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Testata registrata presso il Tribunale di Patti Reg. n. 197 del 19/07/2006

CORTE DI CASSAZIONE Sez. III Penale, 14/06/2007 (Ud. 26/04/2007), Sentenza n. 23129



URBANISTICA E EDILIZIA - Direttore dei lavori - Responsabilità - Art. 29, c. 2°, D.P.R. n. 380/2001. In tema di reati edilizi, il direttore dei lavori riveste una posizione di garanzia circa la regolare esecuzione delle opere, con la conseguente responsabilità per le ipotesi di reato configurate, dalla quale può andare esente solo ottemperando agli obblighi di comunicazione e rinuncia all'incarico previsti dall'art. 29, comma secondo, D.P.R. n. 380/2001, sempre che il recesso dalla direzione dei lavori sia stato tempestivo, ossia sia intervenuto non appena l'illecito edilizio si sia evidenziato in modo obiettivo, ovvero non appena abbia avuto conoscenza che le direttive impartite erano state disattese o violate (cfr., ex multis, Cass. Sez. 3, 10/5/2005 n. 34376, Scimone ed altri). Proprio per la posizione di "garante" assunta dal direttore dei lavori e per il suo precipuo obbligo di vigilare sulla corretta esecuzione delle opere, questi risponde penalmente anche allorché si disinteressi dei lavori, pur senza formalizzare o formalizzandole in ritardo, le proprie dimissioni (cfr. Sez. 3, 7/11/2006 n.38924, Pignatelli). Alcuna efficacia liberatoria può riconoscersi ad una rinuncia comunicata mediante lettera diretta ai committenti, posto che tale atto è ontologicamente inidoneo a fornire la prova che vi sia stata reale rinuncia nella data indicata. Pres. Onorato, Est. Sensini, Ric. Margarito ed altro. CORTE DI CASSAZIONE Sez. III Penale, 14/06/2007 (Ud. 26/04/2007), Sentenza n. 23129


UDIENZA PUBBLICA DEL 26/04/2007

SENTENZA N.01331/07
REG. GENERALE N.035571/06


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE



Composta dagli Ill.mi Sigg.:


Dott. ONORATO PIERLUIGI PRESIDENTE
1.Dott.TERESI ALFREDO CONSIGLIERE REGISTRO GENERALE
2.Dott.FIALE ALDO N. 035571/2006 3.Dott.IANNIELLO ANTONIO
4.Dott.SENSINI MARIA SILVIA


ha pronunciato la seguente


SENTENZA


sul ricorso proposto da :


1) MARGARITO UMBERTO N. IL 25/03/1964
2) MARGARITO ROCCO N. IL 03/06/1964 avverso SENTENZA del 27/02/2006 CORTE APPELLO di LECCE
visti gli atti, la sentenza ed il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere SENSINI MARIA SILVIA

Udito il Procuratore Generale in persona del dott. Passacantando Guglielmo
che ha concluso per il rigetto del ricorso
Udito, per la parte civile, l'Avv. //
Udit i difensor Avv. //


Svolgimento del Processo e Motivi della Decisione


Con sentenza in data 27/2/2006 la Corte di Appello di Lecce confermava quella resa dal locale Tribunale - Sezione Distaccata di Casarano - in data 15/3/2005, con la quale Margarito Umberto e Margarito Rocco erano stati condannati, riconosciute le attenuanti generiche al solo Margarito Umberto, il primo alla pena di giorni 20 di arresto ed euro 5.000 di ammenda, il secondo alla pena di giorni 30 di arresto ed euro 7.500 di ammenda - pena sospesa per entrambi - in quanto ritenuti responsabili del reato di cui all'art. 20 lett. b) Legge n. 47/1985 per aver effettuato, in concorso tra loro, rispettivamente nella qualità di direttore dei lavori e di legale rappresentante della "S.A.L.T.U.R. s.n.c." - società esecutrice dei lavori - interventi edilizi consistiti nella realizzazione di un immobile composto da un piano seminterrato per una superficie di mq. 380 circa per m. 2,75 di altezza e da un piano rialzato per una superficie di mq. 200 circa per un'altezza di m. 3,00, allo stato rustico, in totale difformità rispetto alla concessione edilizia. Acc. in Casarano il 28/3/2002.


Secondo la ricostruzione operata dai primi Giudici: 1) pacifica doveva ritenersi la penale responsabilità del direttore dei lavori Margarito Umberto, malgrado il predetto, con missiva inoltrata al comune di Casarano in data 27/3/2002 (giorno precedente all'avvenuto accertamento dell'illecito), avesse comunicato "l'avvenuta rinuncia all'incarico già dal 31/5/2000". Tale rinuncia, oltre ad apparire sospetta per il momento in cui era stata effettuata (lasciando presumere una possibile "soffiata" al prevenuto circa l'accertamento che si sarebbe stato), appariva priva di giuridica valenza, dovendosi riconoscere validità ed efficacia - secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale - soltanto alla rinuncia presentata all'ufficio tecnico del Comune, qualora la nomina sia stata depositata presso tale ufficio, non potendosi riconoscere alcuna efficacia alla rinuncia effettuata, ad esempio, mediante lettera al committente, mancando la prova che vi sia stata reale rinuncia nella data indicata nella missiva. Nel caso del Margarito, la rinuncia all'incarico a far data dal 31/5/2000 era dimostrata solo dalle dichiarazioni dei proprietari Primiceri. 2) Considerazioni analoghe valevano per l'assuntore dei lavori, non potendosi - secondo la Corte di Appello dar credito ad una risoluzione contrattuale risalente a due anni prima, a causa dei contrasti insorti con i proprietari, non consacrata in un atto scritto, comunicata all'Amministrazione Comunale il giorno precedente l'accertamento, malgrado l'assunzione dei lavori, come pure la direzione degli stessi, risalisse al 19/5/2000. 3) non poteva rivestire efficacia sanante la concessione in sanatoria n. 41/03 rilasciata dal Comune, trattandosi di concessione "rilasciata a condizione che prima della realizzazione delle opere autorizzate vengano demolite le opere realizzate abusivamente".


Avverso la sentenza della Corte di Appello hanno proposto ricorso per Cassazione gli imputati deducendo - con motivi pressoché sovrapponibili: 1) inosservanza e/o erronea applicazione della legge penale; difetto, illogicità e contraddittorietà della motivazione, in quanto i Giudici del merito avevano fondato l'affermazione di penale responsabilità del direttore dei lavori per aver egli formalizzato la rinuncia all'incarico tardivamente ed irritualmente, omettendo, tuttavia, di valutare in concreto se ed in che modo il predetto avesse contribuito alla realizzazione del manufatto abusivo, non potendo il direttore dei lavori essere ritenuto responsabile neppure per aver omesso di denunciare la violazione delle prescrizioni impartite dalla concessione, se tale condotta omissiva non sia connotata da altri elementi che ne evidenzino la partecipazione al reato.


Nel caso dell'assuntore dei lavori, peraltro, andava evidenziato come la Corte territoriale avesse confuso la sua posizione con quella del direttore dei lavori, rilevando la tardività della comunicazione della risoluzione contrattuale all'Ufficio Tecnico e ritenendo che tale risoluzione dovesse essere consacrata in un atto scritto. Al contrario - osservava la difesa - a mente dell'art. 29 del D.P.R. n. 380/2001- non incombeva all'assuntore dei lavori alcuno specifico obbligo di comunicazione né la risoluzione contrattuale doveva necessariamente essere consacrata in un atto scritto. Infatti, il rapporto tra la società "S.A.L.T.U.R." ed i committenti si era sostanziato in un accordo verbale tra le parti: pertanto, non vi era ragione di pretendere che un rapporto di tal fatta necessitasse di un atto formale. Si censurava anche il fatto che, secondo la Corte di Appello, nessuna rilevanza rivestiva la distinzione tra appalto e contratto d'opera, alla luce del fatto che la "S.A.L.T.U.R." risultava essere formalmente l'assuntrice dei lavori. Al contrario - osservava la difesa - solo nel caso del vero e proprio contratto di appalto, vale a dire quando l'appaltatore organizza i mezzi a sua disposizione ai fini della realizzazione dell'opera, può riconoscersi responsabilità in capo al costruttore, non anche nel caso diverso della prestazione d'opera, quando, invece, la regia dell'appalto è assunta da altro soggetto (committente e direttore dei lavori) e nessuna consapevolezza l'esecutore deve necessariamente avere circa l'illegittimità delle opere; 2) inosservanza ed erronea applicazione della legge penale; difetto, illogicità e contraddittorietà della motivazione nella parte in cui la Corte di merito, difformemente da una parte della dottrina e della giurisprudenza amministrativa, non aveva ritenuto ammissibile la sanatoria parziale, ovvero di quella parte dell'immobile rispettosa dei parametri della doppia conformità e ciò anche quando, per poter ottenere il titolo sanante, occorra effettuare modifiche, mediante demolizioni parziali; 3) erroneamente la Corte di Appello non aveva preso in considerazione il verificarsi dell'effetto estintivo previsto dall'art. 8 quater Legge n. 298/1985, a mente del quale non sono punibili, né in sede penale, né in quella amministrativa, coloro che abbiano demolito o eliminato l'opera precedentemente edificata contra ius. Si chiedeva l'annullamento della sentenza.

Entrambi i ricorsi vanno rigettati, essendo infondate le doglianze che li sorreggono.


In particolare, destituita di valenza giuridica è la doglianza sollevata dal direttore dei lavori Margarito Umberto, di cui al punto 1) del ricorso.


Questa Corte, in proposito, ha costantemente ribadito che, in tema di reati edilizi, il direttore dei lavori riveste una posizione di garanzia circa la regolare esecuzione delle opere, con la conseguente responsabilità per le ipotesi di reato configurate, dalla quale può andare esente solo ottemperando agli obblighi di comunicazione e rinuncia all'incarico previsti dall'art. 29, comma secondo, D.P.R. n. 380/2001, sempre che il recesso dalla direzione dei lavori sia stato tempestivo, ossia sia intervenuto non appena l'illecito edilizio si sia evidenziato in modo obiettivo, ovvero non appena abbia avuto conoscenza che le direttive impartite erano state disattese o violate (cfr., ex multis, Cass. Sez. 3, 10/5/2005 n. 34376, Scimone ed altri). Proprio per la posizione di "garante" assunta dal direttore dei lavori e per il suo precipuo obbligo di vigilare sulla corretta esecuzione delle opere, questi risponde penalmente anche allorché si disinteressi dei lavori, pur senza formalizzare o formalizzandole in ritardo, le proprie dimissioni (cfr. Sez. 3, 7/11/2006 n.38924, Pignatelli). Alcuna efficacia liberatoria può riconoscersi ad una rinuncia comunicata - come nella specie - mediante lettera diretta ai committenti, posto che tale atto è ontologicamente inidoneo a fornire la prova che vi sia stata reale rinuncia nella data indicata.


Diverse considerazioni, pur dovendosi pervenire allo stesso risultato di infondatezza della censura, vanno svolte con riferimento alla posizione dell'assuntore dei lavori. E' vero che, in tal caso, l'art. 29 D.P.R. n. 380/22001 non contempla alcuno specifico obbligo di comunicazione in capo a tale soggetto. Tuttavia - nel caso del Margarito Rocco - la Corte territoriale è pervenuta ad un giudizio di penale responsabilità nei suoi confronti con argomentazioni diverse rispetto a quelle del coimputato, svolgendo considerazioni in fatto indicative di un percorso argomentativo esaustivamente e correttamente sviluppato, giacché si rivela immune da smagliature o discrasie logiche.


In particolare, la Corte, facendo impiego di massime di comune esperienza, ha esattamente posto in evidenza la singolarità che una risoluzione contrattuale intervenuta con i committenti ben due anni prima fosse comunicata all'Ufficio Tecnico solo il giorno prima dell'accertamento, nonché l'inverosimiglianza che la ditta esecutrice dei lavori, dopo i pretesi contrasti insorti con i committenti, peraltro assolutamente risalenti nel tempo, avesse rinunciato ad una così consistente operazione economica senza alcuna rivendicazione, né dall'una né dall'altra parte.


Trattasi, pertanto, di apprezzamenti fattuali che, in quanto frutto di un percorso argomentativo tutt'altro che illogico, si sottraggono allo scrutinio di legittimità. Come pure destituita di valenza nello specifico è la censura mossa dal ricorrente Margarito Rocco al passo della sentenza che aveva giudicato irrilevante la distinzione tra appalto e contratto d'opera, potendosi - secondo il ricorrente- solo nel primo caso riconoscersi responsabilità penale in capo al ricorrente.


L'obiezione, che sarebbe astrattamente rilevante, è stata dalla Corte territoriale disattesa sotto un profilo meramente probatorio e fattuale, posto che - nel caso concreto - la società " S.A.L.T.U.R. s.n.c." non solo risultava essere formalmente l'assuntrice dei lavori, come da comunicazione dell'inizio degli stessi in data 19/5/2000, ma concretamente aveva organizzato i mezzi a sua disposizione per la realizzazione delle opere in oggetto.


Destituito di fondamento è il secondo motivo di gravame, con il quale i ricorrenti lamentano il mancato riconoscimento di efficacia sanante e, dunque, la ritenuta inidoneità quale causa estintiva del reato, della concessione in sanatoria n. 41/03, rilasciata dal Comune di Casarano.


Sul punto, la Corte territoriale ha evidenziato (cfr. dep. Morgante) come fosse imprescindibile, ai fini del rilascio della sanatoria, la necessità di una consistente demolizione delle opere abusive e come la stessa concessione, alle ultime due righe, precisasse testualmente "La presente concessione è rilasciata a condizione che prima della realizzazione delle opere autorizzate vengano demolite le opere realizzate abusivamente". Pertanto, del tutto correttamente, i Giudici del merito hanno sottolineato la mancanza, nel caso di specie, del requisito della c.d. "doppia conformità" della concessione in sanatoria, sia al momento della presentazione dell'istanza, sia al momento della realizzazione dell'opera, circostanza - questa-imprescindibile ai fini della sua rilevanza. Deve, pertanto, ritenersi che la Corte territoriale abbia correttamente applicato il principio, più volte ribadito da questa Corte, secondo cui non è ammissibile il rilascio di una concessione in sanatoria, ex artt. 13 e 22 della legge n. 47/1985, ora ex artt. 36 e 45 D.P.R. n. 380/2001, relativa soltanto a parte degli interventi abusivi realizzati, ovvero parziale, o subordinata alla esecuzione di opere, atteso che ciò contrasta ontologicamente con gli elementi essenziali dell'accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità alla disciplina urbanistica ( cfr. Cass. Sez. 3, 26/11/2003 n. 291, rv. 226871, P.M. in proc. Fammiano; conf. Sez. 3, 15/2/2002, n. 1149, rv. 221269, P.M. in proc. Rossi).


Infondato deve ritenersi anche il terzo motivo di ricorso, con il quale si deduce che, avendo i Giudici di merito negato validità alla concessione in sanatoria, non avevano preso in considerazione neppure che la demolizione delle opere abusive, imposta nella ridetta concessione, aveva comportato il verificarsi dell'effetto estintivo previsto dall'art. 8 quater Legge n. 298/1985.


Come questa Corte ha già esplicitato, la richiamata disposizione, secondo la quale non sono perseguibili in qualunque sede coloro che abbiano demolito o eliminato le opere abusive entro la data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge 13 aprile 1985 n. 146, è testualmente riferita e limitata sotto il profilo temporale alle demolizioni di opere abusive eseguite entro la data di entrata in vigore della stessa legge (7/7/1985) (cfr. Cass. Sez. 3, 19/6/1998 n. 10199, Sanfilippo). Peraltro, la Circolare 30/7/1985 n. 3356/25 del Ministero dei Lavori Pubblici, conferendo valenza privilegiata alla connessione con le norme di cui al capo quarto della legge n. 47/1985, optò per l'interpretazione limitativa dell'estensione del beneficio alle sole opere abusive ultimate entro l'1/10/1983, cioè a quelle suscettibili di sanatoria ai sensi della stessa legge n. 47/1985. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 167 del 29/3/1989, ha condiviso tale interpretazione limitativa della norma e ne ha affermato la legittimità costituzionale.


Da ultimo, va evidenziato che il termine di prescrizione del reato ascritto ai ricorrenti, fissato in via ordinaria alla data del 28/9/2006, deve ritenersi prorogato al 20/5/2007, in virtù dei periodi di sospensione dal 9/1/2003 al 16/6/2003 ( mesi 5 e giorni 21) e dal 13/1/2005 al 24/1/2005 ed ancora al 14/3/2005 ( mesi 2 e giorni 1), per un totale di mesi 7 e giorni 22.


I ricorsi vanno conclusivamente rigettati. Segue a norma dell'art. 616 c.p.p. la condanna dei ricorrenti, in via tra loro solidale, al pagamento delle spese processuali, mentre, tenuto conto del contenuto dell'impugnazione, non si ritiene di irrogare anche la condanna al pagamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende


P.Q.M.


La Corte Suprema di Cassazione rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento in solido delle spese processuali.


Roma, il 26/4/2007
Deposito in cancelleria il 14/06/07

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