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CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITA' EUROPEE, Sez. III, 18/12/2007, C-263/05


RIFIUTI - Nozione di rifiuto - Art. 14 D.L. 138/2002 - Direttive 75/442/CEE e 91/156/CEE  - Repubblica italiana - Inadempimento.  La Repubblica italiana, avendo adottato e mantenuto in vigore l’art. 14 del decreto legge 8 luglio 2002, n. 138, relativo a interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno dell’economia anche nelle aree svantaggiate, divenuto, in seguito a modifica, legge 8 agosto 2002, n. 178, che esclude dall’ambito di applicazione del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, relativo all’attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio, da un lato, le sostanze, i materiali o i beni, destinati alle operazioni di smaltimento o di recupero non esplicitamente elencati agli allegati B e C a tale decreto e, dall’altro, le sostanze o i materiali residuali di produzione dei quali il detentore abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi, qualora gli stessi possano essere e siano riutilizzati in un ciclo produttivo o di consumo, a condizione che non sia effettuato alcun intervento preventivo di trattamento e che gli stessi non rechino pregiudizio all’ambiente, oppure, anche qualora venga effettuato un intervento preventivo di trattamento, quando quest’ultimo non configuri un’operazione di recupero fra quelle individuate all’allegato C al medesimo decreto, è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 1, lett. a), della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, sui rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE, e dalla decisione della Commissione 24 maggio 1996, 96/350/CE. CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITA' EUROPEE, Sez. III, 18/12/2007, C-263/05
 


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CORTE DI GIUSTIZIA

delle Comunità Europee,


SENTENZA DELLA CORTE (Terza Sezione)

18 dicembre 2007

«Inadempimento di uno Stato – Ambiente – Direttive 75/442/CEE e 91/156/CEE – Nozione di «rifiuti» – Sostanze o oggetti destinati alle operazioni di smaltimento o di recupero – Residui di produzione che possono essere riutilizzati»



Nella causa C 263/05,
avente ad oggetto un ricorso per inadempimento ai sensi dell’art. 226 CE, proposto il 23 giugno 2005,
Commissione delle Comunità europee, rappresentata dai sigg. M. Konstantinidis e L. Cimaglia, in qualità di agenti, con domicilio eletto in Lussemburgo,

ricorrente,


contro


Repubblica italiana, rappresentata dal sig. I. M. Braguglia, in qualità di agente, assistito dal sig. G. Fiengo, avvocato dello Stato, con domicilio eletto in Lussemburgo,

convenuta,


LA CORTE (Terza Sezione),


composta dal sig. A. Rosas, presidente di sezione, dai sigg. U. Lõhmus, J.N. Cunha Rodrigues, A. Ó Caoimh (relatore) e dalla sig.ra P. Lindh, giudici,
avvocato generale: sig. Y. Bot
cancelliere: sig.ra L. Hewlett, amministratore principale


vista la fase scritta del procedimento e in seguito alla trattazione orale del 7 febbraio 2007,
vista la decisione, adottata dopo aver sentito l’avvocato generale, di giudicare la causa senza conclusioni,


ha pronunciato la seguente


Sentenza


1 Con il presente ricorso, la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di dichiarare che la Repubblica italiana, avendo adottato e mantenuto in vigore l’art. 14 del decreto legge 8 luglio 2002, n. 138, relativo a interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno dell’economia anche nelle aree svantaggiate (GURI n. 158 dell’8 luglio 2002), divenuto, in seguito a modifica, la legge 8 agosto 2002, n. 178 (Supplemento ordinario alla GURI n. 187 del 10 agosto 2002), che esclude dall’ambito di applicazione del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, relativo all’attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio (Supplemento ordinario alla GURI n. 38 del 15 febbraio 1997; in prosieguo: il «decreto legislativo n. 22/97»), da un lato, le sostanze, i materiali o i beni destinati alle operazioni di smaltimento o recupero di rifiuti non esplicitamente elencati agli allegati B e C a detto decreto e, dall’altro, le sostanze o materiali residuali di produzione dei quali il detentore abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi, qualora gli stessi possano essere e siano riutilizzati in un ciclo produttivo o di consumo, a condizione che non sia effettuato alcun intervento preventivo di trattamento e che gli stessi non rechino pregiudizio all’ambiente, oppure, anche qualora venga effettuato un intervento preventivo di trattamento, quando quest’ultimo non configuri un’operazione di recupero fra quelle individuate all’allegato C al medesimo decreto, è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 1, lett. a), della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, sui rifiuti (GU L 194, pag. 39), come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE (GU L 78, pag. 32), e dalla decisione della Commissione 24 maggio 1996, 96/350/CE (GU L 135, pag. 32) (in prosieguo: la «direttiva»).
 

Contesto normativo


La normativa comunitaria
2 Ai fini della direttiva, l’art. 1, lett. a), primo comma, definisce la nozione di «rifiuto» come «qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I [a tale direttiva] e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi».
3 La Commissione ha adottato la decisione 20 dicembre 1993, 94/3/CE, che istituisce un elenco di rifiuti conformemente all’articolo 1, lettera a), della direttiva 75/442 (GU 1994, L 5, pag. 15). Tale catalogo (in prosieguo: il «catalogo europeo dei rifiuti») è stato rinnovato con decisione della Commissione 3 maggio 2000, 2000/532/CE, che sostituisce la decisione 94/3 e la decisione 94/904/CE del Consiglio che istituisce un elenco di rifiuti, pericolosi ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 4, della direttiva 91/689/CEE del Consiglio relativa ai rifiuti pericolosi (GU L 226, pag. 3). Il catalogo europeo dei rifiuti istituito con la decisione 2000/532 è stato più volte modificato, da ultimo con decisione del Consiglio 23 luglio 2001, 2001/573/CE (GU L 203, pag. 18). L’allegato alla decisione 2000/532, che contiene il catalogo europeo dei rifiuti, inizia con un’introduzione il cui punto 1 precisa che si tratta di un elenco armonizzato che verrà rivisto periodicamente. Il punto 1 chiarisce altresì che «l’inclusione di un determinato materiale nel [catalogo europeo dei rifiuti] non significa che tale materiale sia un rifiuto in ogni circostanza. La classificazione del materiale come rifiuto si applica solo se il materiale risponde alla definizione di cui all’articolo 1, lettera a), della direttiva (…)».
4 L’art. 1, lett. e) e f), della direttiva definisce le nozioni di smaltimento e di recupero dei rifiuti come tutte le operazioni previste, rispettivamente, nell’allegato II A e II B alla stessa direttiva. Tali allegati sono stati adattati al progresso scientifico e tecnico con la decisione 96/350.


La normativa nazionale
5 L’art. 6, comma 1, lett. a), del decreto legislativo n. 22/97 recita:
«Ai fini del presente decreto si intende per:
a) rifiuto: qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi;
(…)».
6 L’allegato A al decreto legislativo n. 22/97 riprende l’elenco delle categorie di rifiuti di cui all’allegato I alla direttiva. Inoltre, gli allegati B e C allo stesso decreto legislativo elencano rispettivamente le operazioni di smaltimento e di recupero dei rifiuti allo stesso modo degli allegati II A e II B alla direttiva.
7 L’art. 14 della legge 8 agosto 2002, n. 178 (in prosieguo: la «disposizione controversa»), che ha sostituito, previa modifica, il decreto legge 8 luglio 2002, n. 138, contiene un’«interpretazione autentica» della definizione di «rifiuto» di cui all’art. 6, comma 1, lett. a), del decreto legislativo n. 22/97, la quale precisa quanto segue:
«1. Le parole: “si disfi”, “abbia deciso” o “abbia l’obbligo di disfarsi” (…) si interpretano come segue:
a) “si disfi”: qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale o un bene sono avviati o sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B e C del decreto legislativo n. 22[/97];
b) “abbia deciso”: la volontà di destinare ad operazioni di smaltimento e di recupero, secondo gli allegati B e C del decreto legislativo n. 22[/97], sostanze, materiali o beni;
c) “abbia l’obbligo di disfarsi”: l’obbligo di avviare un materiale, una sostanza o un bene ad operazioni di recupero o di smaltimento, stabilito da una disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche autorità o imposto dalla natura stessa del materiale, della sostanza e del bene o dal fatto che i medesimi siano compresi nell’elenco dei rifiuti pericolosi di cui all’allegato D del decreto legislativo n. 22[/97].
2. Non ricorrono le fattispecie di cui alle lettere b) e c) del comma 1, per beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo ove sussista una delle seguenti condizioni:
a) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all’ambiente;
b) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell’allegato C del decreto legislativo n. 22[/97]».
Procedimento precontenzioso
8 Ritenendo che le norme interpretative istituite con la disposizione controversa non fossero conformi alla direttiva, in particolare all’art. 1, lett. a), di questa, la Commissione avviava il procedimento per inadempimento previsto dall’art. 226 CE.
9 Poiché le autorità italiane non avevano risposto entro il termine fissato alla lettera di diffida del 18 ottobre 2002, la Commissione, il 3 aprile 2003, emetteva un parere motivato con cui invitava la Repubblica italiana a conformarsi alla direttiva in un termine di due mesi a decorrere dalla ricezione dello stesso.
10 Tuttavia, avendo le autorità italiane nel frattempo risposto – seppur oltre la scadenza del termine impartito – alla lettera di diffida del 18 ottobre 2002, la Commissione riteneva che tale parere motivato fosse, a questo punto, da considerarsi privo di effetti.
11 Poiché considerava peraltro che questa risposta non fosse soddisfacente, la Commissione inviava alla Repubblica italiana un parere motivato complementare mediante lettera dell’11 luglio 2003, invitando lo Stato membro a conformarvisi entro un nuovo termine di due mesi dal ricevimento di tale parere.
12 Dopo aver richiesto una proroga di due mesi del termine così impartito, il governo italiano replicava ai rilievi sollevati dalla Commissione in merito alla legislazione nazionale con note della Rappresentanza permanente 12 novembre 2003 e 19 dicembre 2003.
13 Al fine di poter delineare con maggiore precisione le proprie conclusioni riguardo all’infrazione contestata, in particolare con riferimento alle conclusioni presentate dall’avvocato generale Kokott il 10 giugno 2004 nella causa Niselli (sentenza 11 novembre 2004, causa C 457/02, Racc. pag. I 10853), la Commissione emetteva un secondo parere motivato complementare, mediante lettera 9 luglio 2004, invitando nuovamente la Repubblica italiana a conformarvisi entro due mesi dal ricevimento di tale parere.
14 Le autorità italiane rispondevano a tale ultimo parere motivato con nota 29 settembre 2004.
15 Poiché riteneva che la situazione rimanesse insoddisfacente, la Commissione ha deciso di proporre il presente ricorso.


Sul ricorso


Argomenti delle parti
16 Con le due parti della sua censura, la Commissione sostiene che l’interpretazione autentica di cui all’art. 6, comma 1, lett. a), del decreto legislativo n. 22/97, fornita dal legislatore italiano in merito ai commi 1 e 2 della disposizione controversa, è contraria all’art. 1, lett. a), della direttiva.
17 Anzitutto, essendo i riferimenti contenuti nel testo delle lett. a) e b) del comma 1 della disposizione controversa, rispettivamente all’«attività di smaltimento o di recupero» e alle «operazioni di smaltimento e di recupero», seguiti in entrambe i casi dalla precisazione «secondo gli allegati B e C del decreto legislativo n. 22[/97]», essi introdurrebbero una distinzione tra, da un lato, le operazioni di smaltimento o di recupero generalmente considerate e, dall’altro, quelle tra esse che sono specificamente previste agli allegati B e C a tale decreto legislativo. Così, tutti i materiali, sostanze o beni interessati dall’allegato A al decreto legislativo n. 22/97 che il detentore avvii, sottoponga o intenda destinare ad operazioni di smaltimento non elencate all’allegato B al decreto legislativo o ad operazioni di recupero non elencate nel suo allegato C resterebbero dunque esclusi dalla qualificazione di rifiuti e, di conseguenza, dall’assoggettabilità alla normativa sulla gestione dei rifiuti.
18 Di conseguenza, tale disposizione avrebbe come effetto di circoscrivere illegittimamente la portata della nozione di rifiuto, e quindi l’ambito di applicazione della normativa italiana sulla gestione dei rifiuti.
19 La Commissione sostiene, in secondo luogo, che l’esclusione da parte del comma 2 della disposizione controversa dei criteri interpretativi della nozione di rifiuto stabiliti al comma 1, lett. b) e c), della stessa disposizione, e quindi della qualifica di rifiuto, per ciò che riguarda taluni materiali residuali di produzione o di consumo secondo le condizioni specificate alle lett. a) e b) di tale comma 2, equivale, per il legislatore italiano, ad ammettere implicitamente che, nelle circostanze considerate, tali residui presentano caratteristiche di rifiuti, escludendo l’applicazione della legislazione sui rifiuti in funzione delle condizioni relative all’intervento di trattamento su tali residui.
20 Orbene, secondo la Commissione, non sarebbe lecito escludere tassativamente dall’ambito di applicazione della direttiva le sostanze o gli oggetti dei quali il detentore abbia l’intenzione oppure l’obbligo di disfarsi, anche se riutilizzabili e riutilizzati in un ciclo produttivo o di consumo, con o senza necessità di effettuare un trattamento preventivo – alla sola condizione, nel primo caso, che ciò non faccia intervenire alcuna delle operazioni di recupero espressamente menzionate nel relativo allegato – e senza recare pregiudizio all’ambiente, nel caso in cui non venga effettuato alcun trattamento preventivo.
21 In conclusione, contrariamente a quanto sostiene la Repubblica italiana, la disposizione controversa non si limiterebbe semplicemente a fornire i necessari criteri interpretativi volti ad accertare se sussistano le condizioni che determinano l’esistenza stessa di un rifiuto, ma avrebbe un impatto restrittivo per quanto riguarda la nozione di rifiuto e la sua applicabilità, escludendo in particolare gran parte dei rifiuti recuperabili dall’ambito di applicazione delle disposizioni nazionali di recepimento della direttiva.
22 La Repubblica italiana considera che un materiale riutilizzato non costituisca un rifiuto anche quando il suo detentore intende destinarlo ad altri processi produttivi. Infatti, la giurisprudenza della Corte avrebbe esteso l’esclusione della nozione di rifiuti, nel rispetto di alcune condizioni, ai materiali che vengano effettivamente riutilizzati anche da parte di terzi.
23 Secondo tale Stato membro, la disposizione controversa indicherebbe criteri per verificare se il detentore di un materiale se ne sia disfatto, abbia deciso di disfarsene o abbia l’obbligo di farlo. Tali criteri, estendendo il test a valle dell’utilizzazione effettiva ed oggettiva del materiale di cui trattasi, permetterebbero di rispettare due requisiti stabiliti dalla citata sentenza Niselli, ovvero la certezza del riutilizzo e l’inserimento dei materiali abbandonati nella nozione di rifiuto.
24 Tale Stato membro sostiene che l’abbandono costituisce una maniera indiretta di destinare una sostanza o un oggetto ad un’operazione di smaltimento o di recupero, di modo che il fatto di abbandonare una sostanza o un oggetto rientrerebbe in realtà nell’ambito del comma 1, lett. a), della disposizione controversa.
25 Secondo la Repubblica italiana, il comma 2 della disposizione controversa, in conformità ai principi sottesi alla giurisprudenza della Corte, esclude la qualificazione di rifiuto per i residui industriali che, pur non costituendo lo scopo della produzione principale, non possono essere considerati come rifiuti, poiché sarebbero riutilizzati tali e quali, senza alcuna operazione diretta a «disfarsene», vale a dire senza «trasformazioni preliminari» ovvero con trattamenti preliminari da non considerarsi recupero completo quali, in particolare, operazioni di cernita, selezione, separazione, compattamento o vagliatura.
26 Con la disposizione controversa, la quale va letta nel suo insieme, il legislatore italiano avrebbe voluto fornire criteri di interpretazione positivi per l’inclusione tra i rifiuti di materiali di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi. Sarebbe necessario, attraverso criteri interpretativi certi, fornire una lista positiva dei rifiuti e non partire dal presupposto che tutto è rifiuto tranne la sostanza o l’oggetto di cui si possa dimostrare che il detentore non si disfi o non abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi.
27 Secondo la Repubblica italiana, l’argomento della Commissione implicherebbe che ogni precisazione del termine «disfarsi» avrebbe inevitabilmente l’effetto di limitare l’ambito di applicazione della direttiva, il che impedirebbe la facoltà di cui dispongono gli Stati membri di definire le modalità di applicazione delle direttive.
28 Infine, all’udienza, la Repubblica italiana ha sostenuto che, in Italia, l’attività di gestione dei rifiuti è a volte esercitata da persone che operano «al limite della legalità», cosicché tale Stato membro ha preferito fare affidamento sui produttori di rifiuti per assicurarne la gestione anziché lasciare che i produttori di rifiuti affidassero tale gestione ad enti terzi.


Giudizio della Corte
29 Con la prima parte della sua censura, la Commissione sostiene, nella sostanza, che l’interpretazione imposta al comma 1 della disposizione controversa ha l’effetto di circoscrivere illegittimamente la portata della nozione di rifiuto per l’applicazione della normativa italiana in materia, limitando tale nozione ai materiali che sono oggetto delle operazioni di smaltimento e di recupero previste agli allegati B e C del decreto legislativo n. 22/97 – i quali corrispondono testualmente, rispettivamente, agli allegati II A e II B alla direttiva –, ad esclusione di altre operazioni di smaltimento o di recupero, non elencate negli allegati B e C.
30 Mediante la seconda parte di tale censura, la Commissione sostiene, in sostanza, che l’esclusione prevista al comma 2 della disposizione controversa ha anche come effetto di circoscrivere illegittimamente la citata nozione di rifiuto, nella parte in cui tale esclusione riguarderebbe i materiali residuali di produzione o di consumo ove gli stessi possano essere e siano riutilizzati nel medesimo, in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all’ambiente oppure, anche ove venga effettuato un intervento preventivo di trattamento, senza che per questo si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell’allegato C al decreto legislativo n. 22/97.
31 Vista la posizione adottata dalla Repubblica italiana, che considera, in sostanza, che la disposizione controversa debba essere letta nel suo complesso e sia diretta a chiarire il contenuto della nozione di «rifiuto» come definita all’art. 1, lett. a), della direttiva, occorre, prima di esaminare insieme le due parti della censura della Commissione, ricordare la giurisprudenza della Corte relativa a tale nozione.
32 A questo proposito, l’art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva definisce rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I [a tale direttiva] e di cui il detentore si disfi o abbia deciso (...) di disfarsi». L’allegato I precisa e chiarisce tale definizione proponendo un elenco di sostanze e di oggetti qualificabili come rifiuti. Tale elenco, tuttavia, ha soltanto un valore indicativo, posto che la qualifica di rifiuto discende anzitutto dal comportamento del detentore e dal significato del termine «disfarsi» (v., in tal senso, sentenze 18 dicembre 1997, causa C 129/96, Inter-Environnement Wallonie, Racc. pag. I 7411, punto 26; 7 settembre 2004, causa C 1/03, Van de Walle e a., Racc. pag. I 7613, punto 42, nonché 10 maggio 2007, causa C 252/05, Thames Water Utilities, Racc. pag. I-3883, punto 24).
33 Il termine «disfarsi» deve essere interpretato non solo alla luce della finalità essenziale della direttiva la quale, stando al suo terzo ‘considerando’, è la «protezione della salute umana e dell’ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell’ammasso e del deposito dei rifiuti», bensì anche dell’art. 174, n. 2, CE. Quest’ultimo dispone che «[l]a politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni della Comunità. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva (…)». Ne consegue che il termine «disfarsi», e pertanto la nozione di «rifiuto» ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva, non possono essere interpretati in senso restrittivo (v., in tal senso, in particolare, sentenze 15 giugno 2000, cause riunite C 418/97 e C 419/97, ARCO Chemie Nederland e a., Racc. pag. I-4475, punti 36 40, nonché Thames Water Utilities, cit., punto 27).
34 Alcune circostanze possono costituire indizi del fatto che il detentore della sostanza od oggetto se ne disfi ovvero abbia deciso o abbia l’obbligo di «disfarsene» ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva (sentenza ARCO Chemie Nederland e a., cit., punto 83). Ciò si verifica in particolare se una sostanza è un residuo di produzione o di consumo, cioè un prodotto che non è stato ricercato in quanto tale (v., in tal senso, sentenze citate ARCO Chemie Nederland e a., punto 84, nonché Niselli, punto 43).
35 Del resto, il metodo di trasformazione o le modalità di utilizzo di una sostanza non sono determinanti per stabilire se si tratti o no di un rifiuto (v. sentenze ARCO Chemie Nederland e a., cit., punto 64, e 1° marzo 2007, causa C 176/05, KVZ retec, Racc. pag. I 1721, punto 52).
36 La Corte ha infatti precisato, da un lato, che l’esecuzione di una delle operazioni di smaltimento o di recupero di cui agli allegati II A o II B alla direttiva non consente di per sé di qualificare come rifiuto una sostanza o un oggetto trattato in tale operazione (v., in tal senso, in particolare, sentenza Niselli, cit., punti 36 e 37) e, dall’altro, che la nozione di rifiuto non esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica (v., in tal senso, in particolare, sentenza 25 giugno 1997, cause riunite C 304/94, C 330/94, C 342/94 e C 224/95, Tombesi e a., Racc. pag. I 3561, punti 47 et 48). Il sistema di sorveglianza e di gestione istituito dalla direttiva intende riferirsi infatti a tutti gli oggetti e le sostanze di cui il proprietario si disfa, anche se essi hanno un valore commerciale e sono raccolti a titolo commerciale a fini di riciclo, di recupero o di riutilizzo (v., in particolare, sentenza 18 aprile 2002, causa C 9/00, Palin Granit e Vehmassalon kansanterveystyön kuntayhtymän hallitus, Racc. pag. I 3533; in prosieguo: la sentenza «Palin Granit», punto 29).
37 Tuttavia, emerge altresì dalla giurisprudenza della Corte che, in determinate situazioni, un bene, un materiale o una materia prima che deriva da un processo di estrazione o di fabbricazione che non è principalmente destinato a produrlo può costituire non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto, del quale il detentore non cerca di «disfarsi» ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva, ma che intende sfruttare o commercializzare – altresì eventualmente per il fabbisogno di operatori economici diversi da quello che l’ha prodotto – a condizioni ad esso favorevoli, in un processo successivo, a condizione che tale riutilizzo sia certo, senza trasformazione preliminare e intervenga nel corso del processo di produzione o di utilizzazione (v., in tal senso, sentenze Palin Granit, citata, punti 34-36; 11 settembre 2003, causa C 114/01, AvestaPolarit Chrome, Racc. pag. I 8725, punti 33-38; Niselli, citata, punto 47, nonché 8 settembre 2005, causa C 416/02, Commissione/Spagna, Racc. pag. I 7487, punti 87 e 90, e causa C 121/03, Commissione/Spagna, Racc. pag. I 7569, punti 58 e 61).
38 Pertanto, oltre al criterio relativo alla natura o meno di residuo di produzione di una sostanza, il grado di probabilità di riutilizzo di tale sostanza, senza operazioni di trasformazione preliminare, costituisce un criterio utile ai fini di valutare se tale sostanza sia o meno un rifiuto ai sensi della direttiva. Se, oltre alla mera possibilità di riutilizzare la sostanza di cui trattasi, il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, la probabilità di tale riutilizzo è alta. In un’ipotesi del genere la sostanza in questione non può più essere considerata un onere di cui il detentore cerchi di «disfarsi», bensì un autentico prodotto (v. sentenze citate Palin Granit, punto 37, e Niselli, punto 46).
39 Tuttavia, se per tale riutilizzo occorrono operazioni di deposito che possono avere una certa durata, e quindi rappresentare un onere per il detentore nonché essere potenzialmente fonte di quei danni per l’ambiente che la direttiva mira specificamente a limitare, esso non può essere considerato certo ed è prevedibile solo a più o meno lungo termine, cosicché la sostanza di cui trattasi deve essere considerata, in linea di principio, come rifiuto (v., in tal senso, sentenze citate Palin Granit, punto 38, e AvestaPolarit Chrome, punto 39).
40 L’effettiva esistenza di un «rifiuto» ai sensi della direttiva va pertanto accertata alla luce del complesso delle circostanze, tenendo conto della finalità della stessa e in modo da non pregiudicarne l’efficacia (v. sentenze citate ARCO Chemie Nederland e a., punto 88, e KVZ retec, punto 63, nonché ordinanza 15 gennaio 2004, causa C 235/02, Saetti e Frediani, Racc. pag. I 1005, punto 40).
41 Atteso che la direttiva non suggerisce alcun criterio determinante per individuare la volontà del detentore di disfarsi di una determinata sostanza o di un determinato materiale, in mancanza di disposizioni comunitarie gli Stati membri sono liberi di scegliere le modalità di prova dei diversi elementi definiti nelle direttive da essi recepite, purché ciò non pregiudichi l’efficacia del diritto comunitario (v. sentenze citate ARCO Chemie Nederland e a., punto 41, nonché Niselli, punto 34). Infatti, gli Stati membri possono, ad esempio, definire varie categorie di rifiuti, in particolare per facilitare l’organizzazione e il controllo della loro gestione, purché gli obblighi risultanti dalla direttiva o da altre disposizioni di diritto comunitario relative a tali rifiuti siano rispettati e l’eventuale esclusione di determinate categorie dall’ambito di applicazione dei testi adottati per dare attuazione agli obblighi derivanti dalla direttiva si verifichi in conformità all’art. 2, n. 1, di quest’ultima (v., in tal senso, sentenza 16 dicembre 2004, causa C-62/03, Commissione/Regno Unito, non pubblicata nella Raccolta, punto 12).
42 Nella fattispecie, è pacifico, da un lato, che, in virtù del comma 1 della disposizione controversa, viene considerato come manifestazione dell’atto, della decisione o dell’obbligo di «disfarsi» di una sostanza o di un oggetto, ai sensi dell’art. 1, lett. a), comma primo, della direttiva, solo il fatto che tale sostanza o tale oggetto sia destinato, direttamente o indirettamente, a operazioni di smaltimento o di recupero menzionate agli allegati B e C al decreto legislativo n. 22/97 e, dall’altro, che tali allegati B e C corrispondono testualmente agli allegati II A e II B alla direttiva.
43 Orbene, come è stato ricordato al punto 36 della presente sentenza, l’esecuzione di una delle operazioni di smaltimento o di recupero di cui agli allegati, rispettivamente, II A o II B alla direttiva non consente, di per sé, di qualificare come rifiuto una sostanza o un oggetto trattato in tale operazione.
44 Infatti, da una parte, allorché definisce l’azione di disfarsi di una sostanza o di un materiale esclusivamente a partire dall’esecuzione di un’operazione di smaltimento o di recupero menzionata agli allegati B o C al decreto legislativo n. 22/97, l’interpretazione imposta dal comma 1 della disposizione controversa subordina la qualifica di rifiuto ad un’operazione che, a sua volta, può essere qualificata come smaltimento o recupero solo ove applicata ad un rifiuto, di modo che tale interpretazione non contribuisce in realtà minimamente a precisare la nozione di rifiuto. In effetti, secondo l’interpretazione di cui trattasi, ogni sostanza o materiale oggetto di uno dei tipi di operazioni menzionati agli allegati II A e II B alla direttiva deve essere qualificato come rifiuto, di modo che tale interpretazione condurrebbe a qualificare come tali sostanze e materiali che non lo sono ai sensi della direttiva (v., in tal senso, sentenza Niselli, citata, punti 36 e 37).
45 D’altra parte, l’interpretazione esposta al punto 42 della presente sentenza comporta che una sostanza o un materiale di cui il detentore si disfi in un modo diverso da quelli menzionati negli allegati II A e II B alla direttiva non costituisce un rifiuto, e pertanto restringe anche la nozione di rifiuto quale risulta dall’art. 1, lett. a), della direttiva. Infatti, conformemente a questa interpretazione, una sostanza o un materiale non soggetti a obbligo di smaltimento o di recupero e di cui il detentore si disfi mediante semplice abbandono, senza sottoporre la sostanza o il materiale ad un’operazione del genere, non verrebbero qualificati come rifiuto, mentre lo sarebbero ai sensi della direttiva (v., in tal senso, sentenza Niselli, citata, punto 38).
46 A tale riguardo, l’argomento della Repubblica italiana esposto al punto 24 della presente sentenza, secondo cui il fatto di abbandonare una sostanza o un oggetto rientrerebbe in realtà nell’ambito del comma 1, lett. a), della disposizione controversa, non può essere accolto. Infatti, anche se l’interpretazione di tale punto prevalesse nel diritto nazionale, la disposizione controversa, a causa della sua mancanza di chiarezza e di precisione a tale riguardo, non può assicurare la piena applicazione della direttiva.
47 È anche pacifico che, secondo la precisazione contenuta al comma 2 della disposizione controversa, è sufficiente, affinché un materiale residuale di produzione o di consumo sfugga alla qualifica di rifiuto, che esso venga o possa essere riutilizzato in qualunque ciclo di produzione o di consumo, senza alcun intervento preventivo di trattamento e senza pregiudizio all’ambiente, o dopo aver subito un intervento preventivo di trattamento qualora non si tratti di una delle operazioni di smaltimento elencate all’allegato C al decreto legislativo n. 22/97, che corrisponde testualmente all’allegato II B alla direttiva.
48 Orbene, tale enunciazione non è conforme ai principi della giurisprudenza ricordati ai punti 33-39 della presente sentenza. Infatti, essa conduce a escludere dalla qualifica di rifiuto materiali residuali di produzione o di consumo che pure corrispondono alla definizione della nozione di «rifiuto» di cui all’art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva.
49 In particolare, come risulta dai punti 34-36 della presente sentenza, il fatto che una sostanza sia un materiale residuale di produzione o di consumo costituisce un indizio che si tratti di un rifiuto e la sola circostanza che una sostanza sia destinata a essere riutilizzata, o possa esserlo, non può essere determinante per la sua qualifica o meno come rifiuto.
50 Peraltro, l’argomento della Repubblica italiana esposto al punto 25 della presente sentenza non può essere accolto. Infatti, tenuto conto dell’obbligo, ricordato al punto 33 della presente sentenza, di interpretare in senso lato la nozione di rifiuto e tenuto conto dei principi della giurisprudenza della Corte menzionati ai punti 34 39 della presente sentenza, un bene, un materiale o una materia prima risultante da un processo di fabbricazione che non è destinato a produrlo può essere considerato come un sottoprodotto di cui il detentore non desidera disfarsi solo se il suo riutilizzo, incluso quello per i bisogni di operatori economici diversi da colui che l’ha prodotto, è non semplicemente eventuale, ma certo, non necessita di trasformazione preliminare e interviene nel corso del processo di produzione o di utilizzazione.
51 Infine, per ciò che riguarda le osservazioni espresse dalla Repubblica italiana all’udienza quanto al fatto che persone connotate come operanti «al limite della legalità» sarebbero attive nel settore della gestione dei rifiuti, è sufficiente rilevare che tale circostanza, anche supponendo che fosse provata, non può giustificare la violazione, da parte di tale Stato membro, degli obblighi ad esso incombenti in forza della direttiva.
52 Alla luce di tutto quanto precede, il ricorso della Commissione dev’essere accolto.
53 Occorre pertanto dichiarare che la Repubblica italiana, avendo adottato e mantenuto in vigore l’art. 14 del decreto legge 8 luglio 2002, n. 138, divenuto, in seguito a modifica, la legge 8 agosto 2002, n. 178, che esclude dall’ambito di applicazione del decreto legislativo n. 22/97, da un lato, le sostanze, i materiali o i beni destinati alle operazioni di smaltimento o di recupero non esplicitamente elencati agli allegati B e C a tale decreto e, dall’altro, le sostanze o i materiali residuali di produzione dei quali il detentore abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi, qualora gli stessi possano essere e siano riutilizzati in un ciclo produttivo o di consumo, a condizione che non sia effettuato alcun intervento preventivo di trattamento e che gli stessi non rechino pregiudizio all’ambiente, oppure, anche qualora venga effettuato un intervento preventivo di trattamento, quando quest’ultimo non configuri un’operazione di recupero fra quelle individuate all’allegato C al medesimo decreto, è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 1, lett. a), della direttiva.


Sulle spese
54 A norma dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché la Commissione ne ha fatto domanda, la Repubblica italiana, rimasta soccombente, deve essere condannata alle spese.


Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara e statuisce:


1) La Repubblica italiana, avendo adottato e mantenuto in vigore l’art. 14 del decreto legge 8 luglio 2002, n. 138, relativo a interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno dell’economia anche nelle aree svantaggiate, divenuto, in seguito a modifica, la legge 8 agosto 2002, n. 178, che esclude dall’ambito di applicazione del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, relativo all’attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio, da un lato, le sostanze, i materiali o i beni, destinati alle operazioni di smaltimento o di recupero non esplicitamente elencati agli allegati B e C a tale decreto e, dall’altro, le sostanze o i materiali residuali di produzione dei quali il detentore abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi, qualora gli stessi possano essere e siano riutilizzati in un ciclo produttivo o di consumo, a condizione che non sia effettuato alcun intervento preventivo di trattamento e che gli stessi non rechino pregiudizio all’ambiente, oppure, anche qualora venga effettuato un intervento preventivo di trattamento, quando quest’ultimo non configuri un’operazione di recupero fra quelle individuate all’allegato C al medesimo decreto, è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’art. 1, lett. a), della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, sui rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE, e dalla decisione della Commissione 24 maggio 1996, 96/350/CE.


2) La Repubblica italiana è condannata alle spese.


Firme

 

 


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