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 Massime della sentenza

 

 

CORTE DI CASSAZIONE Penale, Sez. II, 7 febbraio 2006 (Ud. 22/11/2005), Sentenza n. 4822

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


CORTE DI CASSAZIONE Penale, Sez. II, 7 febbraio 2006 (Ud. 22/11/2005), Sentenza n. 4822

(Presidente A. Rizzo, Relatore F. Monastero - Imp. Meloni )


Omissis


Svolgimento del processo


Con sentenza in data 5 giugno 2001, il Tribunale di Cagliari assolveva Meloni Gianfranco, Corda Felice e Corpino Roberto dalle imputazioni di cui agli artt. 81, capoverso, 1-sexies, legge 8 agosto 1985, n. 431, e 110, 633 cod. pen., per insussistenza dei fatti.


Quanto alle singole fattispecie contestate, rilevava il Tribunale:
a) che in data 23 aprile 1998, il Corpo forestale e di vigilanza ambientale di Iglesias aveva accertato che in un terreno di proprietà del Comune di Siliqua erano in corso lavori di sbancamento e posa in opera di manufatti di calcestruzzo da parte della S.A.M. s.p.a. che aveva ottenuto la concessione mineraria;
b) che l'ufficio tutela del paesaggio dell'assessorato regionale aveva autorizzato in data 25 gennaio 1996, per la durata di cinque anni lo sbancamento e l'esecuzione di lavori di livellamento, a condizione che fossero eseguite tutte le operazioni e attuati tutti gli accorgimenti necessari per assicurare l' inerbimento del fronte interessato o, in alternativa, la piantumazione con essenze autoctone, e che gli eventuali materiali di risulta fossero trasportati in una discarica autorizzata;
c) che, pertanto, doveva ritenersi insussistente il reato di cui all'art. 1-sexies della legge n. 431 del 1985 perché le condotte di sbancamento e di posa in opera dei manufatti di cemento erano state debitamente autorizzate con il provvedimento del 25 gennaio 1996;
d) che, infine, anche il delitto di cui all'art. 633 cod. pen., contestato agli imputati per avere gli stessi occupato i terreni di proprietà del Comune di Siliqua senza le necessarie autorizzazioni, doveva ritenersi insussistente in quanto la «disponibilità giuridica e materiale dei fondi in capo agli imputati discendeva direttamente dal provvedimento di concessione mineraria».


Avverso tale sentenza proponeva impugnazione il pubblico ministero rilevando che l'autorizzazione allo sbancamento del terreno non solo non riguardava tutte le opere di cui all' imputazione, ma era in ogni caso subordinata alla realizzazione da parte degli interessati delle opere di inerbimento o di piantumazione e al conferimento dei detriti in una discarica autorizzata.


La Corte di appello di Cagliari, in parziale riforma della sentenza impugnata, con riferimento al reato di cui all'art. 1-sexies, della legge 8 agosto 1985, n. 431, da un lato, affermava che l'autorizzazione allo sbancamento del terreno aveva un termine di scadenza di cinque anni e, quindi, che solo a tale data si sarebbe potuto verificare il rispetto delle condizioni cui era subordinata l'autorizzazione, così confermando, sul punto, la sentenza impugnata: dall'altro, pur ritenendo corretto il rilievo del Procuratore generale, che l'autorizzazione non riguardava tutti i lavori che erano stati eseguiti e, in particolare, la posa in opera dei tubi di calcestruzzo, riteneva che con riferimento a tali condotte fosse comunque maturato il termine prescrizionale e assolveva gli imputati con la conseguente formula.


Con riferimento, invece, al reato di cui all'art. 633 cod. pen., la Corte territoriale riteneva gli imputati colpevoli e riformava sul punto la sentenza impugnata pronunciando le conseguenti statuizioni.


In particolare, quanto all'elemento materiale di tale reato, la Corte, pur non dubitando che ai sensi dell'art. 32 del R.D. 29 luglio 1927, n. 33, le opere necessarie alla coltivazione di una cava all'interno del perimetro della concessione fossero opere di pubblica utilità, purtuttavia riteneva che la realizzazione delle stesse non poteva costituire esercizio dei diritti nascenti dalla concessione, come ritenuto dal giudice di prime cure, essendo necessario il ricorso alla procedura espropriativa o, nel caso di indifferibile necessità, il decreto di occupazione d'urgenza (veniva richiamata, sent. Consiglio di Stato, 17 luglio 1996, n. 853), atti nella specie mancanti.


Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione il difensore degli imputati deducendo, con un unico motivo, erronea applicazione dell'art. 633 cod. pen., con riferimento agli artt. 2, comma 2, lettera e), e 32 del regio decreto 29 luglio 1927, n. 1443.


Rileva in particolare il ricorrente che la Corte territoriale, richiamando la citata sentenza del Consiglio di Stato, sarebbe incorsa in un equivoco sulla natura della concessione rilasciata ai ricorrenti che riguarda, infatti, la coltivazione di una miniera e non già l'esercizio di una cava: le rispettive discipline giuridiche, ad avviso del ricorrente, sarebbero, infatti, del tutto diverse e la richiamata decisione dell'organo amministrativo non sarebbe affatto pertinente perché emessa nell'ambito di un procedimento concernente l'esercizio di una cava non già di una miniera.


In particolare, rileva ancora il ricorrente, l'art. 32 della legge n. 1443 del 1927, dispone che, all'interno del perimetro della concessione mineraria, le opere necessarie per il trasporto e l'elaborazione dei materiali sono considerate di pubblica utilità ai sensi e per gli effetti della legge 25 giugno 1865, n. 2359, e non sono pertanto necessari decreti di esproprio o di occupazione temporanea proprio perché non sono destinate a sottrarre in via definitiva la proprietà del terreno al legittimo proprietario.


Alla pubblica udienza del 22 novembre 2005, il Procuratore generale chiedeva il rigetto del ricorso, e il difensore degli imputati, Avv. M. De Toni, chiedeva l'annullamento senza rinvio del provvedimento impugnato e, in subordine la dichiarazione di estinzione del reato per intervenuta prescrizione.


Motivi della decisione


Il ricorso è infondato e va rigettato.


L'oggetto del ricorso riguarda esclusivamente il capo della rubrica concernente l'art. 633 cod. pen., contestato agli imputati per avere costoro occupato i terreni di proprietà del Comune di Siliqua, gravati da uso civico, senza aver previamente fatto ricorso alla procedura espropriativa o, se del caso, all'occupazione d'urgenza.


Il giudice di prime cure ha ritenuto che dal provvedimento di concessione mineraria discende automaticamente in capo agli imputati la disponibilità giuridica e materiale dei fondi e che, per l'effetto, non era necessario alcun altro provvedimento autorizzatorio 'per entrare nel possesso del fondo: con conseguente esclusione dell'elemento materiale del delitto di arbitraria invasione, agli stessi imputati contestato.


Ha, invece, ritenuto la Corte di appello (richiamando la citata sentenza del Consiglio di Stato) che, pur non dubitandosi che le opere necessarie alla coltivazione di una cava, all'interno del perimetro della concessione, fossero opere di pubblica utilità, pur tuttavia la realizzazione delle stesse non costituiva automaticamente esercizio dei diritti nascenti dalla concessione essendo comunque necessario il ricorso alla procedura espropriativa o, in caso di indifferibile necessità, al decreto di occupazione di urgenza: ritenendo, conseguentemente, sussistente il reato de quo.


Deducendo la violazione degli artt. 2, 1 e 32 del regio decreto 29 luglio 1927, n. 1443, i ricorrenti sostengono l'erroneità della sentenza della Corte territoriale, perché le opere eseguite rientravano nei lavori di coltivazione della miniera, e dovevano considerarsi ricomprese nel provvedimento di concessione, anche per la loro natura provvisoria, perché legate alla durata della concessione, e non finalizzate a sottrarre in via definitiva la proprietà del terreno al legittimo proprietario: di conseguenza non necessitavano del previo esperimento della procedura d'esproprio.


In altre parole, ad avviso dei ricorrenti, l'art. 32 del regio decreto n. 1443 del 1927, deve essere interpretato nel senso che il concessionario può svolgere, nell'ambito della concessione, tutti i lavori necessari alla coltivazione, già ex lege considerati di pubblica utilità, senza necessità dell'ulteriore intervento della pubblica amministrazione, ovvero dell'emissione di un decreto di esproprio, in relazione all'impossessamento temporaneo di un immobile di proprietà di terzi.


Per meglio delineare gli aspetti problematici della questione, appare opportuno ricostruire brevemente il quadro normativo di riferimento.


Va preliminarmente ricordato che la cava, come viene comunemente ritenuto in dottrina, diversamente dalla miniera, si presenta come giacimento a cielo aperto, che si sviluppa prevalentemente su larga superficie e in cui il materiale viene estratto da poca profondità. Per l'esercizio di una cava non è, perciò, necessario che l'attività di scavo sia diretta a «penetrare nelle viscere della terra per portare alla luce i materiali minerari che ivi si celano», costituendo cava in senso tecnico qualunque luogo in cui, mediante tagli ed escavazioni, si pratichi l'estrazione di materie esistenti immediatamente sotto il suolo o di minerali affioranti.


Per detta estrazione, pertanto, non è indispensabile una struttura organizzata stabile, con impianti infissi al suolo; ma è sufficiente l'impiego anche di mezzi semoventi di scavo e di raccolta del materiale medesimo, e di rimozione del terreno asportato in superficie.


La differente natura della cava rispetto alla miniera, ne giustifica la differente disciplina giuridica. Infatti, mentre l'esercizio della prima è di regola lasciata nella disponibilità del proprietario del suolo - essendo prevista la sottrazione al medesimo della disponibilità della cava e la concessione a terzi da parte dell'amministrazione regionale, solo in caso di totale o parziale inutilizzazione del giacimento da parte del proprietario del fondo - la coltivazione delle miniere, trattandosi di beni appartenenti al patrimonio indisponibile dello Stato (art. 826, secondo comma, cod. civ.), può essere conferita ad altri soggetti non con atto di diritto privato (contratto di locazione o altro analogo), ma con atto amministrativo di concessione che è il titolo necessario ed esclusivo per la coltivazione, giusta le previsioni del regio decreto 29 luglio 1927 n. 1443.


Premesso altresì che, ai sensi dell'art. 2, lettera b), del regio decreto 29 luglio 1927, n. 1443, appartengono senza dubbio alla categoria delle miniere i lavori di ricerca e di utilizzazione delle acque minerali, va rilevato che, a tutt'oggi, la relativa disciplina per la ricerca e la coltivazione trova, all'interno del citato regio decreto, e segnatamente nel Titolo II, la sua principale (e sostanzialmente integrale) disciplina.


E', in particolare, previsto che il possessore del fondo non può opporsi ai lavori di ricerca, salvo il risarcimento dei danni (art. 10), che le miniere possono essere coltivate solo da chi ne abbia avuto regolare concessione (art. 14), e, ancora, che i possessori dei fondi non possono opporsi alle operazioni occorrenti per la delimitazione della concessione e per i lavori di coltivazione, salvo l'indennità spettante per gli eventuali danni (art. 19). Inoltre, per quanto specificamente di interesse ai fini della presente questione, è stabilito che, entro il perimetro della concessione, le opere necessarie per il deposito, il trasporto e la elaborazione dei materiali per la coltivazione del giacimento sono considerate di pubblica utilità, a tutti gli effetti della legge 25 giugno 1865, n. 2359, e che, ove dette opere debbano eseguirsi fuori dal perimetro della concessione, il concessionario può domandare la dichiarazione di pubblica utilità agli effetti della legge suddetta e può chiedere altresì l'occupazione d'urgenza (art. 32).


La disciplina relativa alle cave (Titolo III, artt. da 45 in poi) stabilisce, invece, come già accennato, e diversamente da quanto previsto per le miniere, che le stesse siano lasciate nella disponibilità del proprietario del suolo (art. 45, comma primo), e che il Ministro competente può dare in concessione una cava, in conformità alle norme contenute nel Titolo II (relative alle miniere), solo qualora il proprietario del fondo non ne intraprenda la coltivazione nei termini fissati.


Ciò premesso, ritiene questo collegio che la giurisprudenza di questa Corte, nonché quella del giudice amministrativo, citata dalla Corte territoriale - nella parte in cui hanno affermato che le «opere di natura non temporanea» per la coltivazione di una miniera, «anche da effettuarsi all'interno del perimetro della concessione», pur considerate di pubblica utilità, non esonerano il soggetto che ne usufruisce dal richiedere i provvedimenti di cui all'art. 32, regio decreto n. 1443 del 1927, in quanto il presupposto per l'occupazione d'urgenza dell'area di cui al comma quarto dello stesso articolo, non discende automaticamente dalla legge ma richiede un autonomo provvedimento emesso dall'autorità competente debbano essere pienamente confermate.


Il "thema decidendum" della presente questione è, infatti, costituito dalla qualificazione giuridica dell'opera realizzata dai ricorrenti: se cioè la stessa possa ragionevolmente integrare una semplice "opera di delimitazione della concessione, di apposizione dei termini o di lavori di coltivazione",e, in quanto tale, regolata dall'art. 19 del regio decreto n. 1443 del 1927, ovvero, più propriamente, debba essere qualificata come "opera necessaria per il deposito, il trasporto e la elaborazione dei materiali o per la coltivazione del giacimento", alla quale è, invece, applicabile la (diversa) disciplina giuridica prevista dall'art. 32 dello stesso regio decreto.


Recita l'art. 19 del regio decreto n. 1443 del 1927, che "I possessori dei fondi non possono opporsi alle operazioni occorrenti per la delimitazione della concessione, alla apposizione dei termini relativi, ed ai lavori di coltivazione, salvo il diritto alle indennità spettanti per gli eventuali danni"; di contro, l'art. 32 dello stesso regio decreto, dispone che "Entro il perimetro della concessione, le opere necessarie per il deposito, il trasporto e la elaborazione dei materiali [...] ed, in genere, per la coltivazione del giacimento [...] sono considerate di pubblica utilità a tutti gli effetti della legge 25 giugno 1865 n. 2359", e ancora che "quando le opere di cui al primo comma [ ... ] debbano eseguirsi fuori del perimetro della concessione, il concessionario può domandare la dichiarazione di pubblica utilità agli effetti della legge suddetta".


Proprio alla luce di tale distinzione, i ricorrenti sostengono, in via principale, che nella fattispecie in esame, proprio per la natura temporanea delle opere, connesse invero al periodo previsto dalla concessione per lo sfruttamento della sorgente, non sarebbe configurabile il ricorso alla procedura d'esproprio, che presume necessariamente la permanenza delle opere; procedura che non sarebbe in ogni caso richiesta dall'art. 32 del citato regio decreto, in quanto la dichiarazione di pubblica utilità relativa ai lavori da effettuarsi "all'interno del perimetro della concessione", facoltizzerebbe il concessionario ad esercitare integralmente il diritto riconosciutogli dalla P.A.


Tale tesi non merita accoglimento essendo smentita dalla stessa ratio del decreto.


Il quale, da un lato, con il citato art. 19, pone il principio che i possessori dei fondi non possono opporsi alle operazioni di delimitazione ed ai lavori di ricerca, così imponendo un vincolo ai privati proprietari, consistente nell'obbligo di subire la ricerca; e proprio in quanto tale vincolo non implica trasferimento di diritti, l'attività ad esso connessa, regolata dal citato art. 19, non può dar luogo ad una ipotesi di espropriazione, ma eventualmente soltanto al risarcimento dei danni arrecati ai privati con i lavori stessi.


Ma, dall'altro, allorché la coltivazione del giacimento (o, come nella specie, della sorgente minerale) richieda un'attività aggiuntiva, quale il "deposito, il trasporto o la elaborazione dei materiali", individua nell'art. 32 del citato regio decreto la disposizione che deve regolare l'attività del concessionario, estendendo la dichiarazione di pubblica utilità "ope legis" alle opere necessarie per lo sfruttamento della miniera, e richiamando, altresì, la legge generale sugli espropri (legge 25 giugno 1865, n. 2359, Disciplina delle espropriazioni forzate per causa di pubblica utilità) che prevede, in relazione ad un fondo utilizzato per costruirvi un opera pubblica o di interesse pubblico (fra cui rientrano le opere eseguite a seguito di pubblica concessione), l'attivazione della procedura d'esproprio, che viene avviata, per l'appunto, solo dopo la dichiarazione di pubblica utilità.


Mentre, dunque, in relazione ai lavori di ricerca di cui al citato art. 19, il proprietario del fondo non può opporsi alle operazioni poste in essere dal concessionario, salvo il diritto alle indennità spettanti per gli eventuali danni - l'obbligo del ricercatore di risarcire i danni cagionati dai lavori sembra, infatti, tutelare adeguatamente il titolare del fondo, il quale deve pur consentire la ricerca e la coltivazione di giacimenti, la cui scoperta potrebbe recare notevoli utilità all'economia nazionale - allorché il fondo del privato non solo sia assoggettato ad attività di ricerca o coltivazione, ma venga altresì occupato da opere (di ben diverso spessore) rientranti nella tipologia dell'art. 32, allora deve porsi una ulteriore distinzione: ove tali opere non siano di carattere permanente, appare condivisibile la giurisprudenza di legittimità che ha ritenuto non necessario il ricorso al procedimento espropriativo, come quello previsto dall'art. 32 del decreto (Cass., sez. 1, n. 2129, 17 luglio 1974), qualora invece presentino tale caratteristica, ricorre la necessità dell'attivazione di una regolare procedura espropriativa, e ciò anche nel caso che il fondo interessato alle opere sia ricompreso nel perimetro della concessione: con l'ulteriore, fondamentale specificazione, ai fini che qui ne occupa, che il riconoscimento della necessità dell'espropriazione per pubblica utilità «non è necessariamente connesso all'esecuzione di opere che abbiano carattere di costruzione, sì che anche gli scavi possono, a determinate condizioni, esservi compresi. Il giudizio a riguardo va in ogni caso effettuato con riferimento ai riflessi dell'opera in concreto eseguita e alla possibilità di conservazione delle essenziali caratteristiche del diritto dominicale del proprietario» (cfr. Cass., sezioni unite, n. 789, 29 marzo 1963).


Principio, quest'ultimo, peraltro condiviso dal giudice amministrativo che" ha affermato che il «concessionario di un permesso minerario, qualora abbia necessità di acquisire determinate aree per l'esecuzione di opere necessarie per la coltivazione del giacimento, non può che iniziare le normali procedure per conseguire, da parte degli organi competenti, i prescritti decreti di espropriazione» (Consiglio di Stato, sez. 6, decisione n. 197, 7 febbraio 1978, Correra).


Solo per incidens va rilevato che tale ultima decisione, adottata, come correttamente rileva la difesa, in materia di cave, riguarda però un "concessionario di permesso minerario" e, quindi, all'evidenza, l'ipotesi prevista dall'art. 45, comma secondo del Titolo III del decreto, che richiama, quanto a disciplina applicabile, le disposizioni del Titolo 11 (nel quale è ricompresso anche l'art. 32), concerne specificamente le miniere.


Tale consolidato indirizzo va senz'altro condiviso da questo collegio in quanto l'obbligo del "pati" imposto ai proprietari dei terreni rispetto ad attività che si svolgano nei loro fondi, non può essere così esteso da comprimere, con l'incorporazione di un'opera permanente nel fondo stesso, tanto incisivamente il diritto di proprietà, senza che tale compressione possa essere adeguatamente indennizzata (cfr., di recente, anche Cass., sez. 1, 2 giugno 1995, n. 6222).


Conclusioni, quelle testé rassegnate, in linea peraltro con l'insegnamento della stessa Corte costituzionale (cfr. Corte cost. 23 novembre 1967 n. 119) che ha affermato, con specifico riferimento alle concessioni minerarie, che i diritti del proprietario, ove le imposizioni non abbiano carattere generale ed obiettivo, e comportino un sacrificio per singoli soggetti e gruppi di soggetti, devono essere salvaguardati con la prospettazione del problema dell'indennizzabilità; aggiungendo che si deve attribuire carattere espropriativo anche all'atto, il quale imponga tali limitazioni da svuotare di contenuto il diritto di proprietà, incidendo tanto profondamente sul godimento del bene, da renderlo inutilizzabile in rapporto alla natura del bene stesso o determinando il venir meno o una penetrante incisione del suo valore di scambio (cfr., anche, sentenza n. 6 del 1966).


«È da escludere» - proseguiva la Corte nella citata sentenza - «che nella fase preliminare di ricerca, regolata dagli articoli 10 e seguenti della legge, si attui una espropriazione dei beni in questione; [. ..] le limitazioni alla proprietà privata stabilite dalle citate disposizioni della legge mineraria hanno carattere non permanente, ma temporaneo, posto che nella ipotesi in cui occorra dare corso ad opere permanenti dovranno applicarsi le normali procedure previste dalla legge di espropriazione 25 giugno 1865, n. 2359, la quale è espressamente richiamata dall'art. 32, primo comma, del regio decreto 29 luglio 1927, n. 1443».


Ove, dunque, il concessionario della ricerca mineraria o di acque minerali o termali, esegua tali opere in assenza di decreto di esproprio, viola i limiti dell'atto di concessione, e la relativa condotta non può che integrare il reato di cui all'art. 633 cod. pen., e cioè la fattispecie contestata ai ricorrenti: la concessione dl coltivazione mineraria presuppone pur sempre, infatti, che l'attività del titolare si svolga nel quadro della legge e può considerarsi legittimamente operante soltanto quando sia stata preceduta dall'adempimento delle prescrizioni nella specie necessarie a garanzia del proprietario del suolo.


Ad avviso dei ricorrenti l'art. 32 non sarebbe, comunque, applicabile perché le opere in questione avrebbero pur sempre natura provvisoria, e come tali rimuovibili al termine della concessione.


La sentenza impugnata ha, sul punto, adeguatamente motivato circa l'importanza delle opere in questione, specificando che si trattava di lavori di sbancamento di 25.200 metri cubi e di posa in opera di manufatti in cemento armato, ancorati con tubi di calcestruzzo, in zona peraltro sottoposta a vincolo paesaggistico: e che la concessione, risalente al 1966 e tuttora in corso, aveva un'estensione di Ha 12718.68.


Opere, come agevolmente si coglie, che non possono certo ritenersi «di natura temporanea», nell'interpretazione costituzionalmente orientata che di tale espressione deve darsi, con riferimento non soltanto alla durata dell'opera e ai vincoli posti sull'area, ma anche in relazione alla natura delle stesse, che hanno comportato, come si è affermato, la stabile incorporazione nel suolo di manufatti in cemento armato e di tubature, previo lavori di scavo e posa in opera.


Peraltro, un tale giudizio di fatto, basato sulla valutazione dell'opera in concreto eseguita, rispetto alle caratteristiche del terreno occupato, non può essere censurato in questa sede, trattandosi di apprezzamento di merito, correttamente motivato.


Infine, con riferimento al motivo (nuovo), dedotto solo in sede di discussione davanti a questa Corte, e relativo all'asserita maturazione del termine prescrizionale, va rilevato che, in considerazione della data del commesso reato (con riferimento alla cessazione della permanenza, vuoi riferita al 9 ottobre 1998, come contestato, vuoi riferita al precedente luglio, data dell'intervenuto sequestro), il termine prescrizionale non era ancora maturato al momento della presente decisione.


Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.


P.Q.M.


rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese processuali.

M A S S I M E

 Sentenza per esteso

 

1) Cave e miniere - Concessione mineraria - Invasione di terreni - Opere permanenti - Decreto di esproprio - Assenza - Art. 633 c.p. - Fattispecie. Il titolare di una concessione mineraria che esegua sul fondo altrui in assenza del decreto di esproprio, seppure il fondo ricada nel perimetro della concessione, opere di carattere permanente (quali lavori di sbancamento di migliaia di metri cubi di terreno e posa in opera di manufatti in cemento armato ancorati con tubi di calcestruzzo) si rende responsabile del reato di cui all’art. 633 c.p., perché la concessione di coltivazione mineraria non esime dall’obbligo di attivazione delle normali procedure per ottenere i prescritti decreti di espropriazione. (Presidente A. Rizzo, Relatore F. Monastero - Imp. Meloni). CORTE DI CASSAZIONE Penale, Sez. II, 7 febbraio 2006 (Ud. 22/11/2005), Sentenza n. 4822

 

2) Cave e miniere - Concessione mineraria - Acquisizione di determinate aree per l'esecuzione di opere necessarie per la coltivazione del giacimento - Procedura - Decreti di espropriazione - Necessità. Il «concessionario di un permesso minerario, qualora abbia necessità di acquisire determinate aree per l'esecuzione di opere necessarie per la coltivazione del giacimento, non può che iniziare le normali procedure per conseguire, da parte degli organi competenti, i prescritti decreti di espropriazione» (Consiglio di Stato, sez. 6, decisione n. 197, 7 febbraio 1978, Correra). Presidente A. Rizzo, Relatore F. Monastero. CORTE DI CASSAZIONE Penale, Sez. II, 7 febbraio 2006 (Ud. 22/11/2005), Sentenza n. 4822

 

3) Cave e miniere - Ricerca e coltivazione di giacimenti - Acquisizione di determinate aree - Diritto alle indennità per danni - Ricorso al procedimento espropriativo - Presupposti - Espropriazione per pubblica utilità - Diritto dominicale del proprietario. In relazione ai lavori di ricerca di cui al citato art. 19 regio decreto n. 1443 del 1927, il proprietario del fondo non può opporsi alle operazioni poste in essere dal concessionario, salvo il diritto alle indennità spettanti per gli eventuali danni - l'obbligo del ricercatore di risarcire i danni cagionati dai lavori sembra, infatti, tutelare adeguatamente il titolare del fondo, il quale deve pur consentire la ricerca e la coltivazione di giacimenti, la cui scoperta potrebbe recare notevoli utilità all'economia nazionale - allorché il fondo del privato non solo sia assoggettato ad attività di ricerca o coltivazione, ma venga altresì occupato da opere (di ben diverso spessore) rientranti nella tipologia dell'art. 32, allora deve porsi una ulteriore distinzione: ove tali opere non siano di carattere permanente, appare condivisibile la giurisprudenza di legittimità che ha ritenuto non necessario il ricorso al procedimento espropriativo, come quello previsto dall'art. 32 del decreto (Cass., sez. 1, n. 2129, 17 luglio 1974), qualora invece presentino tale caratteristica, ricorre la necessità dell'attivazione di una regolare procedura espropriativa, e ciò anche nel caso che il fondo interessato alle opere sia ricompreso nel perimetro della concessione: con l'ulteriore, fondamentale specificazione, ai fini che qui ne occupa, che il riconoscimento della necessità dell'espropriazione per pubblica utilità «non è necessariamente connesso all'esecuzione di opere che abbiano carattere di costruzione, sì che anche gli scavi possono, a determinate condizioni, esservi compresi. Il giudizio a riguardo va in ogni caso effettuato con riferimento ai riflessi dell'opera in concreto eseguita e alla possibilità di conservazione delle essenziali caratteristiche del diritto dominicale del proprietario» (cfr. Cass., sezioni unite, n. 789, 29 marzo 1963). Presidente A. Rizzo, Relatore F. Monastero. CORTE DI CASSAZIONE Penale, Sez. II, 7 febbraio 2006 (Ud. 22/11/2005), Sentenza n. 4822

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