioni sembra trarsi, quale rilevante conclusione, l’inderogabile necessità, in relazione alle cave già in esercizio, dell’intervento dell’Autorità competente al fine di valutare se il titolo abilitativo già esistente debba essere confermato o, invece, revocato dopo una concreta ponderazione bilanciata tra l’interesse economico strettamente correlato alla prosecuzione dell’attività estrattiva e quello preminente di natura paesaggistica ed ambientale (sul punto, cfr. anche Cass., sez. III, 10 novembre 2000-10 gennaio 2001, Cupo, nonché Cass., sez. III, 27 marzo-9 giugno ’98, Izzo, secondo la quale quando la cava è già legittimamente in atto in una zona vincolata ed ha già compromesso gli interessi ambientali o urbanistici, spetta all’Autorità competente valutare discrezionalmente se la prosecuzione dell’attività estrattiva aggravi in modo intollerabile, oppure non aggravi, il vulnus apportato alla tutela del territorio).


Si vuol cioè sostenere – al di là del singolo caso deciso dalla Suprema Corte con riguardo alla legislazione campana - che non può in alcun modo farsi a meno di procedere ad un vaglio aggiornato dei titoli abilitativi preesistenti, rendendo quindi sempre doverosamente possibile una rivalutazione degli interessi coinvolti alla luce della normativa sopravvenuta, onde consentire che la prosecuzione dell’attività cavatoria non sia sottratta alla riponderazione e alla decisione da parte dell’Autorità pubblica preposta ad assicurare il rispetto del vincolo.


Se così è, allora non può che inferirsi la correttezza del ragionamento del PM di Trani che esclude dal tema dell’accusa da provare le aree coltivate a cava che risultavano operanti prima del 7.9.85 (data dell’entrata in vigore della L. n. 431/85) e poi legalizzate con l’istanza di prosecuzione dell’attività di coltivazione, quelle che risultavano dismesse già prima dell’85 e quelle che risultavano comunque legalmente autorizzate allo svolgimento dell’attività estrattiva, con il logico corollario che le cave soggiacenti alla sanzione penale sono quelle per le quali manca ab initio qualsiasi autorizzazione o quelle per le quali i relativi gestori non abbiano proposto tempestiva e regolare istanza di prosecuzione ai sensi della L.R. n. 37/85, per esse in pratica operando gli effetti della sopravvenuta normativa che ha introdotto i vincoli ambientali e paesaggistici.


Tuttavia, il Tribunale non può fare a meno di rimarcare come una simile conclusione esegetica possa apparire improntata ad un approccio metodologico non del tutto corretto e ad una visione parziale ed impropria delle nozioni di ambiente e paesaggio, alla cui tutela deve attribuirsi valore sostanziale e prioritario. Ad esplicazione di quanto appena esposto, deve sottolinearsi che l’attività di escavazione comporta una “ferita” continua che incide in senso modificativo sul territorio e sul paesaggio. Costituisce infatti un dato di comune esperienza che lo svolgimento permanente dell’attività cavatoria in una determinata zona determini – a causa del progressivo esaurimento del giacimento - sia un’espansione superficiale che un approfondimento dell’area di cava, talvolta dando luogo ad una vera e propria soluzione di continuità topografica dei lavori di escavazione (come è stato accertato nella vicenda in esame in relazione ad alcune cave che hanno invaso particelle attigue). In tali evenienze non può allora negarsi che la pur autorizzata prosecuzione dell’attività estrattiva (che nella specie riguarda, comunque, ben poche particelle: v. supra) e delle relative opere produca una graduale alterazione dell’assetto territoriale ed apporti un aggravamento della situazione paesaggistica o un deterioramento ulteriore o un pregiudizio qualitativamente diverso dell’ambiente, il quale va correttamente inteso – con tutte le sue implicazioni – in modo complessivo ed unitario e va apprezzato come un bene mutevole che si evolve verso un equilibrio dinamico, suscettibile di subire gli effetti di qualsiasi opera umana che su di esso venga ad incidere di volta in volta e non, dunque, quale bene ontologicamente statico ed immodificabile, incapace di risentire delle ulteriori conseguenze pregiudizievoli inferte dall’attività dell’uomo. Persino la giurisprudenza, con lodevole sforzo definitorio, si è impegnata nell’individuare le variegate implicazioni del concetto di ambiente, cogliendo primariamente la sua tendenziale proiezione sullo sviluppo della persona, elevato a valore fondamentale: “Per ambiente deve intendersi il contesto delle risorse naturali e delle stesse opere più significative dell’uomo protetto dall’ordinamento perché la loro conservazione è ritenuta fondamentale per il pieno sviluppo della persona. L’ambiente è una nozione, oltrechè unitaria, anche generale, comprensiva delle risorse naturali e culturali, veicolata nell’ordinamento italiano dal diritto comunitario” (così, Cass., sez. III, 15 giugno-28 ottobre 1993, Benericetti). Di guisa che la reiterazione nel tempo dei lavori estrattivi produce l’approfondimento del vulnus al territorio e all’ambiente ed un’ulteriore peggiorativa compromissione dei valori paesaggistici. Senza contare, peraltro, la particolare difficoltà e la correlativa opinabilità che si annida in ogni accertamento volto a verificare in concreto (ciò che resta sicuramente precluso al Tribunale del riesame, sprovvisto com’è di poteri istruttori) se e fino a che punto una determinata modificazione dello stato dei luoghi possa ritenersi davvero irreversibile per l’ambiente, il quale, ove qualificato da uno spiccato pregio estetico e paesaggistico, esige l’apprestamento di misure che tendano comunque a favorire la sempre possibile “rivitalizzazione” naturalistica ed il recupero delle condizioni di godimento e di fruibilità.


Proprio la produzione giurisprudenziale sembra convalidare i suesposti approdi ermeneutici. Infatti, in materia di cave deve ritenersi, in ordine alla configurabilità del reato di cui all’art. 1 sexies L. n. 431/85, che la prosecuzione dell’attività di coltivazione, in zona sottoposta da questa legge a vincolo paesaggistico, è possibile soltanto a seguito di autorizzazione espressa e specifica dell’autorità competente, che possa valutare l’interesse pubblico e la compatibilità con esso dell’attività economica espletata (Cass., sez. III, 1 ottobre-19 novembre ’96, Locatelli). Inoltre, in materia di esercizio di cave in zone sottoposte a vincolo ai sensi della c.d. “legge Galasso”, il fatto che la cava sia in attività da lungo tempo (nel caso di specie dal ’61) non è sufficiente ad escludere di per sé la sussistenza delle ipotesi illecite previste dall’art. 1 sexies L. n. 431/85 e dell’art. 734 c.p. sul presupposto della già compiuta modificazione dell’ambiente, ma è necessario verificare in ogni caso se l’attività è stata legittimamente iniziata (essendo comunque necessaria l’autorizzazione ex art. 7 L. n. 1497/39 come regolata dalla L. n. 431/85), se siano state rispettate le prescrizioni della normativa regionale, se si sia verificato in fatto un’irreversibile compromissione dei valori paesaggistici, se la prosecuzione dell’attività estrattiva sia suscettibile, in astratto, di recare ulteriore pregiudizio al bene vincolato (Cass., sez. III, 16 aprile-17 maggio ’96, Buttitta). Ed ancora, nel caso di attività di coltivazione di cava in zona sottoposta a vincolo ex L. n. 1497/39 con autorizzazione rilasciata prima dell’apposizione del vincolo, si è esclusa la possibilità di proseguire nell’attività estrattiva in attesa dell’apposito titolo autorizzativo da parte dell’autorità preposta al vincolo, concretando la relativa attività svolta tanto la violazione dell’art. 1 sexies L. n. 431/85 che quella di cui all’art. 734 c.p. (così Cass., sez. III, 13 dicembre ’96-7 febbraio ’97, Mirto).


Sicchè, pur tralasciando la più o meno validità delle osservazioni svolte dal Collegio, appare comunque difficile sostenere - specie in un’ottica di delibazione sommaria limitata alla possibile riconducibilità del fatto illecito alla fattispecie astratta di reato – che i principi enunciati nelle predette pronunzie di legittimità non valgano a delineare il richiesto fumus dei reati ipotizzati.


Ora, al di là dei già evidenziati connotati vincolistici caratterizzanti le aree in questione (area naturale protetta e prioritaria area di reperimento, zona di protezione speciale, sito di importanza comunitaria, nonché territorio coperto da bosco), direttamente desumibili dalla normativa nazionale e regionale di settore, non può essere inoltre sottaciuto che esse risultano possedere il carattere di zone gravate da usi civici, come tali pur sempre ascrivibili – quand’anche ipoteticamente si voglia ammettere la non sanzionabilità ex L. n. 394/91 delle condotte realizzate e la non ancora avvenuta operatività delle ZPS e dei SIC, già da tempo designati – al novero dei beni legalmente tutelati, con la conseguente necessità di ottenere il previo rilascio dell’autorizzazione per l’esercizio dell’attività estrattiva nella zona interessata.


Ai sensi dell’art. 146 D.lvo n. 490/99 e dell’art. 1-sexies L. n. 431/85 le zone gravate da usi civici costituiscono beni ambientali tutelati per legge. I proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di questi beni non possono distruggerli né introdurvi modificazioni, che rechino pregiudizio a quel loro esteriore aspetto che è oggetto di protezione ed hanno l’obbligo di sottoporre alla Regione i progetti delle opere di qualunque genere che intendano seguire, al fine di ottenere la preventiva autorizzazione (art. 151). Deve significativamente ricordarsi, al riguardo, che ad es. è versata in atti una nota dell’Assessorato all’urbanistica della Regione Puglia dell’11.10.1998 dalla quale emerge che la cava sita in località “Iambrenghi” coltivata dalla ditta di GRILLO Antonio interessa un’area gravata da uso civico ed è pertanto soggetta al regime di cui alla “legge Galasso”. Nella nota assessorile si aggiunge che la richiesta di coltivazione poteva essere esaminata “solo dopo l’affrancamento di detto gravame e l’acquisizione del prescritto nulla-osta paesaggistico”.


In proposito, l’organo giudiziario procedente (la cui opzione ermeneutica, in quanto motivata con riferimento a principi dettati dalla giurisprudenza di legittimità, non può essere in alcun modo censurata da questo Tribunale) ha aderito recettiziamente ad una pronuncia della Suprema Corte (sez. III, 11 novembre-18 dicembre ’93, PM Palermo in proc. Lo Vesco), intesa ad attribuire all’accertamento dell’esistenza degli usi civici la sua esatta natura di atto meramente dichiarativo, con la conseguenza che di detto accertamento non può che essere investito incidentalmente il giudice penale, il quale nel far ciò ben potrà ravvisarne l’esistenza a seguito dell’esame delle complessive risultanze documentali riferibili alla zona interessata: “In tema di tutela del paesaggio, rientrano tra le zone vincolate ex lege i territori gravati da usi civici. Tali sono quei fondi, sui quali si esercitano diritti risalenti ad epoca immemorabile, spettanti alla collettività e ai singoli che la compongono e consistenti nel trarre talune utilità dalle terre, dai boschi o dalle acque. L’accertamento di tale natura non discende da alcun atto costitutivo e, qualora esso venga compiuto, assume soltanto valore ricognitivo. Ne deriva che l’indagine relativa all’esistenza dell’uso stesso – ove necessaria – è demandata incidentalmente al giudice penale…”.


Invero, proprio la dibattuta questione dell’esistenza degli usi civici sui fondi nei quali insistono le cave per cui sono in corso le indagini è stata ex professo affrontata e risolta – in termini di consonanza con l’assunto accusatorio - dal consulente del PM (dott. F. MASTROMARCO, uno dei massimi esperti del settore, persino incaricato dalla Regione Puglia di redigere le mappe del PUTT relative agli usi civici). Nel suo elaborato depositato il 16.12.2002 il CTP, dopo aver esaminato numerosi documenti anche di archivio relativi alle zone in cui sorgono i fondi sui quali insistono le cave, ha concluso nel senso che entrambe le contrade “Iambrenghi” e “Macchia del Fico” in agro di Minervino Murge sono soggette al vincolo demaniale dell’uso civico; che le eventuali recenti certificazioni che attestino essere le terre di cui all’indagine libere da vincoli demaniali da uso civico non trovano – allo stato attuale della documentazione agli atti – fondamento tecnico, amministrativo e tantomeno giuridico e che “dovranno essere i possessori a dimostrare l’eventuale “legale svincolo dalla demanialità”, l’eventuale “allodialità”, l’eventuale “legale appadronamento” – sovranamente approvati e sanciti secondo le norme e prassi demaniali – delle terre da loro possedute; a meno che – in seguito – ciò venga dimostrato dalle ulteriori indagini e ricerche “di ufficio”…stante l’essere ancore tutte le verifiche, effettuate dagli Uffici preposti sia commissariali che regionali, nella fase amministrativa non definita e non definitiva”.


In definitiva, tali ultime considerazioni – anche a prescindere dalla questione relativa all’effettiva operatività delle aree naturali protette, delle ZPS e dei SIC - non possono che comprovare in ogni caso la fondatezza della richiesta di sequestro preventivo di tutte le cave indicate nell’appello del PM, in quanto comunque situate in zone gravate da uso civico e alcune anche contigue al territorio boschivo, per le quali non risulta che gli interessati si siano preventivamente muniti della prescritta autorizzazione paesaggistica, non solo necessaria nei casi di progetto di coltivazione di una cava, ma anche – alla stegua del suddetto orientamento della Corte di legittimità - per la continuazione dell’attività estrattiva.


Deve pertanto conclusivamente affermarsi - nei ristretti limiti cognitivi del giudice dell’incidente cautelare tipici della presente fase preliminare del procedimento - l’esistenza del fumus del reato di cui all’art. 1-sexies L. n. 431/85, trasfuso nel testo del D.lvo n. 490/99, alla luce delle osservazioni sopra formulate circa la necessità dell’autorizzazione paesistica anche in presenza di attività estrattiva già autorizzata nella sua prosecuzione, così come del resto statuito nelle indicate pronunce della Suprema Corte, in presenza delle quali risulta alquanto arduo escludere, allo stato delle indagini e fatti salvi i futuri accertamenti, la ravvisabilità dell’astratta sussumibilità dell’attività compiuta dagli interessati nel paradigma legale ipotizzato dall’organo dell’accusa.


In ordine al reato di cui all’art. 734 c.p. (che, in ragione della diversa oggettività giuridica, può concorrere con il reato ambientale) deve rimarcarsi che gli interventi non autorizzati connessi all’attività di scavo hanno determinato, in una zona di particolare interesse ambientale, l’alterazione rilevante ed apprezzabile sotto il profilo temporale delle bellezza panoramica ed estetica dei luoghi sottoposti a speciale tutela e, quindi, l’aggravamento del processo di compromissione dei valori paesaggistici.


Deve, invece, allo stato, ragionevolmente escludersi – in assenza di indicazioni minime (con riferimento a ciascun indagato), da parte del titolare dell’azione penale circa la distruzione o il deterioramento (soltanto affermati nei capi d’imputazione) di beni circostanti le cave aventi destinazione pubblica e anche in ossequio al generale principio della disponibilità della prova, in capo alle parti, tipico del processo accusatorio, sia pure da adattarsi alle peculiari caratteristiche connesse al presente procedimento cautelare - la sussistenza del reato di cui all’art. 635 c.p. nella sua forma aggravata, in relazione al quale spetterà al PM fornire idonea e concreta dimostrazione.


Infine, sussiste il nesso di strumentalità tra le cave delle quali è richiesto il sequestro ed i reati contestati (eccettuato, allo stato, quello di danneggiamento aggravato), posto che l'attività illecita risulta concretamente attuata proprio attraverso la disponibilità e l'utilizzo delle cave (la cui attività produttiva, anche se in taluni casi e su alcune particelle è temporaneamente sospesa, ben può riprendere in qualsiasi momento), onde si manifesta l’esigenza di approntare cautelativamente un efficace strumento preventivo preordinato a scongiurare la possibile protrazione degli effetti antigiuridici della condotta lesiva. Infatti, si profila il concreto ed attuale rischio che la conservazione della disponibilità delle stesse aree di cava e la prosecuzione dell’attività estrattiva possa arrecare ulteriore pregiudizio ai beni giuridici sottoposti a tutela, così approfondendone la lesione.
 

P.Q.M.
 

Accoglie l’appello proposto dal PM avverso il decreto di rigetto emesso il 21.10.2003 dal GIP presso il Tribunale di Trani e, per l’effetto, dispone il sequestro preventivo delle aree adibite a cava, site nelle località “Iambrenghi” e “Macchia del Fico” dell’agro di Minervino Murge, nelle particelle per ciascuno specificate nella richiesta avanzata dal PM ex art. 321 in data 23.9.2003, nei confronti di LOPRIENO Domenico, LOPETUSO Michele, DI LEO Antonio, GRILLO Antonio, FIONDA Francesco e TUCCI Nicola (limitatamente al capo A della rubrica).


Non accoglie la richiesta di sequestro preventivo con riferimento all’area di cava gestita da SINISI Francesco.


Manda alla cancelleria per la trasmissione di copia della presente ordinanza al PM presso il Tribunale di Trani per l’esecuzione del sequestro preventivo, nonchè per gli altri adempimenti di rito.


Così deciso in Bari, il 6 febbraio 2004

M A S S I M E

 

Sentenza per esteso

 

1) Beni culturali e ambientali - Tutela primaria del paesaggio - Bellezze naturali - Tutela costituzionale - L. n. 431/85 - L. n. 1497/39. La ratio della L. n. 431/85 poggia sulla piena aderenza al precetto costituzionale di tutela primaria del paesaggio, sia attraverso il vincolo paesaggistico su zone e territori la cui individuazione è connessa non tanto a specifiche ed individuate bellezze naturali, come quelle su cui operava la L. n. 1497/39, ma al paesaggio inteso nella sua globalità e valorizzato per le valenze estetico-culturali che rappresenta. Graziani, CASSAZIONE, SS.UU., 15 marzo 1989. Pres. Marrone - Rel. Putignano. TRIBUNALE DI BARI sezione del riesame, 6 febbraio 2004, Ordinanza n. 271

2) Beni culturali e ambientali - Ambiente - Definizione. Per ambiente deve intendersi il contesto delle risorse naturali e delle stesse opere più significative dell’uomo protetto dall’ordinamento perché la loro conservazione è ritenuta fondamentale per il pieno sviluppo della persona. L’ambiente è una nozione, oltrechè unitaria, anche generale, comprensiva delle risorse naturali e culturali, veicolata nell’ordinamento italiano dal diritto comunitario” (Cass., sez. III, 15 giugno-28 ottobre 1993, Benericetti). Pres. Marrone - Rel. Putignano. TRIBUNALE DI BARI sezione del riesame, 6 febbraio 2004, Ordinanza n. 271

3) Beni culturali e ambientali - Cave - Prosecuzione dell’attività di coltivazione, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico - Autorizzazione espressa e specifica dell’autorità competente - Necessità - Attività di cava da lungo tempo - Ininfluenza - Art. 1 sexies L. n. 431/85 - Art. 734 c.p. - Art. 7 L. n. 1497/39 - Giurisprudenza. In materia di cave deve ritenersi, in ordine alla configurabilità del reato di cui all’art. 1 sexies L. n. 431/85, che la prosecuzione dell’attività di coltivazione, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, è possibile soltanto a seguito di autorizzazione espressa e specifica dell’autorità competente, che possa valutare l’interesse pubblico e la compatibilità con esso dell’attività economica espletata (Cass., sez. III, 1 ottobre-19 novembre ’96, Locatelli). Sempre, in materia di esercizio di cave in zone sottoposte a vincolo ai sensi della c.d. “legge Galasso”, il fatto che la cava sia in attività da lungo tempo (nel caso di specie dal ’61) non è sufficiente ad escludere di per sé la sussistenza delle ipotesi illecite previste dall’art. 1 sexies L. n. 431/85 e dell’art. 734 c.p. sul presupposto della già compiuta modificazione dell’ambiente, ma è necessario verificare in ogni caso se l’attività è stata legittimamente iniziata (essendo comunque necessaria l’autorizzazione ex art. 7 L. n. 1497/39 come regolata dalla L. n. 431/85), se siano state rispettate le prescrizioni della normativa regionale, se si sia verificato in fatto un’irreversibile compromissione dei valori paesaggistici, se la prosecuzione dell’attività estrattiva sia suscettibile, in astratto, di recare ulteriore pregiudizio al bene vincolato (Cass., sez. III, 16 aprile-17 maggio ’96, Buttitta). Ed ancora, nel caso di attività di coltivazione di cava in zona sottoposta a vincolo ex L. n. 1497/39 con autorizzazione rilasciata prima dell’apposizione del vincolo, si è esclusa la possibilità di proseguire nell’attività estrattiva in attesa dell’apposito titolo autorizzativo da parte dell’autorità preposta al vincolo, concretando la relativa attività svolta tanto la violazione dell’art. 1 sexies L. n. 431/85 che quella di cui all’art. 734 c.p. (così Cass., sez. III, 13 dicembre ’96-7 febbraio ’97, Mirto). Pres. Marrone - Rel. Putignano. TRIBUNALE DI BARI sezione del riesame, 6 febbraio 2004, Ordinanza n. 271

4) Beni culturali e ambientali - Tutela del paesaggio - Zone gravate da usi civici - Vincolo ex lege - Sussiste - Preventiva autorizzazione - Necessità - Usi civici - Nozione - Art. 146 D.lvo n. 490/99 - Art. 1-sexies L. n. 431/85. In tema di tutela del paesaggio, le zone gravate da usi civici (ai sensi dell’art. 146 D.lvo n. 490/99 e dell’art. 1-sexies L. n. 431/85) costituiscono beni ambientali tutelati rientrando tra le zone vincolate ex lege. I proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di questi beni non possono distruggerli né introdurvi modificazioni, che rechino pregiudizio a quel loro esteriore aspetto che è oggetto di protezione ed hanno l’obbligo di sottoporre alla Regione i progetti delle opere di qualunque genere che intendano seguire, al fine di ottenere la preventiva autorizzazione (art. 151). I territori gravati da usi civici sono quei fondi, sui quali si esercitano diritti risalenti ad epoca immemorabile, spettanti alla collettività e ai singoli che la compongono e consistenti nel trarre talune utilità dalle terre, dai boschi o dalle acque. L’accertamento di tale natura non discende da alcun atto costitutivo e, qualora esso venga compiuto, assume soltanto valore ricognitivo. Ne deriva che l’indagine relativa all’esistenza dell’uso stesso – ove necessaria – è demandata incidentalmente al giudice penale”. Pres. Marrone - Rel. Putignano. TRIBUNALE DI BARI sezione del riesame, 6 febbraio 2004, Ordinanza n. 271

5) Cave miniere e torbiere - Attività estrattiva già autorizzata nella sua prosecuzione - Autorizzazione paesistica - Necessità. Vi è l’esistenza del fumus del reato di cui all’art. 1-sexies L. n. 431/85, trasfuso nel testo del D.lvo n. 490/99, in quanto sussiste la necessità dell’autorizzazione paesistica anche in presenza di attività estrattiva già autorizzata nella sua prosecuzione. Pres. Marrone - Rel. Putignano. TRIBUNALE DI BARI sezione del riesame, 6 febbraio 2004, Ordinanza n. 271

6) Cave miniere e torbiere - Coltivazione di cava - Cave situate in zone gravate da uso civico o contigue al territorio boschivo - Autorizzazione paesaggistica - Necessità. Si configura l’esistenza del fumus del reato di cui all’art. 1-sexies L. n. 431/85, trasfuso nel testo del D.lvo n. 490/99 anche per le cave situate in zone gravate da uso civico o contigue al territorio boschivo, per le quali non risulta che gli interessati si siano preventivamente muniti della prescritta autorizzazione paesaggistica, non solo necessaria nei casi di progetto di coltivazione di una cava, ma anche per la continuazione dell’attività estrattiva. Pres. Marrone - Rel. Putignano. TRIBUNALE DI BARI sezione del riesame, 6 febbraio 2004, Ordinanza n. 271

7) Cave - Distruzione o il deterioramento di beni (Usi civici) - Configurazione del reato di cui all’art. 734 c.p. - Esclusione - Idonea e concreta dimostrazione - Necessità. Deve escludersi, la configurazione del reato di cui all’art. 734 c.p., in assenza di indicazioni minime da parte del titolare dell’azione penale circa la distruzione o il deterioramento di beni (in specie: beni circostanti cave aventi destinazione pubblica - usi civici) e anche in ossequio al generale principio della disponibilità della prova, in capo alle parti, tipico del processo accusatorio, sia pure da adattarsi alle peculiari caratteristiche connesse al presente procedimento cautelare - la sussistenza del reato di cui all’art. 635 c.p. nella sua forma aggravata, in relazione al quale spetterà al PM fornire idonea e concreta dimostrazione. Pres. Marrone - Rel. Putignano. TRIBUNALE DI BARI sezione del riesame, 6 febbraio 2004, Ordinanza n. 271

8) Cave miniere e torbiere - Attività di cava - Inquinamento - Attività pericolosa per l’ambiente - Emissioni inquinanti nell’atmosfera - Mancato rilascio del titolo autorizzatorio - Violazione della normativa ambientale - Sussiste. L’utilizzazione di una cava costituisce certamente attività pericolosa per l’ambiente poichè, in difetto di un preventivo studio di impatto ambientale, gli effetti sinergici e cumulativi dell’inquinamento inevitabilmente prodotto, di regola, tendono a trasferirsi più facilmente alle falde profonde, agevolati dalla ferita operata nel terreno non preventivamente impermeabilizzato e la relativa attività estrattiva comporta pur sempre la propagazione di emissioni inquinanti nell’atmosfera. Il mancato rilascio del titolo autorizzatorio e l’inosservanza dei necessari e preventivi incombenti valutativi da parte dell’Autorità competente non può non tradursi nella violazione della normativa ambientale. Pres. Marrone - Rel. Putignano. TRIBUNALE DI BARI sezione del riesame, 6 febbraio 2004, Ordinanza n. 271

9) Procedure e varie - Adozione del sequestro preventivo - Pericolo rilevante - Presupposti. Ai fini dell’adozione del sequestro preventivo, il pericolo rilevante va inteso in senso oggettivo, come probabilità di danno futuro, connessa all’effettiva disponibilità materiale o giuridica della cosa pertinente al reato o al suo uso, e deve essere concreto ed attuale. Al riguardo, per cose pertinenti al reato sulle quali può cadere il sequestro preventivo, debbono intendersi non solo quelle caratterizzate da un’intrinseca, specifica e strutturale strumentalità rispetto al reato commesso e a quelli futuri di cui si paventa la commissione, ma anche quelle che risultino indirettamente legate al reato per cui si procede, sempre che la libera disponibilità di esse possa dar luogo al pericolo di aggravamento o di protrazione delle conseguenze del reato ovvero all’agevolazione della commissione di altri (Cass., sez. V, 1.10-7.11.2002 Papini). Pres. Marrone - Rel. Putignano. TRIBUNALE DI BARI sezione del riesame, 6 febbraio 2004, Ordinanza n. 271
 

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