Per altre sentenze vedi: Sentenze per esteso
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CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, 10/03/2005 (Ud.10/02/2005), Sentenza n. 9503
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
CORTE
DI CASSAZIONE Penale Sez. III, 10/03/2005 (Ud.10/02/2005), Sentenza n. 9503
Pres. Vitalone C. Est.: Grillo C. Rel. Grillo C. Imp. Montinaro. P.M. Izzo G. (Parz. Diff.), (Annulla in parte con rinvio, Trib. Lecce, 9 Dicembre 2003).
SENTENZA N. 279 del 10/02/2005
REGISTRO GENERALE N. 15354/2004
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. VITALONE Claudio - Presidente -
Dott. POSTIGLIONE Amedeo - Consigliere -
Dott. PETTI Ciro - Consigliere -
Dott. TERESI Alfredo - Consigliere -
Dott. GRILLO Carlo - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sull'appello, qualificato ricorso, proposto da:
MONTINARO CARMELO, nato a Lecce il 6/7/1959;
avverso la sentenza n. 558/2003 del 9/12/2003-23/1/2004, pronunciata dal
Tribunale di Lecce.
- Letti gli atti, la sentenza denunciata e l'impugnazione;
- udita in Pubblica udienza la relazione fatta dal Presidente Dott. Carlo M.
Grillo;
- udite le conclusioni del P.M., in persona del S. Procuratore Generale Dott.
IZZO G., con cui chiede il rigetto del ricorso;
- udito il difensore, avv. TANA A., che insiste per l'accoglimento dello stesso;
la Corte osserva:
FATTO E DIRITTO
Con la decisione indicata in premessa il Tribunale di Lecce, in composizione
monocratica, condannava Montinaro Carmelo alla pena, condizionalmente sospesa,
di euro 3.500,00 di ammenda, nonché al risarcimento del danno cagionato alle
parti civili costituite, in ordine al reato di cui agli artt. 81 cpv e 674 c.p.,
51, comma 1, D.L.vo n. 22/1997, commessi fino al 16/10/2000, perché - quale
legale rappresentante della "CO.E.ST. s.a.s.", esercente attività di produzione
di conglomerato bituminoso - effettuava attività di stoccaggio di rifiuti
(asfalto triturato proveniente da lavori di asportazione e rifacimento di manti
stradali) in assenza della prescritta autorizzazione o comunque delle
comunicazioni di cui agli artt. 31-32-33 dello decreto Ronchi, nonché per aver
provocato emissioni di fumo atte a molestare persone.
L'imputato propone appello, qualificato ricorso, rilevando, in primis, la
mancanza dei presupposti per la configurabilità della contravvenzione di
gestione non autorizzata di rifiuti, non potendosi qualificare tale il materiale
rinvenuto nel piazzale della società CO.E.ST., esercente attività di produzione
di conglomerato bituminoso per la realizzazione di manti stradali. Per tale
prodotto, infatti, vengono utilizzati sia materiali inerti forniti da altre
ditte, sia materiale proveniente da rifacimenti/demolizioni di strade, triturato
nel luogo di prelievo e poi trasportato presso la CO.E.ST., costituente quindi -
ai sensi dell'art. 14 D.L. n. 138/2002, che fornisce la interpretazione
autentica della definizione di rifiuto - materia prima atta alla produzione di
conglomerato bituminoso e non rifiuto.
Pertanto non può ravvisarsi ne' attività di "stoccaggio", ne' di "deposito
preliminare", ne' di "messa in riserva", ne' di recupero, in quanto il materiale
non deve essere recuperato o sottoposto ad alcuna delle operazioni indicate
dall'allegato C - al decreto, avvenendo il recupero - come si è detto - presso i
cantieri stradali interessati dalle opere di demolizione/rifacimento. Non
costituendo rifiuto il materiale de quo, la CO.E.ST. non era obbligata ad
assoggettarsi alle procedure semplificate previste dagli artt. 31/33 D.L.vo n.
22/1997, donde l'insussistenza del reato ambientale.
Con una seconda doglianza l'imputato contesta anche la sussistenza della
contravvenzione codicistica, giacché le emissioni della CO.E.ST. rispettavano i
limiti di legge, imposti dal D.P.R. n. 203/1988, circostanza non smentita dalle
risultanze processuali, tanto che la condanna si basa sul ritenuto superamento
della normale tollerabilità delle emissioni, con riferimento al criterio
stabilito dall'art. 844 c.c. Ma, anche in tale valutazione, il giudice avrebbe
dovuto tenere conto dello stato dei luoghi, giacché l'impianto della CO.E.ST. è
ubicato in zona artigianale e non residenziale, per cui si sarebbe dovuto
applicare il criterio del contemperamento delle esigenze della produzione con
quelle della proprietà. All'odierna udienza dibattimentale, il P.G. e la difesa
concludono come riportato in premessa.
Il ricorso merita accoglimento nei limiti appresso indicati. La prima doglianza,
ad avviso del Collegio, è fondata, non potendosi qualificare rifiuto il
materiale ammucchiato nel piazzale della ditta CO.E.ST. e per cui è processo.
Ovviamente si giunge a tale conclusione tenendo conto della contestazione e
della relativa condanna, che hanno ad oggetto esclusivamente - per quanto
concerne la contravvenzione al c.d. decreto Ronchi - lo "stoccaggio" di rifiuti
e non altre condotte vietate dallo stesso decreto. Risulta pacificamente in
atti, invero, che il materiale de quo veniva utilizzato - per preparare il
conglomerato bituminoso, prodotto in quel luogo dalla menzionata ditta nelle
condizioni in cui è stato trovato, senza cioè subire alcun trattamento; seppure
certamente ricavato dalla triturazione di manti stradali rimossi, è dato per
scontato e non è contestato neanche nella prospettazione accusatoria, infatti,
che la triturazione di questi avvenisse altrove. Dunque nel piazzale della ditta
CO.E.ST. era accumulato materiale che di sicuro veniva interamente utilizzato,
sebbene con l'aggiunta di altri (inerti, bitume, acqua), nel normale ciclo
produttivo del conglomerato bituminoso, del quale - quindi - il detentore non
solo non si era disfatto, ma si guardava bene dal farlo, rappresentando comunque
un valore economico, pur se probabilmente modesto, per la sua attività.
Pertanto, considerando il materiale nelle condizioni in cui è stato trovato
presso la menzionata ditta, non sussiste la condizione soggettiva richiesta
dalla legge per qualificarlo rifiuto (l'art. 6, comma 1 lett. a), D.L.vo n.
22/1997 postula che del bene "il detentore si disfi o abbia deciso o abbia
l'obbligo di disfarsi"); neppure detta ultima ipotesi, invero, si ritiene
configurabile, sussistendo "l'obbligo di disfarsi" del rifiuto (e sono
qualificati "rifiuti speciali" - dall'art. 7, comma 3 lett. 'b', D.L.vo n.
22/1997 - quelli derivanti da attività di demolizione) fino a quando il
materiale abbia le caratteristiche di rifiuto, ma non più se tali
caratteristiche non siano ravvisabili a seguito di un intervento di
trasformazione.
In definitiva l'errore del giudice del merito, nel caso in esame, consiste
nell'aver tenuto conto nel presente giudizio anche della fase precedente, quella
cioè del trattamento del rifiuto speciale in questione (probabilmente mediante
tritatura o fresatura ed eventuale selezione dei componenti), avvenuta peraltro
in luogo e tempo diversi, che, pur se addebitabile alla CO.E.ST. (e quindi
all'imputato) e pur se certamente contra legem, non rientra tuttavia nella
contestazione, riguardante - lo si ripete - il solo stoccaggio del rifiuto.
Tornando al materiale accumulato presso la ditta CO.E.ST., che è quello a cui
soltanto si deve far riferimento nel presente giudizio, il non considerarlo
rifiuto è anche sostanzialmente in linea con la sentenza della Corte Europea di
Giustizia Sez. 2^, 11 novembre 5004 (causa n. C-457/02, Niselli), per la quale
la definizione di rifiuto comunitaria non può essere interpretata secondo i
criteri dettati dalla nostra normativa nazionale (art. 14 D.L. n. 138/2002, conv.
in L. n. 178/2002).
Invero, a parte la considerazione che le eccezioni poste dal secondo comma di
tale norma si riferiscono esclusivamente ai "residui di produzione o di consumo"
tra i quali non rientra il materiale de quo, la citata sentenza della CGCE in
alcuni obiter dieta afferma principi di assoluto interesse anche per il caso di
specie. Al punto 46, difatti, recita: "Se, oltre alla mera possibilità di
riutilizzare la sostanza, il detentore consegue un vantaggio economico nel
farlo, la probabilità di tale riutilizzo è alta. In un'ipotesi del genere la
sostanza in questione non può più essere considerata un ingombro di cui il
detentore cerchi di 'disfarsi', bensì un autentico prodotto (sentenza 18 aprile
2002, causa C 9/00, Palin Granit)". Conseguentemente soggiunge (punto 47):
"Risulta da quanto precede che è ammesso, alla luce degli obiettivi della
direttiva 75/442, qualificare un bene., un materiale o una materia prima
derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è
principalmente destinato a produrlo non come rifiuto, bensì come sottoprodotto
di cui il detentore non desidera 'disfarsi' ai sensi dell'art. 1, lett. a),
primo comma, di tale direttiva, a condizione che il suo riutilizzo sia certo,
senza trasformazione preliminare., e nel corso del processo di produzione
(sentenza 11 settembre 2003, causa C 114/01, Avesta Polarit Chrome)".
Orbene nel caso in esame, risultando pacifica la riutilizzazione del materiale
in questione nelle condizioni in cui è stato trovato, e cioè senza sottoporlo ad
ulteriori trasformazioni o trattamenti, lo stesso non può considerarsi rifiuto.
Ne consegue l'insussistenza della contestata contravvenzione di stoccaggio di
rifiuti, prevista dall'art. 51, comma 1, D.L.vo n. 22/1997, per cui deve essere
eliminata la relativa pena. Considerato, però, che il giudice del merito,
ravvisando la continuazione tra le due contravvenzioni per cui è processo, ha
preso come base di calcolo proprio la sanzione relativa alla violazione del
decreto Ronchi, la rideterminazione della pena non può essere effettuata in
questa sede, ma dovrà procedervi il Tribunale.
A conclusioni diverse giunge il Collegio in relazione alla contravvenzione
codicistica (art. 674 c.p.), pur condividendo l'orientamento interpretativo più
recente (Cass. Sez. 1^, 16 giugno 2000, Meo; Sez., 1^, 24 ottobre 2001,
PM/Tulipano; Sez. 3^, 23 gennaio 2004, PM/Pannone; Sez. 3^, 19 marzo 2004,
Parodi; Sez. 1^, 20 maggio 2004, Invernizzi e altri; Sez. 3^, 18 giugno 2004,
PM/Providenti e altri), che sta scalzando quello consolidatosi precedentemente
ed è a base del ricorso, secondo il quale non è configurabile il reato di cui
all'art. 674 c.p. (emissione di gas, vapori e fumi atti a molestare le persone),
nel caso che le emissioni provengano da una attività regolarmente autorizzata e
siano inferiori ai limiti previsti dalle leggi in materia di inquinamento
atmosferico, atteso che la espressione "nei casi non consentiti dalla legge"
costituisce una precisa indicazione della necessità che l'emissione avvenga in
violazione degli standard fissati dalle normative di settore, il cui rispetto
integra una presunzione di legittimità.
Il ricorrente ritiene non sussistente la contravvenzione de qua perché munito di
regolare autorizzazione amministrativa per esercitare l'attività industriale in
questione e perché le relative emissioni in atmosfera non hanno mai superato gli
standards fissati dalla normativa di settore (D.P.R., n. 203/1988). Ebbene
nessuna di queste due circostanze, che rappresentano il fulcro della tesi
defensionale, risulta però accertata dal giudice del merito per quanto è dato
evincere dalla sentenza impugnata. Da questa anzi emerge che finanche il
testimone introdotto dalla difesa, Favale Diego, consulente esterno della
CO.E.ST., non ha riferito nulla in proposito, precisando addirittura "di non
aver mai materialmente visto l'autorizzazione rilasciata dalla Regione ai sensi
del D.P.R. 203/88".
Ne consegue che la tesi della difesa, sebbene condivisibile dal punto di vista
teorico, non può essere accolta, essendo rimasta indimostrata la sussistenza dei
presupposti di essa. Ed allora, non potendosi escludere che questo in esame sia
uno dei "casi non consentiti dalla legge", viene a cadere qualsiasi preclusione
in ordine alla configurabilità della contravvenzione di cui all'art. 674,
seconda parte, c.p., reato di pericolo - come correttamente ricordato dal
Tribunale - che non richiede un effettivo nocumento prodotto dalle emissioni, ma
solo l'attitudine di esse ad offendere, imbrattare, molestare le persone;
peraltro "costituisce molestia anche il fatto di arrecare alle persone
preoccupazione ed allarme circa eventuali danni alla salute a seguito
dell'esposizione ad emissioni atmosferiche inquinanti" (così Cass. Sez. 3^, 14
marzo 2003, Di Grado ed altri).
La sentenza impugnata è adeguatamente e correttamente motivata, sulla base delle
risultanze processuali, circa la sussistenza della contravvenzione in questione,
per cui la determinazione del giudice del merito è sottratta al vaglio di
legittimità.
P.Q.M.
la Corte annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato previsto dall'art.
51 D.L.vo n. 22/1997 perché il fatto non sussiste, con rinvio al Tribunale di
Lecce per l'eliminazione della relativa sanzione; rigetta il ricorso nel resto.
Così deciso in Roma, il 10 febbraio 2005.
Depositato in Cancelleria il 10 marzo 2005
Inquinamento atmosferico - Emissione di gas, vapori o fumi nei limiti stabiliti dalle leggi sull'inquinamento atmosferico - Emissioni comunque non tollerabili - Configurabilità del reato di cui all'art. 674 cod. pen. - Getto pericoloso di cose - Contravvenzioni - Esclusione. Il reato di cui all'art. 674 cod. pen.(getto pericoloso di cose) non è configurabile nel caso in cui le emissioni provengano da una attività regolarmente autorizzata e siano inferiori ai limiti previsti dalle disposizioni in tema di inquinamento atmosferico, atteso che l'espressione "nei casi non consentiti dalla legge" comporta la necessità che le emissioni avvengano in violazione degli "standards" fissati dalle normative di settore. Pres. Vitalone C. Est.: Grillo C. Rel. Grillo C. Imp. Montinaro. P.M. Izzo G. (Parz. Diff.), (Annulla in parte con rinvio, Trib. Lecce, 9 Dicembre 2003). CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, 10/03/2005 (Ud.10/02/2005), Sentenza n. 9503
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