Per altre sentenze vedi: Sentenze per esteso
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CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. III, del 13 maggio 2005 (Ud. 04/03/2005), Sentenza n. 17836
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. III, del
13/05/2005 (Ud. 04/03/2005), Sentenza n. 17836
Presidente ZUMBO - Relatore ONORATO - Ric. MARETTI
Udienza pubblica del 4.3.2005
Registro Generale n. 34091/2004
Composta dagli lll.mi Signori
Dott. Antonio ZUMBO
Presidente
Dott. Pierluigi ONORATO (est.) Consigliere
Dott. Claudia SQUASSONI Consigliere
Dott. Aldo FIALE
Consigliere
Dott. Amedeo FRANCO
Consigliere
ha pronunciato la seguente Consigliere
SENTENZA
sul ricorso proposto da
1) MARETTI Oreste Felice, nato a Varzi il 28.4.1947,
2) POGGI Alessandro, nato a Mede il 14.6.1974,
avverso la sentenza resa il 22.1.2004 dal tribunale monocratico di Voghera.
Vista la sentenza denunciata e il ricorso,
Udita la relazione svolta in udienza dal consigliere Pierluigi Onorato,
Udito il pubblico ministero in persona del sostituto procuratore generale
Ignazio Patrone, che ha concluso chiedendo sollevarsi questione di legittimità
costituzionale e in subordine il rigetto del ricorso,
Udito il difensore della parte civile, avv.
Udito il difensore dell'imputato Poggi, avv. Giancarlo Ferri, in sostituzione
dell'avv. Rossella Campelli, che insiste nel ricorso e in subordine chiede
dichiararsi la prescrizione dei reati, Osserva:
Svolgimento del processo
1 - Con sentenze del 22.1.2004 il tribunale monocratico di Voghera ha condannato
Oreste Felice Maretti, quale amministratore della Maretti Strade s.r.l., e
Alessandro Poggi, quale amministratore della Agest s.r.l., alla pena di curo
2.500 di ammenda ciascuno perché ritenuti responsabili:
a) entrambi del reato di cui agli artt. 113 c.p. e 51, comma 2, D.Lgs. 22/1997,
perché, in cooperazione tra loro, avevano depositato in modo incontrollato
rifiuti speciali non pericolosi nel piazzale interno della predetta Maretti
Strade;
b) il solo Poggi del reato di cui all'art. 51, comma 1 (benché erroneamente
indicato in epigrafe come art. 50, comma 1) D.Lgs. 22/1997, perché aveva
effettuato il trasporto dei suddetti rifiuti senza esser munito della prescritta
autorizzazione:
accerati in Retorbido in epoca immediatamente successiva al 30.3.2000.
In estrema sintesi, in esito alla complessa istruttoria dibattimentale, il
giudice monocratico ha accertato che nel piazzale della s.r.l. Maretti Strade
erano presenti un cumulo di circa 1.500 mc. di materiale costituito da terra,
asfalto, plastica, carta, legno, ferro, cemento, mattoni, e un altro cumulo di
circa 300 mc. costituito da terra da scavo e materiale proveniente da
demolizioni (in particolare mattoni). Molti di questi materiali erano stati
portati con autocarri della società Agest, amministrata dal Poggi, la quale
aveva ricevuto in appalto dal comune di Voghera la manutenzione periodica di
strade, piazze, marciapiedi e aree comunali, ed era stata altresì incaricata di
rimuovere il materiale giacente presso l'ex Caserma di Cavalleria, costituito da
terra, mattoni e forse qualche piastrella.
Tanto premesso, il giudice ha osservato che i materiali accumulati dovevano
qualificarsi come rifiuti e che i due imputati dovevano essere ritenuti
responsabili del reato di cui all'art. 51, comma 2, D.Lgs. 22/1997: il Maretti
perché non poteva non sapere dei rifiuti fatti scaricare nel piazzale della
società da lui amministrata, o comunque per culpa in eligendo e in vigilando; il
Poggi perché non si era limitato a trasportare i rifiuti, ma aveva anche scelto
il sito di destinazione, diventando così un "gestore polivalente" dei rifiuti
stessi.
Ovviamente il Poggi era anche responsabile, come trasportatore, del reato di cui
all'art. 51, comma 1, del D.Lgs. 22/1997.
In particolare, il giudice di merito ha ritenuto che i materiali da demolizione
non possono assimilarsi alle terre e le rocce da scavo, che l'art. I della legge
21.12.2001 n. 443 esclude dalla nozione di rifiuto. Inoltre, alla luce della
norma interpretativa di cui all'art. 14 legge 8.8.2002 n. 178, da una parte il
detentore ha l'obbligo di disfarsi del materiale da demolizione, e dall'altra
nel caso concreto non era stata fornita la prova della effettiva e oggettiva
riutilizzazione dello stesso materiale. Per queste ragioni, oltre che per la
recente giurisprudenza comunitaria nella soggetta materia, doveva ritenersi
indubitabile la qualità di rifiuto.
2 - Entrambi gli imputati hanno presentato ricorso per cassazione col ministero
dei rispettivi difensori.
Il Maretti lamenta anzitutto erronea applicazione della norma incriminatrice,
giacché i materiali de quibus dovevano considerarsi come materia prima
secondaria destinata al riutilizzo, e quindi non potevano qualificarsi come
rifiuto. Infatti la destinazione al reimpiego era implicita nella natura stessa
dei materiali e nella circostanza che essi erano depositati nel cantiere di una
nota impresa locale che da anni si occupava di costruzione di strade, con
formazione di sottofondi e tappeti bituminosi.
Con un secondo motivo il Maretti deduce inosservanza dell'art. 192 c.p.p. e
contraddittorietà di motivazione, laddove la sentenza impugnata non ha
adeguatamente valorizzato la circostanza, riferita da una dipendente della
società Maretti Strade, che il Poggi aveva annunciato di voler trasportare solo
terra e quindi materiale "buono".
3 - Il Poggi dal canto suo ha dedotto due motivi.
Col primo denuncia violazione dell'art. 546 lett. e) c.p.p. e carenza di
motivazione in ordine alla affermazione della sua penale responsabilità.
Col secondo lamenta erronea applicazione della norma incriminatrice, posto che -
a suo avviso - il materiale trasportato dagli autocarri della società Agest non
aveva natura di rifiuto. In estrema sintesi, sostiene che il materiale de quo
non aveva la natura oggettiva di rifiuto, essendo composto di terra, frammista a
qualche mattone. In secondo luogo mancava anche il requisito soggettivo, in
quanto lo stesso Poggi non era detentore in senso proprio, ma semplice
trasportatore di materiali detenuti dal Comune di Voghera. Infine, era esclusa
la natura di rifiuto ai sensi della norma interpretativa di cui al citato art.
14 della legge 8.8.2002 n. 178, che è vincolante per il giudice italiano così
come statuito da Cass. Sez. III, 13.11.2002, Passerotti.
Comunque, l'imputato non era punibile ai sensi dell'art. 5 c.p. perché aveva
incolpevolmente ignorato la natura illecita del materiale trasportato in seguito
al comportamento positivo del Comune di Voghera, che gli aveva affidato
l'incarico del trasporto.
4 - Il pubblico ministero in sede ha presentato memoria scritta ai sensi
dell'art. 611, comma 1, ultimo periodo, c.p.p..
Con analisi molto articolata ed esaustiva, dopo aver prospettato il quadro
normativo comunitario, comprensivo delle fonti primarie e delle fonti derivate,
il sostituto procuratore generale esamina le principali sentenze della Corte di
Giustizia e la decisione quadro 2003/80/GAI del Consiglio in data 27.1.2003,
relativa alla protezione dell'ambiente attraverso il diritto penale,
sottolineandone il carattere obbligatorio per il giudice nazionale.
Osserva quindi che nel caso di specie si tratta non tanto di scegliere tra una
interpretazione adeguatrice al diritto comunitario (ex Cass. Sez. III, n. 22063
del 20.5.2003, Mascheroni, rv. 224485) e una applicazione della norma nazionale
come interpretata dal più volte menzionato art. 14 legge 8.8.2002 n. 178, quanto
piuttosto di risolvere il conflitto tra l'interpretazione conforme al diritto
comunitario, che prevale sulle norme nazionali incompatibili, e quella conforme
al sistema costituzionale italiano, che considera prevalente il principio della
legge penale più favorevole di cui all'art. 2 c.p., quale corollario della norma
di cui all'art. 25, comma 2, Cost. (secondo la dottrina dei "controlimiti" alla
limitazione della sovranità nazionale derivante dal diritto comunitario).
Solleva pertanto eccezione di illegittimità costituzionale degli artt. 6 e 51
D.Lgs. 5.2.1997 n. 22, come autenticamente interpretati dall'art. 14 legge
8.8.2002 n. 178, nella parte in cui introducono una definizione di rifiuto
incompatibile con quella di cui al Regolamento CEE n. 259/93 e alla Direttiva
75/442/CEE, come interpretata dalla recente sentenza Niselli emessa in data
11.11.2004 dalla Corte di Giustizia, perché in violazione:
del combinato disposto degli artt. 11 e 117 Cost., atteso il loro insanabile
contrasto coi Trattati CE ed UE, con la giurisprudenza della Corte di Giustizia
e con gli obblighi di conformità al diritto comunitario;
dell'art. 3, primo comma, Cost., atteso che dal suaccennato conflitto nasce una
disparità di trattamento tra soggetti in relazione alla applicazione della legge
penale sui rifiuti.
Evidenzia la rilevanza della eccezione di incostituzionalità, dal momento che
entrambi i ricorrenti, seppure con diversità di accenti, hanno invocato il
predetto art. 14 per escludere la loro responsabilità penale.
In subordine, ove si ritenesse inammissibile o manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale, conclude per il rigetto dei ricorsi, da
una parte perché il giudice nazionale dovrebbe far propria l'interpretazione
stabilita dalla citata sentenza Niselli, e dall'altra perché sarebbe preclusa
l'invocazione della norma interpretativa di cui al citato art. 14, in quanto
posteriore al fatto contestato, così come sarebbero infondati gli altri motivi
di ricorso.
Motivi della decisione
5 - L'approfondita requisitoria scritta del pubblico ministero (sulla
possibilità di presentare memorie scritte anche in udienza pubblica ex arti.
585/4 e 611/1 c.p.p., v. Cass. Sez. I, n. 853 del 27.1.1.996, Copolaro, rv.
203500), assieme ad alcuni specifici motivi coltivati dai ricorrenti, costringe
a fare il punto, sia pure in estrema sintesi, sullo status quaestionis in
materia di rifiuti conseguente all'entrata in vigore dell'art. 14 del decreto
legge 8.7.2002 n. 138, convertito in legge 8.8.2002 n. 178, che ha offerto una
interpretazione autentica della definizione di rifiuto contenuta nell'art. 6,
comma 1, lett. a) D.Lgs. 5.2.1997 n. 22. Posto che l'art. 6, recependo la
nozione del diritto comunitario, definisce come rifiuto "qualsiasi sostanza od
oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'allegato A e di cui il
detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi", la norma
interpretativa di cui al suddetto art. 14, nel primo comma, chiarisce il
concetto di "disfarsi" precisando che esso coincide con quello di attività di
"smaltimento o di recupero" indicate negli allegati B) e C) del D.Lgs. 22/1997.
Sin qui la norma sembra avere portata effettivamente interpretativa perché non
modifica, ma chiarisce in modo logico e oggettivo, la nozione di "rifiuto"
offerta dal menzionato art. 6, nonché dall'art. 1 della direttiva comunitaria n.
75/442/CEE, modificata dalla direttiva n. 91/156/CEE, di cui la disposizione
nazionale costituisce in sostanza la letterale riproduzione.
Ma a ben vedere, come ha recentemente rilevato la Corte di Giustizia europea,
una restrizione della previgente categoria di rifiuto è invece introdotta
giacché, interpretando il concetto di "disfarsi" come coincidente con quello di
smaltire o di recuperare, si esclude dalla categoria di rifiuto quella sostanza
o quel materiale di cui il detentore si disfi mediante semplice "abbandono",
posto che nella direttiva comunitaria e nel D.Lgs. 22/1997 l'abbandono è
nettamente distinto dallo smaltimento.
In sostanza, contrariamente alla norma sedicente interpretativa, ci si può
disfare di un rifiuto, non solo avviandolo allo smaltimento o al recupero, ma
anche semplicemente abbandonandolo (per il diritto nazionale v. art. 14 D.Lgs.
22/1997, su cui Cass. Sez. III, sent. n. 21024 del 5.4.2004, Eoli, rv. 229225-6;
per il diritto comunitario v. art. 4, secondo comma, direttiva 75/442/CEE, su
cui C. Giustizia, Sez. Il, 11.11.2004, causa C-457/02, Niselli, par. 38, 39 e
40).
6 - Ma - quel che più conta per la presente fattispecie - dove la norma
dell'art. 14 assume una portata più incisivamente innovativa è nel secondo
comma, il quale precisa che non ricorrono le fattispecie di "abbia deciso di
disfarsi" e di "abbia l'obbligo di disfarsi" in relazione a sostanze e materiali
residuali di produzione o di consumo che "possono essere e sono effettivamente e
oggettivamente utlizzati nel medesimo o in analogo ciclo produttivo o di
consumo": a) "senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza
recare pregiudizio all'ambiente"; ovvero b) "dopo aver subito un trattamento
preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra
quelle individuate nell'allegato C) del decreto legislativo n. 22".
Anche e soprattutto questa disposizione, secondo la generale opinione della
giurisprudenza e della dottrina, ha carattere modificativo e non interpretativo.
E infatti, secondo la definizione comunitaria letteralmente trasfusa nell'art. 6
D.Lgs. 22/1997, un residuo di produzione o di consumo di cui il detentore abbia
deciso o abbia l'obbligo di disfarsi costituisce rifiuto; ma, secondo la norma
sedicente interpretativa, esso perde tale qualità se è o può essere
oggettivamente utilizzato tal quale nel medesimo o in analogo ciclo di
produzione o di consumo, e più esattamente se è riutilizzato senza trattamenti
preventivi e senza pregiudizio all'ambiente ovvero con trattamenti preventivi
che non comportino operazioni di recupero (per esempio di prelievo, cernita,
separazione, compattamento, frantumazione, vagliatura, macinatura, che non
comportano una trasformazione merceologica dei materiali).
Nonostante qualche autorevole opinione dottrinaria in senso contrario, ritiene
il collegio che sia innegabile la restrizione della definizione comunitaria di
rifiuto operata dalla norma. Infatti, la volontà o l'obbligo di disfarsi del
materiale costituisce quest'ultimo come rifiuto secondo il diritto comunitario,
sicché il legislatore nazionale non può controqualificarlo come materia prima
solo sulla base di una attuale o potenziale riutilizzazione.
Tale del resto è la convezione della Commissione della Comunità europea, la
quale ha avviato una procedura di infrazione ai sensi dell'art. 226 del Trattato
contro lo Stato italiano, ritenendolo inadempiente al diritto comunitario per
effetto della norma interpretativa de qua. E tale è soprattutto
l'orientamento della Corte di Giustizia europea, che investita dal tribunale di
Terni in via pregiudiziale della questione sulla compatibilità comunitaria del
più volte menzionato art. 14, ha statuito che la nozione comunitaria di rifiuto,
come definita dalla direttiva 75/442, modificata dalla direttiva 91/156, non
deve essere interpretata nel senso che essa escluda l'insieme dei residui di
produzione o di consumo, vuoi in assenza di trattamento preventivo, vuoi previo
trattamento ma senza che occorra tuttavia un'operazione di recupero (sentenza
Niselli, cit.). E ciò perché la nozione di rifiuti deve essere interpretata in
senso estensivo, in ossequio al principio comunitario di limitare i danni o gli
inconvenienti derivanti dalla loro natura.
In termini affermativi, la Corte lussemburghese ha statuito che sono rifiuti
proprio tutti quelli esclusi dal secondo comma dell'art. 14, cioè i residui di
cui il detentore si è disfatto che siano riutilizzati tal quali senza
trattamento preventivo (anche se non rechino pregiudizio all'ambiente) o con
trattamento preventivo non recuperatorio.
In termini negativi, secondo la Corte, il diritto comunitario ammette di
qualificare come non rifiuti soltanto i "sottoprodotti" dei processi di
fabbricazione o di estrazione di cui il detentore non vuole disfarsi, "a
condizione che il suo riutilizzo sia certo, senza trasformazione preliminare, e
nel corso del processo di produzione". Restano comunque rifiuti i residui di
consumo, che non possono essere considerati sottoprodotti idonei a essere
riutilizzati nel corso del processo produttivo (nn. 47 e 48 della sentenza
Niselli, che cita la precedente sentenza 11.9.2003, causa C-114/01, Avesta
Polarit Chrome).
In conclusione - si ripete - il secondo comma dell'art. 14 sottrae alla
qualifica di rifiuto i residui di produzione o di consumo che invece
corrispondono alla definizione di rifiuto stabilita dall'art. 1, lett. a) della
direttiva 75/442/CEE (nn. 50 e 51 della sentenza Niselli).
7 - Resta ora da vedere quali conseguenze giuridiche discendono da questa
innegabile incompatibilità tra l'art. 14 della legge 178/2002 e la direttiva
comunitaria sui rifiuti 75/442 come modificata dalla successiva direttiva
91/156.
Al riguardo, alcune pronunce di questa Corte hanno sostenuto la necessità della
disapplicazione (rectius non applicazione) della norma nazionale in forza della
prevalenza e immediata applicabilità del diritto comunitario (Sez. III, n. 2125
del 17.1.2003, Ferretti, rv. 223291; Sez. 111, n. 14762 del 9.4.2002, Amadori,
rv. 221573; Sez. III, n. 17656 del 15.4.2003, Gonzales e altro, rv. 224716).
Un altro orientamento, che appare prevalente, sostiene invece che l'art. 14 è
vincolante per il giudice italiano giacché la direttiva comunitaria sui rifiuti
non è autoapplicativa (self-executing) in quanto necessita di atto di
recepimento da parte dello Stato nazionale (Sez. 11I, n. 4052 del 29.1.2003,
Passerotti, rv. 223532; Sez. 11I, n. 4051 del 29.1.2003, Ronco, rv. 223604; Sez.
III, 9057 del 26.2.2003, Costa, rv. 224172; Sez. III, n. 13114 del 24.3.2003,
Mortellaro, rv. 224721; Sez. I11, n. 32235 del 31.7.2003, Agogliati e altri, rv.
226156; Sez. III, n. 38567 del 19.10.2003, De Fronzo, rv. 226574).
Le succitate sentenze Ferretti e Amadori, stilate peraltro dallo stesso
relatore, riconoscono che la direttiva 75/442/CEE, come modificata dalla
direttiva 91/156/CEE, non ha efficacia diretta nell'ordinamento nazionale, ma
argomentano ugualmente la diretta applicabilità della nozione comunitaria di
rifiuti, in base al fatto che essa è stata richiamata dal regolamento
comunitario n. 259/1993, che ha indubbiamente carattere self-executing.
Ma tale singolare argomento, benché avallato da autorevole dottrina, non appare
condivisibile. Invero, il Reg. CEE del 1.2.1993 n. 259/93, "relativo alla
sorveglianza e al controllo delle spedizioni di rifiuti all'interno della
Comunità europea, nonché in entrata e in uscita dal suo territorio", all'art 2
lett. a) stabilisce che "ai sensi del presente regolamento" si intendono per
rifiuti "i rifiuti quali definiti nell'art. I lettera a) della direttiva
75/442/CEE".
Orbene, è sufficiente osservare come la norma del regolamento, che come tale è
direttamente applicabile nell'ordinamento italiano, recepisca la nozione di
rifiuto definita dalla direttiva 75/442/CEE soltanto ai fini della ristretta
materia disciplinata dal regolamento, ovverosia limitatamente alle spedizioni di
rifiuti, che a scopo di sorveglianza devono essere previamente notificate e
munite di un documento di accompagnamento. Detta nozione quindi non è
direttamente applicabile per tutte le altre materie diverse dalla spedizione dei
rifiuti. Anche la risalente sentenza della Corte di Giustizia, che in un caso ha
utilizzato questo argomento, ha limitato la immediata applicabilità della
nozione "regolamentare" alle spedizioni di rifiuti all'interno degli Stati
membri (VI Sez. del 25.6.1997, Tombesi e altri, parr. 44. 45 e 46). Non si può
quindi parlare a tale riguardo di una novazione della fonte del diritto
comunitario (da direttiva a regolamento) in senso generale e illimitato.
Inoltre, come è stato opportunamente sottolineato in dottrina, l'argomento da
una parte è stato accantonato dalla stessa Corte lussemburghese, che, chiamata a
interpretare in via pregiudiziale la nozione comunitaria di rifiuto, ha sempre
focalizzato il suo esame solo sulla direttiva 75/442, come modificata dalla
direttiva 91/156; dall'altra non è stato utilizzato neppure dalla Commissione UE
nella menzionata procedura di infrazione aperta contro lo Stato italiano, quanto
meno per informare il nostro Governo che il tentativo di restringere la nozione
di rifiuto era del tutto velleitario, attesa la immediata applicabilità
nell'ordinamento nazionale del Reg. 259/93/CEE.
8 - Un altro argomento variamente usato dai sostenitori dell'orientamento
giurisprudenziale minoritario è che in ossequio al principio della prevalenza
del diritto comunitario il giudice nazionale deve comunque dare applicazione
alle sentenze della Corte di Giustizia europea, che hanno a più riprese offerto
una interpretazione della nozione comunitaria di rifiuto contrastante con quella
risultante dall'art. 14 della legge 178/2002. In particolare devono dare
attuazione alla citata sentenza Niselli, che espressamente ha statuito la
incompatibilità comunitaria di quest'ultima norma.
Ma anche questo argomento, apparentemente convincente, non è accoglibile.
A rigore, la pronuncia della Corte di Giustizia che precisa o integra il
significato di una norma comunitaria ha la stessa efficacia di quest'ultima,
sicché la pronuncia è direttamente ed immediatamente efficace nell'ordinamento
nazionale se e in quanto lo sia anche la norma interpretata.
In tal senso è l'insegnamento costante della Corte costituzionale. Basti
ricordare la sentenza 11.7.1989 n. 389 in cui la Consulta, trattando del
principio di applicazione diretta di norme comunitarie immediatamente efficaci
nel diritto interno, ha avuto modo di precisare che "quando questo principio
viene riferito ad una norma comunitaria avente <effetti diretti> (...) non v'è
dubbio che la precisazione o l'integrazione del significato normativo compiute
attraverso una sentenza dichiarativa della Corte di Giustizia abbiano la stessa
immediata efficacia delle disposizioni interpretate".
Nei casi in cui la Corte lussemburghese ha interpretato il significato di una
norma comunitaria direttamente efficace in modo tale che una norma del diritto
nazionale risulti incompatibile con essa, il giudice nazionale non deve più
applicare la norma interna per la definizione dalla controversia al suo esame
(senza poter sollevare questione di costituzionalità: v. Corte cost. n.
94/1995).
Nei casi invece in cui la Corte lussemburghese ha interpretato una norma
comunitaria priva di efficacia diretta, il giudice italiano deve ancora
applicare la norma interna confliggente con la prima sino a quando non sollevi
l'eccezione di illegittimità costituzionale per violazione degli obblighi dello
Stato italiano di conformarsi al diritto comunitario di cui agli artt. 1.1 e 117
Cost. (è implicitamente in tal senso anche la recente sentenza n. 85/2002 Corte
cost.).
9 - Riassumendo sulla questione, si deve concludere che l'art. 14 della legge
178/2002, benché modificativo dell'art. 6 lett. a) del D.Lgs. 22/1997, è
vincolante per il giudice, in quanto introdotto con atto avente pari efficacia
legislativa della norma precedente. Inoltre, benché abbia ristretto la nozione
di rifiuto dettata dall'art. 1 della direttiva europea 75/442, come sostituito
dalla direttiva 91/156, esso non può essere disapplicato dal giudice italiano,
giacché dette direttive non sono self executing, avendo necessità di
essere (fedelmente) recepite dagli ordinamenti nazionali per diventare efficaci
verso questi ultimi. Il giudice nazionale, in caso di conflitto tra norma
comunitaria e norma interna, in forza del principio di prevalenza del diritto
comunitario, deve disapplicare (rectius non applicare) la norma interna,
ma solo quando la norma comunitaria ha diretta efficacia nell'ordinamento
nazionale, perché solo in tal caso la norma comunitaria si sostituisce
automaticamente alla norma interna.
Quando invece - come nel caso di specie - la norma comunitaria non è
direttamente efficace, perché è condizionata all'emanazione di un provvedimento
formale da parte dello Stato membro, e questo Stato abbia emanato una norma
confliggente con quella comunitaria, il giudice italiano non ha altra strada che
quella di sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna
confliggente.
Tale norma infatti si pone in contrasto:
a) con l'art. 11 Cost., laddove questo stabilisce che lo Stato italiano deve
osservare la limitazione di sovranità derivante dalla sua partecipazione a
ordinamenti internazionali, quale quello della Comunità europea;
b) nonché, ancor più esplicitamente, con il novellato art. 117 Cost., che nel
suo primo comma impone allo Stato di esercitare la sua potestà legislativa nel
rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario.
10 - In questo senso la questione di legittimità costituzionale dell'art. 14
legge 178/2002 sollevata dal procuratore generale in sede non è manifestamente
infondata.
Essa è però irrilevante nella fattispecie di cui trattasi, giacché il giudice di
merito, con adeguata motivazione esente da vizi logici o giuridici, ha escluso
la riutilizzazione certa e oggettiva dei materiali de quibus e quindi
l'applicabilità dell'anzidetto art. 14.
Invero, non v'è dubbio che i materiali provenienti da demolizioni erano stati
smaltiti nel momento in cui gli autocarri della società Agest li avevano
trasportati nel piazzale della s.r.l. Maretti Strade. Non si trattava di
operazioni di deposito temporaneo ai sensi dell'art. 6, comma 1, lett. m) del
D.Lgs. 22/1997, giacchè i materiali non erano raggruppati nel luogo di
produzione e superavano i limiti quantitativi previsti in tale norma. Si
trattava invece o di stoccaggio (deposito preliminare) o di deposito definitivo,
quindi di vero e proprio smaltimento: insomma ricorreva l'ipotesi in cui i
produttori si erano già disfatti dei materiali, non l'ipotesi in cui i
produttori intendevano riutilizzarli per la formazione di sottofondi stradali
(per escludere una siffatta intenzione un indizio incontestabile è la quantità
di materiali accumulata, che raggiungeva complessivamente circa 1800 metri
cubi).
11 - Resta così accertata la natura di rifiuti dei materiali di cui trattasi.
Sono indubbiamente tali i materiali provenienti da demolizioni, cioè ricavati
dal disfacimento di edifici o di strade.
Ma nella concreta fattispecie deve considerarsi rifiuto anche la terra da scavo,
giacché non ricorrono i requisiti successivamente richiesti dai commi 17, 18 e
19 dell'art. 1 della legge 21.12.2001 n. 443 (nel testo più favorevole agli
imputati, prima della modifica più restrittiva intervenuta con la legge
comunitaria n. 306 del 31.10.2003) per escluderla dalla categoria dei rifiuti:
cioè il requisito, implicito, della riutilizzazione in reinterri, riempimenti,
rilevati e macinati, con destinazione approvata dall'autorità ammnistrativa
competente; nonché il rispetto, verificato mediante accertamenti nel sito di
destinazione, dei limiti legali di concentrazione di inquinanti nella
composizione media della massa terrosa.
Da quest'ultima considerazione discende l'irrilevanza del secondo motivo di
ricorso coltivato dal Maretti, col quale questi ha lamentato che il giudice non
ha adeguatamente considerato la circostanza che il Poggi gli aveva preannunciato
di trasportare e depositare nel piazzale della sua ditta solo terra da scavo.
Anche la terra, infatti, per la mancanza dei requisiti suddetti, era rifiuto
(non materiale "buono", come pretende il ricorrente); e quindi il Maretti doveva
sapere che per il trasporto e lo smaltimento della medesima occorrevano apposite
autorizzazioni .
12 - Anche la colpevolezza del Poggi è stata legittimamente e motivatamente
affermata.
Egli aveva effettuato il trasporto e il deposito dei materiali, scegliendo il
sito di destinazione, assumendo così il ruolo di "gestore polivalente" - come
correttamente sottolineato dal giudice di merito: in quanto tale doveva munirsi
delle prescritte autorizzazioni.
Né poteva invocare a sua discolpa una scusabile ignoranza della legge penale di
cui all'art. 5 c.p. come modificato dalla sentenza 364/1988 della Corte
costituzionale. Essendo imprenditore nello specifico settore edilizio, egli
aveva l'obbligo di conoscere la normativa vigente sui rifiuti provenienti da
scavi e demolizioni, e non poteva certo pensare che l'incarico affidatogli dal
comune di Voghera, di rimuovere il materiale giacente presso una ex caserma, lo
esonerasse dagli obblighi che a lui incombevano in base a quella normativa.
13 - Vada ultimo notato d'ufficio che i reati sono stati commessi sino al
30.3.2000, ma che la prescrizione non è ancora maturata, giacché al periodo
prescrizionale stabilito dagli artt. 157 e 160 c.p. va aggiunto il periodo in
cui il processo è rimasto sospeso per impedimento dell'imputato o del suo
difensore, ovvero su loro richiesta, sempre che questa non sia dettata da
esigenze istruttorie o di termine a difesa (Cass. Sez. Un. n. 1021 dell'
11.1.2002, Cremonese, rv. 220509): nel caso di specie, quindi, oltre al periodo
legale di quattro anni e mezzo, va computata una sospensione processuale per
complessivi sei mesi e giorni due, con la conseguenza che la prescrizione
maturerà solo in data 1.4.2005.
14 - In conclusione, entrambi i ricorsi vanno respinti. Consegue ex art. 616
c.p.p. la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Considerato il contenuto dell'impugnazione, non si ritiene di comminare anche la
sanzione pecuniaria a favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
la Corte suprema di cassazione dichiara irrilevante la dedotta eccezione di
illegittimità costituzionale, rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti in
solido al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 4.3.2005.
1)
Presidente ZUMBO - Relatore ONORATO - Ric. MARETTI. CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. III, del 13 maggio 2005 (Ud. 04/03/2005), Sentenza n. 17836
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