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(segnalata dall'avv. Luca De Pauli)
TAR FRIULI VENEZIA GIULIA, 10 maggio 2007, sentenza n. 342
RIFIUTI - Attività di recupero - Individuazione - Art. 183, lett. h), d.lgs.
n. 152/2006. Ai sensi dell’art. 183, lett. h), del D.L.vo n. 152/06, sono
definite attività di recupero “le operazioni che utilizzano rifiuti per generare
materie prime secondarie … attraverso trattamenti meccanici, termici, chimici o
biologici, incluse la cernita e la selezione”. Pres. ed Est. Borea - N.
s.p.a. (avv. De Pauli) c. Provincia di Udine (avv.ti Raccaro e Raffa) - T.A.R.
FRIULI-VENEZIA GIULIA - 10 maggio 2007, n. 342
RIFIUTI - Disciplina - Obiettivo - Riduzione dello smaltimento nelle
discariche - Riutilizzo, reimpiego e riciclaggio - Trasformazione dei rifiuti in
prodotti commerciabili. L’obiettivo di fondo cui si ispira la disciplina
normativa in materia di rifiuti, contenuta ora negli artt. 179 e ss. del D.Lgs.
n. 152/2006, è quello, a tutela dell’ambiente, di favorire progressivamente la
riduzione della produzione di rifiuti (art. 179), ciò che, in primo luogo,
comporta la riduzione dello smaltimento nelle discariche mediante riutilizzo,
reimpiego e riciclaggio - ovverossia recupero - e trasformazione dei
rifiuti in prodotti commerciabili quali ad es. il compost da usare in
agricoltura e il CDR per produrre energia. Oltre al miglioramento della tutela
ambientale si raggiunge così l’ulteriore obiettivo di rendere i rifiuti un bene
economico, ciò che spiega bene l’incentivo di cui all’art. 3, c. 40 della L. n.
549/95 (art. 181 D.Lgs. n. 152/2006). Pres. ed Est. Borea - N. s.p.a. (avv.
De Pauli) c. Provincia di Udine (avv.ti Raccaro e Raffa) - T.A.R. FRIULI-VENEZIA
GIULIA - 10 maggio 2007, n. 342
RIFIUTI - Impianto di smaltimento o recupero - Classificazione -
Trasformazione in compost e CDR - Limite percentuale minimo per la
classificazione entro la categoria degli impianti di recupero - Esclusione -
Riferimento al valore minimo di raccolta differenziata ex art. 205 D.Lgs. n.
152/2006 - Esclusione. Nessuna norma della parte quarta del T.U.
sull’ambiente n. 152/06 fissa un limite preciso in termini di quantitativi
percentuali di rifiuti sottratti alla destinazione finale in discarica in quanto
trasformati in CDR o compost al di sotto del quale l’impianto ove i rifiuti
solidi urbani vengono recapitati debba essere classificato come di smaltimento
anziché come di recupero. Né è possibile far riferimento al traguardo del
35% di raccolta differenziata previsto per il 32 dicembre 2006 dall’art. 205 del
D.L.vo n. 152/06. A prescindere dal fatto che tale norma riveste valore
programmatico, va infatti rilevato che il CDR e il compost stanno a valle del
ciclo di lavorazione dei rifiuti, mentre la raccolta differenziata si opera a
monte, prima dell’inoltro agli impianti di trasformazione. Sicchè è illegittimo
il diniego di autorizzazione all’esercizio dell’attività di recupero motivato in
ragione del ritenuto insufficiente valore percentuale di compost prodotto.
Pres. ed Est. Borea - N. s.p.a. (avv. De Pauli) c. Provincia di Udine (avv.ti
Raccaro e Raffa) - T.A.R. FRIULI-VENEZIA GIULIA - 10 maggio 2007, n. 342
RIFIUTI - Impianti di smaltimento o recupero - Distinzione - Elencazione
delle operazioni di smaltimento di cui all’allegato B alla parte IV del d.lgs.
n. 152/2006 - Rilevanza - Limiti. La distinzione tra un impianto di
smaltimento e uno di recupero, nel caso di produzione di compost e CDR, non può
fondarsi sull’elencazione delle “operazioni di smaltimento” di cui all’allegato
B alla Parte IV del D.lgs. n. 152/2006. Se è vero, infatti, che sotto la rubrica
“operazioni di smaltimento” figurano anche, in via residuale i trattamenti
biologici e fisico-chimici non specificati altrove, occorre anche tenere
presente che nel N.B. che precede l’elencazione delle operazioni di smaltimento
si ha cura di precisare che l’elencazione in questioni riguarda le operazioni
“come avvengono nella pratica”, e non assume quindi valenza normativa cogente,
rispetto alla quale normativa, anzi, la previsione si pone in contrasto, posto
che l’obiettivo finale è quello di non portare a smaltimento e cioè a discarica
i rifiuti che possono essere trattati, sottratti alla destinazione in discarica
e destinati a utilizzazione commerciale: il che, con riferimento al caso di
specie (produzione di compost e CDR), trova poi conferma nel successivo allegato
C, il quale sotto la rubrica “operazioni di recupero” contiene anche la voce R3,
riciclo/recupero delle sostanze organiche non utilizzate come solventi, ivi
comprese le operazioni di compostaggio e altre trasformazioni biologiche.
Pres. ed Est. Borea - N. s.p.a. (avv. De Pauli) c. Provincia di Udine (avv.ti
Raccaro e Raffa) - T.A.R. FRIULI-VENEZIA GIULIA - 10 maggio 2007, n. 342
RIFIUTI - Caratterizzazione, certificato di identificazione e accertamento
dell’idoneità allo smaltimento - Destinatario dell’obbligo - Detentore dei
rifiuti - Artt. 11 d.lgs. n. 36/2006 e 193 d.lg. n. 152/2006. La
caratterizzazione dei rifiuti, l’accompagnamento con un certificato di
identificazione e l’accertamento dell’idoneità ad essere smaltiti spettano al
detentore, ai sensi dell’art. 11 D.Lgs. n. 36/03, che a quest’ultimo attribuisce
l’obbligo di specificare la composizione dei rifiuti prima del conferimento in
discarica, e dell’art. 193 del T.U. n. 152/2006, che prescrive l’accompagnamento
nel trasporto dei rifiuti di un formulario di identificazione con indicazione
della tipologia di appartenenza. Pres. ed Est. Borea - N. s.p.a. (avv. De
Pauli) c. Provincia di Udine (avv.ti Raccaro e Raffa) - T.A.R. FRIULI-VENEZIA
GIULIA - 10 maggio 2007, n. 342
RIFIUTI - Rifiuti provenienti da un impianto di recupero - Autorizzazione
provinciale - Divieto di invio al di fuori dei confini provinciali -
Illegittimità - Art. 182 d.lgs. n. 152/2006 - Confini regionali - Rifiuti
urbani. E’ illegittima la disposizione autorizzatoria secondo cui scarti,
sovvalli e altri rifiuti provenienti da un impianto di recupero debbano essere
inviati esclusivamente a impianti di bacino situati entro la provincia, posto
che l’art. 182 T.U. n. 152/06 proibisce soltanto il trasporto al di fuori dei
confini regionali. Tale limitazione riguarda peraltro i rifiuti urbani, e non
anche i rifiuti speciali (entro cui rientrano i rifiuti prodotti nel caso di
specie: rifiuti derivanti da attività di recupero e smaltimento - comma 3 lett.
g) art. 184 D.Lgs. n. 152/2006). Pres. ed Est. Borea - N. s.p.a. (avv. De
Pauli) c. Provincia di Udine (avv.ti Raccaro e Raffa) - T.A.R. FRIULI-VENEZIA
GIULIA - 10 maggio 2007, n. 342
RIFIUTI - Impianti di smaltimento e recupero - Autorizzazione - Durata - 10
anni - Art. 208 d.lgs. n. 152/2006 - Art. 28 c. 3 d.lgs. 22/97 - Dies a quo -
Individuazione. L’art. 208, comma 12 del T.U. n. 152/2006 prevede una durata
dell’autorizzazione per impianti di smaltimento e recupero di dieci anni, con
possibilità di rinnovo, e non più cinque, come prevedeva l’abrogato art. 28, c.
3 del d.lgs. n. 22/97, salvi naturalmente gli eventuali interventi sanzionatori
(sospensione o revoca dell’autorizzazione) in caso di inadempimento delle
condizioni e prescrizioni previste nella autorizzazione stessa (art. 208 cit.,
comma 13). Il dies a quo del termine in questione va individuato nella data di
scadenza della precedente autorizzazione, prescindendo da eventuali proroghe.
Pres. ed Est. Borea - N. s.p.a. (avv. De Pauli) c. Provincia di Udine (avv.ti
Raccaro e Raffa) - T.A.R. FRIULI-VENEZIA GIULIA - 10 maggio 2007, n. 342
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL
TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE DEL FRIULI-VENEZIA GIULIA,
Ric. 391/06 R.G.R.
Sent. n. 342/2007 Reg. Sent.
nelle persone dei magistrati:
Vincenzo Borea - Presidente,
relatore
Oria Settesoldi - Consigliere
Vincenzo Farina - Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ric. n 391/06, proposto dalla soc. NET s.p.a., rappresentata e difesa
dall’avv. Luca De Pauli, e domiciliata con il medesimo in Trieste presso la
Segreteria del Tribunale;
contro
la Provincia di Udine, rappresentata e difesa dagli avvti Andrea Raccaro e
Massimo Raffa;
con l’intervento ad adiuvandum
del Comune di Udine, rappresentato e difeso dagli avv.ti Giuseppe Sbisà,
Claudia Micelli e Giangiacomo Martinuzzi,
per l’annullamento
della determinazione dirigenziale 31 maggio 2006 avente ad oggetto il
rinnovo dell’autorizzazione alla gestione dell’impianto di trattamento rifiuti
sito in Udine, Via Gonars n. 40, nelle parti in prosieguo meglio determinate,
nonché della determinazione dirigenziale 1° giugno 2006 , di integrazione della
precedente;
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio della P.A;
Visti gli atti di causa;
Viste le memorie delle parti;
Nominato relatore alla pubblica udienza del 10 gennaio 2007 il presidente Borea
e uditi i difensori delle parti come da verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO E DIRITTO
A. La società ricorrente, premesso di essere una società per azioni a
partecipazione pubblica (per il 95, 5% del Comune di Udine) e di avere la
gestione dell’impianto di trattamento rifiuti di cui è causa, si duole del fatto
che la Provincia di Udine, in sede di rinnovo dell’autorizzazione alla gestione
dell’impianto stesso, da un lato lo abbia qualificato come impianto di solo
smaltimento e non già anche di recupero, e, dall’altro, abbia imposto in
aggiunta una serie di restrizioni e condizioni ritenute, al pari della
suaccennata declassificazione, sotto vari profili illegittime.
Ricorda la ricorrente in fatto che l’impianto in questione esiste ed opera dalla
metà dalla fine degli anni ‘80, e che fin dall’origine fu strutturato, e come
tale fu autorizzato, in modo da poter recuperare dai Rifiuti Solidi Urbani (R.S.U.)
di cui si alimenta anche una certa quantità sia di compost, dalla frazione
organica, e cioè di fertilizzante per uso agricolo, e sia di Combustibile
Derivato da Rifiuti (C.D.R.), dalla frazione secca.
Va precisato che l’interesse al ricorso si fonda sul fatto che la
declassificazione operata dalla P.A. qualificando l’impianto come impianto di
smaltimento, anziché di recupero ( R3 dell’allegato C alla parte quarta del
D.L.vo n. 152/06, vale a dire riciclo/recupero delle sostanze organiche non
utilizzate come solventi, comprese le operazioni di compostaggio e altre
trasformazioni biologiche), comporta automaticamente l’onere di pagamento per
intero della cosiddetta “ecotassa” prevista per lo smaltimento dei rifiuti,
anziché in misura ridotta al 20% come previsto dall’art. 3, comma 40, della L.
n. 549/95.
B) Ciò premesso, ritiene il tribunale che le articolate doglianze mosse avverso
la suaccennata declassificazione, dovuta, secondo quanto sembra emergere dalla
pur telegrafica motivazione sul punto contenuta nelle premesse della
determinazione oggetto di impugnativa (pp. 6 e 7), al basso valore percentuale
di compost, CDR e materiale ferroso prodotti (rispettivamente 8,48%, 1,23% e
6,33%, per un totale di 16,04% rispetto al quantitativo di rifiuti in ingresso),
siano fondate.
Anche a voler infatti sorvolare sulla dedotta violazione dell’art. 10 bis della
L. n. 241/90, e cioè sul mancato preavviso di provvedimento (in parte) negativo,
nonché sulla denunciata incongruenza per aver l’Amministrazione dapprima
aggravato il procedimento richiedendo un non previsto parere dell’A.S.S.
competente per poi inopinatamente rinunciarvi, si deve infatti ritenere che non
sia dato di comprendere su quali basi concretamente attendibili si fondi la
conclusione cui è pervenuta sul punto la Provincia di Udine, ove si tenga conto,
come giustamente si sottolinea,
a), che l’art. 183, lett. h), del D.L.vo n. 152/06, pur puntualmente richiamato
nelle premesse dell’atto impugnato, definisce come attività di recupero “le
operazioni che utilizzano rifiuti per generare materie prime
secondarie…attraverso trattamenti meccanici, termici, chimici o biologici,
incluse la cernita e la selezione”;
b), che l’obiettivo di fondo cui si ispira la disciplina normativa in materia,
contenuta ora negli artt. 179 e ss. del suddetto DL.vo n. 152/06, è quello, a
tutela dell’ambiente, di favorire progressivamente la riduzione della produzione
di rifiuti (art. 179), ciò che, in primo luogo, comporta la riduzione dello
smaltimento nelle discariche mediante riutilizzo, reimpiego e riciclaggio,
ovverossia in una parola recupero, mediante la trasformazione dei rifiuti in
prodotti commerciabili quali ad es. il compost da utilizzare in agricoltura e il
CDR per produrre energia nutrendo i termovalorizzatori: così oltre al
miglioramento della tutela ambientale, raggiungendosi l’ulteriore obiettivo di
rendere i rifiuti un bene economico, ciò che spiega bene l’incentivo di cui al
ricordato art. 3 comma 40 L. n. 549/95 (art. 181);
c) che la rigida presa di posizione di oggi contraddice apertamente quanto in
precedenza si era autorevolmente affermato nel Piano Regionale di gestione dei
rifiuti (D.P.G.R n. 44 del 12 febbraio 2001) e nel conseguente programma
provinciale di attuazione del suddetto Piano regionale, dato che in entrambe le
dette deliberazioni si dà atto dell’attività di recupero CDR e compostaggio
esercitata ; ed anzi è stata la stessa Provincia, con l’atto di voltura nella
gestione dell’impianto da Daneco all’attuale ricorrente, risalente ad appena tre
mesi prima, 17 febbraio 2006, a qualificare l’impianto come impianto di
smaltimento e recupero (per non dire dell’art. 10 del dispositivo della stessa
deliberazione qui impugnata, il quale, descrivendo l’impianto in questione,
parla apertamente di “metodo di trattamento e di recupero autorizzato”;
d) che il diniego di autorizzazione all’esercizio della attività di recupero non
trova altra motivazione che non sia la mera indicazione di un valore percentuale
del compost prodotto, ciò che in definitiva induce a supporre, si aggiunge, che
la Provincia abbia ritenuto che l’impianto recuperi “troppo poco;
e) che non varrebbe opporre che l’art. 3, comma 3, del D.M. 5 febbraio 1998
assoggetta al regime dei rifiuti i prodotti di materie prime e le materie prime
secondarie ottenuti dalle attività di recupero che non vengono destinati
all’utilizzo nei cicli di consumo o di produzione, dato che tale disposizione
riguarda gli impianti autorizzati secondo le procedure semplificate di cui
all’art. 33 del D.L.vo n. 22/97, mentre nella specie l’impianto della ricorrente
è stato autorizzato in via ordinaria (art. 28), senza contare che nella stessa
delibera impugnata (pag. 6 in fondo) si dà atto che i materiali ottenuti dal
ciclo di trattamento previsto dagli atti progettuali sono stati destinati in
modo effettivo ed oggettivo all’utilizzo nei cicli di consumo e produzione (sia
pur per concludere poi inopinatamente che i valori percentuali di produzione di
CDR e compost sarebbero troppo bassi per attribuire all’im pianto la natura di
impianto di recupero).
Va premesso che nessuna norma della parte quarta del T.U. sull’ambiente n.
152/06 fissa un limite preciso in termini di quantitativi percentuali di rifiuti
sottratti alla destinazione finale in discarica in quanto trasformati in CDR o
compost al di sotto del quale l’impianto ove i rifiuti solidi urbani vengono
recapitati debba essere classificato come di smaltimento anziché come di
recupero.
La resistente difesa si sofferma a lungo (a ben vedere inoltrandosi, per vero
inutilmente, in una non consentita operazione di integrazione motivazionale), da
un lato, su di un piano procedurale, sugli artt. 208 e 210 della disciplina ora
introdotta, ove si dice che le autorizzazioni nel nuovo regime devono tener
conto del “metodo di trattamento e recupero” e, dall’altro, sul piano
sostanziale, per tentare di spiegare per quali ragioni, incontestati essendo da
parte ricorrente le percentuali di recupero accertate, “le operazioni esercitate
nell’impianto rientrano tra quelle di smaltimento di cui all’allegato B della
parte quarta ed in particolare tra quelle di cui alle lettere D8-D9-D13 e D14”.
Il che però (precisato poi che non si comprende il richiamo alla necessità di
applicare il nuovo regime quando poi risulta che il suddetto allegato B, come
anche il successivo allegato C, di cui più avanti, si trovavano, identici, in
calce al D.Lvo n. 22/97) non appare affatto risolutivo, giacchè se è vero che
sotto la rubrica “operazioni di smaltimento” di tale allegato B figurano anche,
in via residuale, i trattamenti biologici e fisico-chimici non specificati
altrove (D8 e D9) cui fa riferimento la memoria resistente, occorre anche tener
presente che nel N.B. che precede l’elencazione delle operazioni di smaltimento
si ha cura di precisare che l’elencazione in questione riguarda le operazioni
“come avvengono nella pratica”, e non assume quindi una valenza normativa
cogente, rispetto alla quale normativa, anzi, come già si è poc’anzi accennato e
come meglio si vedrà più avanti, la previsione si pone in contrasto, posto che
l’obiettivo finale è quello di non portare a smaltimento e cioè a discarica i
rifiuti che possono essere trattati, sottratti alla destinazione in discarica e
destinati a utilizzazione commerciale: il che poi trova conferma nel successivo
allegato C, il quale, sotto la rubrica “operazioni di recupero”, contiene anche
la voce R3, riciclo/recupero delle sostanze organiche non utilizzate come
solventi, ivi comprese le operazioni di compostaggio e altre trasformazioni
biologiche che costituisce appunto l’oggetto della autorizzazione nella specie
richiesta e non concessa.
Non varrebbe infine opporre che i risultati conseguiti dalla ricorrente
nell’obiettivo perseguito di sottrarre rifiuti alla destinazione in discarica (
risultati che si concretizzano, come si è visto, nel valore percentuale del
16,04% dei rifiuti in ingresso) sarebbero lontani dal traguardo del 35% di
raccolta differenziata previsto per il 32 dicembre 2006 dall’art. 205 del D.L.vo
n. 152/06.
A prescindere anche dal fatto che tale previsione, come si ammette, riveste
valore meramente programmatico, almeno per ora (le pur previste sanzioni,
consistenti in un aumento percentuale dell’ecotassa a carico dei comuni
inadempienti, non potranno divenire operative se non dopo la fissazione, con
apposito decreto del Ministro dell’Ambiente - quarto comma - dei criteri di
calcolo delle percentuali di cui si discute…), appare assorbente considerare che
i dati posti a confronto non sono omogenei, dato che l’impianto di cui al
ricorso si nutre essenzialmente di rifiuti indifferenziati e il valore
percentuale che la P.A. ritiene troppo basso riguarda il CDR e il compost, e
cioè prodotti che stanno a valle del ciclo di lavorazione dei rifiuti, mentre la
raccolta differenziata si opera a monte, prima dell’inoltro agli impianti di
trasformazione.
Non è dato in conclusione comprendere per quali ragioni sostanziali sia stata
negata la richiesta autorizzazione al recupero, tenuto anche conto che in
precedenza, come si è visto, a livello di programmazione sia regionale che
provinciale tale attività risultava pacificamente riconosciuta, e non ha pregio
obiettare che un conto è una (astratta) previsione programmatica a monte e un
altro conto la verifica in concreto a valle ora operata dalla Provincia del
livello effettivo di capacità di recupero in termini percentuali, e ciò sia
perché all’incirca il livello percentuale previsto in sede programmatica non era
sensibilmente diverso da quello ora accertato, e sia perché, e la circostanza
appare particolarmente illuminante, come affermato in pubblica udienza senza
smentita da controparte, sino ad ora l’ecotassa è sempre stata pagata
nell’importo ridotto, a riconoscimento sostanziale dell’attività di recupero e
non solo di smaltimento svolta (ciò che d’ora in avanti ovviamente, con la
contestata declassificazione, non potrebbe più accadere, a tutto vantaggio, si
aggiunge maliziosamente, della stessa Provincia, a carico della quale, in quanto
destinataria di una consistente porzione della suddetta ecotassa, si ipotizza
altresì, non del tutto illogicamente, un possibile conflitto di interessi.
In conclusione, e riprendendo l’accenno operato in precedenza alla ratio legis
che mira progressivamente e gradualmente a ridurre lo smaltimento in discarica o
in altri modi analoghi, tutti normativamente contrastati in quanto fonti di
sicuro inquinamento ambientale, non si vede a quale interesse pubblico possa
essere ragionevolmente preordinata la severa restrizione impugnata, posto che la
società ricorrente una volta privata della formale autorizzazione al recupero R3
richiesto e quindi, ciò che ancor più rileva, anche del corposo incentivo
rappresentato dalla riduzione al 20% della ecotassa, sarà probabilmente indotta
a portare a discarica anche i quantitativi (pur sempre rilevanti anche se
proporzionalmente valutati come determinanti in senso negativo dalla P.A.) ora
trasformati ed immessi sul mercato, con vantaggio sia per l’ambiente che per
l’economia.
L’accoglimento delle doglianze sin qui esaminate concernenti la risoluzione da
ritenersi principale tra quelle contenute nella articolatissima determinazione
impugnata, comporta altresì l’accoglimento anche della subordinata censura
relativa al divieto di trattare nell’impianto i rifiuti biodegradabili di cucine
e mense (C.E.R. 20 01 08).
Poiché infatti tale divieto viene fatto discendere dal fatto che tale tipo di
rifiuti non può essere conferito ad impianti di smaltimento, ma solo ad impianti
di recupero, è evidente che una volta affermata l’illegittimità del diniego di
autorizzazione al recupero cade anche il presupposto su cui si fonda il divieto
in questione.
Divieto che comunque, come si deduce, è illegittimo anche in via autonoma,
perché in chiaro contrasto con un provvedimento di segno contrario adottato
dalla stessa Provincia con determinazione n. 462 del 2 maggio 2001,
nell’evidente (allora ritenuto) presupposto, come or ora si è visto, che
l’impianto dovesse essere considerato come impianto di recupero.
C) Venendo ora alle ulteriori, distinte censure che riguardano altre, marginali
ma non per questo meno pregiudizievoli prescrizioni pure contenute nella
determinazione impugnata, si deve in primo luogo consentire con le ricorrenti
ove rilevano l’illogicità dell’obbligo di trattare i rifiuti entro le ore 24 del
giorno di conferimento.
Premesso che su questa, come su tutte le altre censure che si vedranno, la
Provincia intimata non si difende affatto, avendo limitato le proprie
argomentazioni alla questione principale in precedenza esaminata, deve infatti
condividersi l’assunto secondo il quale, se pur di regola i rifiuti vengono
conferiti durante la mattinata, con conseguente trattamento dei medesimi
nell’arco del pomeriggio con successivo lavaggio dell’area di ricezione in
attesa di riprendere il giorno dopo, può accadere che talvolta certi
quantitativi di rifiuti vengano conferiti a pomeriggio inoltrato o addirittura
poco prima di mezzanotte ovvero che si verifichino dei guasti temporanei alla
linea di lavorazione, con conseguente rinvio al giorno dopo: vero che si
potrebbe limitare l’orario di conferimento, ma allora i rifiuti resterebbero
nelle strade, con le conseguenze che si intuiscono specialmente nella stagione
estiva: meglio sarebbe stato e più logico prevedere l’obbligo di trattamento
entro le 24 ore dal conferimento... A ciò aggiungendosi che la P.A. non fornisce
alcuna spiegazione delle ragioni preordinate a tutela ambientale che
giustificherebbero la prescrizione de qua.
La ricorrente contesta poi l’elencazione tassativa contenuta nella
determinazione impugnata dei tipologia di rifiuti in uscita dall’impianto,
individuati secondo la numerazione del catalogo europeo rifiuti (C.E.R.),
osservando da un lato, in diritto, che spetta al detentore dei rifiuti
caratterizzarli accompagnandoli con un certificato di identificazione e
accertandone l’idoneità ad essere smaltiti, e da un altro, in fatto, che in
relazione alle caratteristiche dei rifiuti può accadere che i codici C.E.R.
prefissati possano essere inesatti, ciò che metterebbe in condizioni la
ricorrente di non sapere come comportarsi (a pena di sanzioni amministrative).
Anche questo rilievo appare da condividere, posto che in base all’art. 11 L. n.
36/03 spetta al detentore dei rifiuti, prima del conferimento in discarica,
specificarne la composizione, mentre l’art. 193 del T.U. n. 152/06 prescrive
l’accompagnamento nel trasporto dei rifiuti di un formulario di identificazione
con indicazione della tipologia di appartenenza. Il che trova autorevole
conferma in una nota dell’A.R.P.A. versata in atti in altra analoga controversia
discussa alla data odierna, ove si afferma appunto che “il produttore in quanto
conoscitore approfondito della propria attività di impresa”, è il soggetto
identificato dalla norma come responsabile della corretta attribuzione del
codice C.E.R. da assegnare al rifiuto prodotto”. Anche in questo caso, dunque,
non si comprende per quali ragioni (per di più senza motivazione sul punto) si
sia ritenuto di dover porre limiti così rigidi alla caratterizzazione della
produttività dell’impianto.
Ulteriore ragione di contrasto tra le ricorrenti e l’Amministrazione provinciale
è fornita poi dalla mancata previsione, tra le possibili utilizzazioni del
compost prodotto, di quella prevista dalla lettera d) di cui al paragrafo 3.4.2.
dell’allegato alla delibera del Comitato interministeriale 27 luglio 1984, ove
si prevede che per le utilizzazioni diverse da quelle indicate nelle lettere a),
b), e c) (vale a dire le utilizzazioni in agricoltura e floricultura,
espressamente consentite) “valgono i principi fissati dall’art. 1 del DPR n.
915/82”.
Ora, poiché la disposizione contenuta nel suddetto art. 1 si limitava (né hanno
tenore sostanzialmente diverso l’art. 2 del D.L.vo n. 22/97, e, ora l’art. 178
del T.U sull’ambiente) a prescrivere, programmaticamente, che le operazioni di
smaltimento e possibile recupero dei rifiuti rivestono natura di pubblico
interesse e devono salvaguardare la salute umana, l’ambiente, la fauna, la flora
e quant’altro, nonché devono privilegiare il riutilizzo e lo sfruttamento
energetico dei materiali, non si riesce a comprendere per quali ragioni (né
viene esplicitato alcunché al riguardo) il compost prodotto dall’impianto della
ricorrente non possa trovare ulteriori utilizzazioni, naturalmente nel rispetto
dei principi ora enunciati e dei limiti di cui alla lett. a) del paragrafo
3.4.2. della D.C.I. 27 luglio 1984, oltre a quelle in agricoltura e floricultura
di cui si è detto prima.
Ancora, della corposa ed articolata determinazione 31 maggio 2006, si contesta
il divieto di delegare a terzi le operazioni di rilevazione dei rifiuti in
ingresso e in uscita e dei materiali prodotti e di compilazione dei registri di
carico e scarico.
Anche qui, sempre con riguardo alla attribuzione alla Provincia dei poteri in
materia di tutela ambientale, sfugge la ragione, in nessun modo evidenziata,
della prescrizione imposta, e non pare affatto illogico quanto in proposito si
afferma da parte ricorrente, e cioè che, data per scontata la responsabilità dei
titolari dell’impianto della buona esecuzione di tutte le operazioni che
all’interno di esso vengono compiute nell’esercizio dell’impresa, la
prescrizione stessa si configura come una ingiustificata limitazione de diritto
dell’imprenditore di autoorganizzarsi come meglio crede.
Polemizza poi la ricorrente, non irragionevolmente, con riguardo al fatto che la
determinazione impugnata si preoccupa di dettare prescrizioni per il caso di
fermo programmato dimenticando invece completamente la ben più grave evenienza
di fermo accidentale e quindi imprevisto, evenienza nella quale, si ricorda,
come del resto è noto, l’impianto in questione è di recente incappato, allorchè
tra i rifiuti conferiti fu rinvenuto un ordigno esplodente (poi di fatto
esploso).
Oggetto di censura è poi anche la disposizione secondo la quale scarti, sovvalli
e altri rifiuti prodotti devono essere inviati esclusivamente a impianti di
bacino situati nella provincia di Udine.
Giustamente anche qui si rileva l’apoditticità e mancanza di motivazione della
prescrizione, per di più non sostenuta da valido supporto normativo, posto che
l’art. 182 T.U. n. 152/06 proibisce soltanto il trasporto al di fuori dei
confini regionali, e per di più tale limitazione riguarda i rifiuti urbani, e
non anche i rifiuti speciali (categoria alla quale appartengono i rifiuti
derivanti da attività di recupero e smaltimento (comma 3 lett. g) art. 184).
Convincentemente altresì viene contestata da parte ricorrente la prevista durata
della concessa autorizzazione (cinque anni).
Ancora una volta deve infatti condividersi l’assunto della ricorrente, dato che
la prescrizione, oltre che immotivata, si pone in contrasto con l’art.208, comma
12, del T.U. n. 152/06, il quale prevede una durata di dieci anni, con
possibilità di rinnovo, e non più cinque, come prevedeva l’abrogato art. 28,
comma 3 del D.L.vo n. 22/97, al quale con ogni probabilità ha fatto implicito
riferimento l’atto impugnato, salvi naturalmente gli eventuali interventi
sanzionatori (sospensione o revoca dell’autorizzazione) in caso di inadempimento
delle condizioni e prescrizioni previste nella autorizzazione stessa (art. 208
cit., comma 13).
Quanto invece alla decorrenza del quinquennio previsto, si deve ritenere che
questa venga legittimamente ancorata alla data di scadenza della precedente
autorizzazione, e cioè al 20 febbraio 2006, a nulla rilevando, contrariamente a
quanto si assume, che questa fosse stata prorogata sino al 31 maggio 2006 con la
già ricordata determinazione 17 febbraio 2006. Posto infatti che la legge
prevede un termine fisso alla durata dell’autorizzazione della quale si discute
(dapprima cinque anni, ora portati a dieci), deve ritenersi che la proroga
concessa, dovuta nella specie presumibilmente al protrarsi delle operazioni di
volturazione dell’autorizzazione dall’originario titolare (Daneco) all’attuale
ricorrente, e quindi alla rilevata impossibilità di procedere tempestivamente al
rinnovo prima della naturale scadenza, costituisca un’appendice di mero fatto,
dettata da evidenti ragioni di interesse pubblico alla continuità del servizio
svolto dalla società ricorrente, della autorizzazione precedente, in attesa
dell’eventuale rinnovo di questa, come tale incapace di incidere, alterandolo,
sulla durata del titolo così come previsto dalla legge. Non si tratta in
conclusione di una violazione del principio di irretroattività degli atti
amministrativi, bensì, appunto, soltanto dell’osservanza di una norma di legge.
Neppure può condividersi l’assunto secondo cui senza ragione si prevederebbe che
i rifiuti che risultino non trattabili dall’impianto debbono essere asportati
preliminarmente e stoccati separatamente per poi essere sottoposti ad analisi
merceologica e chimica. Al contrario, da un lato la previsione pare mirata ad
impedire l’abbandono dei rifiuti non trattabili, e, dall’altro, sembra chiaro
che l’analisi merceologica e chimica viene prevista non in assoluto, bensì ove
ciò risulti ragionevolmente necessario (il che può non essere per i …materassi).
Ad analoghe conclusioni negative si deve pervenire con riguardo alla asserita
illegittimità della previsione per cui i rifiuti in uscita devono avere un
codice C.E.R. appropriato e diverso da quello in entrata. Mentre infatti la
disposizione contestata risulta non essere così rigida come si vorrebbe, dato
che ha cura di far salvi i casi di cui ai punti precedenti (vale a dire, ad es.,
si ritiene, il caso di rifiuti che risultino non trattabili, e così pure il caso
di rifiuti depositati nell’area di scarico, che, in caso di guasti, devono
essere portati a discarica presumibilmente tal quali), resta il fatto che appare
ovvio prevedere che, di regola, in uscita da un impianto di trattamento i
rifiuti subiscano delle trasformazioni e quindi cambino di tipologia.
Non appare neppure condivisibile l’asserita irragionevolezza e sproporzionalità
della prescrizione con la quale si impone la preventiva comunicazione alla
Provincia, al Comune e all’ASS competente dell’avvio a discarica di CDR e
compost. Appare infatti ineccepibile il presupposto da cui muove la suddetta
prescrizione, e cioè che l’avvio a discarica di CDR e compost costituisca
attività di gestione dell’impianto difforme dalle modalità previste nel progetto
approvato (modalità che invece prevedono l’uso commerciale di tali prodotti,
rispettivamente come combustibile e come ammendante agricolo), e neppure può
ritenersi che l’onere imposto si ponga come sproporzionatamente faticoso per i
titolari dell’impianto. Non si comprende poi in che cosa consisterebbe il
pregiudizio derivante dalla denunciata previsione di un obbligo di accompagnare
il compost avviato a discarica che sia proveniente da rifiuti indifferenziati
con una analisi di caratterizzazione e classificazione chimica, tenuto conto che
tale prodotto, prima di essere utilizzato come materia prima secondaria è
soggetto comunque alla suddetta analisi (onde accertare che possegga le
caratteristiche agronomiche indicate nella tabella 3.1 e rispetti i valori
limite di accettabilità indicati nella tabella 3.2 della deliberazione del
Comitato interministeriale per i rifiuti 27 luglio 1984) risolvendosi dunque la
prescrizione in un semplice onere documentale. Il che pare dimostrato dal
diverso trattamento riservato invece al compost fuori specifica (C.E.R. 19 05
03), e cioè allo scarto di impianto di compostaggio, come tale non utilizzabile
commercialmente, per il quale, e si comprende perché, contrariamente a quanto si
assume, si impone questa volta, a fini di sicurezza ambientale, una apposita
analisi, evidentemente in precedenza non fatta, su di un campione di ogni
partita del compost che si vuole avviare a discarica.
Contrariamente a quanto pure si assume, l’obbligo di preventiva analisi di
caratterizzazione e classificazione chimica appare giustificato, per ragioni di
comprensibile prudenza, anche con riguardo al rifiuto contrassegnato con il
C.E.R. 19 12 12, in quanto codice “specchio” del 19 12 11, il quale a sua volta
contiene sostanze pericolose, apparendo impraticabile e pericolosa la suggerita
possibilità di distinguere a priori di volta in volta a seconda delle
probabilità di una doppia classificazione del medesimo rifiuto.
Dopo quanto si è detto, neppure convince parte ricorrente ove denuncia l’inciso
con il quale nella impugnata deliberazione si precisa che le modalità delle
analisi di cui sopra, ove da effettuarsi con gli organi di controllo (ad es. l’A.R.P.A.),
devono essere concordate preventivamente “con la scrivente Amministrazione e gli
organi di controllo stessi”. Non appare infatti irragionevole, contrariamente a
quanto si assume, che l’Amministrazione, e per essa gli organi di controllo,
intendano garantire, a tutela della sicurezza ambientale, l’efficacia concreta
dei…controlli previsti dalla legge.
Proseguendo nell’esame delle puntigliose considerazioni critiche mosse alla
determinazione impugnata, devono poi considerarsi irrilevanti i denunciati
errori in fatto che sarebbero stati commessi dall’Amministrazione provinciale
nella analitica descrizione dell’impianto contenuta nelle premesse.
Contrariamente infatti a quanto si teme, si deve ritenere che l’eventuale
riscontro di difformità rispetto alla reale situazione in cui si trova
l’impianto (con conseguenze, in tal caso, anche penalmente rilevanti) non potrà
certamente prendere le mosse dalla sola descrizione dell’impianto stesso ora
operata nella delibera impugnata, appunto perché di mera descrizione si tratta,
con la conseguenza che, all’occorrenza, non sarà arduo da parte del gestore
dimostrarne l’eventuale inattendibilità ed erroneità.
Infondati per un verso e per un altro inammissibili appaiono poi i rilievi mossi
avverso la riserva espressa nella determinazione impugnata di aggiornare,
modificare o sospendere la concessa autorizzazione, anche in base a quanto possa
risultare dalle prescrizioni eventualmente imposte dalla ASS competente.
Infondati per un verso perché è il già ricordato art. 208, comma 13, del D.L.vo
n. 152/06 a prevedere la possibilità di interventi, anche sanzionatori, in corso
di autorizzazione, ove ne ricorrano i presupposti, e inammissibili per un altro
verso perché l’interesse a lamentare l’eventuale illegittima intromissione della
ASS nella procedura sorgerà semmai se e quando quest’ultima detterà prescrizioni
allo stato inesistenti.
Infine, la ricorrente si duole del fatto che la disciplina transitoria prevista
nell’atto impugnato (così come integrato dall’atto 1 giugno 2006) laddove si
specifica che per talune indicate prescrizioni, “al fine di consentire le azioni
gestionali che si rendessero necessarie per adeguare l’attività alle
prescrizioni contenute nel presente atto”, il termine di efficacia dell’atto
stesso è fissato al 1° ottobre 2006, avrebbe “dimenticato” di disciplinare
l’attività dell’impianto nel periodo che va dal 31 maggio al 30 settembre.
Neppure qui si ritiene di poter condividere le preoccupazioni della ricorrente,
essendo infatti evidente che in detto periodo transitorio le prescrizioni da
seguire in partibus quibus sono quelle previgenti.
Esaurito così l’esame delle dedotte censure, il ricorso deve essere, come da
motivazione, in parte accolto in parte respinto.
In considerazione della complessità delle questioni trattate, le spese di
giudizio possono essere compensate, ritenendosi altresì equo, tenuto conto della
soccombenza parziale, porre a carico della P.A. resistente la metà del
contributo unificato.
PQM
Il Tribunale Amministrativo Regionale del Friuli-Venezia Giulia, definitivamente
pronunciando sul ricorso in premessa, respinta ogni contraria istanza ed
eccezione, lo accoglie in parte, e in parte lo respinge
Spese compensate.
Pone a carico dell’Amministrazione intimata la metà del contributo unificato.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dalla autorità amministrativa.
Così deciso in Trieste, in camera di consiglio, il 10 gennaio 2007.
f.to Vincenzo Borea Presidente Estensore
Depositato nella Segreteria del Tribunale
il giorno 10 maggio 2007
f.to Antonino Maria Fortuna
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