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Testata registrata presso il Tribunale di Patti Reg. n. 197 del 19/07/2006


CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. III, 26 Gennaio 2007 (Ud. 26/10/2006), Sentenza n. 2902


RIFIUTI - Mancanza di pregiudizio per l'ambiente - Prova. La prova della mancanza di pregiudizio per l'ambiente richiesta come condizione necessaria dall'art. 14, comma 2, lett. a), del decreto legge 8 luglio 2002, n. 138, convertito nella legge 8 agosto 2002, n. 178, può essere data con qualsiasi mezzo, e quindi anche per presunzioni (ad esempio, omogeneità del materiale, mancanza di sostanze estranee e diverse, e così via), presunzioni che potranno naturalmente essere superate con la prova contraria dell'esistenza del pregiudizio. Pres. Vitalone, Est. Franco, Ric. Signorini. CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. III, 26 gennaio 2007 (Ud. 26/10/2006), Sentenza n. 2902

 

RIFIUTI - Demolizioni edili - Riutilizzo - Limiti - Pregiudizio all'ambiente - C.d. test di cessione. I residui delle attività di demolizioni edili costituiscono rifiuti speciali ai sensi dell'art. 7, comma 3, lett. b), d. lgs. 5 febbraio 1997, n. 22. Tuttavia, ai sensi dell'art. 14, comma 2, lett. a), del decreto legge 8 luglio 2002, n. 138, convertito nella legge 8 agosto 2002, n. 178 - da interpretarsi, peraltro, in senso restrittivo ed in modo da non determinare un contrasto con i principi interpretativi affermati dalla Corte di giustizia europea - i materiali residuali non sono considerati rifiuti qualora gli stessi siano effettivamente ed oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento (o dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'allegato C del decreto legislativo n. 22) e senza recare pregiudizio all'ambiente, e sempre che i materiali abbiano carattere di omogeneità e che vi sia certezza in ordine alla individuazione del produttore o detentore in questione, alla provenienza dei materiali, alla sede dove sono destinati, al riutilizzo dei medesimi in un ulteriore ciclo produttivo (cfr. Sez. III, 12 ottobre 2004, n. 46689, Falconi, m. 230.421; Sez. III, 25 giugno 2003, n. 37508, Papa, m. 225.929; v. anche Corte di Giustizia CE, 11 settembre 2003, causa C-114/01; Corte di Giustizia UE 11 novembre 2004, causa C-457/02). Pres. Vitalone, Est. Franco, Ric. Signorini. CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. III, 26 gennaio 2007 (Ud. 26/10/2006), Sentenza n. 2902



Udienza Pubblica del 26 ottobre 2006
SENTENZA N. 1703
REG. GENERALE n. 12214/2006


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE


Composta dagli Ill.mi Sigg.:


1. Dott. Claudio Vitalone                         Presidente
2. Dott. Pierluigi Onorato                        Consigliere
3. Dott. Alfredo Teresi                                    "
4. Dott. Alfredo Maria Lombardi                      "
5. Dott. Amedeo Franco (est.)                        "


ha pronunciato la seguente


SENTENZA


sul ricorso proposto da Signorini Pierluigi, nato a Brescia il ***;

avverso la sentenza emessa 26 settembre 2005 dal giudice del tribunale di Brescia;
udita nella pubblica udienza del 26 ottobre 2006 la relazione fatta dal Consigliere Amedeo Franco;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Francesco Salzano, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito il difensore avv. Giovanni Dettori Masala in sostituzione dell'avv. Eugenio Bresciani;


Svolgimento dei processo
 

Con la sentenza in epigrafe, il giudice del tribunale di Brescia dichiarò Signorini Pierluigi colpevole del reato di cui all'art. 51, comma 1, lett. a), e 2, d. Igs. 5 febbraio 1997, n. 22, per avere, quale legale rappresentante della srl Spagnoli Umberto, smaltito, mediante interramento in un'area destinata alla realizzazione di serre, circa 200 mc. di rifiuti di demolizione provenienti dalla demolizione del muro di recinzione della ditta e quindi effettuato la livellazione e la copertura di detto materiale con terre di scavo e con materiale stabilizzato e trattato, e lo condannò alla pena di € 5.000,00 di ammenda.


Osservò, tra l'altro, il giudice che sussisteva il reato perché solo la preventiva prova di cessione ai sensi del d.m. 5 febbraio 1998 avrebbe consentito di ritenere che non vi fosse pregiudizio per l'ambiente e perché l'imputato non avere provato di avere effettuato tale prova.


L'imputato propone ricorso per cassazione deducendo:
1) erronea applicazione degli artt. 6, primo comma, lett. a), e 7, primo comma e terzo comma, lett. b), d. lgs. 5 febbraio 1997, n. 22; dell'art. 14 d.l. 8 luglio 2002, n. 138, convertito con legge 8 agosto 2002, n. 178, in relazione all'art. 51, primo comma, Iett. a), d. lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, per non avere il giudice escluso dalla nozione di rifiuto il materiale inerte scaturente dalla demolizione del muro di cinta, in presenza della prova della sua effettiva, oggettiva ed integrale riutilizzazione come materiale edile nello stesso ciclo produttivo per la realizzazione di un terrapieno fuori terra mediante rialzo del piano di campagna costituente la base di una nuova serra, ed in assenza della prova di un concreto pregiudizio per l'ambiente. Dagli atti infatti emerge: che si trattava di materiale di risulta proveniente dalla demolizione di una recinzione della società dell'imputato; che il materiale non presentava caratteristiche di disomogeneità né era mescolato a sostanze diverse; che non aveva subito interventi preventivi di trattamento; che il materiale era effettivamente, oggettivamente ed integralmente riutilizzato come base per la costruzione di una serra. Il giudice ha erroneamente richiamato il d.m, 5 febbraio 1998, senza considerare che l'art. 14 del successivo d.l. 8 luglio 2002, n. 138, convertito con legge 8 agosto 2002, n. 178, non fa alcun rinvio a norme tecniche, e segnatamente al test di cessione di cui all'art. 9 del detto decreto, sicché il legislatore non ha voluto far dipendere astrattamente la qualifica di un materiale come rifiuto a seconda della effettuazione o meno di tale test. Il rifiuto quindi non perde tale sua qualità solamente quando vi sia un reale pericolo per l'ambiente da accertarsi in concreto. Nella specie si trattava di materiale da demolizione reimpiegato totalmente nel medesimo ciclo produttivo in assenza della prova di un concreto pregiudizio ambientale. Lo stesso quindi doveva considerarsi non rifiuto ma materia prima secondaria, con conseguente inapplicabilità della normativa sui rifiuti, ivi compreso il d.m. 5 febbraio 1998.


2) manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione, per non avere il giudice escluso dalla nozione di rifiuto il materiale edile in questione a fronte della prova che esso non proveniva da un sito inquinato e non era mescolato a sostanze diverse da quelle già presenti nel manufatto demolito e, pertanto, non poteva costituire un pregiudizio, neppure potenziale, per l'ambiente.


3) erronea applicazione dell'art. 42, in relazione all'art. 5 cod. pen.; omessa motivazione su punto decisivo della controversia e segnatamente sulla inescusabilità della norma incriminatrice. Ricorda che è stato condannato per non aver effettuato il test di cessione previsto dall'art. 9 del d.m. 5 febbraio 1998. Sennonché egli non aveva alcuna coscienza e consapevolezza della illiceità del suo comportamento a causa di circostanze di ordine oggettivo e soggettivo che rendevano inevitabile l'ignoranza della legge penale.


Motivi della decisione


Il ricorso è fondato.


Secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, i residui delle attività di demolizioni edili costituiscono rifiuti speciali ai sensi dell'art. 7, comma 3, lett. b), d. lgs. 5 febbraio 1997, n. 22. Tuttavia, ai sensi dell'art. 14, comma 2, lett. a), del decreto legge 8 luglio 2002, n. 138, convertito nella legge 8 agosto 2002, n. 178 - da interpretarsi, peraltro, in senso restrittivo ed in modo da non determinare un contrasto con i principi interpretativi affermati dalla Corte di giustizia europea - i materiali residuali non sono considerati rifiuti qualora gli stessi siano effettivamente ed oggettivamente  riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento (o dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'allegato C del decreto legislativo n. 22) e senza recare pregiudizio all'ambiente, e sempre che i materiali abbiano carattere di omogeneità e che vi sia certezza in ordine alla individuazione del produttore o detentore in questione, alla provenienza dei materiali, alla sede dove sono destinati, al riutilizzo dei medesimi in un ulteriore ciclo produttivo (cfr. Sez. III, 12 ottobre 2004, n. 46689, Falconi, m. 230.421; Sez. III, 25 giugno 2003, n. 37508, Papa, m. 225.929; v. anche Corte di Giustizia CE, 11 settembre 2003, causa C-114/01; Corte di Giustizia UE 11 novembre 2004, causa C-457/02).


Il quesito limitato e particolare che nel presente giudizio è stato posto all'attenzione di questa Corte è se la mancanza di pregiudizio per l'ambiente - richiesta dall'art. 14, comma 2, lett. a), del decreto legge 8 luglio 2002, n. 138, convertito nella legge 8 agosto 2002, n. 178, unitamente a tutti gli altri requisiti necessari, perché beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo possano effettivamente riutilizzati senza essere considerati rifiuti - debba necessariamente essere provata, nel caso di residui di demolizioni, solo con la effettuazione, da parte dell'interessato, del c.d. test di cessione di cui al d.m. 5 febbraio 1998.


Nel caso in esame, infatti, la difesa dell'imputato aveva sostenuto che il materiale inerte scaturente dalla demolizione del muro di cinta della sua azienda non doveva essere sottoposto alla disciplina sui rifiuti essendovi la prova della sua effettiva, oggettiva ed integrale riutilizzazione come materiale edile nello stesso ciclo produttivo per la realizzazione di un terrapieno fuori terra mediante rialzo del piano di campagna costituente la base di una nuova serra e perché mancava ogni prova di un concreto pregiudizio per l'ambiente. In particolare la difesa aveva sottolineato che, al contrario, vi era la prova che il materiale proveniente dalla demolizione del muro di recinzione non presentava caratteristiche di disomogeneità, che non era mescolato a sostanze diverse, che non aveva subito interventi preventivi di trattamento e che era effettivamente, oggettivamente ed integralmente riutilizzato come base per la costruzione di una serra, circostanze tutte in base alle quali doveva presumersi, in difetto di prova contraria, che il suo riutilizzo nello stesso ciclo produttivo non poteva recare in concreto pregiudizio per l'ambiente.


Il giudice del merito, pur dando atto che le guardie ecologiche volontarie avevano accertato che effettivamente il materiale proveniva dalla demolizione del muro di recinzione e che lo stesso, prima del suo riutilizzo, non aveva subito alcun tipo di lavorazione o di trattamento, ha tuttavia rigettato l'eccezione - senza accertare la sussistenza o meno delle altre condizioni che, ai sensi della normativa invocata, avrebbero potuto comportare l'esclusione dalla applicazione della disciplina sui rifiuti - per il solo motivo che sarebbe stato obbligo del prevenuto fornire la prova della mancanza di pregiudizio per l'ambiente mediante l'effettuazione del c.d. test di cessione ai sensi del d.m. 5 febbraio 1998, e ciò perché unicamente la effettuazione di questo test consentirebbe di ritenere che non vi sia pregiudizio per l'ambiente.


Ritiene la Corte che questo assunto non possa essere condiviso, nonostante Io stesso si richiami ad una precedente decisione di questa Sezione, che aveva effettivamente ritenuto che i materiali provenienti da demolizione edilizia sono rifiuti speciali non pericolosi e possono essere riutilizzati nello stesso od in diverso ciclo produttivo - ad esempio nelle opere di riempimento - previo preventivo "test di cessione" degli stessi, in conformità del d.m. 5 febbraio 1998, in modo da non recare pregiudizio per l'ambiente e che, in assenza di questo test, ogni recupero dei detti materiali di risulta costituirebbe reato (Sez. III, 27 maggio 2004, n. 30127, Piacentino, m. 229.456; seguita peraltro anche da Sez. III, 9 giugno 2005, n. 36955, Noto, m. 232.192).


Orbene, re melius perpensa, questo orientamento non può essere confermato. Infatti, il citato art. 14 del d.l. 8 luglio 2002, n. 138, convertito con legge 8 agosto 2002, n. 178, non fa alcun rinvio, né espresso né implicito, a norme tecniche, e segnatamente al c.d. test di cessione di cui all'art. 9 del d.m. 5 febbraio 1998, sicché non vi è alcun aggancio testuale per poter ritenere che il legislatore del 2002 abbia voluto far dipendere in ogni caso ed astrattamente la qualifica o meno di un materiale come rifiuto a seconda della effettuazione o meno del menzionato test. Non si vede, quindi, in base a quale disposizione dovrebbe ritenersi che il legislatore (nazionale o comunitario) abbia in ogni caso richiesto l'effettuazione di tale test e che abbia addirittura implicitamente posto una presunzione assoluta di sussistenza di pregiudizio per l'ambiente in caso di sua mancanza.


Va inoltre considerato che il d.m. 5 febbraio 1998 (ora modificato con d.m. 5 aprile 2006, n. 186 del ministero dell'ambiente) - emanato in attuazione del d. lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, e che continua ad avere efficacia anche dopo l'abrogazione di quest'ultimo fino all'emanazione delle nuove norme regolamentali attuative del d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, in forza della disposizione di cui all'art. 214, comma 5, di quest'ultimo - ha introdotto norme dirette ad individuare i rifiuti non pericolosi sottoposti alle procedure semplificate di recupero ai sensi degli artt. 31 e 33 del d. lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, ed a regolare le relative modalità di recupero (analogamente, ora l'art. 214 del d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, stabilisce che, con decreto del ministero dell'ambiente, sono adottate, per ciascun tipo di rifiuto, le norme che fissano i tipi, le quantità e le condizioni per ammettere le attività di recupero e di smaltimento alle procedure semplificate di cui agli artt. 215 e 216). In particolare, come indicato dall'art. 1, la finalità del decreto è quella di disciplinare "le attività, i procedimenti ed i metodi di recupero di ciascuna delle tipologie di rifiuti" individuati dal decreto stesso. Ora, ai sensi dell'art. 6, comma 1, lett. h), del d. Igs. 5 febbraio 1997, n. 22, per "recupero" si devono intendere "le operazioni previste nell'allegato C" (con maggior precisione, l'art. 183, comma 1, lett. h, del d. Igs. 3 aprile 2006, n. 152, dispone ora che per "recupero" si intendono "le operazioni che utilizzano rifiuti per generare materie prime secondarie, combustibili o prodotti, attraverso trattamenti meccanici, termici, chimici o biologici, incluse la cernita o la selezione, e, in particolare, le operazioni previste nell'Allegato C alla parte quarta del presente decreto"). La finalità del d.m, in esame è quindi diversa da quella dell'art. 14, comma 2, lett. a), del citato d.l. 8 luglio 2002, n. 138, il quale invece stabilisce le condizioni alle quali i materiali residuali possono essere direttamente riutilizzati senza subire alcun intervento preventivo di trattamento, ossia senza che sia necessaria alcuna attività di recupero. La differenza tra le due attività, del resto, emerge anche dall'esame congiunto della lett. b), del medesimo comma 2 dell'art. 14 cit., la quale dispone che i materiali in questione possono essere riutilizzati anche dopo aver subito un trattamento preventivo, ma "senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'allegato C del decreto legislativo n. 22". Ossia, l'art. 14 in esame non solo distingue tra riutilizzazione diretta del materiale nel ciclo produttivo ed operazioni di recupero di cui all'art. 6 del d. lgs. n. 22 individuate nell'allegato C del medesimo d. lgs., ma stabilisce anche che l'esclusione da esso introdotta non opera se per il riutilizzo si rende necessaria una operazione di recupero contemplata nel detto allegato. Anche per questa ragione, quindi, il citato art. 14 non può essere interpretato nel senso che la mancanza di pregiudizio per l'ambiente (da esso prevista come una delle condizioni per il riutilizzo) debba essere provata esclusivamente mediante l'effettuazione del test di cessione previsto invece dal d.m. 5 febbraio 1998 per le operazioni di recupero.


Ne deriva che deve seguirsi invece l'interpretazione secondo cui la prova della mancanza di pregiudizio per l'ambiente richiesta come condizione necessaria dall'art. 14, comma 2, lett. a), del decreto legge 8 luglio 2002, n. 138, convertito nella legge 8 agosto 2002, n. 178, può essere data con qualsiasi mezzo, e quindi anche per presunzioni (ad esempio, omogeneità del materiale, mancanza di sostanze estranee e diverse, e così via), presunzioni che potranno naturalmente essere superate con la prova contraria dell'esistenza del pregiudizio.


La sentenza impugnata deve pertanto essere annullata con rinvio al tribunale di Brescia.


Per questi motivi
La Corte Suprema di Cassazione

 

annulla la sentenza impugnata con rinvio al tribunale di Brescia.


Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 26 ottobre 2006.
 


L' estensore              Il Presidente
 Amedeo Franco              Claudio  Vitalone

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