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CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITA' EUROPEE, Sez. III, 18/12/2007, C-195/05


RIFIUTI - Scarti alimentari originati dall'industria agroalimentare destinati alla produzione di mangimi - Circ. Min. Ambiente 28 giugno 1999 - Residui della preparazione di cibi destinati alle strutture di ricovero per animali di affezione - Art. 23 L. 179/2002 - Esclusione dalla disciplina dei rifiuti - Art. 1, lett. a) dir. 75/442/CEE; Dir. 91/156/CEE - Repubblica italiana - Inadempimento. La Repubblica italiana, avendo adottato indirizzi operativi validi su tutto il territorio nazionale, esplicitati in particolare per mezzo della circolare del Ministro dell’Ambiente 28 giugno 1999, recante chiarimenti interpretativi in materia di definizione di rifiuto, e con comunicato del Ministero della Salute 22 luglio 2002, contenente linee guida relative alla disciplina igienico-sanitaria in materia di utilizzazione dei materiali e sottoprodotti derivanti dal ciclo produttivo e commerciale delle industrie agroalimentari nell’alimentazione animale, tali da escludere dall’ambito di applicazione della disciplina sui rifiuti gli scarti alimentari originati dall’industria agroalimentare destinati alla produzione di mangimi; e avendo, per mezzo dell’art. 23 della legge 31 luglio 2002, n. 179, recante disposizioni in materia ambientale, escluso dall’ambito di applicazione della normativa sui rifiuti i residui derivanti dalle preparazioni nelle cucine di qualsiasi tipo di cibi solidi, cotti e crudi, non entrati nel circuito distributivo di somministrazione, destinati alle strutture di ricovero per animali di affezione, è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 1, lett. a), della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, sui rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE. CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITA' EUROPEE, Sez. III, 18/12/2007, C-195/05


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CORTE DI GIUSTIZIA

delle Comunità Europee,


SENTENZA DELLA CORTE (Terza Sezione)

18 dicembre 2007

«Inadempimento di uno Stato – Ambiente – Direttive 75/442/CEE e 91/156/CEE – Nozione di “rifiuti”– Scarti alimentari originati dall’industria agroalimentare destinati alla produzione di mangimi – Residui derivanti dalle preparazioni nelle cucine di cibi destinati alle strutture di ricovero per animali di affezione»



Nella causa C 195/05,
avente ad oggetto un ricorso per inadempimento ai sensi dell’art. 226 CE, proposto il 2 maggio 2005,


Commissione delle Comunità europee, rappresentata dal sig. M. Konstantinidis, in qualità di agente, assistito dall’avv. G. Bambara, con domicilio eletto in Lussemburgo,

ricorrente,


contro


Repubblica italiana, rappresentata dal sig. I.M. Braguglia, in qualità di agente, assistito dal sig. G. Fiengo, avvocato dello Stato, con domicilio eletto in Lussemburgo,

convenuta,


LA CORTE (Terza Sezione),


composta dal sig. A. Rosas, presidente di sezione, dai sigg. U. Lõhmus, J.N. Cunha Rodrigues, A. Ó Caoimh (relatore) e dalla sig.ra P. Lindh, giudici,


avvocato generale: sig. J. Mazák
cancelliere: sig. J. Swedenborg, amministratore


vista la fase scritta del procedimento e in seguito alla trattazione orale del 17 gennaio 2007,
sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 22 marzo 2007,


ha pronunciato la seguente


Sentenza


1 Con il presente ricorso, la Commissione delle Comunità europee chiede che la Corte voglia dichiarare che la Repubblica italiana,
– avendo adottato indirizzi operativi validi su tutto il territorio nazionale, esplicitati in particolare per mezzo della circolare del Ministro dell’Ambiente 28 giugno 1999, recante chiarimenti interpretativi in materia di definizione di rifiuto (in prosieguo: la «circolare del giugno 1999»), e con comunicato del Ministero della Salute 22 luglio 2002, contenente linee guida relative alla disciplina igienico-sanitaria in materia di utilizzazione dei materiali e sottoprodotti derivanti dal ciclo produttivo e commerciale delle industrie agroalimentari nell’alimentazione animale (GURI n. 180 del 2 agosto 2002, e rettifica, GURI n. 245 del 18 ottobre 2002; in prosieguo: il «comunicato del 2002»), tali da escludere dall’ambito di applicazione della disciplina sui rifiuti gli scarti alimentari originati dall’industria agroalimentare destinati alla produzione di mangimi; e
– avendo, per mezzo dell’art. 23 della legge 31 luglio 2002, n. 179, recante disposizioni in materia ambientale (GURI n. 189 del 13 agosto 2002; in prosieguo: la «legge n. 179/2002»), escluso dall’ambito di applicazione della normativa sui rifiuti i residui derivanti dalle preparazioni nelle cucine di qualsiasi tipo di cibi solidi, cotti e crudi, non entrati nel circuito distributivo di somministrazione, destinati alle strutture di ricovero per animali di affezione,
è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 1, lett. a), della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, sui rifiuti (GU L 194, pag. 39), come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE (GU L 78, pag. 32) (in prosieguo: la «direttiva»).


Contesto normativo
La normativa comunitaria
2 Ai sensi dell’art. 1, lett. a) e c), della direttiva, si intende per:
«a) “rifiuto”: qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi.
La Commissione, conformemente alla procedura di cui all’articolo 18, preparerà, entro il 1° aprile 1993, un elenco dei rifiuti che rientrano nelle categorie di cui all’allegato I. Questo elenco sarà oggetto di un riesame periodico e, se necessario, sarà riveduto secondo la stessa procedura;
(...)
c) “detentore”: il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che li detiene».
3 L’art. 1, lett. e) e f), della direttiva definisce le nozioni di smaltimento e di ricupero dei rifiuti come tutte le operazioni previste, rispettivamente, negli allegati II A e II B a quest’ultima.
4 L’art. 2, n. 1, lett. b), della direttiva elenca i rifiuti che sono esclusi dall’ambito di applicazione di quest’ultima «qualora già contemplati da altra normativa».
5 L’allegato I alla direttiva, intitolato «Categorie di rifiuti», ricomprende segnatamente le categorie Q 14, «Prodotti di cui il detentore non si serve più (ad esempio articoli messi fra gli scarti dall’agricoltura, dalle famiglie, dagli uffici, dai negozi, dalle officine, ecc.)», e Q 16, «Qualunque sostanza, materia o prodotto che non rientri nelle categorie sopra elencate».
6 La Commissione ha adottato la decisione 20 dicembre 1993, 94/3/CE, che istituisce un elenco di rifiuti conformemente all’articolo 1, lettera a), della direttiva 75/442 (GU 1994, L 5, pag. 15). Tale catalogo è stato rinnovato con decisione della Commissione 3 maggio 2000, 2000/532/CE, che sostituisce la decisione 94/3 e la decisione 94/904/CE del Consiglio che istituisce un elenco di rifiuti pericolosi ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 4, della direttiva 91/689/CEE del Consiglio relativa ai rifiuti pericolosi (GU L 226, pag. 3). Il catalogo dei rifiuti istituito con la decisione 2000/532 è stato più volte modificato, da ultimo con decisione del Consiglio 23 luglio 2001, 2001/573/CE (GU L 203, pag. 18). Il catalogo in parola classifica i rifiuti in funzione della loro fonte. Il capitolo 2 è intitolato «Rifiuti prodotti da agricoltura, orticoltura, acquacoltura, silvicoltura, caccia e pesca, trattamento e preparazione di alimenti».


La normativa nazionale
7 L’art. 6, comma 1, lett. a), del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, recante attuazione della direttiva 91/156/CEE sui rifiuti, della direttiva 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e della direttiva 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio (Supplemento ordinario alla GURI n. 38 del 15 febbraio 1997; in prosieguo: il «decreto legislativo n. 22/97») recita:
«Ai fini del presente decreto si intende per:
a) rifiuto: qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi;
(…)».
8 L’art. 8, comma 1, del citato decreto esclude dal campo di applicazione del medesimo determinati sostanze e materiali in quanto disciplinati da specifiche disposizioni di legge, segnatamente, al punto c), «le carogne ed i seguenti rifiuti agricoli: materie fecali ed altre sostanze naturali non pericolose utilizzate nell’attività agricola».
9 L’art. 23, comma 1, lett. b), della legge n. 179/2002 ha inserito un nuovo punto c bis) all’art. 8, comma 1, del decreto legislativo n. 22/97, ai sensi del quale sono esclusi dall’ambito di applicazione di tale decreto «i residui e le eccedenze derivanti dalle preparazioni nelle cucine di qualsiasi tipo di cibi solidi, cotti e crudi, non entrati nel circuito distributivo di somministrazione, destinati alle strutture di ricovero di animali di affezione di cui alla legge 14 agosto 1991, n. 281, e successive modificazioni, nel rispetto della vigente normativa».
10 La circolare del giugno 1999 ha dato una definizione più precisa del termine «rifiuto» ai sensi dell’art. 6 del decreto legislativo n. 22/97 e, al suo ultimo capoverso, lett. b), indica quanto segue:
«I materiali, le sostanze e gli oggetti originati dai cicli produttivi o di preconsumo, dei quali il detentore non si disfi, non abbia l’obbligo o l’intenzione di disfarsi e che quindi non conferisca a sistemi di raccolta o trasporto dei rifiuti, di gestione di rifiuti ai fini del recupero o dello smaltimento, purché abbiano le caratteristiche delle materie prime secondarie indicate dal D.M. 5.2.1998[, relativo all’individuazione dei rifiuti non pericolosi sottoposti alle procedure semplificate di recupero ai sensi degli articoli 31 e 33 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22; supplemento ordinario alla GURI n. 88 del 16 aprile 1998] e siano direttamente destinat[i] in modo oggettivo ed effettivo all’impiego in un ciclo produttivo, sono sottoposti al regime delle materie prime e non a quello dei rifiuti».
11 Il comunicato del 2002 è così formulato:
«(...)
I materiali ed i sottoprodotti derivanti dalle lavorazioni dell’industria agroalimentare sono “materie prime per mangimi” ove, in presenza dei requisiti igienico sanitari, esista la volontà del produttore di volerli utilizzare nel ciclo alimentare zootecnico.
In tal caso i suddetti materiali non sono assoggettati alla normativa sui rifiuti, bensì alle disposizioni relative alla produzione e commercializzazione degli alimenti per animali e, nel caso di prodotti di origine animale o contenenti costituenti di origine animale, anche alle norme sanitarie vigenti in materia (...)
(...)
In assenza delle suddette garanzie sull’effettiva destinazione all’alimentazione animale, i materiali ed i sottoprodotti derivanti dal ciclo produttivo e commerciale dell’industria agroalimentare dovranno essere sottoposti al regime giuridico dei rifiuti. (...)
(...)».


Procedimento precontenzioso
12 Con lettere in data 11 e 19 giugno, 28 agosto e 6 novembre 2001 nonché 10 aprile 2002, le autorità italiane hanno risposto a una lettera di diffida del 22 ottobre 1999 e a un primo parere motivato dell’11 aprile 2001 con i quali la Commissione aveva rilevato che la Repubblica italiana, avendo adottato indirizzi operativi vincolanti per l’attuazione della normativa italiana sui rifiuti i quali escludevano dall’ambito di applicazione di quest’ultima determinati residui ed eccedenze alimentari – provenienti dalle industrie agroalimentari, da mense o ristoranti, destinati ad essere utilizzati per l’alimentazione degli animali –, violava la direttiva.
13 Alla luce delle informazioni comunicate dalle autorità italiane, la Commissione concludeva che l’adeguamento della legislazione italiana agli obblighi previsti da tale parere motivato necessitava di modifiche di carattere sostanziale. Per questo motivo, il 19 dicembre 2002 la Commissione ha inviato una lettera di diffida, in merito alla quale le autorità italiane hanno preso posizione con lettera del 13 febbraio 2003.
14 La Commissione ha successivamente emesso, l’11 luglio 2003, un ulteriore parere motivato, invitando la Repubblica italiana a conformarvisi entro un termine di due mesi dalla ricezione di tale parere.
15 Dal momento che le autorità italiane, con lettera 4 novembre 2003, hanno insistito nel contestare la fondatezza della tesi della Commissione, quest’ultima ha deciso di proporre il presente ricorso.


Sul ricorso


Argomenti delle parti
16 Con il suo ricorso, la Commissione rileva che, sostanzialmente, la normativa nazionale controversa va al di là delle indicazioni risultanti dalla giurisprudenza della Corte per quanto riguarda le ipotesi in cui non occorre considerare come rifiuto un materiale risultante da un processo di fabbricazione, che non è destinato in via principale alla sua produzione.
Sugli scarti alimentari provenienti dall’industria agroalimentare e destinati alla produzione di mangimi
17 La Commissione osserva che gli indirizzi operativi formulati nella circolare del giugno 1999 e nel comunicato del 2002 equivalgono a escludere dal regime nazionale di gestione dei rifiuti gli scarti alimentari utilizzati per la produzione di mangimi in forza dell’osservanza di specifiche norme igienico sanitarie. Stando a tali indirizzi, sarebbe sufficiente che un residuo dell’industria agroalimentare sia destinato alla produzione di mangimi per volontà manifesta del detentore affinché tale residuo sia sempre e comunque escluso dal regime dei rifiuti.
18 Orbene, secondo la Commissione, il fatto che un residuo di produzione possa essere riutilizzato senza necessità di trattamento preventivo non può essere considerato decisivo al fine di escludere che il detentore di tale residuo se ne disfi o abbia l’intenzione oppure l’obbligo di disfarsene ai sensi della direttiva.
19 La Commissione rileva che la Corte ha indubbiamente riconosciuto, per quanto riguarda i sottoprodotti, che, se il detentore ne ricava un vantaggio economico, si può concludere che quest’ultimo non «si disfa» del sottoprodotto, ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva. Tuttavia, dal momento che la nozione di rifiuto deve essere interpretata estensivamente, l’esclusione dell’ambito di applicazione della direttiva può essere ammessa solo se ricorrono alcune condizioni, che consentono di considerare che il riutilizzo non è semplicemente eventuale, ma certo, non richiede una trasformazione preliminare e interviene nel corso del processo di produzione.
20 Secondo la Commissione, sarebbe inoltre necessario valutare il grado di probabilità di riutilizzo di un materiale e, soprattutto, verificare che quest’ultimo sia riutilizzato nello stesso processo di produzione dal quale deriva. Orbene, contrariamente alla tesi propugnata dalla Repubblica italiana, non si può parlare di unico processo di produzione quando gli scarti alimentari sono effettivamente destinati all’utilizzo come mangimi. Il semplice fatto che tali scarti alimentari siano trasferiti dagli operatori che li producono a chi li utilizzerà comporta infatti una serie di operazioni (magazzinaggio, trasformazione e trasporto) che la direttiva mira proprio a controllare.
21 La Repubblica italiana rileva che i materiali ed i sottoprodotti derivanti dai processi di produzione dell’industria agroalimentare sono «materie prime per mangimi», ai sensi del comunicato del 2002, ove esista la volontà del produttore di utilizzarli nel ciclo alimentare zootecnico, purché determinate condizioni igieniche e sanitarie siano rispettate. Tale volontà, associata al riutilizzo certo dei sottoprodotti stessi, costituirebbe una prova sufficiente del fatto che manca la volontà del detentore di «disfarsi» del materiale in questione, ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva.
22 Per tale Stato membro, l’eccezione prevista dagli indirizzi operativi non costituisce affatto un’esclusione a priori dal regime nazionale dei rifiuti degli scarti alimentari provenienti dall’industria agroalimentare, poiché la detta esclusione è in realtà condizionata non solo dalla volontà manifesta del detentore di tali scarti di utilizzarli nel ciclo di produzione di mangimi, ma anche dal riutilizzo certo degli scarti.
23 In tal caso, gli scarti di cui trattasi non sarebbero assoggettati alla normativa sui rifiuti, bensì alle disposizioni relative alla produzione e alla commercializzazione dei mangimi, in particolare al regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 28 gennaio 2002, n. 178, che stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l’Autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa procedure nel campo della sicurezza alimentare (GU L 31, pag. 1), nonché, quando si tratti di sottoprodotti di origine animale, al regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 3 ottobre 2002, n. 1774, recante norme sanitarie relative ai sottoprodotti di origine animale non destinati al consumo umano (GU L 273, pag. 1).
24 Sarebbero altresì applicabili le disposizioni «HACCP» [(«hazard analysis and critical control points» analisi dei rischi e punti critici di controllo)] previste:
– dai regolamenti (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 29 aprile 2004, n. 852, sull’igiene dei prodotti alimentari (GU L 139, pag. 1), n. 853, che stabilisce norme specifiche in materia di igiene per gli alimenti di origine animale (GU L 139, pag. 55), e n. 854, che stabilisce norme specifiche per l’organizzazione di controlli ufficiali sui prodotti di origine animale destinati al consumo umano (GU L 139, pag. 206);
– dal regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 12 gennaio 2005, n. 183, che stabilisce requisiti per l’igiene dei mangimi (GU L 35, pag. 1), nonché
– dal regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 29 aprile 2004, n. 882, relativo ai controlli ufficiali intesi a verificare la conformità alla normativa in materia di mangimi e di alimenti e alle norme sulla salute e sul benessere degli animali (GU L 165, pag. 1).
25 Il governo italiano rileva che tali regolamenti in materia di alimenti nonché le disposizioni dell’ordinamento nazionale ad essi relative, al pari della direttiva, mirerebbero a controllare le operazioni di magazzinaggio, di trasformazione nonché di trasporto e, pur garantendo un’adeguata tutela della salute, sarebbero altresì in grado di garantire la tutela dell’ambiente.
26 A giudizio della Repubblica italiana, i controlli effettuati all’interno della filiera alimentare, diretti principalmente a garantire la tracciabilità dei prodotti e delle materie prime per la produzione di mangimi a partire dallo stabilimento di produzione, sono tali da indurre a considerare tale filiera equivalente ad un unico processo di produzione. Tale Stato membro ricorda inoltre che, in Italia, tutte le attività riguardanti il settore alimentare e mangimistico sono soggette ad autorizzazione, che viene rilasciata sulla base di idonea documentazione attestante che sia i soggetti che la richiedono sia le strutture e i mezzi di trasporto soddisfano i requisiti prescritti.
27 Tale Stato membro ritiene che la Commissione voglia far prevalere la normativa sui rifiuti, che sarebbe generale ma residuale, sulle regole sostanziali e specifiche che disciplinano l’industria alimentare.
28 Inoltre, l’approccio della Commissione impedirebbe l’utilizzo dei sottoprodotti alimentari per produrre mangimi, poiché la legislazione italiana in materia di derrate alimentari non consentirebbe che tali sottoprodotti, che devono essere inquadrati come rifiuti e di conseguenza trasportati con un mezzo autorizzato per i rifiuti, possano essere consegnati ad un’industria mangimistica. L’interpretazione della Commissione aumenterebbe pertanto la produzione e lo smaltimento di scarti alimentari, impedendone il riutilizzo come alimenti.
Sui residui e le eccedenze provenienti da preparazioni nelle cucine destinati a strutture di ricovero per animali di affezione
29 La Commissione sostiene che l’art. 23 della legge n. 179/2002 ha l’effetto di escludere dall’ambito di applicazione del decreto legislativo n. 22/97 «i residui e le eccedenze derivanti dalle preparazioni nelle cucine di qualsiasi tipo di cibi solidi, cotti e crudi, non entrati nel circuito distributivo di somministrazione, destinati alle strutture di ricovero di animali di affezione». Secondo la Commissione, non si può sostenere che tali rifiuti non siano l’oggetto di un’intenzione del detentore di disfarsene, come sarebbe comprovato dall’elencazione degli stessi all’art. 8 del citato decreto legislativo.
30 La Repubblica italiana sostiene che, altresì nel contesto della disciplina su cui verte il secondo elemento del ricorso della Commissione, il detentore deve dimostrare la sua volontà di non disfarsi dei residui o delle eccedenze alimentari volendoli effettivamente destinare alle strutture di ricovero degli animali di affezione autorizzate dalla normativa nazionale. Peraltro, l’esclusione di cui alla disciplina sui rifiuti riguarderebbe sempre, in effetti, eccedenze alimentari e non «residui» di produzione, e sarebbe in corso di adozione una normativa che precisa tale aspetto.


Giudizio della Corte
31 È pacifico che la disciplina italiana su cui verte il ricorso in esame esclude, da una parte, gli scarti alimentari dell’industria agroalimentare e, dall’altra, i residui o le eccedenze derivanti dalla preparazione dei cibi nelle cucine, non entrati nel circuito distributivo (in prosieguo congiuntamente considerati: i «materiali in questione»), dall’ambito di applicazione della normativa nazionale che attua la direttiva, quando i materiali in questione sono destinati alla produzione di mangimi o, direttamente, utilizzati come alimenti nelle strutture di ricovero per animali di affezione.
32 Con i due elementi del suo ricorso, che occorre esaminare congiuntamente, la Commissione sostiene, essenzialmente, che la citata normativa travisa quindi la nozione di rifiuti definita all’art. 1, lett. a), della direttiva, introducendo una deroga troppo generale alla legislazione nazionale relativa ai rifiuti, che comporta l’esclusione automatica, e indebita, dei materiali in questione dalla sfera di applicazione delle disposizioni relative alla gestione dei rifiuti derivanti dalla direttiva.
33 La Repubblica italiana replica essenzialmente che, quando ricorrono le condizioni di applicazione della normativa su cui verte il ricorso, i materiali in questione non rientrano nella nozione di rifiuti ai sensi della direttiva, come interpretata dalla Corte.
34 A questo proposito, l’art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva definisce rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I [a tale direttiva] e di cui il detentore si disfi o abbia deciso (...) di disfarsi». L’allegato I precisa e chiarisce tale definizione proponendo un catalogo di sostanze e di oggetti qualificabili come rifiuti. Tale catalogo, tuttavia, ha soltanto un valore indicativo, posto che la qualifica di rifiuto discende anzitutto dal comportamento del detentore e dal significato del termine «disfarsi» (v., in tal senso, sentenze 18 dicembre 1997, causa C 129/96, Inter-Environnement Wallonie, Racc. pag. I 7411, punto 26; 7 settembre 2004, causa C 1/03, Van de Walle e a., Racc. pag. I 7613, punto 42, nonché 10 maggio 2007, causa C 252/05, Thames Water Utilities, Racc. pag. I 3883, punto 24).
35 Il termine «disfarsi» deve essere interpretato non solo alla luce della finalità essenziale della direttiva che, stando al suo terzo ‘considerando’, è la «protezione della salute umana e dell’ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell’ammasso e del deposito dei rifiuti», bensì anche dell’art. 174, n. 2, CE. Quest’ultimo dispone che «[l]a politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni della Comunità. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva (…)». Ne consegue che il termine «disfarsi», e pertanto la nozione di «rifiuto» ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva, non possono essere interpretati in senso restrittivo (v., in tal senso, in particolare, sentenze 15 giugno 2000, cause riunite C 418/97 e C 419/97, ARCO Chemie Nederland e a., Racc. pag. I 4475, punti 36 40, nonché Thames Water Utilities, cit., punto 27).
36 Alcune circostanze possono costituire indizi del fatto che il detentore della sostanza od oggetto se ne disfi ovvero abbia deciso o abbia l’obbligo di «disfarsene» ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva (sentenza ARCO Chemie Nederland e a., cit., punto 83). Ciò si verifica in particolare se una sostanza è un residuo di produzione o di consumo, cioè un prodotto che non è stato ricercato in quanto tale (v., in tal senso, sentenza ARCO Chemie Nederland e a., cit., punto 84, nonché 11 novembre 2004, causa C 457/02, Niselli, Racc. pag. I 10853, punto 43).
37 Del resto, il metodo di trasformazione o le modalità di utilizzo di una sostanza non sono determinanti per stabilire se si tratti o no di un rifiuto (v. sentenze ARCO Chemie Nederland e a., cit., punto 64, e 1° marzo 2007, causa C 176/05, KVZ retec, Racc. pag. I 1721, punto 52).
38 La Corte ha infatti precisato, da un lato, che l’esecuzione di una delle operazioni di smaltimento o di recupero di cui agli allegati II A o II B alla direttiva non consente di per sé di qualificare come rifiuto una sostanza o un oggetto trattato in tale operazione (v. in tal senso, in particolare, sentenza Niselli, cit., punti 36 e 37) e, dall’altro, che la nozione di rifiuti non deve intendersi nel senso che essa esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica (v., in tal senso, in particolare, sentenza 25 giugno 1997, cause riunite C 304/94, C 330/94, C 342/94 e C 224/95, Tombesi e a., Racc. pag. I 3561, punti 47 e 48). Il sistema di sorveglianza e di gestione istituito dalla direttiva intende infatti riferirsi a tutti gli oggetti e le sostanze di cui il proprietario si disfa, anche se essi hanno un valore commerciale e sono raccolti a titolo commerciale a fini di riciclo, di recupero o di riutilizzo (v., in particolare, sentenza 18 aprile 2002, causa C 9/00, Palin Granit e Vehmassalon kansanterveystyön kuntayhtymän hallitus, Racc. pag. I 3533; in prosieguo: la sentenza «Palin Granit», punto 29).
39 Tuttavia, emerge altresì dalla giurisprudenza della Corte che, in determinate situazioni, un bene, un materiale o una materia prima che deriva da un processo di estrazione o di fabbricazione che non è principalmente destinato a produrlo può costituire non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto, del quale il detentore non cerca di «disfarsi» ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva, ma che intende sfruttare o commercializzare – altresì eventualmente per il fabbisogno di operatori economici diversi da quello che l’ha prodotto – a condizioni ad esso favorevoli, in un processo successivo, a condizione che tale riutilizzo sia certo, non richieda una trasformazione preliminare e intervenga nel corso del processo di produzione o di utilizzazione (v., in tal senso, sentenze Palin Granit, cit., punti 34 36; 11 settembre 2003, causa C 114/01, AvestaPolarit Chrome, Racc. pag. I 8725, punti 33 38; Niselli, cit., punto 47, nonché 8 settembre 2005, causa C 416/02, Commissione/Spagna, Racc. pag. I 7487, punti 87 e 90, e causa C 121/03, Commissione/Spagna, Racc. pag. I 7569, punti 58 e 61).
40 Pertanto, oltre al criterio relativo alla natura o meno di residuo di produzione di una sostanza, il grado di probabilità di riutilizzo di tale sostanza, senza operazioni di trasformazione preliminare, costituisce un secondo criterio utile ai fini di valutare se essa sia o meno un rifiuto ai sensi della direttiva. Se, oltre alla mera possibilità di riutilizzare la sostanza di cui trattasi, il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, la probabilità di tale riutilizzo è alta. In un’ipotesi del genere la sostanza in questione non può più essere considerata un onere di cui il detentore cerchi di «disfarsi», bensì un autentico prodotto (v. citate sentenze Palin Granit, punto 37, e Niselli, punto 46).
41 Tuttavia, se per tale riutilizzo occorrono operazioni di deposito che possono avere una certa durata, e quindi rappresentare un onere per il detentore ed essere potenzialmente fonte di quel danno per l’ambiente che la direttiva mira specificamente a limitare, esso non può essere considerato certo ed è prevedibile solo a più o meno lungo termine, cosicché la sostanza di cui trattasi deve essere considerata, in via di principio, come rifiuto (v., in tal senso, citate sentenze Palin Granit, punto 38, e AvestaPolarit Chrome, punto 39).
42 L’effettiva esistenza di un «rifiuto» ai sensi della direttiva va pertanto accertata alla luce del complesso delle circostanze, tenendo conto della finalità della direttiva e in modo da non pregiudicarne l’efficacia (v. citate sentenze ARCO Chemie Nederland e a., punto 88, e KVZ retec, punto 63, nonché ordinanza 15 gennaio 2004, causa C 235/02, Saetti e Frediani, Racc. pag. I 1005, punto 40).
43 Atteso che la direttiva non suggerisce alcun criterio determinante per individuare la volontà del detentore di disfarsi di una determinata sostanza o di un determinato materiale, in mancanza di disposizioni comunitarie gli Stati membri sono liberi di scegliere le modalità di prova dei diversi elementi definiti nelle direttive da essi recepite, purché ciò non pregiudichi l’efficacia del diritto comunitario (v. citate sentenze ARCO Chemie Nederland e a., punto 41, nonché Niselli, punto 34). Infatti, gli Stati membri possono, ad esempio, definire varie categorie di rifiuti, in particolare per facilitare l’organizzazione e il controllo della loro gestione, purché gli obblighi risultanti dalla direttiva o da altre disposizioni di diritto comunitario relative ai rifiuti in parola siano rispettati e l’eventuale esclusione di determinate categorie dall’ambito di applicazione delle misure adottate per recepire gli obblighi derivanti dalla direttiva si verifichi in conformità all’art. 2, n. 1, di quest’ultima (v., in tal senso, sentenza 16 dicembre 2004, causa C 62/03, Commissione/Regno Unito, non pubblicata nella Raccolta, punto 12).
44 Nella presente fattispecie, la Repubblica italiana ritiene sostanzialmente che, dal momento che le eccezioni previste dalla normativa su cui verte il ricorso sono condizionate, a suo giudizio, non solo dalla volontà manifesta del detentore dei materiali in questione di utilizzarli nel ciclo di produzione di mangimi, ma anche dal riutilizzo certo dei materiali stessi, si applica la giurisprudenza citata ai punti 39 e 40 della presente sentenza, cosicché tali materiali potrebbero essere considerati non già come residui di produzione, ma come sottoprodotti di cui il detentore, data la sua manifesta volontà che siano riutilizzati, non cerca di «disfarsi» ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva. Del resto, in ipotesi di tale natura, si applicherebbero anche altre normative, segnatamente quelle relativa alla sicurezza alimentare. Orbene, anche tali normative, secondo il governo italiano, mirano a controllare il magazzinaggio, la trasformazione e il trasporto dei materiali in questione e sono atte, garantendo la tutela della salute, a proteggere l’ambiente in modo analogo alla direttiva.
45 Va ricordato anzitutto a tale proposito che il catalogo delle categorie di rifiuti di cui all’allegato I alla direttiva e le operazioni di smaltimento e di ricupero enumerate agli allegati II A e II B alla stessa direttiva indicano che la nozione di rifiuto non esclude in via di principio alcun tipo di residui o di altri materiali derivanti da processi produttivi (v. sentenza Inter-Environnement Wallonie, cit., punto 28).
46 Inoltre, tenuto conto dell’obbligo, ricordato al punto 35 della presente sentenza, di interpretare in modo ampio la nozione di rifiuto e i principi posti dalla giurisprudenza esposta supra, ai punti 36 41, il ricorso a un argomento come quello formulato dal governo italiano, relativo ai sottoprodotti di cui il detentore non intende disfarsi, deve essere limitato alle situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima, altresì per il fabbisogno di operatori economici diversi da quello che l’ha prodotto, non è solo eventuale bensì certo, non richiede una trasformazione preliminare e interviene nel corso del processo di produzione o di utilizzazione.
47 Orbene, dalle spiegazioni della Repubblica italiana, esposte al punto 21 della presente sentenza, emerge che la normativa su cui verte il ricorso prevede la possibilità di escludere i materiali in questione dalla sfera di applicazione della legislazione nazionale relativa ai rifiuti anche quando i citati materiali sono sottoposti alle trasformazioni previste dalla normativa comunitaria o nazionale vigente.
48 Peraltro, anche supponendo che sia possibile garantire che i materiali in questione siano effettivamente riutilizzati per la produzione di mangimi – e tuttavia la sola volontà di destinare tali materiali alla menzionata produzione, anche qualora sia previamente attestata in forma scritta, non è equiparabile al loro effettivo utilizzo a tale scopo –, risulta soprattutto dai punti 36 e 37 della presente sentenza che le modalità di utilizzo di una sostanza non sono determinanti per qualificare o meno quest’ultima come rifiuto. Pertanto, non si può inferire dalla sola circostanza che i materiali in questione saranno riutilizzati che essi non costituiscono «rifiuti» ai sensi della direttiva.
49 Infatti, la destinazione futura di un oggetto o di una sostanza non è di per sé decisiva per quanto riguarda la sua eventuale natura di rifiuto definita, conformemente all’art. 1, lett. a), della direttiva, con riferimento al fatto che il detentore dell’oggetto o della sostanza se ne disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsene (v., in tal senso, sentenze citate ARCO Chemie Nederland e a., punto 64, nonché KVZ retec, punto 52).
50 Appare quindi evidente che la normativa su cui verte il ricorso introduce, in realtà, una presunzione secondo la quale, nelle situazioni da essa previste, i materiali in questione costituiscono sottoprodotti che presentano per il loro detentore, dato il suo intendimento che siano riutilizzati, un vantaggio o un valore economico anziché un onere di cui egli cercherebbe di disfarsi.
51 Orbene, anche se tale ipotesi in determinati casi può corrispondere alla realtà, non può esistere alcuna presunzione generale in base alla quale un detentore dei materiali in questione tragga dal loro riutilizzo un vantaggio maggiore rispetto a quello derivante dal mero fatto di potersene disfare.
52 Di conseguenza, è giocoforza constatare che la citata normativa finisce per sottrarre alla qualifica di rifiuto, ai sensi dell’ordinamento italiano, taluni residui che corrispondono tuttavia alla definizione sancita dall’art. 1, lett. a), della direttiva.
53 Tale disposizione fornisce non solo la definizione della nozione di «rifiuto» ai sensi della direttiva, ma determina altresì, congiuntamente al suo art. 2, n. 1, la sfera di applicazione di quest’ultima. Infatti, il citato art. 2, n. 1, indica quali tipi di rifiuti sono o possono essere esclusi dall’ambito di applicazione della direttiva, e a quali condizioni, mentre, in linea di principio, vi rientrano tutti i rifiuti corrispondenti alla definizione in parola. Orbene, ogni norma nazionale che limita in modo generale la portata degli obblighi derivanti dalla direttiva oltre quanto consentito dal suo art. 2, n. 1, travisa necessariamente l’ambito di applicazione della direttiva (v., in tal senso, sentenza Commissione/Regno Unito, cit., punto 11), pregiudicando in questo modo l’efficacia dell’art. 174 CE (v., in tal senso, sentenza ARCO Chemie Nederland e a., cit., punto 42,).
54 Quanto alle legislazioni comunitarie e nazionali menzionate supra, ai punti 23 25, invocate dalla Repubblica italiana per sostenere, essenzialmente, che il contesto legislativo comunitario e nazionale complessivo relativo alle condizioni di sicurezza in materia di derrate alimentari e di mangimi rende impossibile qualificare i materiali in questione come rifiuti, basta osservare che tali materiali non si identificano, in linea di principio, con le sostanze e gli oggetti elencati all’art. 2, n. 1, della direttiva, sicché la deroga all’applicazione di quest’ultima prevista dalla citata disposizione non può riguardare i materiali in parola. Occorre ricordare inoltre che nessun elemento nella direttiva indica che essa non sia applicabile alle operazioni di smaltimento o di ricupero che fanno parte di un processo industriale, qualora esse non sembrino costituire un pericolo per la salute dell’uomo o per l’ambiente (sentenza Inter-Environnement Wallonie, cit., punto 30).
55 Inoltre, contrariamente a quanto sostiene la Repubblica italiana, la direttiva non può essere considerata come di applicazione residuale rispetto alla legislazione comunitaria e nazionale in materia di sicurezza alimentare. Sebbene, infatti, gli scopi perseguiti da alcune disposizioni della citata legislazione possano parzialmente sovrapporsi a quelli della direttiva, essi rimangono tuttavia notevolmente diversi. Al di là delle ipotesi espressamente previste all’art. 2, n. 1, della direttiva, nulla poi in quest’ultima è tale da indicare che essa non si applicherebbe cumulativamente ad altre legislazioni.
56 In ultimo, quanto all’argomento della Repubblica italiana secondo il quale l’applicazione della direttiva impedirebbe di riutilizzare residui alimentari per la produzione di mangimi, in quanto tali residui dovrebbero essere trasportati su mezzi autorizzati al trasporto di rifiuti che non rispondono ai necessari requisiti di igiene, la Commissione ha sottolineato a buon diritto che l’origine di tale situazione è da ricercare nella normativa italiana e non nella direttiva.
57 Pertanto, il ricorso della Commissione dev’essere accolto.
58 Si deve pertanto dichiarare che la Repubblica italiana,
– avendo adottato indirizzi operativi validi su tutto il territorio nazionale, esplicitati in particolare con la circolare del giugno 1999 e con il comunicato del 2002, tali da escludere dall’ambito di applicazione della disciplina sui rifiuti gli scarti alimentari originati dall’industria agroalimentare destinati alla produzione di mangimi; e
– avendo, per mezzo dell’art. 23 della legge n. 179/2002, escluso dall’ambito di applicazione della normativa sui rifiuti i residui derivanti dalle preparazioni nelle cucine di qualsiasi tipo di cibi solidi, cotti e crudi, non entrati nel circuito distributivo di somministrazione, destinati alle strutture di ricovero di animali di affezione,
è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 1, lett. a), della direttiva.


Sulle spese
59 A norma dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché la Commissione ne ha fatto domanda, la Repubblica italiana, rimasta soccombente, deve essere condannata alle spese.


Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara e statuisce:


1) La Repubblica italiana,
– avendo adottato indirizzi operativi validi su tutto il territorio nazionale, esplicitati in particolare per mezzo della circolare del Ministro dell’Ambiente 28 giugno 1999, recante chiarimenti interpretativi in materia di definizione di rifiuto, e con comunicato del Ministero della Salute 22 luglio 2002, contenente linee guida relative alla disciplina igienico-sanitaria in materia di utilizzazione dei materiali e sottoprodotti derivanti dal ciclo produttivo e commerciale delle industrie agroalimentari nell’alimentazione animale, tali da escludere dall’ambito di applicazione della disciplina sui rifiuti gli scarti alimentari originati dall’industria agroalimentare destinati alla produzione di mangimi; e
– avendo, per mezzo dell’art. 23 della legge 31 luglio 2002, n. 179, recante disposizioni in materia ambientale, escluso dall’ambito di applicazione della normativa sui rifiuti i residui derivanti dalle preparazioni nelle cucine di qualsiasi tipo di cibi solidi, cotti e crudi, non entrati nel circuito distributivo di somministrazione, destinati alle strutture di ricovero per animali di affezione,
è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 1, lett. a), della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, sui rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE.


2) La Repubblica italiana è condannata alle spese.


Firme


 

 


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