Per altre sentenze vedi: Sentenze per esteso
Copyright © Ambiente Diritto.it
CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, 21/07/2006 (Ud 21/03/2006), Sentenza n. 21488
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, 21/06/2006 (Ud 21/03/2006), Sentenza n. 21488
(Pres. Postiglione - Est. Fiale - Ric. Poggi)
CAMERA DI CONSIGLIO
DEL 21/03/2006
SENTENZA
N. 351
REGISTRO GENERALE
3084/06
Composta dagli Ill.mi Sigg.:
Dott. Amedeo POSTIGLIONE
Dott. Guido DE MAIO
Dott. Alfredo TERESI
Dott. Mario GENTILE
Dott. Aldo FIALE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da POGGI Sergio, n. a Genova il 24.6.1935
avverso l'ordinanza 9.1.2006 del Tribunale per riesame di Genova
Sentita la relazione fatta dal
consigliere dr. Aldo FIALE.
Udito il Pubblico Ministero nella persona del dr. A. DI POPOLO, che ha concluso
per il rigetto del ricorso
FATTO E DIRITTO
Il G.I.P. del Tribunale di Chiavari, con ordinanza del 12.12.2005, disponeva il
sequestro preventivo di un'area, sita a sud della locale piazza
dell'Umanità ed a dieci metri di distanza dalla scogliera frangiflutti,
interessata dallo stoccaggio in due grandi vasche di fanghi e materiali varii
derivanti dal dragaggio del fondale del porto turistico marittimo.
La misura di cautela reale veniva adottata in relazione ai reati di cui all'art.
51 del D.Lgs, n. 22/1997 ed all'art. 181 del D. Lgs. n. 42/2004, ipotizzati nei
confronti anche di Poggi Sergio, sindaco pro-tempore.
Veniva contestato all'indagato, nella qualità, di avere, senza le prescritte
relative autorizzazioni:
- gestito e stoccato rifiuti costituiti da materiale di risulta di opere di
dragaggio del porto (oltre a fanghi, rifiuti disomogenei quali catene, cavi di
acciaio e di nylon, reti da pesca, legno, plastica, copertoni di auto, batterie,
accumulatori etc.)
- effettuato, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, il deposito di tali
materiali (circa 10.000 mc. derivanti dal dragaggio dell'imbocco del porto e
circa 7.500 mc. derivanti dal dragaggio all'interno di esso) in due grandi
vasche.
Il G.I.P., quanto alla violazione della normativa sui rifiuti, rilevava che:
- alle sabbie dragate, nella specie, erano mischiati rifiuti disomogenei e non
riutilizzabili neppure previo trattamento, i quali, in ogni caso, previa
un'operazione di cernita, dovevano essere inviati in discarica;
- era stato previsto l'utilizzo dei fanghi per creare un piazzale sopraelevato
da adibire a parcheggio; detto riutilizzo, però, costituiva il frutto di una
scelta amministrativa che non si riconnetteva alla qualità intrinseca del
materiale e non lo privava della qualifica di rifiuto;
- l'ARPAL aveva effettuato alcune campionature in sede di caratterizzazione del materiale da dragare (allorquando questo si trovava ancora nel fondo marino) in seguito alle quali aveva concluso [con missiva del 10.3.2003] che "i valori riscontrati, con particolare riferimento a L.P.A., P.C.B., pesticidi e fitofarmaci, granulometria (fraz. fini), fanno ritenere doversi esprimere giudizio negativo circa l'ipotesi di un eventuale riutilizzo per ripascimenti", ed aveva poi ribadito [con missiva del 17.5.2004) che le risultanze delle analisi non potevano di per sé legittimare un riutilizzo alternativo del materiale per sottofondi e/o rilevati in aree a terra.
Il Tribunale di Genova, con ordinanza del 9.1.2006, rigettava l'istanza di
riesame proposta nell'interesse del sindaco indagato.
Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso il Poggi, il quale - sotto il
profilo della violazione di legge - ha eccepito che:
- "le sabbie dragate dal fondo marino non sono ex se qualificabili come
rifiuto (tanto da non essere così indicate nel Catalogo europeo dei rifiuti
e negli allegati del decreto Ronchi) e possono venire riutilizzate, in ossequio
all'art. 6 del decreto Ronchi come autenticamente interpretato dalla legge n.
178/2002, a seguito di semplice trattamento preventivo non rientrante tra quelli
finalizzati al recupero";
- un materiale non costituisce "rifiuto" se manca la decisione di disfarsene.
Nella specie, con espressa delibera di Giunta e presentazione di variante
progettuale, era stato previsto che le sabbie provenienti dal dragaggio del
porto venissero destinate al riempimento di un'area destinata a parcheggio,
previo mero dilavamento con acqua dolce da realizzarsi in due vasche precarie
create a margine dell'area da ricolmare: detto dilavamento integra appunto mero
"trattamento preventivo" e non operazione di recupero, mentre l'acqua di
lavaggio, che può contenere residui argillosi, era stata smaltita come rifiuto
da una ditta autorizzata;
- la presenza di materiali diversi da quello sabbioso e la necessità di
provvedere alla loro separazione dalla sabbia dragata non potrebbe mai, anche
qualora detta separazione non fosse autorizzata, trasformare la sabbia in
rifiuto;
- la destinazione del materiale dragato, prevista dal Comune, deve considerarsi
"certa ed attuale", pur non essendo stata ancora approvata il relativo progetto
di variante: la "certezza" del riutilizzo, infatti, è collegata non
all'effettività fattuale di questo, bensì all'esistenza di segni esteriori in
equivoci che portino ad individuare con un grado di sufficiente certezza quale
sarà la destinazione del prodotto;
- esiste un protocollo ARPAL che fissa i limiti di inquinamento nelle sabbie ma
solo per il successivo ripascimento delle spiagge. Le sabbie dragate, invece,
anche in relazione alle analisi effettuate dall'ARPAL sul fondale da cui sono
state prelevate, sono nei limiti, diminuiti prudenzialmente del 10%, dei
parametri stabiliti dal D.M. n. 471/1999 per il riutilizzo a scopi
industriali e tale deve considerarsi il riempimento di un'area destinata a
parcheggio.
Il ricorso deve essere rigettato, poiché infondato.
1. Il reato di cui all'art. 181 del D.Lgs. n. 42/2004.
Sussiste ad evidenza - ed in proposito non vi è contestazione alcuna
dell'indagato - il "fumus" della contravvenzione di cui all'art. 181 del
D.Lgs. n. 42/2004.
Il primo comma di tale articolo (che, nella sua formulazione complessiva, ha
subito rilevanti modifiche ad opera della legge 15.12.2004, n. 308) punisce come
reato contravvenzionale la condotta di "chiunque, senza la prescritta
autorizzazione o in difformità da essa, esegue lavori di qualsiasi genere
su beni paesaggistici".
Viene imposto così un generale di divieto di alterare lo stato dei beni
vincolati, apportandovi modificazioni suscettibili di recare pregiudizio a
quell'aspetto esteriore ed a quel pregio estetico che costituisce l'oggetto e la
ragione della tutela.
Ogni intervento deve essere autorizzato dall'autorità competente, secondo le
procedure previste dalla normativa di dettaglio, con le sole deroghe previste
dall'art. 149 dello stesso D.Lgs.
La condotta vietata consiste, dunque, nell'effettuazione di opere o lavori di
qualsiasi genere, non necessariamente afferenti all'edilizia, ma potenzialmente
modificativi dell'assetto del territorio assoggettato a vincolo paesaggistico.
L'eventuale carattere temporaneo delle opere realizzate non esclude la
sussistenza del reato, poiché anche una modificazione temporanea dei luoghi può
concretizzare un danno ambientale e perché soltanto il controllo preventivo
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo consente di accertare la natura
realmente temporanea dell'intervento ed eventualmente di prescrivere le cautele
necessarie alla realizzazione dello stesso ed alla rimozione successiva dei suoi
effetti (vedi Cass., Sez. III, 15.10.1999, Di Tommaso).
La ravvisabilità del "fumus" del reato in oggetto già dà sola
giustifica la misura di cautela reale adottata.
2. La disciplina dei "rifiuti" ed i materiali insistenti nell'area
sequestrata.
2.1 Le caratteristiche principali della nozione di "rifiuto", in ambito
europeo, sono individuate dall'art. 1 della direttiva del Consiglio
15.7.1975, n. 75/442/CEE (sui rifiuti in generale), modificata dalla
direttiva 18.3.1991, n. 91/156/CEE [sostituita, nelle more della redazione della
presente sentenza, dalla direttiva del Parlamento e del Consiglio dell'Unione Europea 5.4.2006, n. 2006/12/CE] e dall'art. 1 della
direttiva del Consiglio 20.3.1978, n. 78/319/CEE (sui rifiuti tossici e
pericolosi), modificata dalla direttiva 12.12.1991, n. 91/689/CEE.
Secondo tali direttive "per rifiuto si intende qualsiasi sostanza od
oggetto [che attualmente rientri nelle categorie riportate nell'Allegato I
alla direttiva n. 2006/12/CE] di cui il detentore si disfi o abbia
l'intenzione o l'obbligo di disfarsi".
La nozione medesima è stata altresì recepita dall'art. 2, lett. a), del
Regolamento del Consiglio CEE 1 febbraio 1993, n. 259/93, relativo ai
trasporti transfrontalieri di rifiuti (immediatamente e direttamente applicabile
in Italia secondo Corte Cost. n. 170/1984).
2.2 Nel nostro Paese le caratteristiche che, in ambito comunitario, individuano
la nozione di "rifiuto", sono state riprodotte nell'art. 6, comma 1
-
lett. a), del D.Lgs. n. 22/1997 [ed attualmente nell'art. 183, lett. a),
del D.Lgs. 3.4.2006, n. 152, pubblicato nella G. U. n. 96/L del 14.4.2006]
secondo cui "è rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle
categorie riportate nell'Allegato A (attualmente alla parte IV del D.Lgs. n.
152/2006) e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di
disfarsi".
Tale normativa - attraverso il rinvio all'Allegato A), che riproduce l'Allegato
I della direttiva n. 75/442/CEE e della direttiva n. 2006/12/CE - riporta
l'elenco delle 16 categorie di rifiuti individuate in sede comunitaria.
Il primo elemento essenziale della nozione di "rifiuto", nel nostro ordinamento,
è costituito, pertanto, dall'appartenenza ad una delle categorie di materiali e
sostanze individuate nel citato Allegato A), ma l'elenco delle 16 categorie di
rifiuti in esso contenuto non è esaustivo ed ha un valore puramente indicativo,
poiché lo stesso Allegato "A) comprende due voci residuali capaci di includere
qualsiasi sostanza od oggetto, da qualunque attività prodotti:
- la voce Q1, che riguarda "i residui di produzione o di consumo in appresso non
specificati";
- la voce Q16, che riguarda "qualunque sostanza, materia o prodotto che non rientri nelle categorie sopra elencate".
E' necessario tenere essenzialmente conto, pertanto, delle ulteriori condizioni
imposte dalla legge, e verificare cioè, anche e soprattutto, che il detentore
della sostanza o del materiale:
- se ne disfi;
- o abbia deciso di disfarsene;
- o abbia l'obbligo di disfarsene.
2.3 Le tre diverse previsioni del concetto di "disfarsi" avevano trovato
"interpretazione autentica" nell'art. 14 del D.L. 8.7.2002, n. 138, pubblicato
in pari data nella Gazzetta Ufficiale e convertito nella legge 8.8.2002, n. 178.
Secondo quella interpretazione:
a) "si disfi" doveva intendersi: qualsiasi comportamento attraverso il quale in
modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale o un bene sono avviati o
sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B) e
C) del D.Lgs. n. 22/1997;
b) "abbia deciso di disfarsi" doveva intendersi: la volontà di destinare
sostanze, materiali o beni ad operazioni di smaltimento e di recupero, secondo
gli allegati B) e C) del D.Lgs. n. 22/1997;
c) "abbia l'obbligo di disfarsi" doveva intendersi: l'obbligo di avviare un
materiale, una sostanza o un bene ad operazioni di recupero o di smaltimento,
stabilito da una disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche
autorità o imposto dalla natura stessa del materiale, della sostanza e del bene
o dal fatto che i medesimi siano compresi nell' elenco dei
rifiuti pericolosi di cui all'Allegato D) del D.Lgs. n. 22/1997 (che riproduce
la lista di rifiuti che, a norma della direttiva n. 91/689/CEE, sono
classificati come pericolosi).
Le fattispecie di cui alle lettere b) e c) [cioè le ipotesi in cui il detentore
della sostanza o del materiale "abbia deciso" ovvero "abbia l'obbligo di
disfarsi" e non anche l'ipotesi in cui esso "si disfi"] non ricorrevano
- per
beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo - ove
sussistesse una delle seguenti condizioni:
1) gli stessi potessero essere e fossero effettivamente e oggettivamente
riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo,
senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare
pregiudizio all'ambiente;
2) gli stessi potessero essere e fossero effettivamente e oggettivamente
riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo,
dopo aver subito un trattamento preventivo, senza che si renda necessaria alcuna
operazione di recupero tra quelle individuate nell'Allegato C) del D.lgs. n.
22/1997.
Era stata cosi introdotta una doppia deroga alla nozione generale di "rifiuto",
in relazione alla quale la Commissione Europea ha aperto una procedura di
infrazione (ex art. 169/226 del Trattato) nei confronti del Governo italiano,
per mancato rispetto della direttiva n. 75/442/CEE come modificata dalla
direttiva n. 91/156/CEE, conclusasi con un invito di conformazione rivolto al
nostro Paese, essendo stata ravvisata "un'indebita limitazione del campo di
applicazione dello nozione di rifiuto", nozione che "non può essere commisurata
allo specifico tipo di operazione di recupero o smaltimento che viene
effettuata".
2.4 La Corte Europea di giustizia - con la sentenza 11.11.2004, Niselli
- ha
affermato che:
a) "La direttiva 75/442 non suggerisce alcun criterio determinante per
individuare la volontà del detentore di disfarsi di una determinata sostanza o
di un determinato materiale. In mancanza di disposizioni comunitarie, gli Stati
membri sono liberi di scegliere le modalità di prova dei diversi elementi
definiti nelle direttive da essi trasposte, purché ciò non pregiudichi
l'efficacia del diritto comunitario ... Dal fatto che su una sostanza venga
eseguita un'operazione menzionata negli allegati II a o II B della direttiva
75/442 non discende necessariamente che l'operazione consista nel disfarsene e
che, quindi, tale sostanza vada considerata rifiuto". Ne consegue che "la
definizione di rifiuto contenuta nell'art.1, lett. a) - l° comma, della
direttiva 75/442, non può essere interpretata nel senso che essa ricomprenderebbe tassativamente le sostanze o i materiali destinati o soggetti
alle operazioni di smaltimento o di recupero menzionate negli allegati II a e II
B di detta direttiva, oppure in elenchi equivalenti, o il cui detentore abbia
l'intenzione o l'obbligo di destinarli a siffatte operazioni". La qual cosa
equivale ad escludere che la nozione di rifiuto possa dipendere, in definitiva,
da un'elencazione chiusa di comportamenti e sostanze.
b) "La definizione di rifiuto, contenuta nell'art. 1, lett. a) - 1° comma,
della direttiva 75/442, non deve essere interpretata nel senso che essa
escluderebbe l'insieme dei residui di produzione di produzione o di consumo che
possono essere o sono riutilizzati in un ciclo di produzione o di consumo, vuoi
in assenza di trattamento preventivo e senza arrecare danni all'ambiente, vuoi
previo trattamento ma senza che occorra tuttavia un'operazione di recupero ai
sensi dell'allegato II B di tale direttiva".
E' ammissibile e non contrasta con le finalità della direttiva 75/442
"un'analisi secondo la quale un bene, un materiale o una materia prima derivante
da un processo di fabbricazione o di estrazione che non é principalmente
destinato a produrlo può costituire non un residuo, bensì un sottoprodotto, del
quale l'impresa non ha intenzione di disfarsi ai sensi dell'art. 1, lett. a) -
1° comma, della direttiva 75/442, ma che essa intende sfruttare o
commercializzare a condizioni per lei favorevoli, in un processo successivo,
senza operare trasformazioni preliminari".
Ne è derivata la affermazione della illegittimità comunitaria dell'art.14 del
D.L. n. 138/4102, perché i materiali che non sono riutilizzati in maniera certa
e richiedono una previa trasformazione sono semplici sostanze di cui i detentori
si sono voluti disfare, che "devono tuttavia conservare la qualifica di rifiuti
finché non siano effettivamente riciclati [... ], finché cioè non costituiscano
i prodotti finiti del processo di trasformazione cui sono destinati. Nelle fasi
precedenti essi non possono ancora, infatti, essere considerati riciclati,
poiché il detto procedimento di trasformazione non è terminato. Viceversa, fatto
salvo il caso in cui i prodotti ottenuti siano a loro volta abbandonati, il
momento in cui i materiali in questione perdono la qualifica di rifiuto non può
essere fissato ad uno stadio industriale o commerciale successivo alla loro
trasformazione [...], poiché, a partire da tale momento, essi non possono più
essere distinti da altri prodotti scaturiti da materie prime primarie".
2.5 La sentenza interpretativa della Corte di Giustizia ha costituito il
presupposto di una questione di legittimità costituzionale dell'art. 14 del D.L.
n. 130/2002 (convertito nella legge n. 178/2002), per violazione degli artt. 11
e 117 Cost., sollevata da questa Corte Suprema con ordinanza n. 1414 del
16.1.2006, Rubino (ud. pubbl. del 14.12.2005).
Tutta la questione dovrà essere riesaminata, comunque, alla stregua delle nuove
previsioni contenute, al riguardo, nel D.Lgs. 3.4.2006, n. 152, pubblicato nella
G. U. n. 96/L del 14.4.2006, attuativo della delega di cui alla legge n.
308/2004, che ha abrogato l'art. 14 del D.L. n. 138/2002 (art. 264, 1° comma,
lett. l).
2.6 Nella fattispecie in esame, però - al di là di ogni questione riferita ai
campionamenti ed alle analisi effettuati dell'ARPAL e dalla difesa, con
particolare riguardo alla presenza nei fanghi di diossine, fisrani e fosforo ed
alla configurabilità di pericolo di pregiudizio per l'ambiente - è l'oggettività
del fatto a conferire ai materiali depositati nelle due vasche la qualificazione
di "rifiuti". Ed infatti:
- in tali vasche, assoggettate a sequestro, erano depositati anche materiali
(residuali non di produzione ma di consumo) compresi nell' elenco dei rifiuti
pericolosi di cui all'Allegato D) del D.Lgs. n. 22/1997 [attualmente Allegato D)
della parte IV del D.Lgs. n. 152/20061 per i quali sussisteva e sussiste
"l'obbligo di disfarsi"';
- i materiali da dragaggio portuale dovevano subire, nella specie, una
preliminare attività di separazione e di cernita [attività la cui qualificazione
come "trattamento preventivo", piuttosto che come "recupero", non era pacifica
anteriormente al D.Lgs. n. 152/2006] e si ricollegano comunque ad una operazione
di recupero (R14) ricompresa tra quelle individuate nell'Allegato C) del D.Lgs.
n. 22/1997;
- il successivo lavaggio con acqua dolce non costituisce mero "trattamento
preventivo", bensì vera e propria operazione di recupero, implicante
trasformazione merceologica del materiale attraverso la separazione di residui
argillosi (che, secondo le ammissioni dello stesso ricorrente, venivano smaltiti
come rifiuto da una ditta autorizzata);
- prima della cernita e del dilavamento, dunque, i materiali dragati
conservavano la qualifica di rifiuti.
La situazione è ancora più chiara alla stregua della normativa introdotta [nelle
more della redazione della presente sentenza) dal D.Lgs. n. 152/2006, in quanto:
- l'art. 185, 1° comma, lett. 1), del D.Lgs. n. 152/2006 esclude dal campo di
applicazione della parte IV dello stesso testo normativo non il materiale da
dragaggio dei porti marittimi,
bensì esclusivamente il "materiale litoide estratto da corsi d'acqua, bacini
idrici ed alvei, a seguito di manutenzione disposta dalle autorità competenti"';
- il materiale da dragaggio ricavato nella fattispecie non può qualificarsi -
allo stato - "materia prima secondaria", ai sensi dell'art. 181, commi 6 e 13,
del D.Lgs. n. 152/2006, anche in mancanza del decreto ministeriale di attuazione
previsto dal 6° comma;
- a norma dell'art. 181, comma 12, del D.Lgs. n. 152/2006, "la disciplina in
materia di gestione dei rifiuti si applica fino al completamento delle
operazioni di recupero, che si realizza quando non sono necessari ulteriori
trattamenti perché le sostanze, i materiali e gli oggetti ottenuti possono
essere usati in un processo industriale o commercializzati come materia prima
secondaria, combustibile o come prodotto da collocare, a condizione che il
detentore non se ne disfi o non abbia deciso, o non abbia l'obbligo, di
disfarsene";
- tra le operazioni di "recupero", ex art. 183, lett. h), del D.Lgs. n.
152/2006, sono espressamente "incluse la cernita o la selezione".
2.7 Nella specie è ravvisabile, pertanto, il "fumus" anche
della ipotesi contravvenzionale di cui all'art. 51, 1° comma, lett. a) e b), del
D. Lgs. n. 22/1997 [attualmente art. 256, 1° comma, del D.Lgs. n. 152/2006].
Né allo stato - tenuto anche conto che il deposito del materiale dragato è in
corso dal 2004 - sussistono elementi che rendano applicabile, ad evidenza, il
disposto dell'art. 6, comma 1, lett. m), del D. Lgs. n. 22/1997 (con le
modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 389/1997) ed attualmente dell'art. 183, lett.
m), del D.Lgs. n. 152/2006, al fine di argomentare che non si verterebbe in tema
di "gestione di rifiuti", bensì sarebbe configurabile soltanto una legittima
operazione preliminare all'attività di gestione, preparatoria al recupero.
Tali norme definiscono il deposito temporaneo dei rifiuti quale "raggruppamento
dei rifiuti effettuato, prima della raccolta, nel luogo in cui gli stessi sono
prodotti" nel rispetto di specifiche condizioni riferite: ai limiti della
presenza di determinate sostanze; alle cadenze temporali di raccolta e di
avviamento alle operazioni di recupero o di smaltimento; ai termini massimi di
durata; alle modalità del deposito stesso.
Non risulta, nella specie, che dette condizioni siano state rispettate.
3 I limiti dell'accertamento incidentale demandato al Tribunale dei riesame.
Secondo la giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte Suprema, nei
procedimenti incidentali aventi ad oggetto il riesame di provvedimenti di
sequestro:
- la verifica delle condizioni di legittimità della misura da parte del
Tribunale non può tradursi in una anticipata decisione della questione di merito
concernente la responsabilità dell'indagato in ordine al reato o ai reati
oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra
fattispecie concreta e fattispecie legale ipotizzata, mediante una valutazione
prioritaria ed attenta della antigiuridicità penale del fatto (Cass., Sez. Un.,
7.11.1992, ric. Midolini);
- "l'accertamento della sussistenza del fumus commissi delicti va compiuto
sotto il profilo della congruità degli elementi rappresentati, che non possono
essere censurati in punto di fatto, per apprezzarne la coincidenza con le reali
risultanze processuali, ma che vanno valutati cosi come esposti, al fine di
verificare se essi consentono di sussumere l'ipotesi formulata in quella tipica.
Il Tribunale, dunque, non deve instaurare un processo nel processo, ma svolgere
l'indispensabile ruolo di garanzia, tenendo nel debito conto le contestazioni
difensive sull'esistenza della fattispecie dedotta ed esaminando sotto ogni
aspetto l'integralità dei presupposti che legittimano il sequestro" (Cass., Sez.
Un., 29.1.1997, n. 23, ric. P.M. in proc. Bassi e altri).
Alla stregua di tali principi e di tutte le considerazioni dianzi svolte, deve
allora rilevarsi che, nella fattispecie in esame - spettando ai giudici del
merito l'ulteriore approfondimento e la compiuta verifica - allo stato, a fronte
dei prospettati elementi, della cui
sufficienza in sedi cautelare non può dubitarsi, le argomentazioni difensive non
valgono certo ad escludere la legittimità della misura adottata.
4. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle
spese del procedimento.
P.Q.M.
la Corte Suprema di Cassazione,
visti gli artt. 127 e 325 c.p.p.,
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso in ROMA, nella camera di consiglio del 21.3.2006.
1) Beni culturali e ambientali - Esecuzione di lavori di qualsiasi genere su beni paesaggistici - Autorizzazione - Necessità - Modificazioni suscettibili di recare pregiudizio - Misure di cautela reale - Art. 181 D.Lgs. n. 42/2004 - L. n. 308/2004. Il primo comma dell'art. 181 del D.Lgs. n. 42/2004 (che, nella sua formulazione complessiva, ha subito rilevanti modifiche ad opera della legge 15.12.2004, n. 308) punisce come reato contravvenzionale la condotta di "chiunque, senza la prescritta autorizzazione o in difformità da essa, esegue lavori di qualsiasi genere su beni paesaggistici". Viene imposto così un generale di divieto di alterare lo stato dei beni vincolati, apportandovi modificazioni suscettibili di recare pregiudizio a quell'aspetto esteriore ed a quel pregio estetico che costituisce l'oggetto e la ragione della tutela. Ogni intervento deve essere autorizzato dall'autorità competente, secondo le procedure previste dalla normativa di dettaglio, con le sole deroghe previste dall'art. 149 dello stesso D.Lgs. La condotta vietata consiste, dunque, nell'effettuazione di opere o lavori di qualsiasi genere, non necessariamente afferenti all'edilizia, ma potenzialmente modificativi dell'assetto del territorio assoggettato a vincolo paesaggistico. L'eventuale carattere temporaneo delle opere realizzate non esclude la sussistenza del reato, poiché anche una modificazione temporanea dei luoghi può concretizzare un danno ambientale e perché soltanto il controllo preventivo dell'autorità preposta alla tutela del vincolo consente di accertare la natura realmente temporanea dell'intervento ed eventualmente di prescrivere le cautele necessarie alla realizzazione dello stesso ed alla rimozione successiva dei suoi effetti (vedi Cass., Sez. III, 15.10.1999, Di Tommaso). La ravvisabilità del "fumus" del reato in oggetto già dà sola giustifica una misura di cautela reale. Pres. Postiglione Est. Fiale Ric. Poggi. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, 21 giugno 2006, (Ud 21 marzo 2006), sentenza n. 21488
2) Rifiuti - Materiale di dragaggio porti marittimi - Rifiuti dei "materiali litoidi" - Esclusione - Art. 185, c. 1° D.Lgs. 152/2006. Il materiale di dragaggio dei porti marittimi non rientra nell'ipotesi di esclusione dal campo di applicazione della disciplina dei rifiuti dei "materiali litoidi" di cui all'articolo 185, comma primo D.Lgs. 152/2006. Pres. Postiglione Est. Fiale Ric. Poggi. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, 21 giugno 2006, (Ud 21 marzo 2006), sentenza n. 21488
3) Procedure e varie - Verifica delle condizioni di legittimità - Limiti. La verifica delle condizioni di legittimità della misura da parte del Tribunale non può tradursi in una anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità dell'indagato in ordine al reato o ai reati oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra fattispecie concreta e fattispecie legale ipotizzata, mediante una valutazione prioritaria ed attenta della antigiuridicità penale del fatto (Cass., Sez. Un., 7.11.1992, ric. Midolini). Pres. Postiglione Est. Fiale Ric. Poggi. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, 21 giugno 2006, (Ud 21 marzo 2006), sentenza n. 21488
4) Procedure e varie - Sequestro - Accertamento della sussistenza del fumus commissi delicti - Garanzia. L'accertamento della sussistenza del fumus commissi delicti va compiuto sotto il profilo della congruità degli elementi rappresentati, che non possono essere censurati in punto di fatto, per apprezzarne la coincidenza con le reali risultanze processuali, ma che vanno valutati cosi come esposti, al fine di verificare se essi consentono di sussumere l'ipotesi formulata in quella tipica. Il Tribunale, dunque, non deve instaurare un processo nel processo, ma svolgere l'indispensabile ruolo di garanzia, tenendo nel debito conto le contestazioni difensive sull'esistenza della fattispecie dedotta ed esaminando sotto ogni aspetto l'integralità dei presupposti che legittimano il sequestro (Cass., Sez. Un., 29.1.1997, n. 23, ric. P.M. in proc. Bassi e altri). Pres. Postiglione Est. Fiale Ric. Poggi. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, 21 giugno 2006, (Ud 21 marzo 2006), sentenza n. 21488
Per ulteriori approfondimenti ed altre massime vedi il canale: Giurisprudenza