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CORTE DI CASSAZIONE Sezione Prima Civile, del 10 febbraio 2006, Sentenza n. 2995
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
CORTE DI CASSAZIONE Sezione Prima
Civile, del 10 febbraio 2006, Sentenza n. 2995
(Presidente U. Vitrone,
Relatore S. Benini)
Omissis
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 12.4.1996, il Ministero dei beni culturali e
ambientali conveniva in giudizio Loria Emilio davanti al Tribunale di Roma,
chiedendo l'accertamento della proprietà pubblica dei beni archeologici, già
sequestrati in sede penale presso il domicilio del convenuto, e successivamente
sottoposti a sequestro giudiziario, ed il conseguimento del relativo possesso.
Si costituiva in giudizio Loria Emilio contestando il fondamento della domanda,
di cui chiedeva il rigetto: i beni non dovevano considerarsi di interesse
archeologico, e dunque potevano appartenere a privati, e
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 1283/03 della Corte d'Appello di ROMA, depositata il
17/03/03;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 31/01/2006 dal
Consigliere Dott. Stefano SENINI;
udito per il ricorrente l'Avvocato CHIUCCHIARELLI che ha chiesto l'accoglimento
del ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Rosario
Giovanni RUSSO che ha concluso per l'accoglimento per quanto di ragione dei
motivi 1, 3, 4 e 7 del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 12.4.1996, il Ministero dei beni culturali e
ambientali conveniva in giudizio Loria Emilio davanti al Tribunale di Roma,
chiedendo l'accertamento della proprietà pubblica dei beni archeologici, già
sequestrati in sede penale presso il domicilio del convenuto, e successivamente
sottoposti a sequestro giudiziario, ed il conseguimento del relativo possesso.
Si costituiva in giudizio Loria Emilio contestando il fondamento della domanda,
di cui chiedeva il rigetto: i beni non dovevano considerarsi di interesse
archeologico, e dunque potevano appartenere a privati, e
comunque erano da considerare acquisiti per usucapione.
Avverso la sentenza di primo grado, che, restituiti alcuni pezzi, dichiarava
l'appartenenza degli altri al patrimonio indisponibile dello Stato, cui
attribuiva il possesso, proponeva appello il Loria.
Con sentenza depositata il 17.3.2003, la Corte d'Appello di Roma rigettava il
gravame. Le cose d'interesse culturale, indipendentemente dal valore economico,
fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato e in quanto tali non sono
usucapibili: alla stregua di tale principio vanno considerate quelle sequestrate
al Loria, il quale non aveva dato prova di averne acquisito il possesso prima
del 1909.
Ricorre per Cassazione Loria Emilio affidandosi a otto motivi, illustrati da
memoria, al cui accoglimento si oppone con controricorso il Ministero per i beni
e le attività culturali.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso, Loria Emilio, denunciando violazione e falsa
applicazione dell'art. 5 1. 20.9.1909 n. 364, dell'art. 53 r.d. 30.1.1913 n.
363, nonché degli artt. 2, 3, 5, 35, 39, 53, 54 e 71 1. 1.6.1939 n. 1089, degli
artt. 6 e 8 d.lgs. 29.10.1999 n. 490, censura la sentenza impugnata per aver
considerato assoggettati alla disciplina vincolistica delle cose d'antichità gli
oggetti archeologici, pur se non muniti d'interesse artistico. I beni
sequestrati al ricorrente non sono mai stati riconosciuti d'interesse culturale,
mediante una formale "notifica", che è elemento costitutivo del vincolo, pur se
l'amministrazione ben ne conosceva l'esistenza. Prima della notifica il
detentore non ha alcun obbligo in relazione agli stessi beni: solo dopo la
notifica, attraverso la quale l'amministrazione dà una valutazione sul pregio
dell'oggetto, il bene viene a far parte del patrimonio indisponibile.
L'evoluzione legislativa, fin dalla prima legge organica in materia, la n. 364
del 1909, e in seguito la n. 1089 del 1939, mostra chiaramente l'attenzione
dell'ordinamento solo per le cose che possiedano un valore culturale
apprezzabile, non anche per quelle semplicemente vetuste: l'enfatizzazione del
principio di proprietà statale porrebbe serissimi problemi di conservazione,
posta l'ingente quantità di testimonianze archeologiche venute alla luce nel
nostro paese.
Con il secondo motivo di ricorso, il Loria, denunciando violazione e falsa
applicazione dell'art. 15 1. 20.6.1909 n. 364, censura la sentenza impugnata per
non aver tenuto conto che lo Stato non ha dato la prova di aver rilasciato, come
la legge impone, la quarta parte delle cose rinvenute, o il prezzo equivalente,
o la totalità dei beni rinvenuti, giudicati non interessanti per le collezioni
dello Stato.
Con il terzo motivo il ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione
dell'art. 132 c.p.c., ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su
punti decisivi, censura la sentenza impugnata per aver operato un semplice
richiamo alla motivazione di primo grado, senza darsi carico di spiegare il
perché doveva essere i1 Loria a provare l'acquisto dei beni prima del 1909.
Con il quarto motivo il ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione
dell'art. 2697 c.c., e 3 e 101 Cost., censura la sentenza impugnata per avere
ingiustificatamente sovvertito il principio dell'onere probatorio, che è
garanzia dell'uguaglianza delle parti e della terzietà del giudice, e non
tollera posizioni di privilegio processuale: la vicenda penale scaturita dal
sequestro dei beni di cui è causa, si è conclusa con l'assoluzione del moria dai
reati di furto archeologico e ricettazione, attesa l'impossibilità di accertare
esattamente l'epoca del rinvenimento dei beni nel sottosuolo.
Con il quinto motivo di ricorso, il Loria, denunciando violazione e falsa
applicazione dell'art. 826, secondo comma, c.c., censura la sentenza impugnata
per non aver considerato che l'attribuzione della proprietà pubblica ai beni
archeologici, da chiunque rinvenuti nel sottosuolo, non è incondizionata, ma
concepibile alle condizioni stabilite dalla legge 1089 del 1939, che presuppone
l'interesse particolarmente importante delle cose, e la loro avvenuta notifica:
non può ritenersene l'interesse culturale per il solo fatto che siano stati
rinvenuti nel sottosuolo. Diversamente, si tratta di un bene commerciale,
soggetto alla disciplina delle cose comuni.
Con il sesto motivo di ricorso, il Loria, denunciando violazione e falsa
applicazione dell'art. 2909 c.c., censura la sentenza impugnata per non aver
tenuto conto del giudicato penale, costituito dalla sentenza di assoluzione, a
conclusione del giudizio, al quale hanno preso parte tutte le parti dell'attuale
giudizio civile, e nel quale è stata ricostruita la verità dei fatti.
Con il settimo motivo di ricorso, il Loria, denunciando violazione e falsa
applicazione dell'art. 828 c.c., in relazione agli artt. 1140 e 1142 c.c.,
dell'art. 10 preleggi e d.lgs. 490 del 1990, e degli artt. 1153 e 1160 c.c.,
censura la sentenza impugnata per non considerato che in base al nuovo testo
unico dei beni culturali, che ha abrogato la normativa precedente, tuttavia
reiterandone i principi, vanno distinti i beni da considerare ontologicamente
beni culturali, da quelli che rivestono tale qualità solo se oggetto di un
riconoscimento culturale operato da un provvedimento amministrativo
discrezionale: senza di che il bene può essere appreso da privato, posseduto, e
di conseguenza usucapito.
Con l'ottavo motivo di ricorso, il Loria, denunciando violazione e falsa
applicazione degli artt. 1140, 1142 e 828, secondo comma, c.c., 5 1. 20.6.1909
n. 364, censura la sentenza impugnata per non aver tenuto conto che l'autorità
da epoca remota era a conoscenza dell'esistenza dei beni sequestrati al
ricorrente, in tal modo manifestando il più completo disinteresse riguardo ad
essi, dal che consegue che trattandosi di oggetti comuni, essi ben hanno potuto
essere oggetto di usucapione.
La lettura dei motivi di ricorso, in parte ripetitivi, richiede una
razionalizzazione della materia in contestazione, palesandosi l'opportunità di
un'analisi delle doglianze del ricorrente, polarizzate intorno a questioni
omogenee, che si ritiene di individuare, nell'ordine logico di trattazione, nel
modo che segue: l'interesse culturale del bene, da cui consegue l'ascrivibilità
dei beni sequestrati al patrimonio indisponibile dello Stato (motivi pruno,
quinto e settimo); il regime probatorio in ordine alla proprietà dei beni
archeologici (motivi secondo, terzo e quarto); i rapporti tra giudicato civile e
penale (motivo sesto); l'usucapibilità dei beni archeologici (motivo ottavo).
Sotto il primo profilo, la legislazione di tutela dei beni culturali, in
particolare dei beni archeologici, è informata al presupposto fondamentale, in
considerazione dell'importanza che essi rivestono - anche alla luce della tutela
costituzionale del patrimonio storico-artistico garantita dall'art. 9 Cost.
dell'appartenenza allo Stato dei beni rinvenuti: gli istituti dell'occupazione e
dell'invenzione, quali modi di acquisto della proprietà (artt. 923 e 929 c.c.),
di cui è applicazione la disciplina del "tesoro" (art. 932 c.c.), sono derogati
in considerazione della peculiarità degli oggetti, per cui l'art. 826, secondo
comma, c.c., assegna al patrimonio indisponibile dello Stato "le cose
d'interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da
chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo": disciplina confermata
dagli artt. 44, 46, 47 e 49 della legge 1089 del 1939, cui rinvia l'art 932,
secondo comma, c.c. In prosieguo di tempo, prima l'art. 88 d.lgs. 29.10.1999 n.
490, t.u. beni culturali, che quelle norme ha abrogato (art. 166), ha disposto
che i beni di cui all'art. 2 (che alla lett. a) enumera "le cose mobili e
immobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o
demo-etno-antropologico"), da chiunque e in qualunque modo ritrovati,
appartengono allo Stato, e, attualmente, l'art. 91 d.lgs. 22.1.2004 n. 42,
Codice dei beni culturali e del paesaggio (che all'art. 184 ha abrogato il
d.lgs. 490 del 1999), dispone l'appartenenza al demanio o al patrimonio
indisponibile dello Stato delle cose, a seconda se immobili o mobili, di cui
all'art. 10 (cioè "che presentano interesse artistico, storico, archeologico o
etnoantropologico").
Va in primo luogo sgombrato il campo da un palese fraintendimento nel quale
incorre il ricorrente, nel momento in cui, proponendosi di dimostrare la non
appartenenza al patrimonio pubblico degli oggetti di cui è stato trovato in
possesso, assume che per gli stessi (che dunque non avrebbero valore culturale)
non è intervenuto il riconoscimento dell'autorità dal quale soltanto discende la
sottoposizione alla legislazione protezionistica.
Il riconoscimento, che in gergo è detto "notifica", è previsto per le sole cose
di proprietà privata, al fine di assoggettarle alle limitazioni e agli obblighi
della legislazione di tutela (art. 3 1. 1089/39; art. 5 d.lgs. 490/99; art. 15
d.lgs. 42/04): per queste il presupposto è che si tratti di cose in cui
l'interesse culturale sia "particolarmente importante", ovvero, ai fini
dell'assoggettamento alla tutela, non basta la mera appartenenza alle categorie
storica, artistica, archeologica, che viceversa è sufficiente, ove di proprietà
pubblica, a far scattare, tra l'altro, l'obbligo dei legali rappresentanti degli
enti alla compilazione degli speciali elenchi (art. 4 1. 1089/39; art. 5 d.lgs.
490199: tuttavia con effetti ricognitivi, non costitutivi). Che le cose per il
conseguimento delle quali il ministero per i beni culturali ha agito in
giudizio, non siano state notificate, non significa né che le stesse non abbiano
valore culturale (ma sul punto si tornerà in seguito), né che esse non
appartengano al patrimonio pubblico. Anzi, è proprio vero il contrario: la
notifica depone per la proprietà privata del bene, mentre per l'assoggettamento
delle cosa alla proprietà pubblica (il che avviene, per i beni archeologici, al
momento del loro rinvenimento) è sufficiente la presenza nell'oggetto
dell'interesse storico, artistico, archeologico, anche semplice, o generico,
abbia questo costituito o meno oggetto di accertamento. Questo spiega perché,
prima di determinarsi a procedere alla rivendicazione delle cose, lo Stato non
operi formali riconoscimenti dell'interesse culturale (la notifica dei beni in
possesso di privati cittadini, da parte dell'amministrazione potrebbe
significare, anzi, una presunzione di proprietà privata), e nemmeno può trarsi
argomento dalla remota conoscenza della detenzione privata delle cose, circa la
non rilevanza dell'interesse, attesa l'imprescrittibilità della rei visidicatio.
Va osservato, per completezza, con riferimento al recente Codice dei beni
culturali, di cui al d.lgs. 42/04, non ancora emanato al momento della notifica
del ricorso per cassazione, e per questo citato dal ricorrente solo nella
memoria per la discussione, che le esigenze di conoscenza del patrimonio
pubblico al fine di una sua miglior tutela, e di certezza delle situazioni
proprietarie, hanno convinto negli ultimi anni della necessità, da un lato, di
dare impulso alla catalogazione dei beni (vedi, tra l'altro, la 1. 19.4.1990 n.
84 e l'art. 17 del Codice), dall'altro di procedere alla verifica dell'interesse
culturale dei beni storico-artistici, anche di proprietà pubblica (art. 12,
comma 3, Codice): resta però il principio fondamentale per cui, fino al
compimento della verifica di "culturalità" (qualora questa dovesse avere esito
negativo), le cose sono comunque sottoposte alla legislazione di tutela (art.
12, comma 1), e che la verifica concernente i beni di proprietà pubblica, non si
estrinseca in una formale "dichiarazione" (art. 13, comma 2, Codice).
Contrariamente a quanto dedotto con il settimo motivo, per cui il t.u. dei beni
culturali avrebbe diviso i beni ontologicamente culturali da quelli per i quali
è richiesto specifico accertamento di culturalità, va precisato che il
riconoscimento di culturalità non è provvedimento costitutivo, che si basi
sull'esercizio della discrezionalità amministrativa, ma solo atto di certazione,
che rivela prerogative che il bene possiede per le sue caratteristiche. Che
l'atto di certazione non sia intervenuto, non significa certo che lo stesso sia
di proprietà privata, od oggetto di libera apprensione ed usucapione.
La mancata "notifica" dei beni, dunque, non dimostra che il bene non appartiene
al patrimonio pubblico, anzi, dimostra il contrario.
Sostiene il ricorrente che non tutti gli oggetti archeologici, per il semplice
fatto di appartenere alla categoria - per essere stati reperiti nel sottosuolo -
possono essere considerati di interesse archeologico, ma che per la diffusione
che essi hanno sul territorio del nostro paese, il cui sottosuolo archeologico è
particolarmente ricco, non rivestono particolare significato per le scienze
dell'antichità.
Va osservato in proposito che, se anche fosse vero il presupposto da cui il
ricorrente muove, esso sarebbe smentito in fatto nella misura in cui, attraverso
la pur succinta motivazione del giudice di merito (la motivazione per
relationem è consentita ove comunque espliciti, come nella specie, il
percorso argomentativo autonomo compiuto dal giudice di secondo grado alla luce
dei motivi dell'impugnazione: Cass. 14.2.2003, n. 2169, rv. 561341), si attesta
che la modestia del valore dei beni sequestrati al Loria non esclude l'interesse
archeologico "anche per il solo profilo di enumerazione degli oggetti
appartenenti ad un certo tipo, con riferimento alle antiche civiltà sannitica,
apula e tarantina, ovvero etrusco-laziale (il periodo interessato va dal IX
secolo a.C. al III-IV secolo d.C.), enumerazione che comunque costituisce
materia della scienza archeologica e storica". Non va dimenticato, infatti, che
per un'altra parte degli oggetti la restituzione allo Stato fu esclusa dal
Tribunale, poiché all'esito degli accertamenti peritali erano stati ritenuti non
autentici o di scarso interesse. Il che significa che per gli altri è stata
ritenuta l'esistenza dell'interesse culturale, in misura tale da determinarne
l'appartenenza al patrimonio indisponibile dello Stato: il riferimento alla
sentenza 1.12.2004, n. 22501, contenuto nella memoria del ricorrente, è per
questo irrilevante, attenendo quella pronuncia alla diversa questione della
sindacabilità del giudizio relativo all'interesse culturale degli oggetti,
formulato dalla Soprintendenza.
La questione però, a parere del collegio, deve essere diversamente impostata nei
suoi presupposti teorici.
La teoria c.d. "dell'interesse qualificato", per cui sarebbe necessario un
quid pluris per determinare l'interesse archeologico del bene (secondo il
ricorrente occorrerebbe, addirittura, un pregio artistico), rispetto alla mera
appartenenza alla categoria degli oggetti archeologici, in quanto reperiti nel
sottosuolo, va verificata sia alla luce del testo normativo, sia in connessione
alle regole ed agli scopi della disciplina archeologica: cui è pur necessario
fare appello, per via del richiamo normativo a nozioni di dominio delle
discipline extragiuridiche. La stessa definizione di culturalità, secondo la
dottrina tradizionale, si presenta problematica, atteso che l'ordinamento non ne
offre una qualifica unitaria e riassuntiva e che lo stesso riferimento della
legge, alle "testimonianze materiali aventi valore di civiltà" (vedi ora art. 2,
comma 2, Codice), non si presenta come nozione giuridicamente valida, ma
laminale, ovvero una nozione a cui la normativa giuridica non dà un proprio
contenuto, che viceversa deve esser definito mediante il rinvio a discipline non
giuridiche.
Pur non potendosi ignorare l'utilità pratica che l'accoglimento della teoria
dell'interesse qualificato potrebbe comportare - per l'alleviamento dagli oneri
di conservazione che ne conseguirebbe -, non sembra che il testo normativo possa
avvalorare, nella gradualità dell'interesse culturale su cui si articola la 1.
1089/39, la nozione di un filtro preventivo all'interesse base.
L'artificiosità di uno sdoppiamento tra categoria delle cose archeologiche e
categoria delle cose d'interesse archeologico, non trova sostegno nel dettato
normativo. L'art. 1 1. 1089/39 sottopone alla normativa tutte le "cose, immobili
e mobili, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o
etnografico", e così pure l'art. 2 t.u. beni culturali, e da ultimo, l'art. 10
del Codice.
La formula, riprodotta testualmente nell'art. 839 c.c., secondo cui "sono
soggette alla presente legge le cose, immobili e mobili, che presentano
interesse, artistico, storico", ecc., non sembra idonea a restringere,
all'interno delle categorie (ad. es., le cose archeologiche), le sottocategorie
(le cose d'interesse archeologico): l'art. 1 esprime semplicemente una generica
volontà legislativa di ripartire i beni, globalmente considerati, tra i grandi
settori della cultura, senza indicazioni valutative o restrizioni. La stessa
elencazione legislativa è unanimemente considerata molo esemplificativa.
Risulterebbe allora contraddittorio che, proprio nella dichiarazione degli
intenti programmatici di tutela, diretti a ricomprendere la più ampia gamma
possibile di testimonianze culturali, la legge fornisse indicazioni per un'autolimitazione.
All'espressione "cose che presentano interesse" non va assegnato valore diverso
da quello, più chiaramente esplicato nella lett. a) dell'art. 1 ("cose che
interessano"), di una generica "presa in considerazione" dell'oggetto da parte
delle varie branche delle discipline umanistiche.
In particolare, per gli oggetti archeologici di nuova scoperta, la dizione
categorica dell'art. 44 ("le cose ritrovate appartengono allo Stato") non lascia
adito a distinzioni suggerite dal grado di interesse del bene riportato alla
luce. Ed è una formula che, a scanso di equivoci, la legge ripete a sigillo di
ogni possibile circostanza in cui avvenga il ritrovamento, non solo a seguito di
ricerche effettuate dal Ministero, ma anche su concessione (art. 46, Primo comma
1-1089/39), su autorizzazione (art. 47, 3° comma), o fortuitamente (art. 49, 1°
comnpa) : il t.u. lo prevede complessivamente nell'art. 88, il Codice nell'art.
91.
L'attribuzione ai privati delle cose scoperte, in luogo dell'indennità di
occupazione, o come premio per il ritrovamento (art. 89, commina 4, t.u.; art.
92 Codice, che prevede, come alternativa rimessa alla scelta dell'interessato,
una detrazione d'imposta), integra in ogni caso un trasferimento dallo Stato,
che è in via assoluta il riservatario della proprietà dell'oggetto archeologico,
indipendentemente dal rilievo storico e dal pregio artistico.
La riserva allo Stato, chiaramente sancita dagli art. 822 e 826 c.c., funziona
da meccanismo di tutela delle cose ritrovate nella prima delicata fase del
ritrovamento e della classificazione da parte degli organi tecnici: il
meccanismo mette al riparo le cose, dall'applicazione, nella prima fase della
loro vita giuridica, degli istituti del diritto comune (ad es., dell'art. 932
c.c.), impedendo il formarsi su di essi di diritti privati.
La tematica del dibattito sulla culturalità delle singole componenti il
patrimonio storico-artistico si è incentrata sull'individuazione di un valore
immanente al supporto materiale della cosa, la cui necessità di tutela
trascenderebbe il regime proprietario del bene.
La presenza di tale valore non comporta che il medesimo debba comunque esser
sottoposto ad una valutazione del pregio, secondo una variabilità insita nel
mutamento dei gusti e dei modelli di riferimento. Una valutazione di questo tipo
si confà, nelle categorie esemplificative menzionate dall'art. 1, ai soli beni
artistici, con l'avvertenza comunque che la variabilità della valutazione
estetica non esclude una rilevanza dell'opera nella ricostruzione storicistica
dei gusti epocali.
La concezione del bene culturale ha conosciuto, a partire dalla Commissione
d'indagine per la tutela e valorizzazione del patrimonio storico-artistico,
insediata con 1. 26 aprile 1964 n. 310 (nota come Commissione Franceschini dal
nome del Presidente), un iter unitario che, in luogo della pluralità delle "cose
d'arte", ha individuato una categoria concettuale unitaria, tesa ad accomunare
tutti i beni "aventi riferimento alla storia della civiltà".
Non si possono, tuttavia, perdere di vista le peculiarità proprie di ogni
settore culturale. La stessa Commissione Franceschini ammette l'esistenza di
esigenze differenti, proprie di ognuna delle categorie di beni elencate
dall'art. 1 1. 1089/39. Alla cosa d'interesse archeologico non può darsi altro
connotato, se non di appartenere al passato e provenire dal sottosuolo, poiché
niente può essere trascurato nell'ottica ricostruttiva delle civiltà antiche.
Per ogni area archeologica è indispensabile per lo studioso la conoscenza di
tutti gli oggetti provenienti dal sottosuolo, singolarmente e nella reciproca
connessione. Non è solo importante assicurare alla conservazione un determinato
oggetto, nella sua integrità, quanto conoscerne la provenienza ed il contesto.
Avendo riguardo agli scopi che la moderna concezione scientifica
dell'archeologia si propone, sembra il risultato di un sofisma assumere che
oggetti archeologici non interessino l'archeologia. Scriveva uno dei più insigni
studiosi di archeologia classica, che "ogni scavo distrugge una documentazione
accumulatasi in millenni. Perciò questa documentazione deve esser rilevata, via
via che viene alla luce e che viene asportata, con estrema esattezza, in modo
che la situazione originaria di ogni minimo oggetto reperito possa essere in
qualunque momento ricostruita a tavolino e interpretata, anche a distanza di
anni, da altri studiosi, sotto nuovi punti di vista".
Scopo dell'archeologia è di ricostruire la storia dei popoli, e della storia
fanno parte non solo la vita e gli ambienti delle classi dominanti, ma anche la
vita di tutti i giorni delle popolazioni antiche, e la vita quotidiana non si
può immaginare se non con le componenti povere, con le suppellettili semplici,
prive di valore estetico.
Che in un secondo momento, dopo il compimento dei necessari rilievi e
l'inventario degli oggetti rinvenuti, parte di essi possa essere scartata, ed
eventualmente ceduta a terzi, non toglie che in linea di principio la cosa debba
appartenere allo Stato, al fine di impedire che attraverso la libera occupazione
da parte dei privati, si distrugga la stratificazione di dati conoscitivi,
accumulati nei secoli.
La proprietà privata dei beni trovati in possesso del Loria, dunque, non può
sostenersi né in base alla mancata notifica dell'interesse culturale rivestito
dagli stessi, né in base alla pretesa assenza d'interesse culturale. I motivi
primo, quinto e settimo, vanno rigettati.
Si viene ora all'esame dei motivi secondo, quarto e sesto del ricorso, che si
fondano sull'assenza di prova, da parte dello Stato che avrebbe avuto interesse
ad offrirla, della proprietà pubblica dei beni. Sostiene il ricorrente che la
Corte d'appello avrebbe erroneamente invertito l'onere della prova, facendone
richiesta al privato stesso.
Le doglianze sono infondate. E' appena il caso di notare che il secondo motivo
appare inammissibile: non è ravvisabile l'interesse all'impugnazione. Non si
vede come si debba far carico allo Stato di provare di aver devoluto parte degli
oggetti reperiti a privati, e di aver compilato il relativo verbale. Non è dato
comprendere su quali beni ciò dovrebbe avvenire: non certo su quelli di cui il
privato è stato trovato in possesso, giacché la denuncia da cui è scattata la
misura probatorio-cautelare del sequestro, e la presente azione per
l'accertamento della proprietà, dimostrano che l'amministrazione, proprio in
quanto consapevole di non aver devoluto i beni in oggetto quale premio in natura
per il reperimento, ha agito per riaverne la disponibilità, nella convinzione
che il possesso dei medesimi da parte del Loria fosse illecito. L'azione statale
di recupero dei beni si fonda proprio sulla consapevolezza della proprietà
pubblica degli oggetti archeologici, e sull'assenza di legittime cause di
possesso da parte dei privati.
Un possibile modo di acquisto della proprietà da parte del privato, oltre al
rilascio di beni in natura quale premio per il rinvenimento, al proprietario e
allo scopritore, che doveva essere provato dall'interessato attraverso
l'esibizione del verbale di ripartizione degli oggetti, che viene consegnato in
originale (vedi artt. 95, 113 e 119 r.d. 30.1.1913 n. 363, regolamento per
l'esecuzione delle leggi relative alle antichità e belle arti), potrebbe esser
costituito dalla disponibilità del bene da parte del privato già in epoca
anteriore alla prima legislazione di tutela dei beni culturali (legge 20.6.1909
n. 364), con cui venne configurata la proprietà statale dei beni archeologici
oggetto di rinvenimento. E' l'ipotesi invocata dal ricorrente.
Questa Corte ha ritenuto (sentenza 2.10.1995, n. 10335, rv. 494150) che
nell'azione di revindica di beni archeologici promossa dall'amministrazione
statale, il ritrovamento o la scoperta dei beni stessi in data anteriore
all'entrata in vigore della legge n. 364 del 1909, non è fatto costitutivo
negativo del diritto azionato, ma fatto impeditivo che deve essere provato da
chi l'eccepisce: dal complesso delle disposizioni, contenute nel codice civile e
nella legislazione speciale, regolante i ritrovamenti e le scoperte archelogiche,
ed il relativo regime di appartenenza, si ricava il principio generale della
proprietà statale delle cose d'interesse archeologico, e della eccezionalità
delle ipotesi di dominio privato sugli stessi oggetti, onde qualora
l'amministrazione intenda rientrare in possesso dei beni detenuti da soggetti
privati, incombe al possessore l'onere della prova, e della dedotta scoperta, e
appropriazione, anteriormente all'entrata in vigore della legge 364 del 1909, a
partire dalla quale le cose ritrovate nel sottosuolo appartengono allo Stato.
La disciplina delle cose d'interesse archeologico non crea, come dedotto dal
ricorrente, un'ingiustificata posizione di privilegio probatorio: lo Stato,
nell'azione di revindica dei beni archeologici può avvalersi di una presunzione
di proprietà statale. La presunzione può essere determinata, oltre che da un
id quod plerumque accidit di fatto (nella specie, peraltro, furono rinvenute
sugli oggetti tracce di terra, segno della provenienza da scavi), anche da una
"normalità normativa": Cass. 28.6.1984, n. 3796. Conseguentemente, opponendosi
una circostanza eccezionale, idonea a vincere la presunzione, deve darsene la
prova (Cass. 26.2.1985, n. 1672; 22.1.192, n. 709; 13.8.1992, n. 11149;
18.4.1995, n. 4337): in più spetterà al privato, che ragionevolmente -• dato il
tempo trascorso, ormai, dal 1909 - dedurrà di aver ricevuto il bene a titolo
derivativo, per successione ereditaria, dare compiuta dimostrazione sia sotto il
profilo della ricomprensione del bene nell'asse ereditario, sia del ritrovamento
in epoca anteriore alla 1. 364 del 1909. A meno che non si tratti di acquisto
lecito (vedi art. 55 t.u. beni culturali, e ora art. ‘54 Codice) da chi
legittimamente possedeva il bene: ma di ciò dovrà analogamente darsi
dimostrazione. I motivi terzo e quarto risultano di conseguenza infondati.
A principi parzialmente diversi s'ispira il regime probatorio in tema di
accertamento dei reati (ma non mancano, nella giurisprudenza penale, analoghe
affermazioni di presunzione di possesso illegittimo degli oggetti archeologici:
Cass. 29 ottobre 1972, Fedele; 8 gennaio 1980, Schiavo; 17 dicembre 1982,
Waldner; 13 dicembre 1983, Di Ruvo; 27 giugno 1996, Dal Lago), né può sostenersi
una pregiudizialità dell'accertamento compiuto in sede di processo penale, e un
condizionamento della sentenza resa in quella sede, che avrebbe accertato la
proprietà privata dei beni sequestrati. Il sesto motivo di ricorso è infondato:
gli effetti del giudicato penale sul giudizio civile non hanno costituito
oggetto di discussione nella fase di merito del giudizio, e la questione non può
essere sollevata per la prima volta in sede di legittimità (Cass. 25.5.1979, n.
3055, rv. 399410).
E' appena il caso di osservare, peraltro, che la sentenza penale di assoluzione
pronunciata in seguito a dibattimento spiega efficacia di giudicato nel
confronti di quanti furono parte in quel giudizio, solo quando contenga un
effettivo e specifico accertamento circa l'insussistenza o del fatto o della
partecipazione dell'imputato, ma non anche quando l'assoluzione sia
sostanzialmente determinata dal diverso accertamento della mancanza di
sufficienti elementi di prova in ordine all'uno o all'altro, pur se tale formula
assolutoria non compaia nel diapositiva, giacché il codice di procedura penale
del 1988 non l'ha prevista (Cass. 30.8.2004, n. 17401, rv. 576397; 19.5.2003, n.
7765, rv. 563263; 30.3.1998, n. 3330, rv. 514091): nella specie, lo stesso
ricorrente ammette che il Pretore ebbe ad assolvere l'attuale ricorrente dai
reati di furto archeologico e ricettazione, essendosi rilevata "l'assoluta
incertezza dell'epoca di rinvenimento del materiale archeologico".
Anche l'ottavo motivo è infondato. L'appartenenza dei beni al patrimonio
indisponibile dello Stato, il che si estrinseca nell'impossibilità di sottrarli
all'uso cui sono destinati, ne impedisce la maturazione del possesso ad
usucapionem (Cass. 1.7.2004, n. 12023, rv. 573981): i beni culturali sono
destinati alla pubblica fruizione (art. 98 e ss. t.u. beni culturali, in
relazione all'art. 9 Cost.: vedi ora l'art. 102 Codice), e l'ordinamento non ne
consente, se non in casi eccezionali, e a determinate condizioni, la proprietà
privata a scopi di collezionismo, che corrisponde ad un uso privato esclusivo
(Cass. 28.8.2002, n. 12608, rv. 557167).
Al rigetto del ricorso segue la condanna alle spese.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alle spese del giudizio,
liquidate nella misura di € 3.500 per onorari, oltre spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, il 31.1.2006
Il Consigliere estensore
Stefano Benini
1) Beni culturali e ambientali -
Oggetti di interesse archeologico rinvenuti nel sottosuolo - Proprieta' pubblica
- Eccezioni - Artt. 822 e 826 cod. civ. - L. n. 364/1909. In tema di
proprietà degli oggetti archeologici rivenuti nel sottosuolo, la semplice
appartenenza del bene alla categoria delle cose di interesse archeologico ne
comporta l’assegnazione al patrimonio indisponibile dello Stato, non essendo
necessario l’espresso riconoscimento dell’interesse culturale dell’oggetto di
cui si tratta da parte dell’autorità. Tale riserva allo Stato, sancita dagli
artt. 822 e 826 cod. civ., non esclude la possibilità che il privato che
legittimamente possieda le cose devolutegli in premio per il ritrovamento, o
cedutegli dallo Stato, ovvero acquisite in data anteriore alla data di entrata
in vigore della legge n. 364 del 1909, superi la presunzione di proprietà
pubblica delle stesse, fornendo la prova del titolo o del fatto costitutivo del
suo diritto. Presidente U. Vitrone, Relatore S. Benini. CORTE DI CASSAZIONE
Sezione Prima Civile, del 10 febbraio 2006, Sentenza n. 2995
2) Beni culturali e ambientali - Beni d’interesse artistico, storico,
archeologico o etnoantropologico - Disciplina vigente - Tutela - Fondamento.
La legislazione di tutela dei beni culturali, in particolare dei beni
archeologici, è informata al presupposto fondamentale, in considerazione
dell'importanza che essi rivestono - anche alla luce della tutela costituzionale
del patrimonio storico-artistico garantita dall'art. 9 Cost. dell'appartenenza
allo Stato dei beni rinvenuti: gli istituti dell'occupazione e dell'invenzione,
quali modi di acquisto della proprietà (artt. 923 e 929 c.c.), di cui è
applicazione la disciplina del "tesoro" (art. 932 c.c.), sono derogati in
considerazione della peculiarità degli oggetti, per cui l'art. 826, secondo
comma, c.c., assegna al patrimonio indisponibile dello Stato "le cose
d'interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da
chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo": disciplina confermata
dagli artt. 44, 46, 47 e 49 della legge 1089 del 1939, cui rinvia l'art 932,
secondo comma, c.c. In prosieguo di tempo, prima l'art. 88 d.lgs. 29.10.1999 n.
490, t.u. beni culturali, che quelle norme ha abrogato (art. 166), ha disposto
che i beni di cui all'art. 2 (che alla lett. a) enumera "le cose mobili e
immobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o
demo-etno-antropologico"), da chiunque e in qualunque modo ritrovati,
appartengono allo Stato, e, attualmente, l'art. 91 d.lgs. 22.1.2004 n. 42,
Codice dei beni culturali e del paesaggio (che all'art. 184 ha abrogato il
d.lgs. 490 del 1999), dispone l'appartenenza al demanio o al patrimonio
indisponibile dello Stato delle cose, a seconda se immobili o mobili, di cui
all'art. 10 (cioè "che presentano interesse artistico, storico, archeologico o
etnoantropologico"). Presidente U. Vitrone, Relatore S. Benini. CORTE DI
CASSAZIONE Sezione Prima Civile, del 10 febbraio 2006, Sentenza n. 2995
3) Beni culturali e ambientali - T.U. Codice dei beni culturali -
Riconoscimento di culturalità di un bene - Atto di certazione - Funzione -
Fondamento - Mancanza di specifico accertamento di culturalità - Libera
apprensione ed usucapione - Esclusione. In materia di beni culturali, anche
il recente Codice dei beni culturali, di cui al d.lgs. 42/04, nell’esigenze di
conoscenza del patrimonio pubblico al fine di una sua miglior tutela, e di
certezza delle situazioni proprietarie, da un lato, dà impulso alla
catalogazione dei beni (vedi, tra l'altro, la 1. 19.4.1990 n. 84 e l'art. 17 del
Codice), dall'altro di procedere alla verifica dell'interesse culturale dei beni
storico-artistici, anche di proprietà pubblica (art. 12, comma 3, Codice): resta
però il principio fondamentale per cui, fino al compimento della verifica di "culturalità"
(qualora questa dovesse avere esito negativo), le cose sono comunque sottoposte
alla legislazione di tutela (art. 12, comma 1), e che la verifica concernente i
beni di proprietà pubblica, non si estrinseca in una formale "dichiarazione"
(art. 13, comma 2, Codice). Il t.u. dei beni culturali non ha diviso i beni
ontologicamente culturali da quelli per i quali è richiesto specifico
accertamento di culturalità. Il riconoscimento di culturalità non è
provvedimento costitutivo, che si basi sull'esercizio della discrezionalità
amministrativa, ma solo atto di certazione, che rivela prerogative che il bene
possiede per le sue caratteristiche. Che l'atto di certazione non sia
intervenuto, non significa certo che lo stesso sia di proprietà privata, od
oggetto di libera apprensione ed usucapione. Presidente U. Vitrone, Relatore S.
Benini. CORTE DI CASSAZIONE Sezione Prima Civile, del 10 febbraio 2006,
Sentenza n. 2995
4) Beni culturali e ambientali - Tutela dei beni culturali - Mancato
riconoscimento di culturalità e relativa "notifica" - Effetti - D.lgs. 42/04.
In materia di tutela dei beni culturali, la mancata "notifica" di riconoscimento
di culturalità dei beni, non essendo provvedimento costitutivo, non dimostra che
il bene non appartiene al patrimonio pubblico, anzi, dimostra il contrario.
Sicché, solo l’atto di certazione, rivela le prerogative che il bene possiede
per le sue specifiche caratteristiche. Presidente U. Vitrone, Relatore S. Benini.
CORTE DI CASSAZIONE Sezione Prima Civile, del 10 febbraio 2006, Sentenza n.
2995
5) Beni culturali e ambientali - Ritrovamento o la scoperta di beni culturali
- Azione di revindica di beni archeologici promossa dall'amministrazione statale
- Onere della prova - Possessore - Sussiste - L. n. 364/1909. Nell'azione di
revindica di beni archeologici promossa dall'amministrazione statale, il
ritrovamento o la scoperta dei beni stessi in data anteriore all'entrata in
vigore della legge n. 364 del 1909, non è fatto costitutivo negativo del diritto
azionato, ma fatto impeditivo che deve essere provato da chi l'eccepisce: dal
complesso delle disposizioni, contenute nel codice civile e nella legislazione
speciale, regolante i ritrovamenti e le scoperte archelogiche, ed il relativo
regime di appartenenza, si ricava il principio generale della proprietà statale
delle cose d'interesse archeologico, e della eccezionalità delle ipotesi di
dominio privato sugli stessi oggetti, onde qualora l'amministrazione intenda
rientrare in possesso dei beni detenuti da soggetti privati, incombe al
possessore l'onere della prova, e della dedotta scoperta, e appropriazione,
anteriormente all'entrata in vigore della legge 364 del 1909, a partire dalla
quale le cose ritrovate nel sottosuolo appartengono allo Stato. (Cass. sentenza
2.10.1995, n. 10335, rv. 494150). Presidente U. Vitrone, Relatore S. Benini.
CORTE DI CASSAZIONE Sezione Prima Civile, del 10 febbraio 2006, Sentenza n. 2995
6) Beni culturali e ambientali - Disciplina delle cose d'interesse
archeologico - Privilegio probatorio - Azione di revindica dello Stato -
Funzione. La disciplina delle cose d'interesse archeologico non crea,
un'ingiustificata posizione di privilegio probatorio: lo Stato, nell'azione di
revindica dei beni archeologici può avvalersi di una presunzione di proprietà
statale. La presunzione può essere determinata, oltre che da un id quod
plerumque accidit di fatto (nella specie, peraltro, furono rinvenute sugli
oggetti tracce di terra, segno della provenienza da scavi), anche da una
"normalità normativa": Cass. 28.6.1984, n. 3796. Conseguentemente, opponendosi
una circostanza eccezionale, idonea a vincere la presunzione, deve darsene la
prova (Cass. 26.2.1985, n. 1672; 22.1.192, n. 709; 13.8.1992, n. 11149;
18.4.1995, n. 4337): in più spetterà al privato, che ragionevolmente - dato il
tempo trascorso, ormai, dal 1909 - dedurrà di aver ricevuto il bene a titolo
derivativo, per successione ereditaria, dare compiuta dimostrazione sia sotto il
profilo della ricomprensione del bene nell'asse ereditario, sia del ritrovamento
in epoca anteriore alla 1. 364 del 1909. A meno che non si tratti di acquisto
lecito (vedi art. 55 t.u. beni culturali, e ora art. ‘54 Codice) da chi
legittimamente possedeva il bene: ma di ciò dovrà analogamente darsi
dimostrazione. I motivi terzo e quarto risultano di conseguenza infondati. A
principi parzialmente diversi s'ispira il regime probatorio in tema di
accertamento dei reati (ma non mancano, nella giurisprudenza penale, analoghe
affermazioni di presunzione di possesso illegittimo degli oggetti archeologici:
Caos. 29 ottobre 1972, Fedele; 8 gennaio 1980, Schiavo; 17 dicembre 1982,
Waldner; 13 dicembre 1983, Di Ruvo; 27 giugno 1996, Dal Lago), né può sostenersi
una pregiudizialità dell'accertamento compiuto in sede di processo penale, e un
condizionamento della sentenza resa in quella sede, che avrebbe accertato la
proprietà privata dei beni sequestrati. Presidente U. Vitrone, Relatore S.
Benini. CORTE DI CASSAZIONE Sezione Prima Civile, del 10 febbraio 2006,
Sentenza n. 2995
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