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registrata presso il Tribunale di Patti Reg. n. 197 del 19/07/2006
RIFIUTI - Interpretazione autentica della definizione di rifiuto - Nozione di
rifiuto alla luce della nuova disciplina comunitaria - Distinzione del
"sottoprodotto" dal rifiuto - Dir. 2006/12/CE. Ai sensi della definizione
comunitaria contenuta nell'art. 1 della direttiva 75/442/CEE, come sostituito
dall'art. 1 della direttiva 91/156/CEE, è rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto
di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi.
Secondo la definizione contenuta nella recente direttiva 2006/12/CE, entrata in
vigore il 17.5.2006, e quindi successivamente al D.L. 8 luglio 2002, n. 138
nonchè al D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, è rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto
di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o l'obbligo di disfarsi.
Sicché, può esulare dalla nozione comunitaria di rifiuto solo un materiale
derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è
principalmente destinato a produrlo, quando lo stesso produttore lo riutilizza,
senza trasformazione preliminare, nel corso dello stesso processo produttivo: in
tal caso non si tratta di un residuo, bensì di un "sottoprodotto", che non ha la
qualifica di rifiuto proprio perchè il produttore non intende "disfarsene", ma
vuole invece riutilizzarlo nel medesimo ciclo produttivo, (C.G.E. Sezione 2^
dell’11.11.2004, Causa C-457/02, Niselli, che riprende sul punto la precedente
sentenza Palin Granit Oy del 18.4.2002, C-900). Pertanto, per distinguere il
"sottoprodotto" dal rifiuto è comunque necessario che il riutilizzo sia certo,
che avvenga nel medesimo processo produttivo e senza trasformazioni preliminari,
cioè senza modificazioni del carattere chimico o merceologico della sostanza.
Presidente Vitalone - Estensore Onorato. (Conferma, Sentenza del 17.11.2004 -
Tribunale monocratico di Alba, sezione distaccata di Bra). CORTE DI
CASSAZIONE PENALE Sez. III, 11/04/2007 (Ud. 21/12/2006), Sentenza n. 14557
RIFIUTI - Deposito temporaneo e stoccaggio di rifiuti - Configurazione -
Operazione di smaltimento - Fase di gestione dei rifiuti - Deposito preliminare
- Intermediazione non autorizzata di rifiuti non pericolosi. E' da escludere
la configurazione di deposito temporaneo, quando i materiali genericamente
depositati non sono raggruppati per categorie omogenee nel luogo di produzione
(anche se rispettino i requisiti quantitativi e temporanei richiesti
alternativamente dalla specifica disciplina: v. Cass. Sez. 3^, ud. 11.10.2006,
Tesolat). Per conseguenza, essi configurano propriamente uno stoccaggio, cioè
una fase di gestione dei rifiuti, sotto forma di deposito preliminare prima di
una specifica operazione di smaltimento (ai sensi della lettera D 15
dell'allegato B) ovvero di messa in riserva prima di un'operazione specifica di
recupero (ai sensi della lettera R 13 dell'allegato C del D.Lgs. n. 22 del 1997
nonchè della Parte Quarta del D.Lgs. n. 152 del 2006). Come tale, questa forma
di gestione, in quanto pacificamente priva di autorizzazione, va punita a norma
del D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 51, comma 1, e ora del D.Lgs. n. 151 del 2006,
art. 256, comma 1. Presidente Vitalone - Estensore Onorato. (Conferma,
Sentenza del 17.11.2004 - Tribunale monocratico di Alba, sezione distaccata di
Bra). CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. III, 11/04/2007 (Ud. 21/12/2006),
Sentenza n. 14557
RIFIUTI - Sottoprodotto - Nuova categoria - Definizione - Esclusione dalla
disciplina sui rifiuti - Condizioni - D.Lgs. n.152/2006 - Dir. 75/442/CEE.
Il D.Lgs. 3 aprile 2006, n.152 introduce la nuova categoria legislativa di
"sottoprodotto". Essa comprende i prodotti dell'attività dell'impresa che, pur
non costituendo l'oggetto dell'attività principale, scaturiscono in via
continuativa dal processo produttivo e sono destinati ad un ulteriore impiego o
al consumo (art. 183, lett. n). In ogni caso, per escludere la disciplina sui
rifiuti, è necessario che a destinare il sottoprodotto al riutilizzo senza
trattamenti di tipo recuperatorio sia lo stesso produttore e non un semplice
detentore cui la sostanza sia stata conferita a qualche titolo. Presidente
Vitalone - Estensore Onorato. (Conferma, Sentenza del 17.11.2004 - Tribunale
monocratico di Alba, sezione distaccata di Bra). CORTE DI CASSAZIONE PENALE
Sez. III, 11/04/2007 (Ud. 21/12/2006), Sentenza n. 14557
Udienza camerale del 21 dicembre del 2006
SENTENZA N. 14557
REG. GENERALE n
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dai sigg. magistrati:
Omissis
ha pronunciato la seguente
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1 - Con sentenza del 17.11.2004, il Tribunale monocratico di Alba, sezione
distaccata di Bra, in seguito a opposizione a decreto penale, ha condannato P.A.
alla pena di Euro 1.800,00 di ammenda,avendola giudicata colpevole del reato di
cui al D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 51, comma 2, perchè quale titolare
della ditta individuale CTP, avente ad oggetto il commercio all'ingrosso di
materie tessili e plastiche ed imballaggi - aveva depositato in modo
incontrollato circa 20 mc. di rifiuti non pericolosi di varia specie nel cortile
esterno adiacente al capannone della ditta (in ***), il 12.7.2002).
Il giudice ha osservato e accertato
in linea di fatto che:
- nel cortile adiacente al capannone della ditta predetta erano stati
abbandonati da almeno seisette mesi circa 20 mc. di cascami di fibre tessili e
ovatta, resti di imballaggi e imballaggi leggeri in plastica;
- il materiale era stato venduto
alla CTP dalla s.a.s. Filplast, il cui rappresentante, G.A., convivente della
P., aveva dichiarato che esso era destinato a essere rivenduto "tal quale" ad
allevatori di animali (che lo utilizzavano come lettiere), a produttori di
filtri per l'olio e a produttori di compostaggio;
- la stessa P., nel corso del suo esame, aveva confermato che il materiale era
destinato ad altre ditte per essere successivamente riutilizzato;
- la s.n.c. Ro.Re - come testimoniato dal suo legale rappresentante C.M. - sino
al 2003 aveva acquistato dalla C.T.P. sfilacci di cotone bianco e pallet usati,
analoghi a parte del materiale depositato nel cortile suddetto.
Tanto premesso, il giudice, alla luce della giurisprudenza della Corte di
Giustizia europea e della Corte di cassazione, ha ravvisato il contestato reato
di deposito incontrollato di rifiuti, in particolare osservando che non era
applicabile nel caso di specie la norma di cui al D.L. n. 138 del 2002, art. 14,
invocata dal difensore.
Infatti, detta norma ha ristretto la nozione di rifiuto solo per l'ipotesi in
cui il produttore "abbia deciso" o "abbia l'obbligo" di disfarsi, e non per
quella in cui il medesimo effettivamente "si disfi" della sostanza. Orbene, nel
caso di specie, il produttore si era certamente disfatto delle sostanze,
vendendole alla Filplast, che poi le cedette alla CTP, con la conseguenza che
era innegabile la qualità di rifiuto:
tanto vero che sia il G. (Filplast) che le acquistò dal produttore, sia il C. (Ro.Re.)
quando le acquistò dalla CTP, ne effettuarono il trasporto col corredo dei
rituali formulari imposti dalla disciplina sui rifiuti.
2 - Avverso la sentenza il difensore della P. ha proposto appello, convertito ex lege in ricorso per cassazione, deducendo due motivi a sostegno.
Col primo sostiene la inesistenza degli elementi oggettivi del reato contestato,
posto che, alla luce della "norma interpretativa" di cui al citato art. 14 (che
non può essere riferita solo al produttore), i materiali depositati presso la
ditta CTP, in quanto effettivamente destinati alla riutilizzazione, esulavano
dalla categoria dei rifiuti.
Col secondo motivo il difensore sostiene che comunque mancava nella P. qualsiasi
profilo di dolo o di colpa. In subordine - contrariamente alla tesi della
impugnata sentenza - era applicabile nella fattispecie l'esimente della
scusabile ignoranza della legge penale di cui all'art. 5 c.p., sia per
l'oggettiva ambiguità della legislazione in materia, sia perchè la
giurisprudenza della Corte di giustizia europea citata dal giudice di merito era
posteriore alla commissione del fatto.
MOTIVI DELLA DECISIONE
3 - In linea di fatto, risulta pacificamente dalla sentenza impugnata che i
materiali depositati nell'area adiacente al capannone della ditta CTP, gestita
dall'imputata P., consistevano in residui di produzione vari (cascami di fibre
tessili, ovatta, resti di imballaggi in plastica, etc.) che l'amministratore
della s.a.s. Filpast, G.A., aveva personalmente ritirato da alcune industrie
tessili e poi venduto alla P., la quale - a sua volta - doveva rivenderli a
imprese produttrici di filtri per l'olio, o a imprese produttrici di
compostaggio, o infine ad allevatori di animali, che utilizzavano i pallet di
plastica come lettiere per gli animali. In effetti, la società Ro.Re. - come
testimoniato dal suo amministratore C.M. - in passato aveva acquistato dalla CTP
sfilacci di cotone bianco come materie prime secondarie da utilizzare nel suo
ciclo produttivo. Alla data del sopralluogo (12.7.2002), però, i materiali
depositati alla rinfusa nel cortile esterno al capannone della CTP giacevano
invenduti da circa sei mesi- un anno.
Sotto il profilo giuridico, non v'è dubbio che i materiali suddetti rivestivano
la qualità di rifiuti ai sensi del D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 6, lett. a),
posto che i relativi produttori se ne erano "disfatti" nel momento in cui li
avevano smerciati alla società Filpast.
Alla stessa conclusione si deve pervenire anche alla luce della c.d.
interpretazione autentica della definizione di rifiuto di cui al D.L. 8 luglio
2002, n. 138, art. 14, convertito nella L. 8 agosto 2002, n. 178. È noto che
detta norma è stata ritenuta in contrasto con la nozione comunitaria di rifiuto
come definita dalle direttive della Comunità europea e interpretata dalla
giurisprudenza della Corte di Giustizia, e pertanto è stata deferita alla
Consulta per il vaglio di legittimità costituzionale in rapporto agli artt. 11 e
117 Cost., sia laddove ha identificato l'attività, la volontà o l'obbligo di
"disfarsi" della sostanza con l'attività, la volontà o l'obbligo di avviare la
sostanza allo smaltimento o al recupero (escludendo così l'attività di semplice
abbandono), sia laddove ha escluso la volontà o l'obbligo di "disfarsi" di
residui di produzione o di consumo quando questi sono o possono essere
riutilizzati tal quali senza trattamenti recuperatori e senza pregiudizio per
l'ambiente.
(Giova ricordare a questo proposito che secondo la definizione comunitaria
contenuta nell'art. 1 della direttiva 75/442/CEE, come sostituito dall'art. 1
della direttiva 91/156/CEE, è rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto di cui il
detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi. Secondo la
definizione contenuta nella recente direttiva 2006/12/CE, entrata in vigore il
17.5.2006, e quindi successivamente al citato D.L. 8 luglio 2002, n. 138 nonchè
al D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 - di cui in appresso - è rifiuto qualsiasi
sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o
l'obbligo di disfarsi. Ma la marginale differenza terminologica, tra "aver
deciso" e "avere l'intenzione", non ha alcun rilievo per lo sviluppo della
presente argomentazione).
Peraltro, nel caso di specie non è necessario nè possibile sollevare questione
di legittimità costituzionale dell'art. 14, giacchè l'applicazione di questa
norma non incide (non è rilevante) sulla decisione della regiudicanda. E'
infatti evidente che i produttori non hanno "abbandonato" i residui di
produzione, ma al contrario, nel momento in cui li hanno ceduti alla Filpast,
hanno inteso avviarli direttamente o indirettamente ad una di quelle attività di
smaltimento o di recupero definite negli allegati B e C del D.Lgs. n. 22 del
1997. Insomma, non solo ai sensi del succitato art. 6, lett. a), ma anche a
mente dell'art. 14 i produttori si sono "disfatti" dei residui produttivi, i
quali, per conseguenza, non possono che qualificarsi come rifiuti.
Tutto ciò è tanto vero che quei materiali furono trasportati dal luogo di
produzione sino al luogo di deposito presso la società CTP con i formulari di
accompagnamento imposti per i rifiuti dallo stesso D.Lgs. n. 22 del 1997.
La circostanza che la società CTP avesse intenzione di rivendere i materiali a
terzi produttori per un eventuale riutilizzo non basta per far perdere agli
stessi la qualità di rifiuto. Ciò non soltanto perchè anche l'art. 14, comma 2,
per escludere la qualità di rifiuto, richiede che il riutilizzo produttivo della
sostanza sia oggettivamente certo ed effettivo, e tale non può dirsi nel caso di
specie, in cui le sostanze - peraltro non tutte riutilizzabili "tal quali"
-
giacevano in deposito incontrollato da circa sei mesi/un anno di tempo. Quanto
piuttosto perchè, anche ai sensi dell'art. 14, un residuo di produzione che il
produttore ha già avviato allo smaltimento o al recupero non può perdere la sua
qualità di rifiuto solo perchè un operatore che intervenga nella articolata fase
della gestione del rifiuto (nel caso, la società CTP, amministrata
dall'imputata) intenda commercializzarlo per il riutilizzo "tal quale" in altro
ciclo produttivo.
In altri termini, secondo
l'interpretazione logicamente e teleologicamente corretta dell'art. 14, comma 2,
questa norma esclude dalla categoria dei rifiuti solo quei residui di produzione
che lo stesso produttore destina al riutilizzo produttivo senza trattamenti
recuperatori; non esclude invece quei materiali che sono destinati al riutilizzo
produttivo da un altro soggetto che intervenga nella gestione del rifiuto come
semplice detentore. che cioè venga in possesso della sostanza senza effettuare
operazioni di pretrattamento, di miscelazione e simili, tali da mutare
l'identità chimica o merceologica della sostanza (arg. ex lett. b) del D.Lgs. n.
22 del 1997, art. 6). Ciò perchè, secondo la ratio dell'art. 14, non può
ravvisarsi una volontà di disfarsi delle sostanze nel produttore (e solo nel
produttore) che le riutilizza nel ciclo produttivo della sua azienda, o che, con
proprio vantaggio economico, le smercia a terzi per il riutilizzo in altro ciclo
produttivo.
4 - A conclusione non dissimile si deve pervenire dopo l'entrata in vigore del
D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, il quale ha abrogato sia il D.Lgs. n. 22 del 1997,
sia il più volte menzionato D.L. 8 luglio 2002, n. 138, art. 14 (art. 264, lett.
i) ed l)), introducendo, nella parte quarta, una nuova disciplina, che sul punto
non è sostanzialmente molto dissimile dalla precedente.
Viene anzitutto in rilievo la nuova categoria legislativa di "sottoprodotto",
già definita nella giurisprudenza comunitaria. Essa comprende i prodotti
dell'attività dell'impresa che, pur non costituendo l'oggetto dell'attività
principale, scaturiscono in via continuativa dal processo produttivo e sono
destinati ad un ulteriore impiego o al consumo (art. 183, lett. n)).
Secondo lo ius superveniens non sono soggetti alla specifica disciplina
sui rifiuti "i sottoprodotti di cui l'impresa non si disfi, non sia obbligata a
disfarsi o non abbia deciso di disfarsi, e in particolare i sottoprodotti
impiegati direttamente dall'impresa che li produce o commercializzati a
condizioni economicamente favorevoli per l'impresa stessa direttamente per il
consumo o per l'impiego, senza la necessità di operare trasformazioni
preliminari, in un successivo processo produttivo". E' necessario però che
l'utilizzazione del sottoprodotto sia certa e non eventuale, e avvenga senza
trasformazioni preliminari, cioè senza quei trattamenti che mutano la identità
merceologica della sostanza.
Anche la nuova disciplina,
peraltro, appare in contrasto con la nozione comunitaria di rifiuto, come
interpretata dalla Corte di Giustizia europea, laddove sottrae alla disciplina
sui rifiuti il sottoprodotto riutilizzato in un ciclo produttivo diverso da
quello di origine.
Infatti - secondo la sentenza resa dalla Sezione 2^ in data 11.11.2004, Causa
C-457/02, Niselli, che riprende sul punto la precedente sentenza Palin Granit Oy
del 18.4.2002, C-900 - può esulare dalla nozione comunitaria di rifiuto solo un
materiale derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è
principalmente destinato a produrlo, quando lo stesso produttore lo riutilizza,
senza trasformazione preliminare, nel corso dello stesso processo produttivo: in
tal caso non si tratta di un residuo, bensì di un "sottoprodotto", che non ha la
qualifica di rifiuto proprio perchè il produttore non intende "disfarsene", ma
vuole invece riutilizzarlo nel medesimo ciclo produttivo (parr. 44-52 sent. Niselli).
Per distinguere il "sottoprodotto" dal rifiuto è comunque necessario che il
riutilizzo sia certo, che avvenga nel medesimo processo produttivo e senza
trasformazioni preliminari, cioè senza modificazioni del carattere chimico o
merceologico della sostanza (par. 47).
Che il ciclo produttivo debba essere il medesimo risulta chiaramente dal par. 52
della sentenza. Del resto - secondo l'approccio ermeneutico della giurisprudenza
comunitaria, che confligge sul punto con la filosofia del legislatore italiano -
se il riutilizzo avvenisse in un diverso ciclo produttivo vorrebbe dire che il
produttore ha inteso "disfarsi" del residuo per commercializzarlo o comunque
cederlo ai terzi per la riutilizzazione.
Tale è dunque la interpretazione della nozione comunitaria di rifiuto che doveva
vincolare il legislatore delegato del 2006 (e prima ancora il legislatore
delegante del 2004), e che invece risulta disattesa laddove il D.Lgs. n. 152 del
2006 definisce come sottoprodotto sottratto alla disciplina dei rifiuti anche il
residuo produttivo commercializzato a favore di terzi per essere riutilizzato
"tal quale" in un ciclo produttivo diverso da quello di origine.
Comunque - come per il summenzionato art. 14 - si deve prescindere in questa
sede dalla illegittimità costituzionale della nuova disciplina, in quanto essa
non è applicabile alla fattispecie concreta, sia perchè non è certa la
riutilizzazione dei residui produttivi, sia perchè manca un altro presupposto
essenziale della norma, e cioè che sia lo stesso produttore del sottoprodotto o
a reimpiegarlo nello stesso ciclo produttivo o a commercializzarlo direttamente
per il consumo o per un reimpiego in altri processi produttivi. In altri
termini, anche ai sensi del D.Lgs. n. 152 del 2006, il produttore non "si disfa"
del residuo produttivo quando lo riutilizza direttamente "tal quale" oppure lo
commercializza a condizioni per lui economicamente favorevoli perchè venga
riutilizzato in altri cicli produttivi.
Per escludere la disciplina sui rifiuti, quindi, è necessario che a destinare il
sottoprodotto al riutilizzo senza trattamenti di tipo recuperatorio sia lo
stesso produttore e non un semplice detentore cui la sostanza sia stata
conferita a qualche titolo.
5 - In secondo luogo, potrebbe venire in rilievo la categoria di materia prima
secondaria, che è stata introdotta dal D.Lgs. n. 152 del 2006 al fine di
escludere dalla disciplina sui rifiuti quelle sostanze che sin dall'origine o
dopo adeguate operazioni di recupero, posseggono specifiche caratteristiche
tecniche fissate con decreto ministeriale e sono idonee a essere usate come
materie prime in un processo produttivo industriale o commerciale (v. art. 183,
lett. q) in relazione all'art. 181, commi 6, 12 e 13; nonchè art. 183, lett. u)
per MPS da attività siderurgiche e metallurgiche).
Ma nella fattispecie concreta non ricorre quell'elemento essenziale della MPS
che è dato dalla conformità alle caratteristiche tecniche fissate con decreto
ministeriale. Infatti, in attesa della emanazione dell'apposito decreto
ministeriale, continuano ad applicarsi per espressa disposizione transitoria
(art. 181, comma 6) le norme di cui al D.M. 5 febbraio 1998 (per i rifiuti non
pericolosi) o al D.M. 12 giugno 2002, n. 161 (per i rifiuti pericolosi). Orbene,
da una parte non v'è prova che le sostanze depositate presso il capannone della
CTP rispettassero le caratteristiche tecniche specifiche richieste da questi
decreti ministeriali; dall'altra manca la prova che questi materiali siano stati
effettivamente e oggettivamente destinati all'utilizzo in cicli di produzione o
di consumo, come espressamente richiesto dagli stessi decreti ministeriali (il
D.M. 5 febbraio 1998, art. 3, comma 3, e il D.M. 12 giugno 2002, n. 161, art. 3,
comma 5, stabiliscono infatti che restano sottoposti al regime dei rifiuti i
prodotti, le materie prime e le materie prime secondarie ottenuti dalle attività
di recupero che non vengono destinati in modo effettivo ed oggettivo all'utilizzo
nei cicli di consumo o di produzione).
6 - Sotto ogni profilo, quindi, i materiali depositati nell'area a disposizione
della CTP costituivano
rifiuti ed erano soggetti alla relativa disciplina.
In particolare, essi non configuravano un deposito temporaneo, perchè non erano
raggruppati per
categorie omogenee nel luogo di produzione (anche se rispettavano i requisiti
quantitativi e temporanei
richiesti alternativamente dalla specifica disciplina: v. Cass. Sez. 3^, ud.
11.10.2006, Tesolat).
Per conseguenza, essi configuravano propriamente uno stoccaggio, cioè una fase
di gestione dei rifiuti,
sotto forma di deposito preliminare prima di una specifica operazione di
smaltimento (ai sensi
della lettera D 15 dell'allegato B) ovvero di messa in riserva prima di
un'operazione specifica di recupero
(ai sensi della lettera R 13 dell'allegato C del D.Lgs. n. 22 del 1997 nonchè
della Parte Quarta
del D.Lgs. n. 152 del 2006). Come tale, questa forma di gestione, in quanto
pacificamente priva
di autorizzazione, andava punita a norma del D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 51,
comma 1, e ora del
D.Lgs. n. 151 del 2006, art. 256, comma 1. In tal senso, a norma dell'art. 619
c.p.p., deve essere rettificata
la sentenza impugnata laddove ha erroneamente qualificato il fatto contestato
come deposito
incontrollato di rifiuti non pericolosi ai sensi del comma 2 della norma citata,
anzichè più propriamente
come intermediazione non autorizzata di rifiuti non pericolosi, punita con la
stessa pena aisensi del comma 1.
Nè può dirsi - come sostiene il difensore ricorrente - che difettava nel caso di
specie l'elemento psicologico
del reato contravvenzionale, atteso che esso invece sussisteva almeno sotto il
profilo della
colpa; o che ricorreva la causa di esclusione della colpevolezza per ignoranza
inevitabile della legge
penale ai sensi dell'art. 5 c.p., come integrato dalla sentenza 364/1988 della
Corte costituzionale.
Sotto quest'ultimo profilo, infatti, va semplicemente notato che la sedicente
norma interpretativa di
cui al D.L. 8 luglio 2002, n. 138, art. 14, è effettivamente entrata in vigore
lo stesso 8 luglio 2002,
cioè quattro giorni prima del fatto contestato, ma essa non era e non è
applicabile nel caso concreto
per le ragioni già sviluppate nel precedente paragrafo n. 3, sicchè non può
essere invocata come
causa inevitabile di esclusione della colpevolezza, tanto più se si considera
che l'imputata, in quanto
imprenditrice del settore, doveva essere dotata di specifica competenza
professionale nella soggetta materia.
In conclusione, il ricorso va respinto. Ai sensi dell'art. 616 c.p.p. consegue
la condanna della imputata ricorrente al pagamento delle spese processuali. Considerato il contenuto del
ricorso, non si ritiene di irrogare anche la sanzione pecuniaria che detta norma consente.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al
pagamento delle speseprocessuali.
Così deciso in Roma, il 21 dicembre 2006.
Depositato in Cancelleria il 11 aprile 2007
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