Per altre sentenze vedi: Sentenze per esteso
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CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sezione III, 1° giugno 2005 (ud. 14/04/2005), Sentenza n. 20499
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sezione III,
1° giugno 2005 (ud. 14/04/2005), Sentenza n. 20499
Pres. Papadia, Rel. Amoroso - P.M. Patrono - Imp. Colli
composta dagli ill.mi signori
Magistrati:
dott. Umberto Papadia Presidente Udienza pubblica
1. dott. Carlo Grillo
2. dott. Vittorio Vangelista
3. dott. Giovanni Amoroso
4. dott. Giulio Sarno
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da Colli Felice, n. a Bellano il 29 gennaio 1961; da
Acquistapace Giuliana, n. Piantedo il 21 gennaio 1938; Manni Gianni, n. a
Morbegno il 27 dicembre 1965; Manni Mauro, n. a Sondrio il 18 giugno 1972; Manni
Matteo, n. a Morbegno il 26 novembre 1973
avverso la sentenza del 20 novembre 2003 della Corte d'appello di Milano Udita
la relazione fatta in pubblica udienza dal Consigliere Giovanni Amoroso;
Udito il P.M., in persona del S. Procuratore Generale dott. Ignazio Patrono che
ha concluso per il rigetto del ricorso;
la Corte osserva:
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con sentenza in data 27 gennaio 2003 il Tribunale ordinario di Lecco ha
condannato Acquistapace Giuliana, Manni Gianni, Manni Mauro, Manni Matteo, Colli
Felice e Mazzina Bruno, concessi a tutti - tranne che a Colli Felice - le
attenuanti generiche ed il beneficio della sospensione condizionale della pena
inflitta: il Mazzina alla pena di quattro mesi di reclusione in ordine al
delitto di cui all'art. 323, comma 1, c.p.; l'Acquistapace ed i fratelli Manni
ciascuno alla pena di quattro mesi di arresto ed euro 7.000,00 di ammenda in
ordine al reato di cui agli artt. 27, 28, 51, comma 1, lettera a), e comma 3,
d.lgs. 5 febbraio 1997 n. 22; il Colli, infine, alla pena di euro 10.000,00 di
ammenda in ordine al reato di cui agli artt. 99 c.p., 30 e 51, comma 1, lettera
a), d.lgs. n.22/97 (fatti tutti accertati in Colica - Lecco - e Piantedo -
Sondrio - il 22 gennaio 2001). In particolare al Colli era stato contestato il
trasporto di residui provenienti da un ex opificio, depositati e
progressivamente accumulati sul terreno di proprietà dell'Acquistapace e dei
Manni; ai quali era stato contestato l'attivazione su tale terreno di un'abusiva
discarica di rifiuti.
2. Hanno interposto ritualmente appello l'Acquistapace ed i fratelli Manni
tramite il loro comune difensore di fiducia chiedendo, in principalità,
l'assoluzione con formula ampia e, in subordine, la derubricazione nell'ipotesi
di cui al comma 1 della lettera a) della stessa norma incriminatrice con
conseguente riduzione della pena inflitta, nonché Mazzina Bruno tramite il suo
difensore di fiducia invocando la propria assoluzione con formula ampia.
Ha proposto appello (così convertito il ricorso per cassazione ex art.580 c.p.p.)
Colli Felice anch'egli invocando la propria assoluzione con formula ampia.
Con sentenza del 20 novembre 2003 la Corte d'appello di Milano ha confermato la
sentenza del Tribunale ordinario di Lecco in data 27 gennaio 2003 e condannato
gli appellanti Acquistapace Giuliana, Manni Gianni, Manni Mauro, Manni Matteo,
Colli Felice e Mazzina Bruno al pagamento, in via solidale tra loro, delle spese
processuali del giudizio d'appello. Inoltre ha ordinato la confisca dei mappali
nn.58-59-370 del foglio 3 del Comune di Piantedo (Sondrio), già oggetto di
sequestro giudiziario in data 18 gennaio 2001 ad opera dei Carabinieri di
Delebio (Sondrio).
3. Avverso questa pronuncia hanno proposto ricorso per cassazione sia il Colli
(con un solo motivo) che Acquistapace Giuliana, Manni Gianni, Manni Mauro e
Manni Matteo (con quattro motivi).
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Sia il ricorso del Colli (nel suo unico motivo) che quelli di Acquistapace
Giuliana, Marmi Gianni, Marmi Mauro e Marmi Matteo (con censure articolate nei
primi due motivi, sostanzialmente connessi) contestano innanzi tutto la
ricostruzione della condotta materiale quale operata dai giudici di merito.
In questa parte i ricorsi, quanto all'accertata materialità della condotta e
alla sua riferibilità agli imputati al fine dell'affermazione della loro penale
responsabilità, sono infondati.
Ha in proposito osservato la Corte d'appello che la materialità dei fatti
contestati a tutti gli imputati era emersa non soltanto dalle deposizioni
dibattimentali, ma anche dalla documentazione e dalle fotografie acquisite al
fascicolo processuale.
Sempre in linea di mero fatto, i giudici di merito hanno ritenuto che l'assunto
difensivo in ordine alla destinazione del materiale da demolizione depositato
sul terreno di Piantedo, di proprietà degli imputati Acquistapace e Marini, al
riutilizzo mediante reinterro era smentito dalla circostanza che, a seguito del
provvedimento di sequestro del terreno e dei rifiuti, il Colli, che già aveva
trasportato il materiale suddetto, aveva provveduto a trasferire in una
discarica autorizzata gran parte di tale materiale.
Inoltre ha osservato la Corte d'appello che dal verbale di sopralluogo redatto
dal Corpo Forestale dello Stato, Stazione di Delebio, sopralluogo effettuato per
delega dell'Autorità Giudiziaria di Sondrio, si ricavava che l'area in questione
era interessata da un deposito incontrollato di rifiuti costituiti per la
maggior parte da blocchi di cemento con armature, blocchi di marmo, pezzi di
tegole, terra, sassi, tubi di plastica, gomme di automezzi, pali di legno e
materiale ferroso vario; la superficie interessata era di circa mq. 900 per un
quantitativo di rifiuti di circa mc.13.000.
La Corte d'appello ha poi escluso in particolare la proclamata destinazione al
riutilizzo dei rifiuti scaricati a Piantedo e ciò sia perché il riempimento del
mappale n.60 doveva essere effettuato con terreno "da coltivo" e non con detriti
(come espressamente indicato nella concessione edilizia n.7/2000) sia perché i
lavori di realizzazione del fabbricato destinato ad attività artigianale con
soprastante appartamento erano già stati completamente ultimati in epoca
antecedente.
L'assenza di qualsiasi prova sulla destinazione al riutilizzo del materiale in
questione determinava che si trattava di rifiuti in ordine ai quali il Colli
aveva eseguito il contestato trasporto irregolare ed operazioni di cernita e di
deposito preliminare, parimenti abusive, sul terreno di Piantedo (Sondrio) di
proprietà dell'Acquistapace e dei fratelli Manni, tutti intestatari.
Con riferimento a questi ultimi il consenso da essi manifestato all'impresa
Colli Felice di depositare i rifiuti prodotti dalla loro attività economica sul
terreno di Piantedo implica una abusiva gestione industriale dei rifiuti stessi,
tipica di una discarica. Orbene, quanto all'accertamento della condotta
materiale, deve rilevarsi che tratta di una valutazione in fatto, ampiamente
motivata nella sentenza impugnata, non censurabile in sede di giudizio di
legittimità; mentre la difesa del ricorrente invoca nella sostanza una nuova
valutazione di merito che è inammissibile nel giudizio di cassazione non
ricorrendo l'ipotesi, eccezionale e residuale, della manifesta illogicità, non
senza considerare tra l'altro che la difesa del ricorrente non ha neppure
specificamente e testualmente denunciato i punti della motivazione che si
porrebbero in insanabile contrasto con altri punti della medesima pronuncia.
Infatti il vizio di motivazione di una sentenza art. 606, lett. e), c.p.p.
sussiste solo allorché essa mostri, nel suo insieme, un'intrinseca
contraddittorietà ed un'obiettiva deficienza del criterio logico che ha condotto
il giudice di merito alla formazione del proprio convincimento; ossia presuppone
che le ragioni poste a fondamento della decisione risultino sostanzialmente
contrastanti in guisa da elidersi a vicenda e da non consentire l'individuazione
della e l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto alla base
della decisione adottata.
La denunzia del vizio di motivazione non conferisce a questa Corte il potere di
riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa, ma solo quello di
controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica - in
relazione ad un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o
rilevabile d'ufficio - le argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale
spetta esclusivamente individuare le fonti del proprio convincimento, di
esaminare le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, scegliere tra
le risultanze istruttorie quelle ritenute più idonee a dimostrare i fatti in
discussione, dare la prevalenza all'uno o all'altro mezzo di prova.
2. Nei motivi suddetti (unico motivo del ricorso del Colli e primi due motivi
dei ricorsi di Acquistapace Giuliana, Manni Gianni, Manni Mauro e Manni Matteo)
i ricorrenti pongono anche una questione di diritto relativamente alla nozione
di rifiuto. Invocano l'interpretazione autentica dell'art. 6, comma 1, lett. a),
d.lgs. 5 febbraio 1997 n. 22, quale posta dall'art. 14 d.l. 8 luglio 2002 n.
138, conv. in legge 8 agosto 2002 n. 178. In particolare richiamano il secondo
comma dell'art. 14 cit. sostenendo che la nuova nozione di "rifiuto" condurrebbe
a ritenere, diversamente da quanto affermato nella sentenza impugnata, che nella
specie non si trattava di rifiuti, bensì di materiali atti al loro riutilizzo,
con destinazione corrispondente ad un oggettivo reimpiego (assentito
livellamento del terreno dove tali materiali erano depositati) senza aver subìto
nessun intervento preventivo di trattamento e senza aver recato pregiudizio
all'ambiente.
In particolare i ricorrenti invocano, a fondamento della censura mossa alla
sentenza impugnata, un precedente di questa Corte (Cass., sez. III, 25 giugno -
2 ottobre 2003, n. 37508), che, facendo applicazione della menzionata
disposizione di interpretazione autentica, ha rilevato che anche i materiali
derivanti da demolizione di edifici, reimpiegati - senza trasformazioni
preliminari - in un'attività compatibile (quale i materiali di riporto per
sottofondo di un piazzale) non assumono la nozione di rifiuto. Da ciò - secondo
la difesa dei ricorrenti - l'inesistenza del reato contestato in ragione della
sopravvenuta più favorevole normativa.
2.1. L'art. 14 cit., invocato dai ricorrenti - nel porre l'interpretazione
autentica della definizione di "rifiuto" di cui all'art. 6, comma 1, lett. a),
d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (ma secondo Cass., sez. III, 4 marzo - 13 maggio
2005, n. 17836, si tratta di una vera e propria innovazione sub specie di
interpretazione autentica) - in particolare stabilisce, al secondo comma, che
non ricorre la decisione di disfarsi, di cui alla lett. b) del primo comma della
medesima disposizione, per beni o sostanze e materiali residuali di produzione o
di consumo ove sussista una delle seguenti condizioni: a) se gli stessi possono
essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in
analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento
preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all'ambiente; b) se gli
stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel
medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito
un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di
recupero tra quelle individuate nell'allegato C del cit. d.lgs. n. 22 del 1997.
Ossia l'art. 14 cit., che al primo comma precisa in positivo la nozione di
rifiuto, delinea poi al secondo comma una fattispecie derogatoria (ossia ciò che
rifiuto non è), la quale fuoriesce quindi dall'area dell'illecito penale, con
una modalità definitoria non dissimile da quella dell'art. 1, comma 17, legge 21
dicembre 2001 n. 443; disposizione questa che, con una norma parimenti
dichiarata di interpretazione autentica, già aveva precisato che non
costituiscono rifiuti le terre e rocce da scavo, anche di gallerie.
I rilievi dei ricorrenti riguardano essenzialmente l'ambito di tale fattispecie
derogatoria del secondo comma dell'art. 14, che nella loro prospettazione
difensiva andrebbe interpretato con un'ampiezza tale da comprendere anche la
condotta materiale loro ascritta. Ed a tal fine invocano in particolare - come
già ricordato - una pronuncia di questa Corte (Cass., sez. 11I, 25 giugno - 2
ottobre 2003, n. 37508) che - sostengono i ricorrenti - conforterebbe questa
interpretazione, invece disattesa dalla Corte d'appello di Milano.
2.2. Deve a questo proposito rilevarsi che, essendo il d.lgs. n. 22 del 1997 (e
segnatamente il suo art. 6, di cui il cit. art. 14 si presenta come nonna di
interpretazione autentica) disposizione di attuazione della normativa
comunitaria in materia (la direttiva del Consiglio 15 luglio 1975 n. 75/442/Cee,
relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991
n. 91/156/Cee, nonché dalla decisione della Commissione 24 maggio 1996 n.
96/350/Ce), esso va interpretato in sintonia con tale normativa, fermo restando
- come ha ricordato da ultimo la Corte di giustizia nella pronuncia in fra
ulteriormente richiamata (sez. Il, 11 novembre 2004, C-457/02) - che "una
direttiva non può certamente creare, di per sé, obblighi a carico di un singolo
e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei confronti dello stesso";
ed "analogamente, una direttiva non può avere l'effetto, di per sé e
indipendentemente da una norma giuridica di uno Stato membro adottata per la sua
attuazione, di determinare o di aggravare la responsabilità penale di coloro che
agiscono in violazione delle sue disposizioni".
Giova allora considerare in generale che, al pari dell'interpretazione
costituzionalmente orientata, volta a privilegiare la lettura della disposizione
che non si ponga in contrasto con parametri costituzionali, sussiste
simmetricamente un'esigenza di interpretare la normativa nazionale in termini
tali che essa non risulti in contrasto con la normativa comunitaria. Ha in
particolare affermato la Corte costituzionale (sent. n. 190 del 2000) che "[...]
- come l'interpretazione conforme a Costituzione deve essere privilegiata per
evitare il vizio di incostituzionalità della norma interpretata - analogamente
l'interpretazione non contrastante con le norme comunitarie vincolanti per
l'ordinamento interno deve essere preferita, dovendosi evitare che lo Stato
italiano si ritrovi inadempiente agli obblighi comunitari."
Questa esigenza di interpretazione orientata si pone poi maggiormente allorché
la stessa Corte di giustizia abbia già valutato la conformità del diritto
nazionale a quello comunitario. In particolare la Corte costituzionale (sent. n.
389 del 1989) ha ulteriormente affermato che la Corte di giustizia, quale
interprete qualificato del diritto comunitario, «ne precisa autoritariamente il
significato»; beninteso - può aggiungersi - sempre che non operi quello che la
stessa giurisprudenza costituzionale (soprattutto dopo C. cost. n. 232 del 1989)
definisce come controlimite, ossia il blocco dei «principi fondamentali del
nostro ordinamento costituzionale» e dei «diritti inalienabili della persona
umana», tra i quali - può qui precisarsi in riferimento alle ipotesi in cui la
condotta penalmente rilevante si riempia di contenuto con una disciplina di
trasposizione della normativa comunitaria - rientra il principio
dell'irretroattività della legge penale (art. 25, secondo comma, Cost.).
2.3. In particolare nella fattispecie rileva la recente pronuncia della Corte di
giustizia (sez. II, 11 novembre 2004, C-457/02, cit.) che è stata investita
proprio della questione di compatibilità del cit. art. 14 con la normativa
comunitaria di riferimento. Orbene - in disparte i problemi di un eventuale
irriducibile contrasto dell'art. 14 cit. nella parte in cui sembrerebbe
escludere dall'area dell'illecito penale la condotta di mero abbandono dei
rifiuti e quella avente ad oggetto i residui di consumo (per i quali si
richiamano gli ampi rilievi svolti da Cass., sez. III, 4 marzo - 13 maggio 2005,
n. 17836, cit.) - quanto al secondo comma dello stesso art. 14, nella parte in
cui, individuando un'area di deroga dalla sanzionabilità penale, si riferisce ai
residui di produzione (ics est: ai "beni o sostanze e materiali residuali di
produzione"), deve considerarsi che la Corte di giustizia ha statuito (nel
dispositivo) che "La nozione di rifiuto ai sensi dell'art. 1, lett. a), 1°
comma, della direttiva 75/442, come modificata dalla direttiva 91/156 e dalla
decisione 96/350, non dev'essere interpretata nel senso che essa escluderebbe
l'insieme dei residui di produzione o di consumo che possono essere o sono
riutilizzati in un ciclo di produzione o di consumo, vuoi in assenza di
trattamento preventivo e senza arrecare danni all'ambiente, vuoi previo
trattamento ma senza che occorra tuttavia un'operazione di recupero ai sensi
dell'allegato II B di tale direttiva.". Ed ha chiarito (in motivazione) che
un'operazione di ritaglio della nozione di "rifiuto", della quale è pur sempre
necessaria comunque un'interpretazione estensiva in ragione dei principi di
precauzione e prevenzione espressi dalla normativa comunitaria in materia, è
possibile solo nei limiti in cui sia sottratta alla relativa disciplina ciò che
risulti essere un mero "sottoprodotto", del quale l'impresa non abbia intenzione
di disfarsi, non esclusione dei residui di consumo.
Quindi occorre essenzialmente distinguere tra "residuo di produzione", che è un
rifiuto, pur suscettibile di eventuale utilizzazione previa trasformazione, e
"sottoprodotto", che invece non lo è, fermo restando - come già in passato
affermato dalla stessa Corte di giustizia (sez. VI, 25 giugno 1997, C-304/94,
330/94, 342/94 e 224/95) - che la nozione di rifiuti, ai sensi degli art. I
della direttiva 75/442, nella sua versione originale, e della direttiva 78/319,
non deve intendersi nel senso che essa esclude le sostanze e gli oggetti
suscettibili di riutilizzazione economica. Ed a tal fine - precisa la Corte di
giustizia nella più recente citata decisione - in tanto è ravvisabile un
"sottoprodotto" in quanto il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una
materia prima sia non solo eventuale, ma "certo, senza previa trasformazione, ed
avvenga nel corso del processo di produzione". Al presupposto della mancanza di
pregiudizio per l'ambiente - comunque espressamente richiesto dalla lett. a) del
secondo comma dell'art. 14 cit., ma implicitamente sotteso, per una necessaria
interpretazione sistematica e complessiva della disposizione, anche nell'ipotesi
della lett. b) del medesimo comma - si aggiunge una tipizzazione del materiale
di risulta di un processo di produzione, tale da renderlo riconoscibile ex se
come "sottoprodotto". Ciò che non nuoce all'ambiente e può essere
inequivocabilmente ed immediatamente utilizzato come materia prima secondaria in
un processo produttivo si sottrae alla disciplina dei rifiuti, che non avrebbe
ragion d'essere; la quale invece trova piena applicazione in tutti i casi di
materiale di risulta che possa essere sì utilizzabile, ma solo eventualmente
ovvero "previa trasformazione"; ciò che, proprio in ragione del principio di
precauzione e prevenzione richiamato dalla Corte di giustizia, comporta
l'applicazione della disciplina di controllo dei rifiuti.
Già in precedenza la Corte di Giustizia (sez. VI, 18 aprile 2002, n. C-9/00)
aveva affermato che non vi è alcuna giustificazione per assoggettare alle
disposizioni sullo smaltimento o il recupero dei rifiuti, beni, materiali o
materie prime che dal punto di vista economico hanno valore di prodotti,
indipendentemente da qualsiasi trasformazione, e che, in quanto tali, sono
soggetti alla normativa applicabile a tali prodotti. Tuttavia - ha precisato la
Corte - occorre interpretare in maniera estensiva la nozione di rifiuto, per
limitare gli inconvenienti o i danni dovuti alla loro natura, e quindi occorre
circoscrivere la fattispecie esclusa, relativa ai "sottoprodotti", alle
situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia
prima non sia "solo eventuale, ma certo, senza trasformazione preliminare, e nel
corso del processo di produzione".
2.4. Ed allora - questo essendo lo stato della giurisprudenza comunitaria sulla
questione - si ha che anche per la normativa nazionale deve accedersi, quanto
all' ipotesi dei residui di produzione, ad un'interpretazione della fattispecie
derogatoria del secondo comma dell'art. 14 cit., orientata dall'esigenza di
conformità alla normativa comunitaria, disattendendosi all'opposto una (pur
plausibile) interpretazione estensiva di "beni o sostanze e materiali residuali
di produzione", quale rifiuto solo eventualmente riutilizzabile previa
trasformazione, perché una tale lettura dell'art. 14 cit. comporterebbe un
contrasto con la normativa comunitaria, chiaramente evidenziato dalla più
recente, e sopra citata, pronuncia della Corte di giustizia.
Ed è questa, in conclusione, la nozione restrittiva di residuo di produzione
equiparato a "sottoprodotto" che - in contrapposizione a quella di residuo di
produzione che rimane rifiuto - emerge dall'interpretazione del secondo comma
dell'art. 14 cit., orientata dall'esigenza di conformità alla disciplina
comunitaria, e che integra la fattispecie derogatoria prevista da tale
disposizione.
23. Del resto una tale interpretazione estensiva, nella sostanza invocata dai
ricorrenti, non trova neppure riscontro - dopo la sopravvenienza dell'art. 14
d.l. 8 luglio 2002 n. 138, conv. in legge 8 agosto 2002 n. 178, cit. - nella
giurisprudenza di questa Corte che, anche prima del più recente intervento della
Corte di giustizia, ha affermato il primato del diritto comunitario in materia
(Cass., sez. III, 15 gennaio - 15 aprile 2003, n. 17656) ed ha elaborato la
nozione di "sottoprodotto", ravvisabile in "situazioni in cui il riutilizzo di
un bene, di un materiale o di una materia prima non sia solo eventuale, ma
certo, senza trasformazione preliminare, e nel corso del processo di produzione"
(Cass., sez. III, 6 giugno - 31 luglio 2003, n. 32235), sempre che - ha
precisato la medesima pronuncia - "non vi sia pregiudizio all'ambiente".
Anche la pronuncia di questa Corte (Cass., sez. III, 25 giugno - 2 ottobre 2003,
n. 37508), invocata dalla difesa dei ricorrenti, ha dichiaratamente fatto
applicazione dei principi già espressi dalla precedente sentenza della Corte di
Giustizia (sez. VI, 18 aprile 2002, C-9/00, cit.). In quel giudizio si trattava
di materiale di un muro demolito che "non presentava carattere di disomogeneità,
né era mescolato a sostanze diverse", materiale che era stato reimpiegato
immediatamente in loco, senza la necessità di alcun trattamento, quale
sottofondo di un piazzale; attività questa di cui era stata ritenuta la
compatibilità ambientale e quindi l'assenza di nocività per l'ambiente. Quindi
in tanto è stata esclusa l'applicabilità della disciplina dei rifiuti, in quanto
si trattava proprio di un residuo di produzione (id est: "sottoprodotto")
inequivocabilmente ed immediatamente utilizzato come materia prima secondaria
nel processo produttivo di costruzione del piazzale, in una situazione di
verificata compatibilità ambientale.
In applicazione dei medesimi principi si è ritenuto che, all'opposto, non
rientrassero nella deroga di cui all'art. 14 cit. i pneumatici usati dei quali
il detentore si sia disfatto (Cass., sez. III, 19 gennaio - 9 febbraio 2005, n.
4702), né i residui di attività di demolizioni edili (Cass., sez. III, 12
ottobre - 1 dicembre 2004, n. 46680; Cass., sez. III, 16 gennaio - 26 febbraio
2004, n. 8424), né il residuo della lavorazione di agrumi (buccia e polpa)
quand'anche eventualmente utilizzabile come concime (Cass., sez. III, 21
settembre - 11 novembre 2004, n. 43946), né le traversine di legno dismesse
dall'ente ferroviario (Cass., sez. III, 14 aprile - 26 maggio 2004, n. 23988),
né le acque reflue di cui il detentore si disfi senza versamento diretto (Cass.,
sez. III, 11 marzo - 4 maggio 2004, n. 20679), né le acque di sentina (Cass.,
sez. III, 27 giugno -- 9 ottobre 2003, n. 38567).
Invece è stato ritenuto che rientrassero nella fattispecie derogatoria - e che
quindi costituissero residui di produzione nel senso di "sottoprodotti" - la
parte inorganica di petrolio grezzo che si concentra a seguito della diminuzione
della componente organica per la sua trasformazione in combustibili pregiati
(Cass., sez. III, 14 novembre 2003 - 3 febbraio 2004, n. 3978), le sostanze
denominate "slops" nell'industria petrolifera (Cass., sez. III, 6 giugno - 31
luglio 2003, n. 32235, cit.), il materiale di scavo e sbancamento di strade
(Cass., sez. III, 11 febbraio - 24 marzo 2003, n. 13114) e - secondo il più
volte citato precedente invocato dalla difesa dei ricorrenti - il materiale di
demolizione di un preesistente muro (Cass., sez. III, 25 giugno - 2 ottobre
2003, n. 37508, cit.).
2.6. Nella specie - una volta accolta, per le considerazioni finora esposte,
un'interpretazione restrittiva della fattispecie derogatoria di cui al secondo
comma dell'art. 14 cit. quanto ai "beni o sostanze e materiali residuali di
produzione" - deve conseguentemente escludersi - come correttamente ritenuto
dalla Corte d'appello di Milano - che possa trovare applicazione l'art. 14 cit.
non sussistendo i presupposti, sopra evidenziati, della fattispecie esclusa.
Da una parte c'è da considerare che - come già rilevato - sull'area in questione
era depositato un ammasso di blocchi di cemento con armature, blocchi di marino,
pezzi di tegole, terra, sassi, tubi di plastica, gomme di automezzi, pali di
legno e materiale ferroso vario. Si tratta quindi di un ammasso informe e
disomogeneo, di varia provenienza, che di per sé non può qualificarsi come
"sottoprodotto".
Inoltre l'impiego certo in un processo di produzione è risultato in concreto
escluso sia perché - come accertato dai giudici di merito - tale ammasso di
rifiuti è stato alla fine avviato verso una discarica autorizzata, sia perché -
in riferimento all'eventuale utilizzazione in loco come materiale di
riempimento, ipotizzata dalla difesa - la concessione edilizia assentita ai
proprietari del terreno in questione prevedeva il livellamento dello stesso
mediante l'utilizzazione di terreno da riporto, e non già di materiale inerte,
in modo da costituire un adeguato strato di terreno da coltivo.
3. Anche il terzo motivo dei ricorsi di di Acquistapace Giuliana, Manni Gianni,
Marmi Mauro e Marmi Matteo - con cui si contesta la ritenuta sussistenza degli
estremi dell'abusiva attivazione di una discarica di rifiuti - è infondato.
In punto di diritto la
Corte d'appello ha in proposito sottolineato che erano integrati gli estremi
della definizione di discarica contenuta nell'art. 2, lett. g), d.lgs. 13
gennaio 2003 n.36 dovendo per essa intendersi l'area adibita a smaltimento di
rifiuti mediante operazioni di deposito sul suolo o nel suolo, compresa la zona
interna al luogo di produzione dei rifiuti adibita allo smaltimento dei medesimi
da parte del produttore degli stessi, nonché qualsiasi area di deposito
temporaneo dei rifiuti per più di un armo.
Tale valutazione è corretta ed immune da vizio di violazione di legge.
Infatti, quanto alla nozione di discarica, deve ribadirsi quanto già affermato
da questa Corte (da ultimo Cass., Sez. III, 12 luglio - 8 settembre 2004, n.
36062) secondo cui i materiali provenienti da demolizioni edilizie costituiscono
rifiuti speciali; pertanto la destinazione di un area a centro di raccolta di
tali rifiuti e lo scarico ripetuto di essi, senza la prescritta autorizzazione,
anche in mancanza di una specifica organizzazione di persone e di mezzi, integra
il reato di realizzazione e gestione di una discarica abusiva, previsto dalla
fattispecie di cui all'art. 51, terzo comma, d.lgs. n. 22 del 1997, senza
peraltro che sia necessario il dolo specifico del fine di lucro o di guadagno.
Cfr. anche Cass., sez. III, 16 gennaio - 26 febbraio 2004, n. 8424, che ha
ribadito che i materiali provenienti da attività di demolizione o scavo
costituiscono rifiuti speciali ai sensi dell'art. 7 d.lgs. 5 febbraio 1997 n.
22; conseguentemente lo scarico degli stessi attraverso una condotta ripetuta,
anche se non abituale e protratta per lungo tempo, configura il reato di
realizzazione di discarica non autorizzata di cui all'art. 51 del citato d.lgs.
n. 22/97.
C'è poi da aggiungere che ai fini della configurabilità del reato di gestione di
discarica in difetto di autorizzazione, di cui all'art. 51 d.lgs. 5 febbraio
1997 n. 22, il concetto di gestione deve essere inteso in senso ampio, in modo
da comprendere qualsiasi contributo sia attivo che passivo diretto a realizzare
o a tollerare lo stato di fatto che costituisce reato (Cass., sez. III, 12
novembre 2003 - 8 gennaio 2004, n. 37; conti Cass., sez. III, 12 maggio - 29
luglio 1999, n. 1819).
4. E' invece fondato il quarto motivo dei ricorsi di Acquistapace Giuliana,
Manni Gianni, Manni Mauro e Manni Matteo, con cui gli stessi si dolgono della
violazione del divieto di reformatio in pejus per aver la Corte d'appello
pronunciato la confisca del terreno in questione, così riformando la pronuncia
di primo grado, in mancanza di impugnazione del pubblico ministero .
In proposito deve ricordarsi che la giurisprudenza più recente di questa Corte
(Cass., sez. IV, 25 giugno - 11 luglio 2001, n. 27998) ha affermato che, in tema
di impugnazioni, costituisce violazione del generale divieto di reformatio in
peius (art. 537, comma 3, c.p.p.) il provvedimento di confisca disposto per la
prima volta dalla Corte di appello in assenza di impugnazione del pubblico
ministero. Analogamente Cass., sez. IV, 1-30 ottobre 1999, n. 12356, ha ritenuto
che la disposizione della confisca da parte del giudice di appello in assenza di
una precedente statuizione al riguardo da parte del giudice di primo grado e di
una impugnazione del pubblico ministero, costituisce reformatio in pejus della
decisione in violazione del divieto disposto dall'art. 597 c.p.p.. Cfr. anche
Cass., sez. VI, 15 gennaio - 13 marzo 2001, n. 10353 che, in ragione del divieto
di reformatio in pejus, ha escluso che il giudice d'appello possa disporre il
sequestro in previsione della confisca obbligatoria in mancanza di impugnazione
del pubblico ministero.
Tale citata giurisprudenza - che ha superato quella più risalente di segno
opposto (Cass., sez. I, 2 luglio - 12 settembre 1998, n. 3964; Cass., sez. VI, 9
aprile - 20 settembre 1001 n. 9842) - appare maggiormente convincente perché si
ispira ad una nozione ampia, e più garantistica, del divieto di reformatio in
pejus espresso dal terzo comma dell'art. 597 c.p.p.; disposizione questa che,
nell'attuale più ampia formulazione rispetto a quella del precedente codice di
rito, ha esteso siffatta garanzia - il cui fondamento, secondo autorevole
dottrina, è quello di impedire che l'imputato appellante abbia a temere
pregiudizio per il sol fatto dell'esercizio del proprio diritto di impugnare
- anche alle misure di sicurezza in generale, quale appunto è la confisca,
risolvendo testualmente una controversa questione che si poneva nella vigenza
dell'art. 515, terzo comma, c.p.p. del 1930 che non menzionava le misure di
sicurezza. Ciò si desume anche a contrario dal secondo comma del medesimo art.
597 c.p.p. che prevede che, allorché ci sia l'appello dal pubblico ministero, il
giudice possa applicare, quando occorre, misure di sicurezza; disposizione
questa peraltro richiamata dal terzo comma dell'art. 595 c.p.p. talché è
possibile l'applicazione della misura di sicurezza anche nel caso di appello
incidentale del pubblico ministero. Quindi la garanzia del divieto di reformatio
in pejus si accompagna comunque alla possibilità per il pubblico ministero di
chiedere anche in via di impugnazione incidentale (per la cui compatibilità con
l'art. 112 Cost. v. C. cost. n. 280 del 1995) la riforma della sentenza di primo
grado quanto alla mancata applicazione di una misura di sicurezza. Ma, ove
manchi l'appello, sia principale che incidentale, del pubblico ministero il
giudice - la cui cognizione, in ragione del principio devolutivo dell'appello
(art. 597, primo comma, c.p.p.: tantum devolutum quantum appellatum), è limitata
ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti
dall'imputato, in caso di appello solo di quest'ultimo - non può, rigettando
l'appello, applicare una misura di sicurezza, neppure sub specie di correzione
di errore materiale della sentenza di primo grado.
5. Pertanto i ricorsi di di Acquistapace Giuliana, Manni Gianni, Manni Mauro e
Manni Matteo vanno accolti limitatamente al quarto motivo, relativo alla
disposta confisca, che va eliminata; nel resto i ricorsi tutti devono essere
rigettati.
PER QUESTI MOTIVI
la Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata sul punto della disposta
confisca, che elimina. Rigetta nel resto i ricorsi.
Così deciso in Roma, il 14 aprile 2005
1) Rifiuti - Interpretazione autentica della definizione di "rifiuto" – Fattispecie derogatoria - D.L.gs. n. 22/1997 - L. n. 178/2002 – L . n. 443/2001 (non costituiscono rifiuti le terre e rocce da scavo, anche di gallerie). L'art. 14 d.l. 8 luglio 2002 n. 138, conv. in legge 8 agosto 2002 n. 178, nel porre l'interpretazione autentica della definizione di "rifiuto" di cui all'art. 6, comma 1, lett. a), d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 stabilisce, al secondo comma, che non ricorre la decisione di disfarsi, di cui alla lett. b) del primo comma della medesima disposizione, per beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo ove sussista una delle seguenti condizioni: a) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all'ambiente; b) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'allegato C del cit. d.lgs. n. 22 del 1997. Ossia l'art. 14 cit., che al primo comma precisa in positivo la nozione di rifiuto, delinea poi al secondo comma una fattispecie derogatoria (ossia ciò che rifiuto non è), la quale fuoriesce quindi dall'area dell'illecito penale, con una modalità definitoria non dissimile da quella dell'art. 1, comma 17, legge 21 dicembre 2001 n. 443; disposizione questa che, con una norma parimenti dichiarata di interpretazione autentica, già aveva precisato che non costituiscono rifiuti le terre e rocce da scavo, anche di gallerie. Pres. Papadia, Rel. Amoroso - P.M. Patrono - Imp. Colli. CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sezione III, 1° giugno 2005 (ud. 14/04/2005), Sentenza n. 20499
2) Rifiuti – “Residuo di produzione” e “sottoprodotto” – Distinzione - Nozione di rifiuto - Sostanze e materie suscettibili di riutilizzazione economica – Esclusione - Principio di precauzione e prevenzione – Tutela ambientale – Trasformazione in assenza di nocività ambientale – Necessità. In tema di rifiuti, occorre essenzialmente distinguere tra "residuo di produzione", che è un rifiuto, pur suscettibile di eventuale utilizzazione previa trasformazione, e "sottoprodotto", che invece non lo è, fermo restando - come già in passato affermato dalla stessa Corte di giustizia (sez. VI, 25 giugno 1997, C-304/94, 330/94, 342/94 e 224/95) - che la nozione di rifiuti, ai sensi degli art. I della direttiva 75/442, nella sua versione originale, e della direttiva 78/319, non deve intendersi nel senso che essa esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica. Ed a tal fine - precisa la Corte di giustizia nella più recente citata decisione --- in tanto è ravvisabile un "sottoprodotto" in quanto il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima sia non solo eventuale, ma "certo, senza previa trasformazione, ed avvenga nel corso del processo di produzione". Al presupposto della mancanza di pregiudizio per l'ambiente - comunque espressamente richiesto dalla lett. a) del secondo comma dell'art. 14 cit., ma implicitamente sotteso, per una necessaria interpretazione sistematica e complessiva della disposizione, anche nell'ipotesi della lett. b) del medesimo comma - si aggiunge una tipizzazione del materiale di risulta di un processo di produzione, tale da renderlo riconoscibile ex se come "sottoprodotto". Ciò che non nuoce all'ambiente e può essere inequivocabilmente ed immediatamente utilizzato come materia prima secondaria in un processo produttivo si sottrae alla disciplina dei rifiuti, che non avrebbe ragion d'essere; la quale invece trova piena applicazione in tutti i casi di materiale di risulta che possa essere sì utilizzabile, ma solo eventualmente ovvero "previa trasformazione"; ciò che, proprio in ragione del principio di precauzione e prevenzione richiamato dalla Corte di giustizia, comporta l'applicazione della disciplina di controllo dei rifiuti. Pres. Papadia, Rel. Amoroso - P.M. Patrono - Imp. Colli. CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sezione III, 1° giugno 2005 (ud. 14/04/2005), Sentenza n. 20499
3) Rifiuti - Nozione di "sottoprodotto" – Limite - Pregiudizio all'ambiente - Primato del diritto comunitario in materia di rifiuti – Sussiste. La Corte di Giustizia, ha affermato il primato del diritto comunitario in materia di rifiuti (Cass., sez. III, 15 gennaio - 15 aprile 2003, n. 17656), ed ha elaborato la nozione di "sottoprodotto", ravvisabile in "situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia solo eventuale, ma certo, senza trasformazione preliminare, e nel corso del processo di produzione" (Cass., sez. III, 6 giugno - 31 luglio 2003, n. 32235), sempre che "non vi sia pregiudizio all'ambiente". Pres. Papadia, Rel. Amoroso - P.M. Patrono - Imp. Colli. CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sezione III, 1° giugno 2005 (ud. 14/04/2005), Sentenza n. 20499
4) Rifiuti - Art. 14 d.l. n. 138/2002, conv. in L. n. 178/2002 - Interpretazione estensiva – Esclusione se pregiudica all'ambiente. E’ da escludersi una interpretazione estensiva dell’art. 14 d.l. 8 luglio 2002 n. 138, conv. in legge 8 agosto 2002 n. 178, in caso vi sia pregiudizio all'ambiente. Pres. Papadia, Rel. Amoroso - P.M. Patrono - Imp. Colli. CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sezione III, 1° giugno 2005 (ud. 14/04/2005), Sentenza n. 20499
5) Rifiuti – Residui di produzione - "Sottoprodotti" - Deroga - L. n. 178/2002 - Casi giurisprudenziali. In materia di rifiuti, non rientrano nella deroga di cui all'art. 14 d.l. 8 luglio 2002 n. 138, conv. in legge 8 agosto 2002 n. 178, i pneumatici usati dei quali il detentore si sia disfatto (Cass., sez. III, 19 gennaio - 9 febbraio 2005, n. 4702), né i residui di attività di demolizioni edili (Cass., sez. III, 12 ottobre - 1 dicembre 2004, n. 46680; Cass., sez. III, 16 gennaio - 26 febbraio 2004, n. 8424), né il residuo della lavorazione di agrumi (buccia e polpa) quand'anche eventualmente utilizzabile come concime (Cass., sez. III, 21 settembre - 11 novembre 2004, n. 43946), né le traversine di legno dismesse dall'ente ferroviario (Cass., sez. III, 14 aprile - 26 maggio 2004, n. 23988), né le acque reflue di cui il detentore si disfi senza versamento diretto (Cass., sez. III, 11 marzo - 4 maggio 2004, n. 20679), né le acque di sentina (Cass., sez. III, 27 giugno - 9 ottobre 2003, n. 38567). Mentre, rientrano nella fattispecie derogatoria - e che quindi costituissero residui di produzione nel senso di "sottoprodotti" - la parte inorganica di petrolio grezzo che si concentra a seguito della diminuzione della componente organica per la sua trasformazione in combustibili pregiati (Cass., sez. III, 14 novembre 2003 - 3 febbraio 2004, n. 3978), le sostanze denominate "slops" nell'industria petrolifera (Cass., sez. III, 6 giugno - 31 luglio 2003, n. 32235, cit.), il materiale di scavo e sbancamento di strade (Cass., sez. III, 11 febbraio - 24 marzo 2003, n. 13114) e il materiale di demolizione di un preesistente muro (Cass., sez. III, 25 giugno - 2 ottobre 2003, n. 37508, cit.). Pres. Papadia, Rel. Amoroso - P.M. Patrono - Imp. Colli. CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sezione III, 1° giugno 2005 (ud. 14/04/2005), Sentenza n. 20499
6) Rifiuti – Gestione di discarica in difetto di autorizzazione – Configurabilità - Deposito su un'area di un ammasso informe e disomogeneo - Art. 51 d.lgs. n. 22/1997 - Sottoprodotto - Qualificazione – Esclusione. Il deposito su un'area di un ammasso di blocchi di cemento con armature, blocchi di marino, pezzi di tegole, terra, sassi, tubi di plastica, gomme di automezzi, pali di legno e materiale ferroso vario, trattandosi di un ammasso informe e disomogeneo, di varia provenienza, di per sé non può qualificarsi come "sottoprodotto", anche, nel caso, che la concessione edilizia assentita ai proprietari del terreno in questione preveda il livellamento dello stesso mediante l'utilizzazione di terreno da riporto, e non già di materiale inerte, in modo da costituire un adeguato strato di terreno da coltivo. Sicché, ai fini della configurabilità del reato di gestione di discarica in difetto di autorizzazione, di cui all'art. 51 d.lgs. 5 febbraio 1997 n. 22, il concetto di gestione deve essere inteso in senso ampio, in modo da comprendere qualsiasi contributo sia attivo che passivo diretto a realizzare o a tollerare lo stato di fatto che costituisce reato (Cass., sez. III, 12 novembre 2003 - 8 gennaio 2004, n. 37; conti Cass., sez. III, 12 maggio - 29 luglio 1999, n. 1819). Pres. Papadia, Rel. Amoroso - P.M. Patrono - Imp. Colli. CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sezione III, 1° giugno 2005 (ud. 14/04/2005), Sentenza n. 20499
7) Rifiuti – Realizzazione e gestione di una discarica abusiva - Materiali provenienti da demolizioni edilizie - Rifiuti speciali - Art. 51 d.lgs. n. 22/97 – Configurabilità – Fondamento. Intorno alla nozione di discarica, i materiali provenienti da demolizioni edilizie costituiscono rifiuti speciali (Cass., Sez. III, 12 luglio - 8 settembre 2004, n. 36062); pertanto la destinazione di un’area a centro di raccolta di tali rifiuti e lo scarico ripetuto di essi, senza la prescritta autorizzazione, anche in mancanza di una specifica organizzazione di persone e di mezzi, integra il reato di realizzazione e gestione di una discarica abusiva, previsto dalla fattispecie di cui all'art. 51, terzo comma, d.lgs. n. 22 del 1997, senza peraltro che sia necessario il dolo specifico del fine di lucro o di guadagno. Cfr. anche Cass., sez. III, 16 gennaio - 26 febbraio 2004, n. 8424, che ha ribadito che i materiali provenienti da attività di demolizione o scavo costituiscono rifiuti speciali ai sensi dell'art. 7 d.lgs. 5 febbraio 1997 n. 22; conseguentemente lo scarico degli stessi attraverso una condotta ripetuta, anche se non abituale e protratta per lungo tempo, configura il reato di realizzazione di discarica non autorizzata di cui all'art. 51 del citato d.lgs. n. 22/97. Pres. Papadia, Rel. Amoroso - P.M. Patrono - Imp. Colli. CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sezione III, 1° giugno 2005 (ud. 14/04/2005), Sentenza n. 20499
8) Rifiuti - "Sottoprodotti" - Nozione restrittiva di residuo di produzione equiparato a "sottoprodotto" - Esigenza conformità alla disciplina comunitaria – Nozione estensiva di rifiuto - Fondamento. In tema di rifiuti, non vi è alcuna giustificazione per assoggettare alle disposizioni sullo smaltimento o il recupero dei rifiuti, beni, materiali o materie prime che dal punto di vista economico hanno valore di prodotti, indipendentemente da qualsiasi trasformazione, e che, in quanto tali, sono soggetti alla normativa applicabile a tali prodotti (Corte di Giustizia sez. VI, 18 aprile 2002, n. C-9/00). Tuttavia, è stato a precisato, che occorre interpretare in maniera estensiva la nozione di rifiuto, per limitare gli inconvenienti o i danni dovuti alla loro natura, e quindi occorre circoscrivere la fattispecie esclusa, relativa ai "sottoprodotti", alle situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia "solo eventuale, ma certo, senza trasformazione preliminare, e nel corso del processo di produzione". In conclusione, la nozione restrittiva di residuo di produzione equiparato a "sottoprodotto" che - in contrapposizione a quella di residuo di produzione che rimane rifiuto - emerge dall'interpretazione del secondo comma dell'art. 14 cit., orientata dall'esigenza di conformità alla disciplina comunitaria, e che integra la fattispecie derogatoria prevista da tale disposizione. Pres. Papadia, Rel. Amoroso - P.M. Patrono - Imp. Colli. CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sezione III, 1° giugno 2005 (ud. 14/04/2005), Sentenza n. 20499
9) Procedure e varie - Provvedimento di confisca disposto dalla Corte di appello in assenza di impugnazione del pubblico ministero - Divieto di reformatio in peius - Dottrina e giurisprudenza. In tema di impugnazioni, costituisce violazione del generale divieto di reformatio in peius (art. 537, comma 3, c.p.p.) il provvedimento di confisca disposto per la prima volta dalla Corte di appello in assenza di impugnazione del pubblico ministero (Cass., sez. IV, 25 giugno - 11 luglio 2001, n. 27998). Analogamente Cass., sez. IV, 1-30 ottobre 1999, n. 12356, ha ritenuto che la disposizione della confisca da parte del giudice di appello in assenza di una precedente statuizione al riguardo da parte del giudice di primo grado e di una impugnazione del pubblico ministero, costituisce reformatio in pejus della decisione in violazione del divieto disposto dall'art. 597 c.p.p.. Cfr. anche Cass., sez. VI, 15 gennaio - 13 marzo 2001, n. 10353 che, in ragione del divieto di reformatio in pejus, ha escluso che il giudice d'appello possa disporre il sequestro in previsione della confisca obbligatoria in mancanza di impugnazione del pubblico ministero. Tale citata giurisprudenza - che ha superato quella più risalente di segno opposto (Cass., sez. I, 2 luglio - 12 settembre 1998, n. 3964; Cass., sez. VI, 9 aprile - 20 settembre 1001 n. 9842) - appare maggiormente convincente perché si ispira ad una nozione ampia, e più garantistica, del divieto di reformatio in pejus espresso dal terzo comma dell'art. 597 c.p.p.; disposizione questa che, nell'attuale più ampia formulazione rispetto a quella del precedente codice di rito, ha esteso siffatta garanzia - il cui fondamento, secondo autorevole dottrina, è quello di impedire che l'imputato appellante abbia a temere pregiudizio per il sol fatto dell'esercizio del proprio diritto di impugnare. Pres. Papadia, Rel. Amoroso - P.M. Patrono - Imp. Colli. CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sezione III, 1° giugno 2005 (ud. 14/04/2005), Sentenza n. 20499
10) Procedure e varie – Diritto comunitario - Diritti inalienabili della persona umana - Principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale - Condotta penalmente rilevante - Trasposizione della normativa comunitaria - Principio dell'irretroattività della legge penale. La Corte costituzionale (Sent. n. 389/1989) ha affermato che la Corte di Giustizia, quale interprete qualificato del diritto comunitario, «ne precisa autoritariamente il significato»; beninteso - può aggiungersi - sempre che non operi quello che la stessa giurisprudenza costituzionale (soprattutto dopo C. Cost. n. 232/1989) definisce come controlimite, ossia il blocco dei «principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale» e dei «diritti inalienabili della persona umana», tra i quali - può qui precisarsi in riferimento alle ipotesi in cui la condotta penalmente rilevante si riempia di contenuto con una disciplina di trasposizione della normativa comunitaria - rientra il principio dell'irretroattività della legge penale (art. 25, secondo comma, Cost.). Pres. Papadia, Rel. Amoroso - P.M. Patrono - Imp. Colli. CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sezione III, 1° giugno 2005 (ud. 14/04/2005), Sentenza n. 20499
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