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Testata registrata presso il Tribunale di Patti Reg. n. 197 del 19/07/2006
CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. IV, 21/04/2006 (UD.29/11/2005), Sentenza n. 14180
Pubblica
Amministrazione - Appalto di opere pubbliche comunali - Omicidio colposo -
Sindaco e Assessore - Responsabilità - Presupposti - Reati omissivi impropri.
In tema di opere pubbliche da eseguire nel Comune, il Sindaco assume, la
posizione di committente, e tre presupposti costituiscono la sua fonte di
responsabilità collegata ad una posizione di garanzia, per così dire limitata
dalla presenza dell'appaltatore, ma non certamente esclusa. Tali fonti di
responsabilità sono la conoscenza del pericolo, l’evitabilità dell'evento
lesivo, e l'omesso intervento di eliminazione del pericolo, trattandosi di reati
omissivi impropri (Cass. 18.11.1997 n. 478). Ne consegue che il Sindaco e
l'Assessore competente assumono, nei reati colposi, una posizione di garanzia
nel caso che non adottino alcun provvedimento urgente atto ad eliminare una
situazione di pericolo di cui sono consapevoli. Essendo infatti dotati di poteri
autoritativi sia per allestire un intervento atto ad eliminare il pericolo,
ovvero per disporre le cautele necessarie, non si ravvisa la colpa omissiva
impropria ex art. 40, 2° comma, c.p., solo nei casi in cui non si abbia
conoscenza di tale situazione di pericolo, ovvero non si abbia la possibilità
concreta, anche con la normale diligenza, di porre in atto i rimedi utili per
sanare la fonte del medesimo pericolo. Presidente M. Battisti, Relatore S.
Visconti. CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. IV, 21/04/2006 (UD.29/11/2005),
Sentenza n. 14180
Appalti - Appalto di opere pubbliche comunali - Omicidio colposo - Pericolo
sui luoghi dei lavori - Veste di committente assunta dal sindaco - Posizione di
garanzia - Responsabilità - Sussistenza - Condotta omissiva - Poteri
autoritativi. Nel caso di affidamento in appalto dell’esecuzione di opere
pubbliche comunali, la veste di committente assunta dal sindaco non è
incompatibile col mantenimento della posizione di garanzia in riguardo alle
situazioni di pericolo, da lui conosciute, esistenti nell’area interessata dai
lavori dati in appalto e temporaneamente sospesi dall’impresa appaltatrice,
perché egli è titolare di poteri autoritativi che gli consentono di supplire
all’eventuale inerzia o all’impossibilità concreta di agire sollecitamente da
parte dell’appaltatore. Va dunque affermata l’esistenza del nesso causale,
materiale e psichico, tra la condotta omissiva del sindaco, che non interviene
per eliminare la fonte del pericolo o per apprestare adeguate protezioni,
ripari, cautele e le opportune segnalazioni in modo da impedire l’uso dell’area
da parte di privati, e la morte del soggetto che, inconsapevole del pericolo,
rimane esposto alle letali insidie. Presidente M. Battisti, Relatore S.
Visconti. CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. IV, 21/04/2006 (UD.29/11/2005),
Sentenza n. 14180
Appalti - Opere pubbliche comunali - Reati colposi - Responsabilità - Datore
di lavoro - Direttore dei lavori - Committente - Qualificazione e responsabilità
- Effettività delle mansioni ricoperte. In tema di reati colposi, sussiste
la rilevanza dell'effettività delle mansioni ricoperte, ai fini
dell'attribuzione della "posizione di garanzia" (Cass. 16.6.2004 n. 40169, -
conforme Cass. 7.11.1990 n. 7600). Infatti, sarebbe illogico sancire un
principio astratto di responsabilità, almeno esclusiva (ben può esserlo
concorrente), in ogni settore del diritto penale, e anche nel campo dei reati
colposi, qualora l’individuazione del datore di lavoro, del direttore dei
lavori, dell'appaltatore e del committente, oltre eventualmente delle persone,
che in modo del tutto "formale", ricoprono tali incarichi, non sia poi estesa a
coloro che effettivamente esercitino i poteri inerenti a tali mansioni. La
qualificazione e la responsabilità, non competono soltanto ai soggetti forniti
di formali investiture, ma a chiunque si trovi in una posizione tale da porlo in
condizioni di dirigere l’attività lavorativa, e di renderlo così destinatario
sia delle specifiche norme di sicurezza del lavoro, sia dell'obbligo generico di
adottare le cautele necessarie (prudenza, diligenza, perizia) per salvaguardare
l'incolumità dei dipendenti e anche di terze persone estranee all'attività
lavorativa. Presidente M. Battisti, Relatore S. Visconti. CORTE DI CASSAZIONE
PENALE Sez. IV, 21/04/2006 (UD.29/11/2005), Sentenza n. 14180
Procedure e varie - Beneficio della sospensione condizionale della pena -
Limiti - Cumulazione di pena patteggiata - Art. 444 c.p.p. Il beneficio
della sospensione condizionale della pena, se già concesso per pena patteggiata,
non può essere reiterato in relazione a successiva sentenza, anche se di
patteggiamento, per fatto anteriormente commesso, dalla quale derivi
l'applicazione di una pena detentiva che, cumulata con la precedente, superi i
limiti fissati dall'art. 163 c.p.p. (Cass. sentenza n. 31 del
22.11.2000-3.5.2001; conformi Cass. 2.4.2003 n. 25734; Cass. 24.6.2003 n. 35728;
Cass. 12.7.2004 n. 35891). Diversamente interpretando, ai già previsti vantaggi
derivanti dall'emissione di una sentenza ex art. 444 c.p.p. (riduzione della
pena; benefici di cui all'art. 445 c.p.p. in caso di pena inferiore a due anni),
si aggiungerebbe quello di una permanente impunità anche in caso di plurime
violazioni della legge penale, accertate in procedimenti diversi, che non può
certo corrispondere alla volontà del legislatore. Presidente M. Battisti,
Relatore S. Visconti. CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. IV, 21/04/2006 (UD.29/11/2005),
Sentenza n. 14180
Procedure e varie - Rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale - Giudizio
d'appello - Presupposti. Nel giudizio d'appello la rinnovazione
dell'istruttoria dibattimentale, prevista dall'art. 603 comma primo cod. proc.
pen., è subordinata alla verifica dell'incompletezza dell'indagine
dibattimentale e alla conseguente constatazione del giudice di non poter
decidere allo stato degli atti senza una rinnovazione istruttoria; tale
accertamento è rimesso alla valutazione del giudice di merito, incensurabile in
sede di legittimità se correttamente motivata" (Cass. 5.12.2003 n. 4981;
conformi Cass. 19.2.2004 n. 18660; Cass. 2.12.2002 n. 68). Peraltro, le
condizioni per ricorrere all'istituto della rinnovazione dell'istruttoria
dibattimentale, hanno carattere eccezionale da utilizzare solo nel caso che non
si possa decidere senza l'assunzione della prova richiesta (Cass. sezioni unite
24.1.1996 n. 2780; Cass. 22.3.1999 n. 9531; Cass. 26.4.2000 n. 8106). Presidente
M. Battisti, Relatore S. Visconti. CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. IV,
21/04/2006 (UD.29/11/2005), Sentenza n. 14180
Procedure e varie - Principio di correlazione tra accusa e sentenza -
Violazione - Nullità a regime intermedio - Disciplina. La violazione del
principio di correlazione tra accusa e sentenza integra una nullità a regime
intermedio che, in quanto verificatasi in primo grado, può essere dedotta fino
alla deliberazione della sentenza del grado successivo (Cass. sezioni unite n.
1475 del 24.11.1984, conforme Cass. 9.11.1992 n. 11651). Ne consegue che detta
violazione non può essere dedotta per la prima volta in sede di legittimità
(Cass. 22.2.2005 n. 10094; e tra le tante conformi Cass. 26.4.1999 n. 8639;
Cass. 14.5.1997 n. 7957; Cass. 19.9.1995 n. 10685; Cass. 15.7.1993 n. 8712).
Presidente M. Battisti, Relatore S. Visconti. CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez.
IV, 21/04/2006 (UD.29/11/2005), Sentenza n. 14180
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. IV,
21/04/2006 (UD.29/11/2005), Sentenza n. 14180
(Presidente M. Battisti, Relatore S. Visconti)
Omissis
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
In data 9 luglio 1998, nell'isola di Lipari, MERLINO Giovanni, trovandosi
nell'area del cantiere per la esecuzione di alcuni lavori di completamento della
Piazza S. Onofrio e di sottobanchinamento della Salita S. Giuseppe, si
appoggiava ad una ringhiera in ghisa, apparentemente collocata a protezione
dello strapiombo sulla scogliera, ma che, non essendo stati fissati i montanti
in modo stabile, cedeva alla sollecitazione dell'appoggio, per cui il MERLINO
precipitava sulla scogliera, derivandone la morte.
Il procedimento penale per omicidio colposo (art. 589 c.p.) veniva instaurato
nei confronti di: PELLE Antonio, ritenuto il direttore dei lavori; di
GIACOMANTONIO Michele, Sindaco del Comune di Lipari; di BARCA GAETANO, Assessore
si Lavori pubblici dello stesso Comune; di MANGANO Rosario, condirettore dei
lavori; di FONTE Alberto, capo settore ai LL.PP. del Comune di Lipari; di AVENI
Giovanni, legale rappresentante dell'Impresa Aveni s.a.s., appaltatrice dei
lavori.
Esaurite le indagini preliminari e il giudizio di primo grado, all'esito di
quello di appello la Corte territoriale di Messina, confermava le condanne del
PELLE a mesi otto di reclusione, e del GIACOMANTONIO e del BARCA a mesi quattro
di reclusione, essendo state già concesse le attenuanti generiche di cui
all'art. 62 bis c.p., con il beneficio della sospensione condizionale della pena
solo agli ultimi due, condannando altresì tutti gli imputati in solido alla
rifusione delle spese sostenute dalle costituite parti civili EIKE Lorenz e
MERLINO Marco. Per ciò che concerne gli altri tre iniziali indagati, l'AVENI non
risulta neppure rinviato a giudizio, il MANGANO stato assolto in primo grado,
con conferma in appello, il FONTE è stato assolto dalla Corte di Appello.
Essendo pacifica la dinamica dell'incidente, nei vari gradi del giudizio erano
state soprattutto affrontate le posizioni personali degli attuali ricorrenti,
questioni procedurali, l'eventuale concorso della vittima, il diniego della
concessione della sospensione condizionale della pena al PELLE.
La Corte di Appello non ha accolto i motivi di impugnazione proposti da PELLE
Antonio, il primo dei quali riguardava appunto la circostanza che egli,
all'epoca dell'evento, aveva cessato di ricoprire, anche di fatto, la carica di
direttore dei lavori, per essere stato sostituito nell'incarico dal
rappresentante del Genio Civile. La Corte territoriale ha, invece, ritenuto che,
pur essendovi un precedente accordo di massima sul punto, nella riunione del
2.6.1998, di poco pia di un mese antecedente al sinistro, si convenne, con
l'adesione dell'imputato, che il subentro avrebbe dovuto essere preceduto dalla
contabilizzazione dei lavori eseguiti e dalla redazione della perizia di
variante, ad opera del PELLE, che continuò a qualificarsi direttore dei lavori,
svolgendo i relativi compiti. Pertanto, dovendosi avere riguardo alle funzioni
di concreto esercitate piuttosto che alla qualifica formale rivestita, il
giudice di appello ha ritenuto di disattendere il motivo di gravame, e così
anche il successivo motivo di appello, con il quale era stata richiesta
l'assoluzione quanto meno ai sensi dell'art. 530, 2° comma, c.p.p..
In ordine al terzo motivo con il quale si eccepiva la nullità dell'istruttoria
dibattimentale per omesso esame dell'imputato, la Corte di merito ha ritenuto
non esservi stata alcuna richiesta di tale esame.
Il giudice di appello ha poi disatteso la richiesta di riapertura
dell'istruttoria dibattimentale con l'esame, ai sensi dell'art. 507 c.p.p., di
AVENI Giovanni, essendo la situazione probatoria sufficientemente chiara, e non
sussistendo i presupposti di cui all'art. 603 c.p.p..
Infine, è stata respinta l'istanza di concessione del beneficio della
sospensione condizionale della pena, avendo il PELLE già riportato una condanna
ad anni uno e mesi sei di reclusione per vari reati in continuazione, e
ritenendosi di non diminuire la condanna a mesi otto di reclusione, tenuto conto
della condotta particolarmente riprovevole dell'imputato.
Per ciò che concerne le posizioni del GIACOMANTONIO e del BARCA, rispettivamente
Sindaco e Assessore ai LL.PP. del Comune di Lipari, all'epoca del fatto, la
Corte di merito ha, in primo luogo, specificato che i predetti imputati non
erano stati chiamati a rispondere di omissione di un generico dovere di
vigilanza in relazione alle cariche ricoperte, bensì di non essersi attivati
malgrado la specifica conoscenza della situazione di pericolo che ha determinato
l'evento letale, essendo risultato dalle dichiarazioni del MANGANO e dei MAUGERI
(titolare di altra impresa che stava eseguendo lavori nell'isola), che di tale
situazione si era parlato il giorno stesso del sinistro, rappresentandosi il
pericolo costituito dalla ringhiera.
Esaminando poi il primo motivo di appello, la Corte di Messina ha ritenuto non
condivisibile l'argomento difensivo secondo il quale nella citata riunione era
stato demandato all'impresa appaltatrice dei lavori di provvedere
tempestivamente ad eliminare la situazione di pericolo, ed era imprevedibile che
gli incaricati avessero rinviato l'intervento al giorno successivo.
Il giudice di appello ha rilevato che era ben noto che i lavori erano sospesi da
alcuni giorni, il cantiere era chiuso, e gli operai non si trovavano in loco,
per cui era prevedibile il rinvio al giorno successivo. Sul punto si precisa che
dalla sentenza di appello risulta che la riunione fu tenuta nel pomeriggio, ed
il MERLINO precipitò sulla scogliera poche ore dopo. La sentenza impugnata ha
citato, poi, una serie di provvedimenti autoritativi che l'Autorità Comunale
avrebbe potuto adottare, come l'immediata chiusura della piazza, il
transennamento della zona pericolosa, il piantonamento della stessa, o quanto
meno assicurarsi che l'impresa e il direttore dei lavori avessero adempiuto
all'incarico affidato. Il completo disinteresse della situazione configura,
pertanto, ad avviso del giudice di merito, evidente manifestazione di negligenza
ed imprudenza, ed una chiara violazione degli obblighi inerenti alle cariche
ricoperte.
La Corte territoriale ha anche disatteso il secondo motivo di appello, inerente
all'evitabilità dell'incidente se il MERLINO, usando una normale diligenza,
avesse evitato di appoggiarsi alla ringhiera, munita di un nastro bicolore,
indicativo di una situazione di precarietà, rilevando che era ignota la causa
dell'appoggio, che poteva anche essere un malore o altra causa sconosciuta, e
soprattutto che l'eventuale colpa concorrente della vittima non vale ad
escludere la responsabilità di chi ha omesso di adottare le misure idonee ad
evitare l'incidente.
PELLE Antonio ha proposto ricorso per cassazione, chiedendo l'annullamento della
citata sentenza di appello, e, in subordine, la riduzione della pena, con
concessione del beneficio della sospensione condizionale.
Con il primo motivo, il ricorrente ha dedotto il difetto di motivazione in
relazione all'art. 589 c.p., assumendo che, con delibera del 14.5.1998, la
Giunta Comunale gli aveva revocato l'incarico di direttore dei lavori, affidato
al Genio Civile, conferendogli quello di consulente della D.L.. Pertanto, da
tale data il ricorrente non ricopriva l'incarico né formale né sostanziale di
direttore dei lavori, e gli atti amministrativi contabili relativi all'attività
svolta fino alla revoca dell'incarico, ivi compresa la perizia tecnico contabile
affidatagli alla riunione del 2.6.1998, erano proprio la prova della cessazione
dall'incarico.
Con il secondo motivo di gravame, il ricorrente ha dedotto la violazione di
norma sostanziale e il difetto di motivazione in ordine al diniego di
concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, non essendo
mai stato condannato in precedenza, ed essendo frutto di un patteggiamento
l'applicazione della pena concordata di anni uno e mesi sei di reclusione per
reati societari. Inoltre, era eccessiva la definizione di una "condotta
particolarmente riprovevole" per un omesso controllo, che egli non aveva potere
di esercitare, ed essendo stato richiesto l'intervento della società appaltante.
Con il terzo motivo di ricorso è stata contestata la decisione di negare la
riapertura dell'istruttoria dibattimentale, non essendo affatto chiare le
risultanze processuali.
Con il quarto ed ultimo motivo é stata rinnovata l'eccezione di nullità
dell'istruttoria dibattimentale per omesso esame dell'imputato.
Il GIACOMANTONIO e il BARCA hanno proposto ricorso per cassazione chiedendo
l'annullamento della sentenza impugnata per i seguenti motivi.
Con il primo è stata dedotta la violazione degli artt. 521, 522, 604, 178, 179 e
180 c.p.p. in relazione all'art. 24 Cost. per non avere il giudice di appello
rilevato di ufficio la mancanza di correlazione tra contestazione e sentenza. I
ricorrenti hanno dedotto che nel capo di imputazione era contestato un profilo
di colpa specifico, e cioè il non essersi attivati dopo la segnalazione di
pericolo del 20.3.1998 da parte di FONTE Alberto. Già nella sentenza di primo
grado la responsabilità era stata ritenuta sia per colpa generica, per il
mancato intervento, sia per colpa specifica, ma relativamente ai fatti del
9.7.1998, per essersi limitati ad indire una riunione.
Secondo i ricorrenti tale violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p. andava
rilevata di ufficio, costituendo nullità assoluta ed insanabile, non
condividendosi la giurisprudenza prevalente di questa Corte che la ha ritenuta
una nullità di ordine intermedio ex art. 180 c.p.p., con precisi termini di
impugnazione, violandosi sia il principio del contraddittorio che Part. 24
Cost..
I ricorrenti hanno anche eccepito l'illegittimità costituzionale dell'art. 180
c.p.p., in relazione agli arti. 521, 522 e 604 c.p.p., nella parte in cui, pur
prevedendo l'obbligo del giudice di appello di rilevare anche di ufficio la
violazione del contraddittorio in ordine alla mancata correlazione tra accusa
contestata e sentenza, non prevede la possibilità che l'imputato possa censurare
con il ricorso per cassazione l'omissione di tale obbligo da parte del giudice.
Con il secondo motivo di impugnazione, i ricorrenti hanno eccepito la mancanza
di motivazione in relazione agli arti 40 e 589 c.p..
Il GIACOMANTONIO e il BARCA hanno assunto di non essere stati mai a conoscenza
del pericolo specifico, e di non essere rilevanti le dichiarazioni del MAUGERI e
del MANGANO, e che di quest'ultimo non era stata comunque valutata dal giudice
di appello la dedotta inattendibilità, per essere coimputato, nonché la
contraddittorietà delle dichiarazioni rese.
Con il terzo motivo di gravame, i ricorrenti hanno rilevato la violazione degli
arti. 40 e 589 c.p., in relazione all'art. 38 legge 8.6.1990 n. 142, nonché sul
punto la mancanza di motivazione ovvero la sua manifesta illogicità.
In sintesi, i ricorrenti hanno assunto che l'avere appaltato i lavori, con
consegna delle opere, trasmetteva gli obblighi di custodia e di vigilanza
sull'appaltatore, esonerando dal controllo il pubblico committente. Ciò è
confermato dai testi legislativi succedutisi in materia di appalto di opere
pubbliche e riportati a pag. 12 del ricorso. Al Sindaco rimane solo il potere di
urgenza, ma non quello di intervenire in sostituzione, qualora l'appaltatore
ometta di ottemperare all'ordine impartitogli.
Secondo i ricorrenti, l'avere ottemperato, pur verbalmente, alla legislazione
vigente, incaricandosi l'appaltatore di eseguire le opere necessarie, e non
spettando loro (in particolare nel ricorso si parla del Sindaco) né di
intervenire direttamente, né di verificare l'adempimento della disposizione,
nessuna colpa si poteva attribuire ai pubblici amministratori.
Ma, secondo i ricorrenti, anche a volere ritenere che gli amministratori si
dovevano porre il problema dell'idoneità dei mezzi a disposizione del titolare
dell'impresa, l'aggiudicazione di un importante appalto in un grosso centro,
quale Lipari, faceva sicuramente presupporre la capacità di eliminare la
situazione di pericolo.
Con il quarto ed ultimo motivo di impugnazione, i ricorrenti hanno eccepito la
violazione di legge ed il difetto di motivazione in relazione agli arti. 40, 41
e 589 c.p., avendo il giudice di appello ritenuto che l'eventuale concorso di
colpa della vittima non escludesse la responsabilità degli amministratori. I
ricorrenti hanno invece sostenuto che la situazione di pericolo era percepibile
con estrema facilità, chiarezza e prevedibilità, per cui la condotta del MERLINO
si era posta non come concausa dell'evento, e dovendosi invece ritenere
interrotto il nesso di causalità tra la causa remota e l'accaduto.
Motivi della decisione
Il ricorso di PELLE Antonio é infondato e va rigettato, trattandosi, peraltro,
prevalentemente di mera reiterazione dei motivi di appello, in ordine ai quali
la Corte territoriale ha correttamente motivato le ragioni per le quali non
meritavano accoglimento.
Con il primo motivo, infatti, il ricorrente ha riproposto l'eccezione secondo la
quale egli non era più direttore dei lavori all'epoca dell'incidente in cui morì
il MERLINO. Va subito precisato che il ricorrente non contesta che il direttore
dei lavori sia penalmente responsabile, ma elenca una serie di circostanze di
fatto, dalle quali si dedurrebbe che egli non ricopriva più tale qualifica, né
formalmente, né sostanzialmente, in data 9.7.1998, allorché la vittima cadde
dall'alto sulla scogliera.
La Corte di merito ha, invece, rilevato che la designazione del rappresentante
del Genio Civile era un accordo di massima intervenuto tra quest'ultimo ente ed
il Sindaco, e che la delibera del 14.5.1998 di revoca dell'incarico al PELLE,
nominato consulente della direzione dei lavori, non era stata seguita
dall'intervenuta accettazione da parte del Genio Civile. In particolare, poi, il
PELLE continuò ad esercitare le funzioni di direttore dei lavori, e, alla
riunione del 2.6.1998, si convenne, con l'adesione esplicita del PELLE, che il
subentro del nuovo direttore sarebbe stato preceduto dalla contabilizzazione dei
lavori precedenti e dalla redazione di una perizia di variante. Il ricorrente
continuò, pertanto, ad esercitare le funzioni almeno sino all' 11.9.1998,
allorché fu usata l'equivoca espressione "Dl in deroga alla revoca del
14.5.1998", ritenuta dal giudice di merito strumentale, come si evince dalla
circostanza che fu impiegata per la prima volta in epoca successiva al sinistro
mortale.
Né va taciuto che il PELLE partecipò alla riunione del 9.7.1998, di poche ore
antecedente rispetto all'evento letale.
Di fronte a tale logica e adeguata motivazione sul permanere dell'esercizio
della funzioni di direttore dei lavori, almeno sostanzialmente, da parte del
PELLE, non ha alcun rilievo la diversa interpretazione del ricorrente delle
circostanze di fatto e delle risultanze processuali, attenendo ad una differente
valutazione, non sindacabile in sede di legittimità, in presenza di motivazione
congrua e logica (Cass. 24.9.2003 n. 18; conformi, sempre a sezioni unite Cass.
n. 12/2000; n. 24/1999; n. 6402/1997), e cioè che proprio l'incarico di
contabilizzare i lavori eseguiti sarebbe - secondo il ricorrente - prova della
cessazione dell'incarico. Invece, tale contraria interpretazione delle
risultanze processuali è anche non convincente, in quanto la presenza ad una
riunione in cui si trattava delle ripresa dei lavori e di condizioni di
sicurezza, non ha alcuna attinenza con la mera contabilizzazione delle opere
eseguite.
La giurisprudenza di legittimità ha peraltro costantemente ritenuto, in tema di
reati colposi, la rilevanza dell'effettività delle mansioni ricoperte, ai fini
dell'attribuzione della "posizione di garanzia" (Cass. 16.6.2004 n. 40169,-
conforme Cass. 7.11.1990 n. 7600). Infatti, sarebbe illogico sancire un
principio astratto di responsabilità, almeno esclusiva (ben può esserlo
concorrente), in ogni settore del diritto penale, e anche nel campo dei reati
colposi, qualora la individuazione del datore di lavoro, del direttore dei
lavori, dell'appaltatore e del committente, oltre eventualmente delle persone,
che in modo del tutto "formale", ricoprono tali incarichi, non sia poi estesa a
coloro che effettivamente esercitino i poteri inerenti a tali mansioni. La
qualificazione e la responsabilità, non competono soltanto ai soggetti forniti
di formali investiture, ma a chiunque si trovi in una posizione tale da porlo in
condizioni di dirigere la attività lavorativa, e di renderlo così destinatario
sia delle specifiche norme di sicurezza del lavoro, sia dell'obbligo generico di
adottare le cautele necessarie (prudenza, diligenza, perizia) per salvaguardare
l' incolumità dei dipendenti e anche di terze persone estranee all'attività
lavorativa.
Con il secondo motivo di ricorso, il PELLE ha dedotto la violazione di legge per
essergli stata negata la concessione del beneficio della sospensione
condizionale della pena, essendo stato ritenuto riprovevole il suo
comportamento, ed avendo riportato in passato una sentenza di condanna, mentre
invece si trattava di sentenza di applicazione della pena su richiesta delle
parti (art. 444 c.p.p.).
Va precisato che la pena concordata in passato è stata di anni uno e mesi sei di
reclusione per reati di natura societaria e fallimentare, come ammesso dallo
stesso ricorrente, per cui, sommando la pena precedente con quella attuale di
mesi otto di reclusione, si supera il limite di due anni, previsto per la
concessione del beneficio, a norma dell'art. 164, 4° comma, c.p., in relazione
all'art. 163, 1° comma, c.p..
Va, pertanto, esaminato preliminarmente se, trattandosi di precedente sentenza
di "patteggiamento", e non di condanna, la pena patteggiata vada calcolata ai
fini del computo per la determinazione del limite massimo per la concessione del
beneficio. Ritiene questo Collegio di aderire all'orientamento ormai costante
della giurisprudenza di legittimità, conforme a quello espresso dalle sezioni
unite di questa Corte con la sentenza n. 31 del 22.11.2000-3.5.2001, con la
quale - nel formulare varie soluzioni per diverse fattispecie - è stato ritenuto
che il beneficio della sospensione condizionale della pena, se già concesso per
pena patteggiata, non può essere reiterato in relazione a successiva sentenza,
anche se di patteggiamento, per fatto anteriormente commesso, dalla quale derivi
l'applicazione di una pena detentiva che, cumulata con la precedente, superi i
limiti fissati dall'art. 163 c.p.p. (conformi Cass. 2.4.2003 n. 25734; Cass.
24.6.2003 n. 35728; Cass. 12.7.2004 n. 35891).
Diversamente interpretando, ai già previsti vantaggi derivanti dall'emissione di
una sentenza ex art. 444 c.p.p. (riduzione della pena; benefici di cui all'art.
445 c.p.p. in caso di pena inferiore a due anni), si aggiungerebbe quello di una
permanente impunità anche in caso di plurime violazioni della legge penale,
accertate in procedimenti diversi, che non può certo corrispondere alla volontà
del legislatore.
Si osserva, poi, che il giudizio di riprorevolezza della condotta del PELLE,
altro motivo ritenuto ostativo dal giudice di merito, è insindacabile in sede di
legittimità, essendo stato adeguatamente e logicamente motivato con il totale
disinteresse per la situazione di grave pericolo, della quale il PELLE era
perfettamente consapevole.
Con il terzo motivo di impugnazione, il ricorrente ha eccepito la violazione
dell'art. 606 lett. d) c.p.p. per non avere la Corte territoriale disposto, su
richiesta dell'appellante, la riapertura dell'istruttoria dibattimentale con
l'esame, ex art. 507 c.p.p., di AVENI Giovanni, titolare dell'impresa esecutrice
dei lavori, per accertare chi svolgeva effettivamente le mansioni di direttore
dei lavori. Sul punto la Corte ha ineccepibilmente motivato il rigetto dell'
istanza con la "chiarezza" della situazione probatoria, che non necessitava di
alcuna integrazione istruttoria (pag. 8 sentenza impugnata).
Sul punto, va ricordato che "nel giudizio d'appello la rinnovazione
dell'istruttoria dibattimentale, prevista dall'art. 603 comma primo cod. proc.
pen., è subordinata alla verifica dell'incompletezza dell'indagine
dibattimentale e alla conseguente constatazione del giudice di non poter
decidere allo stato degli atti senza una rinnovazione istruttoria; tale
accertamento è rimesso alla valutazione del giudice di merito, incensurabile in
sede di legittimità se correttamente motivata" (Cass. 5.12.2003 n. 4981;
conformi Cass. 19.2.2004 n. 18660; Cass. 2.12.2002 n. 68).
Nella specie, il giudice di merito ha concluso sulla responsabilità del PELLE in
termini di assoluta certezza sul punto qualificante, dedotto non solo da
argomentazioni logiche, ma soprattutto da prove scritte, quali la partecipazione
alle riunioni del 2.6.2998 e del 9.7.1998, e dalle stesse parziali ammissioni
dell'imputato di avere proseguito alcune attività, ritenute dal giudice di
appello specifiche del direttore dei lavori.
E' da escludere quindi che vi fossero le condizioni per ricorrere all'istituto
della rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, ritenuto, peraltro, di
carattere eccezionale, e da utilizzare solo nel caso che non si possa decidere
senza l'assunzione della prova richiesta (Cass. sezioni unite 24.1.1996 n. 2780;
Cass. 22.3.1999 n. 9531; Cass. 26.4.2000 n. 8106).
Con il quarto ed ultimo motivo di gravame, il PELLE ha - in modo del tutto
generico, in violazione dell'art. 581 lett. c) c.p.p. - eccepito la "violazione
dell'art. 606 lett. b - c - d" in quanto i giudici di primo e secondo grado non
avevano dichiarato la nullità dell'istruttoria dibattimentale per il mancato
esame dell'imputato, seppur ritualmente richiesto.
La Corte di merito ha già specificato che "non vi è prova di detta richiesta,
che non risulta riportata a verbale". Nell'atto di appello, il ricorrente aveva
già precisato che la richiesta non era stata riportata a verbale, ma è evidente
che l'impugnazione su un fatto assolutamente non documentato avrebbe richiesto
l'indicazione specifica della situazione dedotta, e non un genericissimo
richiamo del motivo di appello, esso stesso del tutto generico, per cui il
motivo di ricorso sul punto della decisione è addirittura inammissibile.
GIACOMANTONIO Michele e BARCA Gaetano, rispettivamente Sindaco e Assessore ai
lavori pubblici del Comune di Lipari, hanno proposto i rispettivi ricorsi per
cassazione con unico atto, per cui gli stessi vanno trattati congiuntamente.
Con il primo motivo di impugnazione i ricorrenti hanno dedotto la violazione
degli artt. 521, 522, 604, 178, 179 e 180 c.p.p., per non avere il giudice di
appello rilevato di ufficio la mancata correlazione tra contestazione e
sentenza, che sarebbe consistita, anche da parte del giudice di prime cure,
nell'attribuire ad essi, oltre il profilo di colpa specifico, riguardante il non
essersi attivati dopo la segnalazione di pericolo del 20.3.1998 da parte di
FONTE Alberto, anche altri profili di colpa generica, e quello specifico, di
essersi limitato ad indire una riunione il 9.7.1998, senza adottare alcun
provvedimento operativo.
Il motivo è infondato per più ragioni.
In primo luogo, dopo la remota sentenza a sezioni unite n. 1475 del 24.11.1984,
con la quale era stata ritenuta la nullità assoluta e insanabile, e quindi
rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del giudizio, della violazione di
cui agli artt. 521 e 522 c.p.p. (conforme Cass. 9.11.1992 n. 11651), la
giurisprudenza di legittimità si è orientata in modo univoco, tanto da non
richiedere alcun altro intervento delle SS.UU., nel diverso senso, secondo il
quale "la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza integra
una nullità a regime intermedio che, in quanto verificatasi in primo grado, può
essere dedotta fino alla deliberazione della sentenza del grado successivo. Ne
consegue che detta violazione non può essere dedotta per la prima volta in sede
di legittimità" (Cass. 22.2.2005 n. 10094; e tra le tante conformi Cass.
26.4.1999 n. 8639; Cass. 14.5.1997 n. 7957; Cass. 19.9.1995 n. 10685; Cass.
15.7.1993 n. 8712).
Ne consegue che i ricorrenti non possono legittimamente lamentarsi della
circostanze che il giudice di appello non ha rilevato "di ufficio" la nullità
sancita dall'art. 522 c.p.p.. D'altronde, va dato atto che nell'atto di
impugnazione i ricorrenti hanno precisato di essere consapevoli che la
giurisprudenza predominante (e va aggiunto, più recente) è orientata nel
ritenere che si tratti di nullità a regime intermedio.
Inoltre, la dedotta nullità - quand'anche fosse stata tempestivamente dedotta -
non si ravvisa affatto per due motivi.
Il primo è che il riferimento alla riunione del 9.7.1998 costituisce una mera
precisazione dello svolgimento dei fatti e ulteriore prova a carico degli
imputati per dimostrare la consapevolezza e la prevedibilità del pericolo; non
si tratta quindi di una nuova e diversa contestazione, ma di una ulteriore
risultanza istruttoria.
Il secondo motivo è che gli imputati hanno potuto ben difendersi da tale
circostanza, essendo stata portata a loro conoscenza fin dall'inizio del
procedimento. Sul punto, la giurisprudenza di legittimità si è orientata nel
senso espresso dalle sezioni unite con la sentenza n. 16 del 19.6.1996, e cioè
che "per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei
suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume
l'ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un'incertezza
sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti
della difesa: ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del
principio della correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto non va
esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e
sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è
del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'iter del processo, sia
venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto
dell'imputazione" (conformi Cass. 22.3.1999 n. 2642; Cass. 19.11.1999 n. 13267;
e recentemente Cass. 10.12.2003 n. 2443; Cass. 25.2.2004 n. 21094).
Da tali considerazioni consegue altresì l'irrilevanza nel presente giudizio
della eccezione di incostituzionalità proposta per contrasto con l'art. 24
Cost., in quanto, non essendovi stata alcuna violazione degli artt. 521 e 522
c.p.p., la decisione del Giudice delle Leggi non avrebbe comunque influenza nel
procedimento.
Del tutto infondato è poi il secondo motivo di ricorso, relativo alla presunta
inattendibilità delle dichiarazioni rese dal MANGANO e dal MAUGERI. I ricorrenti
hanno formulato una serie di valutazioni del tutto superflue sulla loro
credibilità ai fini della decisione, in quanto nella sentenza impugnata la
rilevanza delle dichiarazioni dei predetti MANGANO e MAUGERI è stata valorizzata
esclusivamente per accertare che "nella riunione tenuta in municipio il giorno
stesso in cui si verificò l'incidente si era rappresentata la situazione di
pericolo costituita dalla ringhiera". I ricorrenti non indicano nessun motivo
specifico che mini la credibilità dei dichiaranti, che al contrario vanno
ritenuti attendibili, soprattutto il MANGANO, il quale era stato assolto solo
all'esito del giudizio di primo grado, ed il cui provvedimento liberatorio era
l'oggetto degli appelli da parte del Procuratore Generale presso la Corte di
Appello di Messina e del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di
Barcellona Pozzo di Gatto.
Come è facile valutare, l'affermazione che nella riunione del 9.7.1998 si parlò
specificamente del pericolo rappresentato dalla ringhiera avrebbe potuto essere
valutato anche negativamente per il MANGANO, presente alla riunione, per cui non
si comprende in alcun modo quale sia l'interesse che avrebbe mosso il coimputato
a fornire una dichiarazione mendace e compromettente per lui stesso, né la
ragione della presunta inattendibilità viene chiarita dai ricorrenti.
Anche il terzo motivo di gravame è infondato. I ricorrenti hanno assunto la
violazione degli artt. 40 e 589 c.p., in relazione all'art. 38 legge 8.6.1990 n.
142, nonché la mancanza o manifesta illogicità della motivazione sul punto,
assumendo che nei contratti di appalto, con la consegna delle opere, gli
obblighi di custodia e di vigilanza sono trasmessi all'appaltatore, esonerando
dal controllo il pubblico committente.
Ritiene il Collegio, in primo luogo, che la citata norma disciplina le I
competenze del Sindaco come "ufficiale di governo", e cioè come rappresentante
dello Stato nel Comune, e che non ha alcuna relazione con la fattispecie in
esame, che va invece risolta, tenendo conto di situazioni concrete.
Non vi è dubbio che il Sindaco assumi, in tema di opere pubbliche da eseguire
nel Comune, la posizione di committente, e che tre presupposti costituiscano la
sua fonte di responsabilità collegata ad una posizione di garanzia, per così
dire limitata dalla presenza dell'appaltatore, ma non certamente esclusa, tanto
meno dalla norma indicata dal ricorrente. Tali fonti di responsabilità sono la
conoscenza del pericolo, la evitabilità dell'evento lesivo, e l'omesso
intervento di eliminazione del pericolo, trattandosi di reati omissivi impropri
(Cass. 18.11.1997 n. 478).
Che il GIACOMANTONIO e il BARCA fossero a conoscenza sia di un pericolo generale
derivante dallo stato di abbandono dell'area, sia della specifica pericolosità
della ringhiera, è circostanza pacifica, risultando dalla sentenza di appello
che i lavori erano sospesi fin dal 30.6.1998, e cioè ben nove giorni prima
dell'incidente mortale, e che nel pomeriggio dello stesso 9.7.1998, poche ora
prima della morte del MERLINO, si era tenuta una riunione in cui tali situazioni
erano state evidenziate. Proprio la sospensione dei lavori da alcuni giorni
lasciava intuire che l'impresa aveva abbandonato l'area, e che non avrebbe
potuto provvedere a riprenderne il controllo prima del giorno successivo alla
riunione del 9.7.1998, dovendo ovviamente reperire gli operai, rilevato altresì
che la sospensione dei lavori era prevista per la durata di tre mesi, e cioè dal
30.6.1998 al 30.9.1998.
A ciò va aggiunto - sempre in relazione alla cognizione del pericolo, ma anche
in ordine alla necessità dell'intervento - che la zona di pericolo era situata
in una zona centrale dell'isola di Lipari, e che il 9 luglio è periodo di alta
stagione per i turisti, oltre a valutare che Lipari è di gran lunga la più
grande isola delle Eolie, per cui era evidente anche il pericolo per gli
abitanti.
Da tutte tali circostanze si evince la piena cognizione da parte dei due
imputati (anche se il ricorso tratta principalmente la posizione del Sindaco)
del grave pericolo, e, trattandosi di pubblici amministratori, essi non possono
assumere una posizione di esonero da responsabilità addirittura superiore a
quella del privato committente, essendo peraltro dotati di poteri autoritativi
che consentono loro di supplire I all'eventuale inerzia ovvero alla
impossibilità concreta di agire sollecitamente da parte dell'appaltatore.
Premessa, pertanto, la conoscenza del pericolo, il pubblico amministratore non
può assumere alcun atteggiamento omissivo, ma deve o intervenire direttamente,(
tramite personale da lui incaricato per eliminare la fonte del pericolo stesso,
ovvero apprestare adeguate protezioni, ripari, cautele ed opportune
segnalazioni, in modo da impedire l'uso dell'area da parte di privati.
La Corte territoriale, con motivazione logica e adeguata, ha individuato la
colpa omissiva, proprio nel non avere attuato a mezzo del personale
amministrativo e della polizia municipale, provvedimenti come l'immediata
chiusura dell'intera piazza, o il transennamento della zona pericolosa, o ancora
il piantonamento della stessa, tutte misure facilmente realizzabili e idonee ad
evitare con certezza il verificarsi di un incidente come quello occorso al
MERLINO.
D'altronde, gli stessi ricorrenti ammettono che il Sindaco aveva comunque un
potere di intervento di urgenza, e quale situazione, se non quella in esame,
avrebbe meritato l'adozione di un tale potere, peraltro limitato nel tempo, in
quanto, come risulta dalla sentenza impugnata, alla riunione del 9.7.1998, i
presenti "convennero sugli interventi da eseguire e ne rinviarono l'esecuzione
al giorno successivo". Anche sotto tale profilo, la Corte di merito ha
individuato un ulteriore profilo di colpa, ritenendo che, quanto meno, i due
amministratori avrebbero dovuto accertarsi che l'impresa e il direttore dei
lavori si attivassero per adempiere all'incarico a loro affidato.
Sapendosi invece che questo intervento dell'appaltatore non veniva attuato
immediatamente, spettava proprio a chi aveva i poteri autoritativi di adottare
sull'area le misure autoritative indicate, e cioè in via decrescente la
chiusura, il transennamento o il piantonamento della zona, tutti provvedimenti
che avrebbero impedito al MERLINO di appoggiarsi alla ringhiera e poi
precipitare nel vuoto.
Ne consegue che il Sindaco e l'Assessore competente assumono, nei reati colposi,
una posizione di garanzia nel caso che non adottino alcun provvedimento urgente
atto ad eliminare una situazione di pericolo di cui sono consapevoli. Essendo
infatti dotati di poteri autoritativi sia per allestire un intervento atto ad
eliminare il pericolo, ovvero per disporre le cautele necessarie, non si ravvisa
la colpa omissiva impropria ex art. 40, 2° comma, c.p., solo nei casi in cui non
si abbia conoscenza di tale situazione di pericolo, ovvero non si abbia la
possibilità concreta, anche con la normale diligenza, di porre in atto i rimedi
utili per sanare la fonte del medesimo pericolo.
Tale principio non è in contrasto con quanto affermato recentemente da questa
stessa sezione della Suprema Corte con la sentenza n. 24030 del 27.2.2004, con
la quale è stato ritenuto non responsabile un Sindaco per l'incidente mortale
occorso ad un giovane caduto da un pennone della bandiera, sul quale si era
arrampicato nel corso di una manifestazione nella piazza del Comune. In tale
caso la presenza del pennone non costituiva di per sé alcuna fonte di pericolo
prevedibile, e l'incauta condotta del giovane si è posta come causa unica
dell'evento letale, essendo comportamento imprevedibile l'arrampicarsi su di
esso.
Al contrario l'appoggiarsi ad una ringhiera rientra in un comportamento del
tutto ordinario e prevedibile, per cui la sua conosciuta instabilità, unita
peraltro alla cognizione di una insicurezza di tutta l'area, costituisce
comportamento omissivo, causa dell'evento mortale, da parte di chi, pur
potendolo fare, non ha adottato le cautele necessarie per impedire l'evento.
Da quanto esposto risulta infondato anche il quarto ed ultimo motivo di ricorso,
secondo il quale l'evento sarebbe conseguenza esclusiva di una condotta
altamente imprudente ed imprevedibile della vittima, che avrebbe dovuto
facilmente individuare lo stato di pericolo, e non appoggiarsi alla ringhiera.
Invero, i ricorrenti non indicano neppure specificamente quali fossero gli
elementi idonei a fare riconoscere la situazione, ma si evince dalla lettura
della sentenza impugnata che dovrebbe trattarsi di un nastro bicolore appoggiato
sulla ringhiera.
Correttamente la Corte di merito ha ritenuto che l'eventuale concorso di colpa
del danneggiato non esclude la responsabilità di chi ha omesso di adottare le
misure di sicurezza. Indipendentemente da quanto sostenuto nella sentenza di
appello sulla possibilità di un malore improvviso o di altra causa sconosciuta,
anche il compimento di un atto consapevole ed imprudente della vittima non
consente di configurare l'ipotesi di cui all'art. 41, 2° comma, c.p., secondo il
quale "le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità, quando sono
state da sole sufficienti a determinare l'evento".
E' giurisprudenza costante di legittimità che tale causa debba configurarsi come
del tutto imprevedibile e opinabile e tale, dunque, da presentare i caratteri
dell'eccezionalità, dell'abnormità e dell'esorbitanza, e in assenza
dell'adozione di idonee misure di sicurezza (Cass. 3.11.2004 n. 3455; Cass.
9.4.2005 n. 23279). Tale principio giurisprudenziale, pur applicato solitamente
per gli infortuni sul lavoro, si estende ai casi di colpa omissiva impropria, in
quanto il mancato impiego delle cautele necessarie per impedire l'evento
mantiene la sua efficacia causale pur in presenza di una condotta concorrente
imprudente della vittima, rilevandosi peraltro nella specie che con l'adozione
delle semplici misure di sicurezza più volte indicate, il MERLINO non avrebbe
avuto la possibilità di appoggiarsi alla ringhiera instabile.
Al rigetto dei ricorsi consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p., la condanna in
solido di tutti i ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonché alla
rifusione delle spese sostenute per questo grado di giudizio dalle costituite
parti civili, che vengono liquidate come da dispositivo.
P. O. M.
La Corte rigetta i ricorsi e condanna in solido i ricorrenti al pagamento delle
spese processuali, nonché alla rifusione alle parti civili EIKE Lorenz e MERLINO
Marco delle spese sostenute in questo grado, che si liquidano in E 2.688,00, di
cui E 2.240,00 per onorario, oltre NA e CPA.
Cosi deciso in Roma il 29 novembre 2005
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