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 Massime della sentenza

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Commento ufficiale sentenza

 

 

CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. V, 23 giugno 2005 (Ud. 26 aprile 2005) Sentenza n. 23668

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


C
ORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. V, 23 giugno 2005 (Ud. 26 aprile 2005) Sentenza n. 23668

Pres. G. Lattanzi, Rel. P. Dubolino - Imp. Giordano (annulla senza rinvio la sentenza Corte d'appello di Napoli 21 maggio 2002)


Omissis


In fatto


GIORDANO Michele, GIORDANO Angelo Rosario e GIORDANO Giambattista vennero tratti a giudizio davanti al tribunale di Napoli per rispondere (giusta quanto risulta dal testuale tenore del capo d'imputazione, riportato nell'impugnata sentenza):

- tutti:
"a) del reato p. e p. dalla lettera b) dell'art. 20 legge 1985 n. 47 e 110 c.p. per avere, nelle rispettive qualità (il primo di proprietario committente, il secondo di titolare dell'impresa esecutrice dei lavori, il terzo di progettista e direttore dei lavori), in concorso tra loro eseguito, in assenza della concessione edilizia, le seguenti opere: intervento di totale ristrutturazione edilizia di immobile preesistente con modifica degli elementi formali, tipologici, strutturali, variazioni prospettiche (vano finestre nell'unità nr. 8; trasformazione di porte in finestre nelle unità 3 e 59 e con frazionamento delle due originarie unità immoibiliari, la nr. 50 (costituita originariamente da 18 vani utili, un salone cappella, due cucine, un bagno, due latrine, due corridoi) e la n. 52 (costituita originariamente da 4,33 vani) in sei nuove unità immobiliari, a destinazione abitativa, dotate ciascuna di solai intermedi, di autonomi servizi, cucinotto e bagno), autonomi impianti con contatori separati ed ingresso autonomo. Nonchè realizzazione di altre due autonome unità immobiliari da adibire a civile abitazione, in parte costituite da un ampliamento di mq. 32,24, ricavato mediante accorpamento e e cambio di destinazione e solai intermedi costituiti da travi di ferro e tavelloni, in parte con getto di calcestruzzo già effettuato, insistente su 151 mq.;
b) del reato p. e p. dagli artt. 1,4, 11, e 59 legge 1089/39 e 110 c.p. per avere, in concorso tra loro, con le opere edili di cui al capo a), modificato l'immobile «Palazzo Montemiletto» di interesse storico artistico, senza il previo ottenimento dell'autorizzazione del Ministero per i beni e le attività culturali;
c) della contravvenzione di cui agli artt. 2,13, 4,14 legge 1086/71 e 110 c.p. perchè, in concorso tra loro, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, realizzavano le strutture in cemento armato non in base a progetto esecutivo, senza previa denuncia dei lavori al genio civile competente e senza la direzione dei lavori da parte di un tecnico competente;
reati accertati il 28.7.1998 in Napoli, al c.so Vittorio Emanuele 440/488;"

- il solo Giordano Giambattista:
"e) del reato p. e p. dall'art. 481 c.p. per avere, quale progettista abilitato, nella relazione di cui al n. 11, comma 60 art. 2 legge 662/96, allegata alla denuncia di inizio attività, effettuato dichiarazioni non veritiere in relazione al tipo di opere da realizzare «lavori di impermeabilizzazione della terrazza e manutenzione ordinaria interna dell'immobile...» consistenti in rifacimento di impianti, tramezzature, realizzazione di controsoffittature in cartongesso, ed in relazione alla conformità degli stessi «alle prescrizioni urbanistiche vigenti», ed inoltre in relazione alla inesistenza di vincoli sull'immobile «non sono vigenti particolari vincoli», attestando falsamente fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità; reato commesso in Napoli il 12.6.1997".

Con sentenza del tribunale di Napoli in data 21 maggio 2002 gl'imputati furono dichiarati responsabili dei suddetti reati e condannati alle pene ritenute di giustizia, nonché al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, in favore della costituita parte civile, proprietaria di uno degli altri appartamenti in cui era suddiviso il Palazzo Montemiletto.


Tale decisione, gravata di appello da parte degl'imputati, venne integralmente confermata, con la sentenza di cui in epigrafe, previo rigetto, con separate ordinanze, di talune eccezioni procedurali, dalla Corte d'appello di Napoli sulla base, in sintesi, delle considerazioni che seguono.


In rito:
- conformemente a quanto ritenuto dal giudice di primo grado, non appariva fondata l'eccezione di nullità del decreto di citazione a giudizio davanti al detto giudice per errata indicazione, alla stregua della modifica introdotta dalla legge n. 479/1999, del termine entro il quale sarebbe stato possibile avanzare richiesta di riti alternativi, dal momento che detto decreto era stato emesso prima della data di entrata in vigore della citata legge n. 479/1999 e nulla rilevava il fatto che la rinnovazione della sua notifica (resasi necessaria a seguito della astensione da parte del giudice originariamente designato) fosse avvenuta in epoca successiva;


- corretta appariva anche la decisione del giudice di primo grado di respingere la richiesta di esclusione della parte civile, atteso che quest'ultima trovava formale legittimazione nella rappresentata esistenza di danni all'estetica ed alla statica del palazzo, conseguenti all'esecuzione dei lavori abusivamente effettuati.


Nel merito:
- contrariamente a quanto sostenuto dagl'imputati, il Palazzo Montemiletto doveva considerarsi tutelato ai sensi della legge n. 1089/1939, indipentemente da una formale notifica, in quanto appartenente alla Curia arcivescovile di Napoli e palesemente dotato di interesse culturale intrinseco, giusta quanto desumibile dalla deposizione di funzionari della locale Sovrintendenza nonchè da due missive inviate, l'una nel 1982 all'amministrazione del condominio (in cui si dava notizia dell'avvio della procedura per la sottoposizione dell'immobile a vincolo) e l'altra del 9 dicembre 1998 a Giordano Angelo (in cui si comunicava che l'appartamento oggetto dei lavori in questioni era da considerare sottoposto a vincolo;


- i lavori effettuati non apparivano, per la loro natura ed entità, riconducibili alla nozione di "ristrutturazione edilizia" e quindi realizzabili, ai sensi dell'art. 1, comma 6, della legge n. 443/2001, anche in base a semplice denuncia di inizio dei medesimi e, d'altra parte, ai sensi del comma 27 bis (recte: 2 bis - N.d.R.) dell'art. 44 del T.U. sull'edilizia approvato con D.P.R. n. 380/2001, l'accertata non conformità dei lavori eseguiti rispetto a quelli indicati nella denuncia avrebbe comunque reso applicabile la sanzione penale;


- la responsabilità del Giordano Michele, quale committente dei lavori, nella sua qualità di cardinale arcivescovo di Napoli (essendo l'immobile "de quo" appartente alla curia arcivescovile di detta città), appariva sussistente, nonostante vi fosse una procura generale rilasciata a tale avv. Palumbo, poi deceduto, per la gestione, tra l'altro, di tutti gli immobili di proprietà della stessa curia, essenzialmente sulla base del fatto che, come riferito da alcuni testi, era stato lo stesso cardinale, in occasione di una sua visita al palazzo Montemiletto, nel rilevare lo stato di degrado dell'appartamento dopo che lo stesso era stato lasciato dalle suore che in precedenza lo occupavano, a dire, in presenza anche del nominato avv. Palumbo, che sarebbe stato necessario "riattarlo" o "riordinarlo", pur senza precisare quali lavori fossero specificamente da effettuare ed in vista di quale destinazione; elemento, questo, cui si aggiungeva l'altro costituito dal fatto che l'arcivescovo, pur dopo essere stato informato, poco dopo il 18 febbraio 1998, dell'avvenuto affidamento dei lavori alla ditta GFL, da parte del Palumbo, non aveva revocato l'incarico a quest'ultimo il quale, d'altra parte - si osserva - non avrebbe potuto decidere autonomamente l'effettuazione dei detti lavori, essendo egli incaricato solo di provvedere alla manutenzione ordinaria e straordinaria degli immobili;


- quanto alla posizione del Giordano Gianbattista, la responsabilità di costui in ordine ai reati di cui ai capi a), b), c), derivava dalla sua non contestata qualifica di direttore dei lavori, nulla rilevando la scarsa frequenza (secondo quanto riferito da tale geom. Pellone), delle sue presenze sul cantiere; in ordine, poi, al reato di cui all'art. 481 c.p., rilevava il fatto che egli aveva redatto la denuncia di inizio lavori ed i relativi allegati essendo già dall'inizio presente l'intenzione di realizzare opere diverse e, nell'attestare l'assenza di vincoli, non si era curato di effettuare i necessari, previi accertamenti presso la Sovrintendenza.

Avverso la sentenza d'appello è stato proposto ricorso per cassazione nell'interesse di tutti gli imputati.

La difesa di Giordano Angelo Rosario e Giordano Giambattista, con atto a firma dell'avv. Bruno Larosa, ha denunciato:
a) in rito, inosservanza di norme processuali e manifesta illogicità di motivazione per mancato accoglimento, da parte della corte d'appello, delle proposte eccezioni di nullità concernenti:

1) la notifica al difensore degl'imputati dell'avviso per l'udienza d'appello del 7 gennaio 2003, essendo priva, la copia notificata, della sottoscrizione dell'ufficiale giudiziario;

2) la notifica del decreto di citazione in appello di Giordano Angelo Rosario, essendo stata la stessa effettuata, a mani della moglie dell'imputato, in luogo diverso da quello a suo tempo dichiarato come domicilio;

3) la notifica dell'estratto contumaciale della sentenza di primo grado a Giordano Angelo Rosario, essendo stata questa effettuata non all'interessato, ma presso lo studio del difensore;

4) la citazione di entrambi i ricorrenti al giudizio di primo grado, per erronea indicazione, nel relativo decreto, del termine entro il quale sarebbe stato possibile avanzare richiesta di riti alternativi;

5) la costituzione di parte civile, in quanto effettuata da soggetto non titolare di alcun diritto soggettivo che potesse dirsi leso dai reati per cui si procedeva e senza la prescritta indicazione delle specifiche ragioni atte a sostenerla;


b) nel merito, inosservanza o erronea applicazione di legge penale o di altre norme giuridiche di cui doveva tenersi conto nell'applicazione della legge penale, unitamente a manifesta illogicità di motivazione:

1) in ordine alla ritenuta sussistenza del vincolo sul Palazzo Montemiletto e, più specificamente, sull'appartamento di proprietà della curia arcivescovile (non espressamente menzionato, peraltro, nel capo d'imputazione), nonostante l'assenza di formali provvedimenti della Sovrintendenza, da considerarsi, contrariamente a quanto ritenuto dalla corte d'appello, necessari anche nel caso di immobili appartenenti ad enti equiparati "ex lege" a quelli pubblici;

2) in ordine alla ritenuta sussistenza del reato di cui all'art. 481 c.p., anzitutto sotto un profilo (quello della mancata corrispondenza tra le opere indicate nella denuncia di inizio lavori e quelle effettivamente realizzate) non valutato dal giudice di primo grado, con conseguente violazione del divieto di "reformatio in pejus" e, in secondo luogo (con particolare riguardo all'attestata assenza di vincoli), sulla base soltanto di un'asserita, e peraltro inesistente, negligenza, da parte dell'imputato, nella verifica della reale esistenza di detti vincoli;

3) in ordine alla ritenuta addebitabilità al Giordano Giambattista, solo per la sua pretesa, formale qualifica di direttore dei lavori (funzione svolta, in realtà, dal geom. Pellone), della penale responsabilità per le opere asseritamente abusive indicate nel capo d'imputazione;

4) in ordine alla ritenuta sussistenza dei contestati reati edilizi, nonostante si trattasse di opere qualificabili come di "ristrutturazione" e pertanto non soggette a concessione, in base alla legge regionale n. 19 del 28 novembre 2001, poi sostanzialmente ricalcata dall'art. 6 (Recte: art. 1, comma 6, lett. C - N.d.R.) della legge statale n. 443/2001, e nonostante che l'art. 20 della legge n. 47/1985, vigente all'epoca dei fatti e richiamato nel capo d'imputazione, fosse stato abrogato a seguito dell'entrata in vigore, il 1° gennaio 2002, del T.U. sull'edilizia approvato con D.P.R.n.380/2001, potendo la sua reviviscenza (a seguito del successivo differimento dell'entrata in vigore di detto D.P.R. , con effetto dal 9 gennaio 2002), valere soltanto per il futuro;

5) in ordine alla confermata condanna degli imputati al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, nonostante l'assenza di qualsiasi prova circa l'effettiva sussistenza di detti danni;

6) in ordine alla ritenuta operatività della sospensione dei termini prescrizionali per tutto il tempo corrispondente agli intervalli tra le udienze in cui erano state accolte istanze di rinvio da parte della difesa e quelle successive, fissate a discrezione del giudice procedente.


Con motivi nuovi la stessa difesa ha poi denunciato mancanza di motivazione in ordine alla ritenuta addebitabilità al Giordano Giambattista del reato di cui all'art. 481 cod. pen.

Per Giordano Michele
-l'avv. Enrico Tuccillo ha denunciato:
1) "erronea interpretazione del combinato disposto degli artt. 1,3,4 L.1089/39 - oggi art. 5 D.lgs. 490/99, unitamente ad "omessa e manifesta illogicità della motivazione con particolare riferimento alla sussistenza del vincolo di cui alla L. 1089/39" e ad "erronea applicazione dell'art. 20 L. 47/85", sull'assunto, in sintesi, che:

a) la norma secondo cui i beni elencati all'art. 2, comma 1, lett. a) del D.L.vo n. 490/1999, ove appartenenti ad enti pubblici o legalmente riconosciuti, sono sottoposti a tutela anche se non compresi negli elenchi in possesso della Sovrintendenza andrebbe interpretata, sulla scorta anche di talune pronunce del Consiglio di Stato, non nel senso (ritenuto invece dalla corte d'appello, senza adeguata motivazione) della non necessità di un accertamento costitutivo del vincolo (nella specie mancato) da parte della Sovrintendenza, ma nel senso della sola non necessità della notifica di detto accertamento agl'interessati;

b) che, con l'entrata in vigore del T.U. sull'edilizia approvato con D.P.R. n.380/2001 non potrebbe più trovare applicazione, in quanto abrogato, l'art. 20 della legge n. 47/1985 e, trattandosi di opere comunque richiedenti la sola denuncia di inizio lavori, non potrebbe neppure trovare applicazione, in quanto disposizione successiva alla commissione dei fatti, l'art. 27 bis (in realtà, comma 2 bis dell'art. 44) del citato D.P.R. n. 380/2001, richiamato nell'impugnata sentenza;


2) mancanza e manifesta illogicità della motivazione con particolare riferimento alla "rilevanza storico-artistica intrinseca" del bene, sull'assunto, in sintesi, che detta rilevanza sarebbe stata indebitamente desunta dalle sole valutazioni soggettive di un funzionario di rango inferiore della Sovrintendenza (dott.ssa Frattolillo), non corroborate da quanto riferito dallo stesso Sovrintendente, dott. Zampino, e da altro funzionario (dott. Palladino, responsabile dell'ufficio vincoli) secondo cui il bene in questione sarebbe stato da considerare vincolato non per le sue caratteristiche intrinseche ma per il solo fatto che apparteneva alla curia vescovile:

- l'avv. Alfonso Stile ha denunciato:
1) mancanza e manifesta illogicità di motivazione, con travisamento dei fatti emergente dal testo del provvedimento impugnato, per avere la corte d'appello indebitamente ritenuto la diretta responsabilità del ricorrente in ordine all'effettuazione dei lavori in questione, nonostante l'assenza di prove a tale riguardo, non emergendo neppure dalla deposizione del geom. Pellone, richiamata in sentenza, che il detto ricorrente avesse dato alcuna preventiva indicazione circa la natura e la caratteristiche degli interventi da effettuare sull'immobile, nè potendosi desumere il fondamento dell'accusa dalla mancata revoca della procura all'avv. Palumbo, a seguito della notizia dei lavori già in atto, posto che questi, in base ai poteri a lui conferiti (dai quali era escluso solo quello di decidere l'acquisto o la vendita di immobili), ben avrebbe potuto stabilire autonomamente quali lavori fossero da fare e provvedere alla richiesta delle necessarie autorizzazioni, come segnalato espressamente nei motivi d'appello senza che, al riguardo, fosse stato fornita risposta dalla corte di merito;
2) violazione degli artt. 2 c.p. e 136, lett. f), del D.P.R. n. 380/01, per non avere la corte di merito riconosciuto l'intervenuta abrogazione, nel periodo di vigenza del citato D.P.R. tra i 1° ed il 9 gennaio 2002, dell'art. 20 della legge n. 47/1985, con conseguente impossibilità di una sua ulteriore applicazione ai fatti pregressi.


In diritto


Devesi pregiudizialmente rilevare che per tutti i reati contravvenzionali (capi a, b, c) è maturato, successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata, il termine di prescrizione massima (quattro anni e mezzo), pur tenendosi conto dei periodi di sospensione ammontanti, come già correttamente calcolato nell'impugnata sentenza, a mesi tre e giorni 23 nel corso del giudizio di primo grado ed a giorni 16 nel corso del giudizio d'appello, per un totale, quindi, di mesi quattro e giorni nove, cui vanno ulteriormente aggiunti anni uno, mesi cinque e giorni uno, corrispondente al totale delle sospensioni intervenute in questa sede, su richieste di rinvio da parte dei divensori, tra il 25 novembre 2003 e la data odierna. Ed infatti, dovendosi considerare come momento consumativo delle contravvenzioni e, quindi, come "dies a quo" della decorrenza del termine, quello dell'accertamento, indicato come avvenuto il 28 luglio 1998 - dal momento che non risulta nè dalla formulazione dei capi d'imputazione nè dal testo dell'impugnata sentenza che le attività illecite siano proseguite oltre la detta data, nè può questa Corte, quale giudice di sola legittimità, svolgere accertamenti di fatto al riguardo - i quattro anni e mezzo, con l'aggiunta dei mesi quattro e giorni nove di sospensione nelle sedi di merito e degli ulteriori anni uno, mesi cinque e giorni uno di sospensione in questa sede, risultano venuti a scadenza il 7 novembre 2004.


Ciò posto, occorre quindi verificare se sussistano o meno cause di inammissibilità dei ricorsi (la cui presenza, secondo l'ormai noto e consolidato orientamento di questa Corte) renderebbe inoperante la sopravvenuta causa di estinzione dei reati) e, in caso negativo, se sussistano le condizioni di cui all'art. 129, comma 2, c.p.p.


Con riguardo al primo di tali interrogativi, ritiene il collegio che la risposta debba essere negativa, non presentando, in effetti, i ricorsi, profili di inammissibilità nè formale nè sostanziale, pur senza dover essere, ovviamente, solo per questo ritenuti tutti fondati.


Quanto al secondo interrogativo, devesi anzitutto puntualizzare che, ad avviso del collegio, merita adesione il maggioritario orientamento della giurisprudenza di questa Corte secondo cui, come affermato, in particolare, da Cass.111, 24 aprile - 28 maggio 2002 n. 20807, PM in proc. Artico, RV 221618, "In presenza di una causa estintiva del reato, il proscioglimento nel merito, ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen., comma 2, cod. proc. pen., si impone ogni volta che sussista l'evidenza della prova di innocenza dell'imputato alla quale e' equiparata la mancanza totale della prova di responsabilita', mentre non trova applicazione nella sua assolutezza l'ulteriore equiparazione tra mancanza totale e insufficienza o contraddittorieta' della motivazione di cui all'art. 530, comma 2, cod. proc. pen. quando sussista un concorso processuale di cause di proscioglimento, poiche' altrimenti verrebbe a vanificarsi il criterio della <evidenza> posto dal legislatore per risolvere il predetto concorso" (nello stesso senso, fra le altre: Cass. III, 10 aprile - 6 giugno 2003 n. 24781, PC c. Lunardi, RV 224445; Cass. III, 19 marzo - 19 maggio 2003 n. 21994, PM in proc. Musto, RV 225443); orientamento, questo al quale, del resto, non sembra che possa neppure considerarsi del tutto, contrapposto quello espresso da Cass. II, 5 marzo - 22 aprile 2004 n. 18891, Sabatini,'RV 228635 (e, pressochè negli stessi termini, in precedenza, da Cass. V, 20 febbraio - 8 aprile 2002 n. 13170, Scibelli, RV 221257), secondo cui " Non puo' farsi luògo alla declaratoria di improcedibilita' per estinzione del reato per prescrizione, qualora in sentenza si dia atto della sussistenza dei presupposti per la pronunzia di assoluzione, sia pure ai sensi del secondo comma dell'art. 530 cod. proc. pen., atteso che, nel vigente sistema processuale, la assoluzione per insufficienza o contraddittorieta' della prova e' del tutto equiparata alla mancanza di prove e costituisce pertanto pronunzia piu' favorevole rispetto a quella di estinzione del reato". Va infatti notato come tale principio sia stato affermato con riguardo a sentenze di merito, ritenute censurabili in sede di legittimità proprio in quanto avevano applicato la prescrizione nonostante la riconosciuta insufficienza o contraddittorietà della prova a carico dell'imputato; situazione, questa, che non può evidentemente riprodursi quando sia la stessa corte di cassazione, a seguito della sopravvenuta causa di estinzione del reato, a dover decidere circa l'applicabilità o meno dell'art. 129, comma secondo, c.p.p.


Devesi quindi, in questa sede verificare soltanto, sulla esclusiva base di quanto emerge dalle sentenze di merito e dai motivi di impugnazione, se sia riconoscibile la prova positiva dell'innocenza o la totale assenza di prova della colpevolezza, rimanendo necessariamente superate, ai fini penali, le eccezioni procedurali riproposte nei motivi di ricorso, atteso che il loro eventuale accoglimento non potrebbe che dar luogo ad annullamento con rinvio al giudice penale, incompatibile, per sua natura, con la presenza della causa di estinzione del reato (ved. in tal senso, per tutte: Cass. V, 24 giugno - 7 agosto 1996 n. 7718, PM in proc. Battaglia, RV 205548; Cass. VI, 9 luglio - 25 novembre 1998 n. 12320, PM in proc. Maccan, RV 212320).


Ciò posto, devesi anzitutto riconoscere la oggettiva configurabilità, contrariamente a quanto sostenuto nei ricorsi, del reato di cui al capo a) della rubrica.


A sostegno di tale conclusione va osservato che, all'epoca dei fatti, erano ancora vigenti:
- gli artt. 31 e 48 della legge 5 agosto 1978 n. 457;
- l'art. 7 del D.L.23 gennaio 1982 n. 9, conv. con modif. in legge 25 marzo 1982 n. 94;
- la legge 28 febbraio 1985 n. 47;
- l'art. 2, comma 60, della legge 23 dicembre 1996 n. 662, contenente la nuova formulazione dell'art. 4 del D.L. 5 ottobre 1993 n. 398, conv. con modif. in legge 4 dicembre 1993 n. 493.


Alla stregua di tale normativa, è da ritenere fosse esclusa la possibilità di effettuazione, in assenza di concessione edilizia, di lavori quali quelli descritti (e, nella loro obiettiva esistenza, non contestati dalle difese) nel capo d'imputazione.


Ed infatti:
- l'art. 48 della legge 5 agosto 1978 n. 457 prevedeva che la concessione potesse essere sostituita dall'autorizzazione solo per gli "interventi di manutenzione straordinaria", quali descritti alla lett. b) del precedente art. 31, secondo cui erano da intendersi per tali "le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonchè per realizzare ed integrare i servizi igienico -sanitari e tecnologici, sempre che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di uso";


- l'art. 7 del D.L. 23 gennaio 1982 n. 9 prevedeva, per quanto qui interessa, al primo comma, l'applicabilità delle disposizioni di cui all'art. 48 della legge n. 457/1978 alle sole opere di cui alle lettere b) (quali ora descritte) e c) (interventi di restauro e di risanamento conservativo attivò) dell'art. 3 di detta legge, rimanendo quindi esclusi gli "interventi di ristrutturazione edilizia" quali descritti alla successiva lett. d) dello stesso art. 31;


- la legge 28 febbraio 1985 n. 47 nell'escludere, all'art. 26, per le "opere interne", la necessità tanto di concessione quanto di autorizzazione, richiedendo soltanto la previa presentazione di una relazione a firma di un professionista abilitato, poneva però la condizione, per quanto qui interessa, che esse non comportassero "modifiche della sagoma della costruzione, dei prospetti, nè aumento delle superfici utili e del numero delle unità immobiliari";


- l'art. 4 del D.L. 5 ottobre 1993 n. 398, quale sostituito dall'art. 1, comma 60, della legge 23 dicembre 1996 n. 662, prevedeva, al comma 7, lett. e) (quale modificata dall'art. 11 del D.L. 25 marzo 1997 n. 67, conv. con modif. in legge 23 maggio 1997 n. 135), che fossero subordinate alla sola denuncia di inizio attività le opere interne che non comportassero, tra l'altro (e per quanto qui interessa) modifiche "dei prospetti", quali invece indicate come presenti nel capo d'imputazione.


E che tale fosse la situazione normativa non risulta, del resto, contestato neppure dalle difese, essendosi, in particolare, quella dei ricorrenti Giordano Angelo Rosario e Gianbattista limitata ad invocare, come si è visto, la sopravvenuta e più favorevole disciplina dettata dall'art. 1, comma 6, della legge 21 dicembre 2001 n. 443, nella parte in cui, alla lett. b), consentiva che venissero effettuate, a scelta dell'interessato, sulla sola base della denuncia di inizio di attività, anzichè di concessione o autorizzazione, "le ristrutturazioni edilizie, comprensive della demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma".


Non ritiene, però, il collegio che la tesi difensiva possa essere accolta, nonostante che la stessa possa apparentemente trovare un qualche conforto nella sentenza di questa Corte, sez. III, 2 luglio - 4 novembre 2002 n. 36539, RV 222555, secondo cui:
"A seguito dell'entrata in vigore della legge 21 dicembre 2001 n. 443, cd legge obiettivo, la demolizione e ricostruzione di un preesistente manufatto, operata senza modifica della volumetria e della sagoma, e' subordinata, ex art. 1, comma 6, alla semplice denunzia di inizio attivita', la cui mancanza non determina alcun illecito penale".


Ad avviso del collegio l'orientamento espresso in tale pronuncia, e poi confermato anche da Cass. III, 24 gennaio - 3 marzo 2003 n. 9534, Ruga ed altro, RV 224177, non appare condivisibile, alla luce delle considerazioni che seguono.


La legge n. 443/2001 (poi superata, per quanto qui interessa, dall'entrata in vigore, il 30 giugno 2003, del T.U. sull'edilizia approvato con D.P.R. n. 380/2001, che detta, all'art. 22, una disciplina del tutto analoga), non prevedeva alcuna autonoma sanzione per il caso in cui le opere ivi descritte fossero state realizzate in assenza o in difformità della denuncia di inizio lavori, nè poteva ritenersi applicabile, per tale eventualità, la sanzione amministrativa prevista dall'art. 4, comma 13, del D.L. n. 398/1993 e successive modificazioni, riferendosi tale previsione soltanto all'ipotesi che le opere eseguite in assenza o in difformità della denuncia fossero quelle di cui al precedente comma 7, fra le quali, per quanto qui interessa, figuravano le "opere interne" ma non le "ristrutturazioni". Per analoga ragione, non poteva neppure trovare applicazione la sanzione amministrativa prevista dall'art. 10 della legge 20 febbraio 1985 n. 47 per il caso di mancata presentazione della relazione prevista per le opere di cui al successivo art. 26 della stessa legge. Parimenti da escludere era l'applicabilità delle sanzioni previste per l'effettuazione di opere in assenza o in difformità di autorizzazione, atteso che il regime autorizzatorio, come si è visto, non trovava applicazione, ai sensi dell'art. 7 del D.L. 23 gennaio 1982 n. 9, con riguardo alle ristrutturazioni. Deve quindi necessariamente concludersi che quando le opere descritte nell'art. 1, comma 6, della legge n. 443/2001 fossero soggette, "ab origine", a concessione edilizia, la loro esecuzione in assenza o in totale difformità di tale provvedimento, come pure della denuncia di inizio attività, prevista in alternativa alla concessione, non potesse che dar luogo all'illecito penale previsto dall'art. 20, lett. b), della legge n. 47/1985 (così come, oggi, nella vigenza del T.U., in analoga ipotesi, si configura l'illecito penale di cui all'art. 44, comma 2 bis, del medesimo T.U.). E, nella specie, risulta insindacabilmente accertato dal giudice di merito (e, per la verità, neppure contestato dalle difese), che vi fosse totale difformità tra le opere eseguire e quelle descritte della denuncia di inizio di attività.


Esclusa, quindi, alla stregua delle suesposte considerazioni, l'ipotesi che la condotta contestata sub a) non fosse qualificabile come reato, in quanto eventualmente sanzionabile solo in via amministrativa, va ora aggiunto che l'irrilevanza penale della medesima non potrebbe neppure farsi derivare, in applicazione dell'art. 2, secondo comma, cod. pen., dall'intervenuta abrogazione del citato art. 20 della legge n. 47/1985 per effetto dell'art. 136, comma 2, lett. f), del T.U. approvato con il D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380. La tesi difensiva, accennata nei motivi di ricorso, secondo la quale il periodo di provvisoria vigenza del citato T.U. (prima della sua definitiva entrata in vigore, a far tempo dal 30 giugno 2003), fra il 1 ° ed il 9 gennaio 2002 avrebbe definitivamente fatto venir meno la possibilità di applicare, per i fatti pregressi, la norma abrogata, è contrastata dall'ormai consolidato, difforme orientamento giurisprudenziale dal quale il collegio non vede ragione di discostarsi, secondo cui la vigenza delle norme abrogate dall'art.136 del D.P.R. n. 380/2001 è da considerare venuta meno solo a partire dalla definitiva entrata in vigore di detto D.P.R., che continua a prevedere come reato le stesse condotte già previste e punite dall'art. 20 della legge n. 47/1985 (in tal senso, fra le numerose altre: Cass. III, 15 marzo - 20 maggio 2002 n. 19378, Catalano, RV 221950; Cass. III, 20 settembre - 14 novembre 2002 n. 38182, Ameli, RV 222641; Cass. III, 3 dicembre 2002 - 28 marzo 2003 n. 14452, D'Ospina, RV 224452; Cass. III, 24 gennaio - 3 marzo 2003 n. 9534, Ruga, RV 224176; Cass. III, 20 novembre 2002 - 15 gennaio 2003 n. 1572, Alberti, 223290). Esistendo, quindi, continuità normativa tra la vecchia e la nuova disciplina, deve farsi richiamo non al secondo, ma al terzo comma dell'art. 2 cod. pen., con la conseguenza che, per i fatti pregressi, deve continuare a trovare applicazione la vecchia disciplina, in quanto più favorevole. A parità, infatti, di pena detentiva (arresto fino a due anni), la pena pecuniaria prevista dall'art. 20, lett. b), della legge n. 47/1985 andava da lire 10 milioni a lire 100 milioni ed era quindi inferiore a quella prevista dal corrispondente art. 44, comma 1, lett. b), del D.P.R. n. 380/2001, che va, attualmente (a seguito della modifica introdotta dall'art. 32, comma 47, del D.L. 30 settembre 2003 n.'269, conv. covrnodif. in legge 24 novembre 2003 n. 326), da euro 10.328 ad euro 103.290.

La configurabilità del reato è invece da escludersi, ad avviso del collegio, con riguardo all'addebito di cui al capo b). Va premesso, in proposito, che il collegio non intende dissentire dal principio affermato da Cass. III, 9 ottobre - 20 novembre 1998 n. 12003, Ferrari, RV 211977, secondo cui, nell'ipotesi in cui i beni culturali (in quel caso rappresentati dall'autodromo di Monza) "appartengano ad un ente pubblico o ad un istituto o ente morale legalmente riconosciuto, vi è l'automatica sottoposizione degli stessi al regime giuridico delle cose aventi interesse storico, architettonico, archeologico ed etnografico, indipendentemente dalla circostanza che siano stati inseriti in elenchi o che vi sia stata una formale notificazione del loro valore storico - artistico". Vi è anzi da aggiungere che tale principio conserva, allo stato, la sua validità anche con riferimento alla normativa sopravvenuta, costituita dapprima dal T.U. emanato con D.L.vo n. 490/1999 e, successivamente, dal nuovo T.U. emanato con D.L.vo n. 42/2004. Il primo di questi testi unici, infatti, all'art. 5, conteneva una disciplina del tutto analoga a quella dettata dall'art. 4 della legge n. 1089 del 1939. Il secondo, dopo aver stabilito, all'art. 10, comma 1, che "sono beni culturali le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico" qualora appartengano, tra l'altro, a "persone giuridiche private senza fine di lucro", prevede, all'art. 12, comma 1, che dette cose, se la loro esecuzione sia dovuta ad autore non vivente o risalga ad oltre cinquanta anni, "sono sottoposte alle disposizioni del presente titolo fino a quando non sia stata effettuata la verifica di cui al comma 2"; verifica che, allo stato, non risulta, almeno nel caso in esame, che sia stata effettuata. L'operatività del principio in questione postula, tuttavia - come perspicuamente fatto osservare anche dal procuratore generale nel corso della discussione - che, quando trattisi di bene immobile la cui sottoposizione a tutela, in assenza di provvedimenti vincolanti dell'autorità o dall'inserimento negli appositi elenchi, venga fatta derivare esclusivamente dall'appartenenza ad un ente pubblico (o a taluno dei soggetti ad esso, per l'effetto, equiparati), tale appartenenza si estenda all'intero complesso dotato delle oggettive caratteristiche che lo rendono degno di tutela, salvo ché queste siano riconoscibilmente presenti soltanto nella frazione di proprietà esclusiva dell'ente e, pertanto, possano e debbano essere salvaguardate senza che la salvaguardia si estenda alle altre frazioni. Sarebbe infatti assurdo che, nel caso di' proprietà frazionata di un immobile ritenuto, nel suo complesso, degno di tutela, soltanto le parti di proprietà pubblica fossero da considerare, per ciò solo, vincolate, e non le altre. Nè, peraltro, si vede come a queste ultime, potrebbe estendersi, in assenza di provvedimenti specifici dell'autorità, un vincolo ipoteticamente operante sulle prime solo in ragione della loro appartenenza a soggetti aventi determinate connotazioni. Ora, nella specie, risulta pacifico, dalla lettura dell'impugnata sentenza e dei motivi di ricorso, che la curia arcivescovile era proprietaria non dell'intero palazzo Montemiletto ma solo di un appartamento, sia pure di cospicue dimensioni, e che questo, all'atto in cui cui furono intrapresi i lavori, non figurava negli elenchi in possesso della sovrintendenza nè era stato oggetto di notifica (tale non potendosi certo considerare la nota del 1982, diretta soltanto all'amministatore del condominio e preannunciante il mero avvio della procedura di sottoposizione a vincolo). Conseguentemente è da escludere, per quanto sopra argomentato, che esso, ed esso solo, fosse da considerare sottoposto a tutela.

Passando quindi al residuo addebito contravvenzionale, rubricato sub c) (violazione della normativa sulle opera in conglomerato cementizio), ritiene il collegio sufficiente osservare che la sua oggettiva configurabilità (del resto evidente) non risulta in alcun modo contestata nei ricorsi, per cui non può, in questa sede, essere in alcun modo posta in discussione.

A questo punto può passarsi a valutare, con riguardo agli addebiti contravvenzionali rubricati sub a) e c), la posizione dei singoli imputati, onde verificare se, per taluno di essi emerga, dalla lettura della sentenza e dei motivi di ricorso, la prova evidente dell'innocenza o l'evidente, assoluta mancanza di prova della colpevolezza. Tali condizioni appaiono, anzitutto, da escludere per Giordano Angelo Rosario, la cui non contestata qualità di titolare dell'impresa esecutrice dei lavori rende ben difficilmente prospettabile (tanto che, in effetti, non può dirsi neppure prospettata), l'unica ipotesi che potrebbe scagionarlo e cioè quella che i lavori stessi fossero stati eseguiti in difformità o in assenza della sua volontà e senza che egli avesse neppure modo di rendersene conto. In proposito va anche ricordato come questa Corte abbia già più affermato che, in materia di illeciti edilizi, la penale responsabilità può estendersi anche all'esecutore delle opere abusive (in tal senso: Cass. III, 5 luglio - 9 novembre 1983 n. 9369, Ori, RV 161057; Cass. II, 13 dicembre 1983 - 12 aprile 1984 n. 3379, Cirelli, RV 163674; Cass. III, 13 maggio - 17 giugno 1997 n. 5738, Petroni, RV 208298; Cass. III, 27 aprile - 14 giugno 1999 n. 7626, Iacovelli, RV 213998).


Quanto al Giordano Giambattista l'inapplicabilità, anche per lui, dell'art. 129, comma 2, c.p.p., relativamente al reato sub a), deriva essenzialmente dalla sua, parimenti non contestata (sia pure sotto il solo profilo formale) qualità di direttore dei lavori, nulla rilevando la circostanza che, come rappresentato nel ricorso, la relativa funzione fosse, di fatto, esercitata in modo pressoché esclusivo dal geom. Pellone. La responsabilità penale del direttore dei lavori, infatti, quale si configurava, all'epoca, sulla base dell'art. 6, secondo comma, della legge 28 febbraio 1985 n. 47 (poi riprodotto nell'art. 29, comma 2, del vigente T.U. approvato con il D.P.R. n. 380/2001), non viene meno pur quando venga prospettato addirittura il "carattere meramente fittizio della prestazione" (in tal senso: Cass. III, 27 giugno - 4 ottobre 1995 n. 10131, PM in proc. Solano; Cass. III, 25 novembre 1997 - 15 gennaio 1998 n. 460, PM in proc. Positano, RV 209252).


Ad analoga conclusione deve giungersi per quanto riguarda il reato sub c), relativamente al quale non risultano proposte, del resto, specifiche censure in ordine alla loro addebitabilità, a titolo di concorso, anche al Giordano Gianbattista; addebitabilità ragionevolmente ritenuta dai giudici di merito sulla base, oltre che della già rilevata qualifica formale di direttore dei lavori attribuita all'imputato, anche della sua qualità di progettista e della sua testimonialmente accertata presenza, sia pure, sporadica, nel cantiere in cui erano in corso i lavori, della cui natura e difformità dal progetto, quindi, egli non avrebbe potuto non rendersi conto.


A diversa conclusione deve invece giungersi per quanto riguarda la posizione di Giordano Michele, la cui responsabilità, dalla lettura dell'impugnata sentenza, appare affermata nonostante una riconoscibile, assoluta carenza di prova in ordine alla ritenuta partecipazione dell'imputato alla commissione dei reati che a lui, a titolo di concorso, sono stati addebitati. Al riguardo va anzitutto ricordato che, secondo il largamente maggioritario (e condiviso dal collegio) orientamento di questa Corte, il solo fatto che taluno sia proprietario del suolo su cui venga realizzato un immobile abusivo (situazione cui appare del tutto assimilabile quella del proprietario di un edificio preesistente, sul quale vengano operati interventi abusivi), non comporta che egli possa essere automaticamente considerato corresponsabile dell'illecito da altri commesso, pur quando ne sia in ipotesi, consapevole, richiedendosi, per l'affermazione di responsabilità, che possa essergli attribuita la specifica veste di "committente" dei lavori o, quanto meno, che possa ritenersi provata una sua compartecipazione, almeno morale, secondo le ordinarie regole sul concorso di persone nel reato, alla realizzazione dell'opera abusiva, da lui conosciuta come tale (in tal senso, fra le altre: Cass. III, 20 maggio - 15 luglio 1994 n. 8096, Castellaneta, RV 199823; Cass. III, 17 novembre 1998 - 13 gennaio 1999 n. 294,Baccani, RV 212848;Cass. II, 7 - 27 settembre 2000 n. 10284, Cutaia, RV 216945; Cass. III, 3 ottobre - 14 novembre 2002 n. 38193, RV 222658; Cass. III, 22 gennaio - 7 marzo 2003 n. 10632, Di Stefano, RV 224334). Nella specie, la sussistenza di siffatte condizioni appare, come si è detto, del tutto sfornita di prova. Non può certo dirsi, infatti, che potesse bastare a far assumere al Giordano Michele la veste di "committente" dei lavori, poi specificamente individuati e realizzati (come risulta incontroverso) da altri, il solo fatto, particolarmente enfatizzato, invece, nell'impugnata sentenza, che egli, in occasione di una visita all'appartamento in questione, avendone constato lo stato di abbandono e di degrado dopo che lo stesso era stato lasciato dalle suore che, fino a qualche tempo prima, lo avevano occupato, avesse espresso la volontà che esso venisse "riattato" o "riordinato", senza la benchè minima indicazione (per quanto risulta dalla stessa sentenza impugnata) di quali dovessero essere, sia pure per sommicapi, le opere da eseguire e la successiva utilizzazione dell'immobile, dandosi per scontato che a ciò dovesse provvedere l'avv. Palumbo, quale soggetto permanente delegato alla gestione di tutto il patrimonio immobiliare della Curia arcivescovile. Nè si vede quale rilievo potesse attribuirsi (come invece si è fatto da parte della corte territoriale), al fatto che, in un momento successivo, il cardinale fosse stato informato della natura dei lavori in corso e non avesse provveduto a revocare la delega all'avv. Palumbo. A parte, infatti, la considerazione che, all'atto in cui detta informazione avrebbe avuto luogo, i lavori erano, con ogni verisimiglianza, già in gran parte eseguiti (come appare agevole desumere dalla data indicata come quella dell'accertamento degli illeciti), per cui non si vede quali iniziative, la cui omissione possa costituire 'motivo di addebito penale, il ricorrente avrebbe dovuto assumere, va poi rilevato che, in ogni caso, non risulta in alcun modo dimostrato (e, per la verità, neppure affermato) che il ricorrente, in quella o in altre occasioni, fosse stato anche informato dell'assenza delle prescritte autorizzazioni (in senso generico) alla effettuazione dei suddetti lavori; autorizzazioni che egli, d'altra parte, ben poteva ritenere che, se ed in quanto necessarie, fossero state richieste ed ottenute dall'avv. Palumbo, rientrando anche ciò, con ogni evidenza, nell'ambito dei poteri a lui conferiti. D'altra parte, nella stessa sentenza impugnata si pone in luce (pag. 21) come il cardinale, essendo stato informato, oltre che dei lavori in corso, anche dei rapporti finanziari instauratisi, a sua insaputa, tra i suoi nipoti e l'avv. Palumbo, si fosse risentito solo per questo secondo fatto. Appare, quindi, manifestamente illogico l'aver tratto argomento (come invece ha fatto la corte d'appello) dalla mancata, successiva revoca della delega all'avv. Palumbo per sostenere la tesi di una pregressa adesione del cardinale alla effettuazione dei lavori abusivi, dal momento che neppure il diverso fatto che aveva dato luogo al suo risentimento era stato, evidentemente, dallo stesso cardinale ritenuto di tale gravità da esonerare l'avv. Palumbo dal suo incarico. E, d'altra parte, anche a valutare il suddetto comportamento come adesione postuma all'illecito ormai commesso, non si vede come ciò potesse valere a dimostrare la sussistenza del concorso. Per un verso, infatti, affermandosi nell'impugnata sentenza che il cardinale sarebbe stato informato dei lavori e dei rapporti tra i nipoti e l'avv. Palumbo non da questi direttamente, ma dal segretario mons. Ardesini, non può dirsi che la mancata revoca dell'incarico dovesse necessariamente essere percepita dallo stesso avv. Palumbo come espressione di sostegno alla condotta da lui fino a quel momento posta in essere e di incoraggiamento a proseguirla per il futuro; per altro verso, non può neppure dirsi che, all'epoca, i lavori abusivi non fossero già stati completati (con conseguente, ovvia irrilevanza penale di una loro postuma approvazione, espressa o tacita che fosse, da parte del ricorrente), dal momento che nè dal capo d'imputazione nè dal testo dell'impugnata sentenza è dato desumere che, alla data dell'accertamento (28 luglio 1998) essi fossero ancora in corso. Frutto di mera e gratuita presunzione, del tutto inidonea, come tale, a costituire elemento di prova, appare infine l'affermazione, contenuta nell'impugnata sentenza (pagg.21-22) secondo cui la corresponsabilità del cardinale negli illeciti edilizi sarebbe stata desumibile dal fatto che l'avv. Palumbo, quale semplice amministratore del patrimonio immobiliare della Curia arcivescovile, non avrebbe avuto i poteri e l'autorità di ordinare lavori esulanti, come quelli in questione, dall'ambito della ordinaria e straordinaria manutenzione; E ciò anche a prescindere da quanto sostenuto nel ricorso a firma dell'avv. Stile, secondo cui la procura conferita all'avv. Palumbo escludeva soltanto l'acquisto o la vendita degli immobili e comprendeva, per converso, anche la facoltà di adire, per quanto necessario, le autorità amministrative.


In conclusione, con riguardo agli addebiti finora esaminati, l'impugnata sentenza va quindi annullata senza rinvio, relativamente al reato sub b), nei confronti di tutti i ricorrenti, perchè il fatto non sussiste; relativamente ai reati sub a) e sub c), nei confronti di Giordano Michele per non aver commesso i fatti; nei confronti di Giordano Angelo Rosario e Giordano Gianbattista, per intervenuta prescrizione.

Passando quindi all'esame del residuo addebito sub e), contestato al solo Giordano Gianbattista, va preliminarmente rilevato che esso, a differenza degli altri, non può dirsi ancora prescritto. Trattandosi infatti di delitto, punibile con pena inferiore, nel massimo, ad anni cinque di reclusione, e dovendosi considerare, oltre al termine massimo di prescrizione (anni sette e mesi sei), anche il totale dei periodi di sospensione, quale precedentemente indicato all'inizio della trattazione in diritto, la prescrizione sarebbe venuta a maturazione il 16 ottobre 1996.


Ciò premesso, ritiene il collegio che, con riguardo al reato in questione, l'impugnata sentenza vada annullata, in applicazione dell'art. 129, comma 1, c.p.p. (e quindi anche indipendentemente dalle specifiche ragioni di censura proposte nel ricorso) perchè il fatto non sussiste.


A differenza, infatti, di quanto già è stato affermato da questa Corte con riguardo alle planimetrie attestanti l'obiettivo stato dei luoghi, presentate a corredo di una pratica edilizia (Cass. V, 8 marzo - 28 aprile 2000 n. 5098, Stenico, RV 216056), ed in linea con quanto parimenti già affermato con riguardo al mero progetto di realizzazione edilizia (Cass. V, 28 giugno - 2 ottobre 1978 n. 11565, Ortenzi), deve escludersi che abbia natura di "certificato", destinato, come tale, a provare la oggettiva verità di quanto in esso affermato, la relazione allegata alla denuncia di inizio di attività edilizia, riflettendo essa, per la parte progettuale, non una realtà oggettiva ma una semplice intenzione e, per quanto riguarda l'eventuale attestazione dell'assenza di vincoli, un giudizio espresso dall'agente, non necessariamente fondato su dati di fatto certi e sicuri (che, in quanto tali, dovrebbero già essere, tuttavia, nella disponibilità della pubblica amministrazione competente), ma suscettibile di derivare soltanto - come verificatosi nella specie - da un convincimento meramente soggettivo, poco importa, ai fini penalistici, se dovuto o meno a difetto di diligenza nella effettuazione delle opportune verifiche fattuali e normative.

Restano quindi a questo punto da valutare, ai sensi dell'art. 578 c.p.p., soltanto le statuizioni civili contenute nella sentenza impugnata. Premesso che le stesse sono, ovviamente, da intendersi automaticamente caducate nei confronti di Giordano Michele e, limitatamente ai reati sub b) e sub e), anche nei confronti di Giordano Angelo Rosario e Giordano Gianbattista, ritiene anzitutto il collegio che siano infondate le questioni procedurali proposte dalla difesa di costoro. Con riguardo alla prima di esse, basata sulla denunciata nullità della notifica dell'avviso dell'udienza di primo grado al difensore dei due suddetti imputati, appare sufficiente osservare che dall'esame degli atti (legittimo e doveroso, anche in questa sede, quando venga denunciato in vizio "in procedendo"), risulta come all'udienza del 7 gennaio 2003 la corte d'appello, pur avendo respinto l'eccezione proposta dall'avv. Larosa, comparso, per sua espressa dichiarazione, al solo scopo di eccepire la suindicata nullità, rinviò poi, per altre ragioni, il dibattimento all'udienza del 23 gennaio 2003, dando quindi, di fatto, al difensore un termine per la difesa ben superiore a quello di cinque giorni previsto dall'art. 184, comma 2, c.p.p. per il caso appunto in cui la parte sia comparsa solo per far rilevare l'irregolarità della propria citazione. La dedotta nullità, di carattere, pacificamente, non assoluto, deve quindi ritenersi in ogni caso sanata per sopravvenuto difetto d'interesse.


Quanto alla seconda questione, concernente la citazione in appello di Giordano Angelo Rosario, eseguita mediante notifica del relativo decreto (come risulta dall'ordinanza della corte d'appello riportata nello stesso motivo di ricorso) alla moglie convivente dell'imputato, presso la residenza di quest'ultimo, quale accertata dall'organo notificatore dopo vari, inutili tentativi di notifica nel luogo in cui il Giordano aveva in precedenza dichiarato domicilio, appare ineccepibile, contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, il rilievo contenuto nell'impugnata sentenza secondo cui detta forma di notifica dava luogo a maggiore garanzia di effettiva conoscenza dell'atto rispetto a quella della consegna a mani del difensore, ai sensi dell'art. 161, comma 4, c.p.p. che, nella specie, avrebbe dovuto trovare applicazione e della cui inosservanza si doleva (e si duole) la difesa.


Relativamente alla terza questione, concernente l'asserita irregolarità della notifica al Giordano Angelo Rosario dell'estratto contumaciale della sentenza di primo grado, ritiene il collegio sufficiente richiamare il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui, essendo finalizzato, l'adempimento in questione, solo all'eventuale esercizio del diritto d'impugnazione, una volta che tale diritto sia stato esercitato, indifferentemente dall'imputato o dal suo difensore, con conseguente sua consumazione, nessuna doglianza può più essere validamente proposta, avendo l'atto comunque raggiunto il suo scopo (in tal senso: Cass. II, 29 settembre - 19 novembre 1997 n. 5035, D'Asaro, RV 209422; Cass. VI, 17 novembre 1998 - 28 gennaio 1999 n.1173, Sambo, RV 213441; Cass. V, 6 dicembre 2000 - 23 gennaio 2001 n. 646, Mastrangelo, RV 218852; Cass. V, 13 dicembre 2002 - 14 gennaio 2003 n. 1306, Penati, RV 223458; Cass. V, 29 aprile - 28 maggio 2003 n. 23410, Giudici ed altri, RV 225194; Cass. III, 5 giugno - 8 settembre 2003 n. 35252, Monteleone, RV 226234).


In ordine alla quarta questione, concernente l'indicazione, nel decreto di citazione a giudizio in primo grado, come termine entro il quale sarebbe stato possibile chiedere i riti alternativi, di quello originariamente previsto dall'art. 555 c.p.p. e non di quello più ampio previsto dall'art. 552 stesso codice, quale novellato dalla legge 16 dicembre 1999 n. 479, devesi riconoscere che, in difformità di quanto ritenuto dalla corte d'appello, il costante orientamento espresso da questa Corte è nel senso che siffatta indicazione, pur se conforme alla normativa vigente all'atto della emanazione del decreto di citazione, dà luogo, tuttavia, a nullità (non assoluta), qualora risulti che, all'atto della notifica del medesimo decreto, la suddetta legge fosse già entrata in vigore (ved., per tutte, in tal senso, Cass. III, 8 maggio - 17 giugno 2001 n. 26211, PM in proc. Bonvissuto, RV 219932). Non sembra che ciò basti, però, nel caso di specie, a ritenere fondata la censura in questione. Risulta infatti dallo stesso atto di ricorso che, successivamente alla prima instaurazione del giudizio di primo grado, all'atto della quale venne formulata e respinta l'eccezione in argomento, ebbe luogo una seconda instaurazione, "ex novo", del medesimo giudizio a seguito di dichiarazione di astensione del giudice originariamente designato. Vero è che anche tale seconda instaurazione si basò sulla notifica all'imputato del medesimo, originario decreto di citazione, recante ancora l'indicazione del vecchio termine per la richiesta dei riti alternativi, tanto che di ciò espressamente ci si duole da parte della difesa. Altrettanto vero è, però, che, proprio perché, all'atto della prima instaurazione del giudizio, era stata contestata dalla difesa degli imputati la validità di detta indicazione, gli stessi imputati (o che fossero presenti o che, in quanto contumaci, fossero da ritenere rappresentati a tutti gli effetti dal difensore, ex art. 420 quater c.p.p.), dovevano ormai ritenersi ben a conoscenza del fatto che il termine utile per l'eventuale richiesta di riti alternativi era quello stabilito dal novellato art. 552, comma 1, lett. f), c.p.p., per cui nulla avrebbe impedito loro di avanzarla, una volta disposta la rinnovazione del giudizio di primo, fino all'atto in cui il dibattimento fosse stato nuovamente dichiarato aperto, senza che in contrario potesse in alcun modo rilevare la reiterazione dell'errore, da essi ormai ben conosciuto come tale, nel decreto con il quale era stata rinnovata la citazione a giudizio. La mancata formulazione della suddetta richiesta assumeva quindi, a questo punto, l'inequivocabile significato di una rinuncia ad avvalersi dei riti alternativi, con conseguente operatività della sanatoria di cui all'art. 183, comma 1, lett. a), c.p.p..


Per quanto concerne, infine, la quinta ed ultima questione, relativa alla costituzione della parte civile, vale ,osservare che l'art. 78 c.p.p., nello stabilire, per quanto qui interessa, che la dichiarazione di costituzione contenga "l'esposizione delle ragioni che giustificano la domanda", non richiede certamente che risulti positivamente dimostrata, "ab origine" l'effettiva sussistenza di un danno derivante dal reato per cui si procede, ma richiede soltanto che essa sia astrattamente possibile, salva la successiva verifica da compiersi nel corso dello stesso giudizio penale o in quello civile di liquidazione. E tale condizione ben può verificarsi anche quando (come si verifica nella specie) si proceda per reati che ledono essenzialmente interessi di natura pubblicistica, non impedendo tale loro natura che essi possano aver anche prodotto a privati danni suscettibili di risarcimento quali, nella specie, sarebbero stati quelli all'estetica ed alla statica del palazzo Montemiletto lamentati dalla parte civile, nella sua qualità di proprietraria di un appartamento sito in detto Palazzo.


Nè vale, al riguardo, osservare (come si fa invece nel ricorso) che "se la concessione fosse stata richiesta e rilasciata dalla competente autorità (non vi erano controindicazioni urbanistiche) il privato non avrebbe potuto agire a tutela di alcun diritto soggettivo".


E' noto, infatti, che, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza civile di questa Corte, il rilascio della concessione edilizia, esaurendo i propri effetti nell'esclusivo ambito dei rapporti tra il richiedente e la pubblica amministrazione competente, non può in alcun modo pregiudicare gli eventuali diritti dei terzi i quali, pertanto, ben possono agire a tutela di tali diritti, quando essi risultino in concreto lesi dalla realizzazione delle opere assentite (in tal senso, fra le numerose altre: Cass. civ. 28 maggio 1984 n. 3260; Cass. civ. 14 dicembre 1994 n. 10702; Cass. civ. 14 ottobre 1998 n. 10173; Cass. Il, 13 ottobre 2000 n. 13639).


Quanto al merito della pronunciata condanna al risarcimento dei danni, ritiene il collegio sufficiente rimandare a quanto in precedenza argomentato circa la obiettiva configurabilità e l'ascrivibilità al Giordano Angelo Rosario ed al Giordano Gianbattista dei reati sub a) e c). Il fatto, poi, che la parte civile, secondo quanto sostenuto nel ricorso, non abbia provato neppure all'esito del giudizio penale l'effettiva sussistenza di danni ad essa derivati dagli illeciti ascritti agl'imputati non può valere ad escludere la legittimità di detta condanna, considerando che trattasi di condanna generica, la quale può trovare giustificazione anche nella sola accertata potenzialità degli illeciti in questione a produrre danni, fermo restando che spetterà poi all'interessato provare, nella sede competente, di averli effettivamente subiti, mancando la quale prova la domanda di risarcimento non potrà, ovviamente, che essere respinta.


P. Q. M.


la Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata, relativamente ai reati di cui ai capi b) ed e), perchè i fatti non sussistono ed ai reati di cui ai capi a) e c), nei confronti di Giordano Michele, per non aver commesso i fatti e nei confronti di Giordano Angelo Rosario e Giordano Gianbattista perché i reati sono estinti per prescrizione; rigetta il corso di questi ultimi agli effetti civili.

 

Così deciso inuma, 26 aprile 2005.
 

M A S S I M E   ^

Sentenza per esteso

1) Beni culturali e ambientali - Sottoposizione al regime giuridico delle cose aventi interesse storico - Inserimento in elenchi o notificazione formale - Necessità - Esclusione in caso di appartenenza ad un ente pubblico o ad un istituto o ente morale legalmente riconosciuto senza fine di lucro - Condizioni e limiti - Fattispecie. Nell'ipotesi in cui i beni culturali, "appartengano ad un ente pubblico o ad un istituto o ente morale legalmente riconosciuto, vi è l'automatica sottoposizione degli stessi al regime giuridico delle cose aventi interesse storico, architettonico, archeologico ed etnografico, indipendentemente dalla circostanza che siano stati inseriti in elenchi o che vi sia stata una formale notificazione del loro valore storico - artistico" Cass. III, 9 ottobre - 20 novembre 1998 n. 12003, Ferrari, RV 211977. Vi è anzi da aggiungere che tale principio conserva, allo stato, la sua validità anche con riferimento alla normativa sopravvenuta, costituita dapprima dal T.U. emanato con D.L.vo n. 490/1999 e, successivamente, dal nuovo T.U. emanato con D.L.vo n. 42/2004. Il primo di questi testi unici, infatti, all'art. 5, conteneva una disciplina del tutto analoga a quella dettata dall'art. 4 della legge n. 1089 del 1939. Il secondo, dopo aver stabilito, all'art. 10, comma 1, che "sono beni culturali le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico" qualora appartengano, tra l'altro, a "persone giuridiche private senza fine di lucro", prevede, all'art. 12, comma 1, che dette cose, se la loro esecuzione sia dovuta ad autore non vivente o risalga ad oltre cinquanta anni, "sono sottoposte alle disposizioni del presente titolo fino a quando non sia stata effettuata la verifica di cui al comma 2". L'operatività del principio in questione postula, tuttavia - come perspicuamente fatto osservare anche dal procuratore generale nel corso della discussione - che, quando trattisi di bene immobile la cui sottoposizione a tutela, in assenza di provvedimenti vincolanti dell'autorità o dall'inserimento negli appositi elenchi, venga fatta derivare esclusivamente dall'appartenenza ad un ente pubblico (o a taluno dei soggetti ad esso, per l'effetto, equiparati), tale appartenenza si estenda all'intero complesso dotato delle oggettive caratteristiche che lo rendono degno di tutela, salvo ché queste siano riconoscibilmente presenti soltanto nella frazione di proprietà esclusiva dell'ente e, pertanto, possano e debbano essere salvaguardate senza che la salvaguardia si estenda alle altre frazioni. Sarebbe infatti assurdo che, nel caso di proprietà frazionata di un immobile ritenuto, nel suo complesso, degno di tutela, soltanto le parti di proprietà pubblica fossero da considerare, per ciò solo, vincolate, e non le altre. Nè, peraltro, si vede come a queste ultime, potrebbe estendersi, in assenza di provvedimenti specifici dell'autorità, un vincolo ipoteticamente operante sulle prime solo in ragione della loro appartenenza a soggetti aventi determinate connotazioni. Pres. G. Lattanzi, Rel. P. Dubolino - Imp. GIORDANO (annulla senza rinvio la sentenza Corte d'appello di Napoli 21 maggio 2002). CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. V, 23 giugno 2005 (Ud. 26 aprile 2005) Sentenza n. 23668

2) Urbanistica e edilizia - Art.136 del D.P.R. n. 380/2001 - Continuità normativa tra la vecchia e la nuova disciplina - Art. 2 c.3 c.p. - Fatti pregressi - Disciplina applicabile più favorevole. La vigenza delle norme abrogate dall'art.136 del D.P.R. n. 380/2001 è da considerare venuta meno solo a partire dalla definitiva entrata in vigore di detto D.P.R., che continua a prevedere come reato le stesse condotte già previste e punite dall'art. 20 della legge n. 47/1985 (in tal senso, fra le numerose altre: Cass. III, 15 marzo - 20 maggio 2002 n. 19378, Catalano, RV 221950; Cass. III, 20 settembre - 14 novembre 2002 n. 38182, Ameli, RV 222641; Cass. III, 3 dicembre 2002 - 28 marzo 2003 n. 14452, D'Ospina, RV 224452; Cass. III, 24 gennaio - 3 marzo 2003 n. 9534, Ruga, RV 224176; Cass. III, 20 novembre 2002 - 15 gennaio 2003 n. 1572, Alberti, 223290). Esistendo, quindi, continuità normativa tra la vecchia e la nuova disciplina, deve farsi richiamo non al secondo, ma al terzo comma dell'art. 2 cod. pen., con la conseguenza che, per i fatti pregressi, deve continuare a trovare applicazione la vecchia disciplina, in quanto più favorevole. Pres. G. Lattanzi, Rel. P. Dubolino - Imp. GIORDANO (annulla senza rinvio la sentenza Corte d'appello di Napoli 21 maggio 2002). CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. V, 23 giugno 2005 (Ud. 26 aprile 2005) Sentenza n. 23668

3) Urbanistica e edilizia - Illeciti edilizi - Esecutore delle opere abusive - Responsabilità penale. In materia di illeciti edilizi, la penale responsabilità può estendersi anche all'esecutore delle opere abusive (in tal senso: Cass. III, 5 luglio - 9 novembre 1983 n. 9369, Ori, RV 161057; Cass. II, 13 dicembre 1983 - 12 aprile 1984 n. 3379, Cirelli, RV 163674; Cass. III, 13 maggio - 17 giugno 1997 n. 5738, Petroni, RV 208298; Cass. III, 27 aprile - 14 giugno 1999 n. 7626, Iacovelli, RV 213998). Pres. G. Lattanzi, Rel. P. Dubolino - Imp. GIORDANO (annulla senza rinvio la sentenza Corte d'appello di Napoli 21 maggio 2002). CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. V, 23 giugno 2005 (Ud. 26 aprile 2005) Sentenza n. 23668

4) Urbanistica e edilizia - Reati urbanistici - Immobile abusivo - Illecito commesso da altri - Proprietario del suolo - Responsabilità - Limiti - Presupposti. In materia di illeciti urbanistici, il solo fatto che taluno sia proprietario del suolo su cui venga realizzato un immobile abusivo (situazione cui appare del tutto assimilabile quella del proprietario di un edificio preesistente, sul quale vengano operati interventi abusivi), non comporta che egli possa essere automaticamente considerato corresponsabile dell'illecito da altri commesso, pur quando ne sia in ipotesi, consapevole, richiedendosi, per l'affermazione di responsabilità, che possa essergli attribuita la specifica veste di "committente" dei lavori o, quanto meno, che possa ritenersi provata una sua compartecipazione, almeno morale, secondo le ordinarie regole sul concorso di persone nel reato, alla realizzazione dell'opera abusiva, da lui conosciuta come tale (in tal senso: Cass. III, 20 maggio - 15 luglio 1994 n. 8096, Castellaneta, RV 199823; Cass. III, 17 novembre 1998 - 13 gennaio 1999 n. 294,Baccani, RV 212848;Cass. II, 7 - 27 settembre 2000 n. 10284, Cutaia, RV 216945; Cass. III, 3 ottobre - 14 novembre 2002 n. 38193, RV 222658; Cass. III, 22 gennaio - 7 marzo 2003 n. 10632, Di Stefano, RV 224334). Pres. G. Lattanzi, Rel. P. Dubolino - Imp. GIORDANO (annulla senza rinvio la sentenza Corte d'appello di Napoli 21 maggio 2002). CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. V, 23 giugno 2005 (Ud. 26 aprile 2005) Sentenza n. 23668

5) Urbanistica e edilizia - Planimetrie attestanti l'obiettivo stato dei luoghi presentate a corredo di una pratica edilizia - Natura di "certificato" - Esclusione - D.I.A. - Falsità delle planimetrie - Giurisprudenza. In materia urbanistica, le planimetrie attestanti l'obiettivo stato dei luoghi, presentate a corredo di una pratica edilizia (Cass. V, 8 marzo - 28 aprile 2000 n. 5098, Stenico, RV 216056), ed in linea con quanto parimenti già affermato con riguardo al mero progetto di realizzazione edilizia (Cass. V, 28 giugno - 2 ottobre 1978 n. 11565, Ortenzi), deve escludersi che abbia natura di "certificato", destinato, come tale, a provare la oggettiva verità di quanto in esso affermato, la relazione allegata alla denuncia di inizio di attività edilizia, riflettendo essa, per la parte progettuale, non una realtà oggettiva ma una semplice intenzione e, per quanto riguarda l'eventuale attestazione dell'assenza di vincoli, un giudizio espresso dall'agente, non necessariamente fondato su dati di fatto certi e sicuri (che, in quanto tali, dovrebbero già essere, tuttavia, nella disponibilità della pubblica amministrazione competente), ma suscettibile di derivare soltanto - come verificatosi nella specie - da un convincimento meramente soggettivo, poco importa, ai fini penalistici, se dovuto o meno a difetto di diligenza nella effettuazione delle opportune verifiche fattuali e normative. (In controtendenza rispetto all’orientamento giurisprudenziale prevalente che qualifica invece come reato ex art. 481 cod. pen. la falsità delle planimetrie presentate a corredo della richiesta di certificazioni o autorizzazioni, redatte, secondo le vigenti disposizioni, dall'esercente una professione necessitante speciale autorizzazione dello Stato. Secondo tale indirizzo esse hanno natura di certificato, poichè assolvono la funzione di dare alla pubblica amministrazione una esatta informazione dello stato dei luoghi), (Cass. sez. V, 8 marzo 2000, Scenico ed altro, rv 216056). Pres. G. Lattanzi, Rel. P. Dubolino - Imp. GIORDANO (annulla senza rinvio la sentenza Corte d'appello di Napoli 21 maggio 2002). CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. V, 23 giugno 2005 (Ud. 26 aprile 2005) Sentenza n. 23668

6) Urbanistica e edilizia - Concessione edilizia - Rapporti tra richiedente e pubblica amministrazione - Tutela dei diritti dei terzi lesi dalla realizzazione delle opere assentite - Pregiudizio - Esclusione. Il rilascio della concessione edilizia, esaurendo i propri effetti nell'esclusivo ambito dei rapporti tra il richiedente e la pubblica amministrazione competente, non può in alcun modo pregiudicare gli eventuali diritti dei terzi i quali, pertanto, ben possono agire a tutela di tali diritti, quando essi risultino in concreto lesi dalla realizzazione delle opere assentite (in tal senso: Cass. civ. 28 maggio 1984 n. 3260; Cass. civ. 14 dicembre 1994 n. 10702; Cass. civ. 14 ottobre 1998 n. 10173; Cass. Il, 13 ottobre 2000 n. 13639). Pres. G. Lattanzi, Rel. P. Dubolino - Imp. GIORDANO (annulla senza rinvio la sentenza Corte d'appello di Napoli 21 maggio 2002). CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. V, 23 giugno 2005 (Ud. 26 aprile 2005) Sentenza n. 23668

7) Procedure e varie - Notifica dell'estratto contumaciale della sentenza di primo grado - Irregolarità - Esercizio del diritto d'impugnazione - Sanatoria dell’atto irregolare. L'irregolarità della notifica dell'estratto contumaciale della sentenza di primo grado, essendo finalizzato, l'adempimento in questione, solo all'eventuale esercizio del diritto d'impugnazione, una volta che tale diritto sia stato esercitato, indifferentemente dall'imputato o dal suo difensore, con conseguente sua consumazione, nessuna doglianza può più essere validamente proposta, avendo l'atto comunque raggiunto il suo scopo (in tal senso: Cass. II, 29 settembre - 19 novembre 1997 n. 5035, D'Asaro, RV 209422; Cass. VI, 17 novembre 1998 - 28 gennaio 1999 n.1173, Sambo, RV 213441; Cass. V, 6 dicembre 2000 - 23 gennaio 2001 n. 646, Mastrangelo, RV 218852; Cass. V, 13 dicembre 2002 - 14 gennaio 2003 n. 1306, Penati, RV 223458; Cass. V, 29 aprile - 28 maggio 2003 n. 23410, Giudici ed altri, RV 225194; Cass. III, 5 giugno - 8 settembre 2003 n. 35252, Monteleone, RV 226234). Pres. G. Lattanzi, Rel. P. Dubolino - Imp. GIORDANO (annulla senza rinvio la sentenza Corte d'appello di Napoli 21 maggio 2002). CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. V, 23 giugno 2005 (Ud. 26 aprile 2005) Sentenza n. 23668

8) Procedure e varie - causa estintiva del reato - proscioglimento nel merito - concorso processuale di cause di proscioglimento - estinzione del reato per prescrizione - presupposti per la pronunzia di assoluzione - declaratoria di improcedibilità - Esclusione. In presenza di una causa estintiva del reato, il proscioglimento nel merito, ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen., comma 2, cod. proc. pen., si impone ogni volta che sussista l'evidenza della prova di innocenza dell'imputato alla quale e' equiparata la mancanza totale della prova di responsabilità, mentre non trova applicazione nella sua assolutezza l'ulteriore equiparazione tra mancanza totale e insufficienza o contraddittorietà della motivazione di cui all'art. 530, comma 2, cod. proc. pen. quando sussista un concorso processuale di cause di proscioglimento, poiche' altrimenti verrebbe a vanificarsi il criterio della <evidenza> posto dal legislatore per risolvere il predetto concorso (Cass.111, 24 aprile - 28 maggio 2002 n. 20807, PM in proc. Artico, RV 221618), (nello stesso senso, fra le altre: Cass. III, 10 aprile - 6 giugno 2003 n. 24781, PC c. Lunardi, RV 224445; Cass. III, 19 marzo - 19 maggio 2003 n. 21994, PM in proc. Musto, RV 225443); orientamento, questo al quale, non sembra che possa neppure considerarsi del tutto, contrapposto quello espresso da Cass. II, 5 marzo - 22 aprile 2004 n. 18891, Sabatini,'RV 228635 (e, pressochè negli stessi termini, in precedenza, da Cass. V, 20 febbraio - 8 aprile 2002 n. 13170, Scibelli, RV 221257), secondo cui " Non può farsi luogo alla declaratoria di improcedibilità per estinzione del reato per prescrizione, qualora in sentenza si dia atto della sussistenza dei presupposti per la pronunzia di assoluzione, sia pure ai sensi del secondo comma dell'art. 530 cod. proc. pen., atteso che, nel vigente sistema processuale, la assoluzione per insufficienza o contraddittorietà della prova e' del tutto equiparata alla mancanza di prove e costituisce pertanto pronunzia più favorevole rispetto a quella di estinzione del reato". Va infatti notato come tale principio sia stato affermato con riguardo a sentenze di merito, ritenute censurabili in sede di legittimità proprio in quanto avevano applicato la prescrizione nonostante la riconosciuta insufficienza o contraddittorietà della prova a carico dell'imputato; situazione, questa, che non può evidentemente riprodursi quando sia la stessa corte di cassazione, a seguito della sopravvenuta causa di estinzione del reato, a dover decidere circa l'applicabilità o meno dell'art. 129, comma secondo, c.p.p.. Presidente G. Lattanzi, Relatore P. Dubolino - Imp. GIORDANO (annulla senza rinvio la sentenza Corte d'appello di Napoli 21 maggio 2002). CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. V, 23 giugno 2005 (Ud. 26 aprile 2005) Sentenza n. 23668
 

COMMENTO UFFICIALE SENTENZA   ^

 

CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. V, 23 giugno 2005 (Ud. 26 aprile 2005) Sentenza n. 23668

Presidente G. Lattanzi, Relatore P. Dubolino - Imp. GIORDANO (annulla senza rinvio la sentenza Corte d'appello di Napoli 21 maggio 2002).

 


EDILIZIA - RISTRUTTURAZIONE EDILIZIA CON MODIFICA DEI PROSPETTI - CONCESSIONE- NECESSITA’ - INCIDENZA DELLE NUOVE DISPOSIZIONI DI CUI ALLA LEGGE N. 443 DEL 2001- ESCLUSIONE.

La sentenza in commento enuclea una serie di importanti e talora inediti principi, nella applicazione della congerie di norme succedutesi sul tema delle ristrutturazioni edilizie, e segnatamente delle opere realizzate in totale difformità dalla denuncia di inizio di attività (DIA), presentata con riferimento ad un appartamento di proprietà di un ente morale legalmente riconosciuto, ubicato in un immobile di interesse architettonico, non inserito però negli elenchi della Soprintendenza.

Il primo principio è quello dei limiti di operatività della disciplina dettata dall’art. 1 comma 6 l. 21 dicembre 2001, n. 443 (superato dall’art. 22 d. P.R. n. 380 del 2001), per effetto della quale è consentita la realizzazione, previa semplice denuncia di inizio di attività in alternativa a concessioni e autorizzazioni edilizie, a scelta dell’interessato, delle ristrutturazioni comprensive di demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma. La Corte ha ritenuto che quando tali opere di ristrutturazione comportino la “modificazione dei prospetti” (ad esempio per apertura di nuove finestre) la disciplina da applicare non è quella dell’art. 1 comma 6 cit. , ma quella che prevede la necessità di concessione edilizia (oggi permesso di costruire), ex art. 44 comma 1, lett. b) d.P.R. n. 380 del 2001.
La ragione è che gli interventi di ristrutturazione edilizia , già definiti dall'art. 31 lett.d) l. 5 agosto 1978 n. 457, qualora abbiano comportato la modificazione dei prospetti, non sono stati sottratti al regime concessorio a differenza di quanto verificatosi, per effetto dell'art. 48 l. n. 457 cit. e 7 D.L. 23 gennaio 1982, n. 9, per le opere di manutenzione straordinaria di cui alla precedente lett. b), degli interventi di restauro e risanamento conservativo di cui alla lett. c), nonchè delle opere interne, assoggettate, dall'art. 26 l. n. 47 del 1985 e 4 D.L.5 ottobre 1993 n. 398 e successive modifiche, alla sola denuncia di inizio attività purchè non comportassero modifiche dei prospetti.

Posto poi che vi è continuità normativa fra la precedente disciplina in tema di esecuzione di opere in assenza di concessione (art. 20 lett. b) l. n. 47 del 1985) e quella attualmente vigente ( art. 44 comma 1 lett. b) T.U. dell’edilizia), il trattamento sanzionatorio da applicare è, ai sensi dell’art. 2 comma 3 cod. proc. pen., quello derivante dalla normativa abrogata, più favorevole.

La Corte non ha poi mancato di rilevare che anche le opere per le quali l'art. 1 comma sesto l. 21 dicembre 2001, n. 443 ha previsto la possibilità, a scelta dell'interessato, di procedere in base a semplice denuncia di inizio attività in alternativa a concessioni edilizie, sono rimaste soggette, qualora "ab origine" rientrassero nel regime concessorio, alla previsione di cui all'art. 20 lett. b) l. n. 47 del 1985 e - quelle successive alla entrata in vigore del T.U. n. 380 del 2001- all'art. 44 dello stesso. Con la conseguenza che integrano il reato previsto da tali norme le suddette opere quando siano state realizzate in assenza o totale difformità dalla concessione edilizia oppure in mancanza o totale difformità dalla denuncia di inizio di attività.


PATRIMONIO ARCHEOLOGICO, STORICO O ARTISTICO AZIONALE- VILLE, PARCHI E GIARDINI CHE ABBIANO INTERESSE STORICO- SOTTOPOSIZIONE AL REGIME GIURIDICO DELLE COSE AVENTI INTERESSE STORICO- INSERIMENTO IN ELENCHI O NOTIFICAZIONE FORMALE- NECESSITA’- ESCLUSIONE IN CASO DI APPARTENENZA AD UN ENTE PUBBLICO O AD UN ISTITUTO O ENTE MORALE LEGALMENTE RICONOSCIUTO- CONDIZIONI E LIMITI- FATTISPECIE.

Il secondo principio riguarda la delimitazione della operatività di una disciplina che, in sé, non ha presentato dubbi interpretativi: quella dell'art.4 l.1 giugno 1939 n. 1089 ( sostituita dall'art. 5 d. lgs. 29 ottobre 1999, n. 490 e, da ultimo, dagli artt. 10 e 12 d. lgs. 22 gennaio 2004 n. 42) per effetto della quale le cose immobili che abbiano interesse storico o artistico, appartenenti agli enti locali o ad enti e istituti legalmente riconosciuti, restano sottoposte al regime giuridico delle cose aventi interesse storico, architettonico, archeologico ed etnografico, indipendentemente dalla circostanza che siano stati inseriti in elenchi o che vi sia stata una formalizzazione del loro valore storico-artistico.

Ebbene la Cassazione ha rilevato che tale principio (peraltro non condiviso dalla giurisprudenza amministrativa: Cons. Stato, sez. VI, 17 gennaio 2003, n. 20), in assenza della verifica formale dell’interesse può operare, per evitare ingiustificate disparità di trattamento, soltanto quando l'immobile interessato dalle opere appartenga interamente ad uno dei soggetti individuati dalla legge oppure quando le caratteristiche che rendono il bene degno di tutela siano riconoscibilmente presenti nella frazione immobiliare di appartenenza del soggetto pubblico o dell'ente morale legalmente riconosciuto. Non anche in relazione ad opere edilizie eseguite in un appartamento dell’ente morale legalmente riconosciuto, ubicato all’interno di un palazzo che, sebbene di interesse storico artistico, non sia inserito però negli elenchi in possesso della Sovrintendenza.


REATI CONTRO LA FEDE PUBBLICA- FALSITA'IN ATTI- IN CERTIFICATI- COMMESSA DA PERSONE ESERCENTI UN SERVIZIO DI PUBBLICA NECESSITA'- DENUNCIA DI INIZIO ATTIVITÀ EDILIZIA (DIA) - RELAZIONE DI CORREDO- NATURA .

Il terzo principio attiene alla possibilità (o meno) di qualificare la relazione, redatta dal professionista abilitato ed allegata alla DIA , come certificato passibile di falsità ideologica ai sensi dell’art. 481 cod. pen.

La suprema Corte ha escluso tale evenienza alla luce della natura dell’atto , destinato a manifestare un intento programmatico (parte progettuale) o a contenere una attestazione soggetta anche ad errori privi di rilievo penale (sulla inesistenza di vincoli), ma non a provare la oggettiva verità di ciò che in essa è affermato.

Si tratta invero di una affermazione in linea con un precedente risalente (Cass., sez. V, 28 giugno 1978, Ortenzi, rv 140031) , ma che attualmente appare in controtendenza rispetto all’orientamento giurisprudenziale prevalente che qualifica invece come reato ex art. 481 cod. pen. la falsità delle planimetrie presentate a corredo della richiesta di certificazioni o autorizzazioni, redatte, secondo le vigenti disposizioni, dall'esercente una professione necessitante speciale autorizzazione dello Stato. Secondo tale indirizzo esse hanno natura di certificato, poichè assolvono la funzione di dare alla pubblica amministrazione una esatta informazione dello stato dei luoghi (Cass. sez. V, 8 marzo 2000, Scenico ed altro, rv 216056).


NOTIFICAZIONI - ALL’IMPUTATO- DOMICILIO DICHIARATO O ELETTO- TENTATIVI NON ANDATI A BUON FINE PRESSO IL DOMICILIO DICHIARATO- CONOSCENZA DELL’EFFETTIVO DOMICILIO DELL’IMPUTATO DA PARTE DELL’ORGANO NOTIFICATORE- NOTIFICAZIONE PRESSO TALE DOMICILIO A MANI DELLA MOGLIE CONVIVENTE- VALIDITÀ- SUSSISTENZA- MANCATA CONSEGNA AL DIFENSORE- NULLITA' - ESCLUSIONE- FONDAMENTO.

L’ultimo principio riguarda le conseguenze della notificazione della citazione eseguita , in presenza di domicilio dichiarato ed a seguito di inutili tentativi, non mediante consegna al difensore.
La Corte ha evidenziato che nella situazione appena descritta, non qualificata come tale da comportare la “inidoneità” della precedente dichiarazione di domicilio in mancanza della certificazione dell’effettivo trasferimento dell’imputato, la notizia acquisita dall’organo notificatore circa il domicilio effettivo di questi comporti la legittimità della esecuzione della notificazione presso il domicilio medesimo, a mani della moglie convivente del destinatario. Con la conseguenza che la mancata consegna della copia al difensore, a norma dell’art. 161 comma 4 cod. proc. pen. non dà luogo ad alcuna nullità.

Patrimonio archeologico, storico o artistico azionale- Ville, parchi e giardini che abbiano interesse storico- Sottoposizione al regime giuridico delle cose aventi interesse storico- Inserimento in elenchi o notificazione formale- Necessità- Esclusione in caso di appartenenza ad un ente pubblico o ad un istituto o ente morale legalmente riconosciuto- Condizioni e limiti- Fattispecie.

Il secondo principio riguarda la delimitazione della operatività di una disciplina che, in sé, non ha presentato dubbi interpretativi: quella dell'art.4 l.1 giugno 1939 n. 1089 ( sostituita dall'art. 5 d. lgs. 29 ottobre 1999, n. 490 e, da ultimo, dagli artt. 10 e 12 d. lgs.22 gennaio 2004 n. 42) per effetto della quale le cose immobili che abbiano interesse storico o artistico, appartenenti agli enti locali o ad enti e istituti legalmente riconosciuti, restano sottoposte al regime giuridico delle cose aventi interesse storico, architettonico, archeologico ed etnografico, indipendentemente dalla circostanza che siano stati inseriti in elenchi o che vi sia stata una formalizzazione del loro valore storico-artistico.

Ebbene la Cassazione ha rilevato che tale principio (peraltro non condiviso dalla giurisprudenza amministrativa: Cons. Stato, sez. VI, 17 gennaio 2003, n. 20), in assenza della verifica formale dell’interesse può operare, per evitare ingiustificate disparità di trattamento, soltanto quando l'immobile interessato dalle opere appartenga interamente ad uno dei soggetti individuati dalla legge oppure quando le caratteristiche che rendono il bene degno di tutela siano riconoscibilmente presenti nella frazione immobiliare di appartenenza del soggetto pubblico o dell'ente morale legalmente riconosciuto. Non anche in relazione ad opere edilizie eseguite in un appartamento dell’ente morale legalmente riconosciuto, ubicato all’interno di un palazzo che, sebbene di interesse storico artistico, non sia inserito però negli elenchi in possesso della Sovrintendenza.

Reati contro la fede pubblica- Falsità in atti- In certificati- Commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità- Denuncia di inizio attività edilizia (DIA) - Relazione di corredo- Natura .
Il terzo principio attiene alla possibilità (o meno) di qualificare la relazione, redatta dal professionista abilitato ed allegata alla DIA , come certificato passibile di falsità ideologica ai sensi dell’art. 481 cod. pen.

La suprema Corte ha escluso tale evenienza alla luce della natura dell’atto , destinato a manifestare un intento programmatico (parte progettuale) o a contenere una attestazione soggetta anche ad errori privi di rilievo penale (sulla inesistenza di vincoli), ma non a provare la oggettiva verità di ciò che in essa è affermato.

Si tratta invero di una affermazione in linea con un precedente risalente (Cass., sez. V, 28 giugno 1978, Ortenzi, rv 140031) , ma che attualmente appare in controtendenza rispetto all’orientamento giurisprudenziale prevalente che qualifica invece come reato ex art. 481 cod. pen. la falsità delle planimetrie presentate a corredo della richiesta di certificazioni o autorizzazioni, redatte, secondo le vigenti disposizioni, dall'esercente una professione necessitante speciale autorizzazione dello Stato. Secondo tale indirizzo esse hanno natura di certificato, poichè assolvono la funzione di dare alla pubblica amministrazione una esatta informazione dello stato dei luoghi (Cass. sez. V, 8 marzo 2000, Scenico ed altro, rv 216056).

Notificazioni - All’imputato- Domicilio dichiarato o eletto- Tentativi non andati a buon fine presso il domicilio dichiarato- Conoscenza dell’effettivo domicilio dell’imputato da parte dell’organo notificatore- Notificazione presso tale domicilio a mani della moglie convivente- Validità- Sussistenza- Mancata consegna al difensore- Nullità- Esclusione- Fondamento.

L’ultimo principio riguarda le conseguenze della notificazione della citazione eseguita , in presenza di domicilio dichiarato ed a seguito di inutili tentativi, non mediante consegna al difensore.

La Corte ha evidenziato che nella situazione appena descritta, non qualificata come tale da comportare la “inidoneità” della precedente dichiarazione di domicilio in mancanza della certificazione dell’effettivo trasferimento dell’imputato, la notizia acquisita dall’organo notificatore circa il domicilio effettivo di questi comporti la legittimità della esecuzione della notificazione presso il domicilio medesimo, a mani della moglie convivente del destinatario. Con la conseguenza che la mancata consegna della copia al difensore, a norma dell’art. 161 comma 4 cod. proc. pen. non dà luogo ad alcuna nullità.

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