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TAR LOMBARDIA, Milano, Sez. II, 8 novembre 2007, sentenza n. 6200
URBANISTICA ED EDILIZIA - Abuso edilizio - Ordinanza di demolizione - Decorso
di un lungo periodo di tempo dalla commissione dell'abuso - Affidamento del
privato sulla legittimità dell’opera - Esclusione - Necessità di specifica
motivazione in ordine alla prevalenza dell’interesse pubblico al ripristino
dell’assetto del territorio - Esclusione. Il mero decorso del tempo non è
sufficiente a far insorgere un affidamento sulla legittimità di un abuso
edilizio, o comunque sul consolidamento dell’interesse del privato alla
conservazione dell’opera, né, per conseguenza, ad imporre la necessità di una
specifica motivazione, nell’ordinanza di demolizione, circa l’esistenza di un
interesse pubblico prevalente, atteso che il ripristino dell’assetto del
territorio preesistente all’abuso, connesso alla sanzione demolitoria, è
tipizzato come prevalente dallo stesso Legislatore. Ciò neanche nell’ipotesi in
cui l’abuso sia stato commesso parecchi anni prima (nella specie, oltre 40 anni
prima dell’emanazione del provvedimento sanzionatorio), non essendo
configurabile nessun legittimo affidamento del contravventore a vedere
conservata una situazione di fatto che rimane contra ius. Il potere di irrogare
delle sanzioni in materia edilizia ed urbanistica, riguardando una situazione di
illiceità permanente, può quindi essere esercitato in ogni tempo, posto che la
legge non lo sottopone a termini di prescrizione, né di decadenza. A sostegno di
siffatta interpretazione vi è il confronto tra la sanzione demolitoria in
materia edilizia e le sanzioni previste per l’illecito amministrativo dalla l.
n. 689/1981. Infatti, ad escludere la sanzione ex l. n. 689/1981 occorre la
buona fede del contravventore, che è desumibile non già dalla semplice inerzia
dell’Amministrazione, ma dalla sussistenza di elementi positivi, idonei ad
ingenerare nell’autore della violazione il convincimento della liceità della sua
condotta, e deve, inoltre, risultare che il trasgressore abbia fatto tutto
quanto possibile per conformarsi al precetto di legge, in modo che nessun
rimprovero possa essergli mosso (Cass. civ., Sez. I, 28 aprile 2006, n. 9862).
Pres. Arosio, Est. De Bernardinis - M.C. (avv.ti Villata, Degli Espositi e De
Marini) c. Comune di Cogliate (avv. Albè) - T.A.R. LOMBARDIA, Milano, sez. II
- 8 novembre 2007, n. 6200
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER LA LOMBARDIA
(Sezione II)
Sent. n. 6200/2007 del 08/11/2007
N. 499/2006 Reg. Ric.
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso r.g. n. 499/2006, promosso dal sig. Mario Cioli, rappresentato e
difeso dagli avv.ti prof. Riccardo Villata, Andreina Degli Esposti e Francesco
De Marini e con domicilio eletto presso lo studio degli stessi, in Milano, via
San Barnaba 30
contro
il Comune di Cogliate in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso
dall’avv. Alessandro Albè ed elettivamente domiciliato presso la Segreteria del
T.A.R., in Milano, via del Conservatorio 13
per l’annullamento, previa sospensione,
dell’ordinanza n. 37 del 13 dicembre 2005, notificata il 22 dicembre 2005,
mediante la quale il Responsabile del Settore Edilizia e Urbanistica del Comune
di Cogliate ha ingiunto al sig. Cioli di demolire – nonché di ripristinare
rispetto all’originare licenza edilizia n. 102 del 1° ottobre 1962 – il tetto
dell’edificio di proprietà (sito in Cogliate, via del Galletto n. 26).
VISTO il ricorso con i relativi allegati;
VISTO l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Cogliate;
VISTA la domanda di sospensione del provvedimento impugnato, proposta in via
incidentale dal ricorrente;
VISTA l’ordinanza cautelare n. 587/06 del 9 marzo 2006, con cui è stata accolta
la suddetta domanda incidentale di sospensione;
VISTE le memorie e documenti prodotti dalle parti a sostegno delle rispettive
tesi e difese;
VISTI tutti gli atti di causa;
NOMINATO relatore, alla pubblica udienza del 5 luglio 2007, il Referendario dr.
Pietro De Berardinis ed udito lo stesso;
UDITI, altresì, i procuratori presenti delle parti costituite, come da verbale;
RITENUTO in fatto e considerato in diritto quanto segue
FATTO
Il ricorrente, sig. Mario Cioli, espone di essere proprietario di un immobile
sito nel Comune di Cogliate, in via del Galletto 26, contraddistinto
catastalmente al mappale n. 11 del foglio n. 9 ed edificato in forza della
licenza di costruzione n. 55 del 9 giugno 1962.
Sin dalla sua realizzazione la copertura dell’edificio è stata realizzata in
parziale difformità rispetto al titolo a suo tempo rilasciato: in particolare, a
fronte della previsione, nella licenza originaria, di un sottotetto a vano
unico, con altezza in gronda di circa cm. 50 ed altezza in colmo di cm. 180, a
seguito dei lavori di costruzione l’altezza veniva innalzata a circa cm. 130/165
in gronda ed a cm. 220/245 in colmo, ed il sottotetto veniva diviso in più vani.
L’immobile sin dalla sua edificazione riceveva destinazione residenziale e
veniva più volte dato in locazione.
Con comunicazione del 21 febbraio 2005 il Comune informava l’esponente
dell’avvio del procedimento amministrativo di “verifica della costruzione
affittata” al piano mansarda, sul rilievo che l’atto abilitativo dell’edificio
(identificato erroneamente, peraltro, nella licenza n. 102 del 1963,
corrispondente, invece, alla successiva licenza di abitabilità) non prevedeva la
mansarda affittata.
Esperito in data 22 marzo 2005 il sopralluogo da parte del tecnico comunale, il
Comune di Cogliate, con ordinanza n. 37 del 13 dicembre 2005, a firma del
Responsabile del Servizio Edilizia e Urbanistica, dopo aver configurato le opere
come eseguite in totale difformità, con più variazioni essenziali al progetto,
ha ordinato la demolizione della falda del tetto esistente ed il ripristino del
tetto dell’edificio in conformità all’originale licenza edilizia, prescrivendo
altresì la realizzazione della nuova copertura a quattro falde (salvo
impossibilità di carattere strutturale), come previsto dalla medesima licenza.
Avverso la predetta ordinanza è insorto il sig. Cioli, impugnandola con il
ricorso indicato in epigrafe e chiedendone l’annullamento, previa sospensione,
per i seguenti motivi:
- violazione e falsa applicazione degli artt. 31 del d.P.R. n. 380/2001 e 3
della l. n. 241/1990, eccesso di potere per difetto di motivazione e carenza dei
presupposti, nonché violazione del principio di proporzionalità, in quanto i
lavori risalgono al 1962, sicché l’Amministrazione avrebbe dovuto, tenuto conto
del lungo intervallo di tempo trascorso, motivare in ordine alle ragioni di
interesse pubblico, concreto ed attuale, a supporto del provvedimento impugnato,
ciò che invece non ha fatto;
- violazione e falsa applicazione dell’art. 31 della l. n. 1150/1942 ed eccesso
di potere per difetto dei presupposti e travisamento dei fatti, nonché carenza
di motivazione, in quanto il fabbricato è stato realizzato anteriormente alla
definitiva approvazione del primo strumento urbanistico del Comune di Cogliate e
quindi, ai sensi dell’art. 31 della l. n. 1150/1942, deve considerarsi
rientrante nella cd. attività edilizia libera;
- violazione e falsa applicazione dell’art. 34 del d.P.R. n. 380/2001, difetto
dei presupposti e violazione dei principi di ragionevolezza e di
proporzionalità, per non avere il Comune fatto applicazione della sanzione
pecuniaria di cui all’art. 34 del d.P.R. n. 380/2001, come invece avrebbe
dovuto.
Si è costituito in giudizio il Comune di Cogliate, eccependo l’infondatezza del
gravame e chiedendone la reiezione, previa reiezione, altresì, dell’istanza
cautelare.
Nella Camera di consiglio del 9 marzo 2006 il Collegio, con ordinanza n. 587/06,
ha accolto la domanda incidentale di sospensione.
In vista dell’udienza di merito, le parti hanno depositato ciascuna un’ulteriore
memoria, a sostegno delle rispettive tesi e difese.
All’udienza del 5 luglio 2007 la causa è stata riservata dal Collegio per la
decisione.
DIRITTO
Il ricorso indicato in epigrafe è rivolto avverso l’ordinanza del Comune di
Cogliate n. 37 del 13 dicembre 2005, recante ingiunzione all’odierno ricorrente
di demolire la falda del tetto dell’edificio di sua proprietà e di ripristinare
il tetto stesso, in conformità a quanto dettato nell’originario titolo edilizio.
Con il primo motivo di gravame si deducono la violazione dell’art. 31 del d.P.R.
n. 380/2001 e dell’art. 3 della l. n. 241/1990, l’eccesso di potere per difetto
di motivazione e carenza dei presupposti e la violazione del principio di
proporzionalità.
In particolare, il ricorrente osserva che il preteso abuso contestato riguarda
lavori eseguiti al tempo dell’originaria costruzione dell’edificio, nel 1962,
mentre il provvedimento gravato è datato 2005; quindi, il Comune è intervenuto a
sanzionare la difformità a grande distanza di tempo dalla sua realizzazione.
Ne discende, alla stregua di un consolidato orientamento giurisprudenziale, che,
poiché la constatazione e la sanzione dell’abuso è intervenuta a distanza di
molti anni dall’ultimazione dell’opera, avendo l’inerzia del Comune, così a
lungo protrattasi, ingenerato un affidamento nel privato nel consolidarsi della
sua posizione soggettiva, occorre che l’adozione dell’ordine di demolizione sia
supportata dalla specifica indicazione delle ragioni di interesse pubblico,
concreto ed attuale, che rendono imprescindibile la rimozione dell’abuso con la
demolizione dell’opera abusiva.
Nel caso di specie detta indicazione sarebbe del tutto mancata, non potendo
reputarsi idonea ad adempiere all’obbligo motivazionale l’affermazione,
contenuta nell’ordinanza impugnata, che “l’opera contrasta con rilevanti
interessi urbanistici, la cui destinazione di residenza crea altresì un peso
insediativo urbanistico incidendo sull’assetto del territorio”. Secondo il
ricorrente, si tratterebbe, infatti, di un’asserzione apodittica, non avendo il
provvedimento di demolizione esternato i “rilevanti interessi urbanistici”, né
potendo configurarsi un presunto maggior peso insediativo lesivo di tali
interessi in ragione dell’abuso sanzionato, atteso che l’abuso si riferisce ad
un bilocale di modeste dimensioni, esistente da molti anni. Per di più, la
costruzione risulta ubicata alla periferia dell’abitato di Cogliate.
Di qui l’illegittimità del provvedimento impugnato.
Né potrebbe contestarsi la sussistenza di un affidamento del privato per avere quest’ultimo manifestato la volontà di incaricare un professionista di redigere una richiesta di permesso in sanatoria, in quanto siffatta volontà sarebbe emersa solo dopo la comunicazione, da parte del Comune, dell’avvio del procedimento sanzionatorio e solo per addivenire ad una soluzione del problema insorto, che consentisse l’utilizzo dell’immobile come pacificamente avvenuto nel corso di più decenni.
Così esposta la doglianza del ricorrente, osserva il Collegio come la stessa non
possa essere condivisa.
In proposito si rileva come in effetti, secondo un risalente orientamento
giurisprudenziale, l’ordine di demolizione non necessita di una specifica
motivazione sulle ragioni di interesse pubblico che ne giustificano
l’emanazione, salvo che, per il lungo lasso di tempo trascorso, non si sia
creata a favore del privato una situazione di fatto del tutto consolidata, per
la cui modificazione l’autorità procedente è tenuta ad indicare le ragioni che,
a distanza di tempo, giustificano l’adozione del provvedimento sanzionatorio
(C.d.S., A.P., 19 maggio 1983, n. 12; Sez. II, 12 maggio 1999, n. 729; più di
recente, Sez. V, 29 maggio 2006, n. 3270). Ed a tale orientamento si è
uniformato il Collegio, nella fase cautelare del presente giudizio, con
l’ordinanza n. 587/06 del 9 marzo 2006, con cui l’istanza incidentale di
sospensione è stata accolta proprio sul rilievo della necessità di una specifica
motivazione in merito alle ragioni di interesse pubblico attuale, giustificanti
l’irrogazione della sanzione (motivazione assente nel caso di specie).
Evidenzia, tuttavia, il Collegio come sussistano ragioni giuridiche (e fattuali)
dirimenti per discostarsi, quantomeno nel caso di specie, dall’indirizzo ora
esposto e come debba, perciò, essere modificato l’avviso espresso da questo
Tribunale con l’ordinanza n. 587/06.
In proposito, si ritiene di dover integralmente aderire alle considerazioni
contenute sul punto nella sentenza di questa Sezione n. 190 del 3 febbraio 2003.
Come puntualmente indicato in tale decisione, l’ingiunzione di demolizione è
atto vincolato, per il quale il Legislatore ha tracciato in modo analitico il
modus agendi del pubblico potere, spogliando l’Amministrazione di ogni autonomia
nella valutazione del pubblico interesse, il cui perseguimento è in re ipsa e
coincide con il perseguimento della finalità, fatta propria dal Legislatore, di
ripristinare la disciplina pubblicistica violata.
La valutazione di prevalenza dell’interesse al rispetto del territorio, nonché
delle regole che presiedono alla sua tutela, è stata compiuta dalla l. n.
47/1985 (e poi dal d.P.R. n. 380/2001) con la previsione di sanzioni vincolate
quanto ad emanazione e contenuto, espressione di un potere autoritativo, non
sottoposto a termini di prescrizione o decadenza, che intende colpire il
fenomeno della compromissione del territorio e dei valori ambientali coinvolti.
Un potere così connotato induce a ritenere che il Legislatore abbia inteso dare
prevalenza all’aspettativa della collettività a vedere rispettate le norme in
materia edilizia ed urbanistica, nei confronti dell’aspettativa del
contravventore a vedere conservata l’opera abusiva, ancorché realizzata molti
anni prima.
La tesi giurisprudenziale, secondo cui vi è l’obbligo dell’Amministrazione di
motivare circa le ragioni di pubblico interesse alla demolizione se, per il
lungo lasso di tempo trascorso, si sia formato nel privato contravventore, a
causa dell’inerzia mantenuta dai pubblici poteri, un affidamento sulla
legittimità dell’opera, non è confortata dalla sussistenza di alcuna espressa
previsione normativa in tale senso. Al contrario, a siffatta interpretazione
sembrano ostare la natura rigidamente vincolata del potere
sanzionatorio–repressivo degli abusi edilizi, nonché il dato giuridico per cui
la sanzione demolitoria, più che a punire il responsabile dell’abuso, è volta a
ripristinare la situazione antecedente alla violazione, ponendo un rimedio ai
fenomeni di compromissione del territorio.
Ne discende che il mero decorso del tempo non è sufficiente a far insorgere un
affidamento sulla legittimità dell’opera o comunque sul consolidamento
dell’interesse del privato alla sua conservazione, né, per conseguenza, ad
imporre la necessità di una specifica motivazione in ordine all’esistenza di un
interesse pubblico prevalente. Infatti, l’unico interesse, la cui tutela è
rimessa dal Legislatore alla sanzione demolitoria, è l’interesse al ripristino
dell’assetto del territorio preesistente all’abuso, tipizzato come prevalente
dallo stesso Legislatore.
In definitiva, il potere di irrogare delle sanzioni in materia edilizia ed
urbanistica può essere esercitato in ogni tempo, posto che la legge non lo
sottopone a termini di prescrizione, né di decadenza, e che riguarda una
situazione di illiceità permanente, ossia una situazione di fatto attualmente
contra ius. Esso, inoltre, non necessita di specifica motivazione in relazione
alla sussistenza dell’interesse pubblico ad irrogare la sanzione, neppure quando
l’abuso sia stato commesso parecchi anni prima, non essendo configurabile nessun
legittimo affidamento del contravventore a vedere conservata una situazione di
fatto che, in disparte l’idoneità o meno del tempo a consolidarla, rimane contra
ius.
Per di più, a sostegno di quanto sin qui detto vi è il confronto tra la sanzione
demolitoria in materia edilizia e le sanzioni previste per l’illecito
amministrativo dalla l. n. 689/1981.
Infatti, ad escludere la sanzione ex l. n. 689/1981 occorre la buona fede del
contravventore, che è desumibile non già dalla semplice inerzia
dell’Amministrazione, ma dalla sussistenza di elementi positivi, idonei ad
ingenerare nell’autore della violazione il convincimento della liceità della sua
condotta, e deve, inoltre, risultare che il trasgressore abbia fatto tutto
quanto possibile per conformarsi al precetto di legge, in modo che nessun
rimprovero possa essergli mosso (Cass. civ., Sez. I, 28 aprile 2006, n. 9862).
Ad escludere la sanzione demolitoria, che prescinde dalla colpa del responsabile
dell’abuso ed è ispirata dall’oggettiva necessità di ripristinare la legalità
violata, ripristinando l’assetto del territorio preesistente all’abuso, non si
può invocare la mera inerzia dei pubblici poteri protratta nel tempo, unitamente
alla mancata motivazione, in sede di intervento tardivo, circa l’esistenza di
prevalenti interessi pubblici: invero, se la mera inerzia dell’Amministrazione,
protratta nel tempo, non basta a provare l’affidamento del privato nella liceità
della condotta sanzionata come illecito amministrativo dalla l. n. 689/1981, a
maggior ragione non basta a dimostrare nemmeno l’affidamento circa la
legittimità dell’opera edilizia colpita dall’ordine di demolizione (T.A.R.
Lombardia, Milano, Sez. II, n. 190/2003 cit.).
Nella fattispecie in esame non risulta comprovato, in aggiunta al cospicuo
decorso di tempo, nessun elemento positivo sul quale possa fondarsi la buona
fede del ricorrente. Al contrario, emerge dalla documentazione in atti che
quest’ultimo è, anche, colui al quale venne rilasciata l’originaria licenza
edilizia n. 55 del 9 giugno 1962, rispetto alla quale è stata constatata la
difformità nell’esecuzione dei lavori, che ha portato all’ordine di demolizione.
Se ne deduce che l’odierno ricorrente era (o quantomeno doveva essere) sin
dall’inizio – e cioè a far tempo dall’ultimazione dell’edificio, epoca in cui,
secondo la sua stessa ricostruzione, sarebbe stata realizzata la difformità –
consapevole del contrasto delle opere eseguite rispetto alla licenza ottenuta:
per l’effetto, non è ipotizzabile in capo allo stesso la buona fede, né un
affidamento meritevole di tutela.
Non essendovi nessun affidamento da tutelare, non appare pertanto individuabile
un obbligo del Comune di motivare con ragioni di interesse pubblico prevalenti,
ulteriori rispetto al solo interesse al ripristino della legalità violata, il
sacrificio di un tale affidamento.
Da quanto detto si ricava l’infondatezza della censura esaminata, non
occorrendo, a tal fine, valutare se il riferimento al contrasto dell’opera con
rilevanti interessi urbanistici, contenuto nel provvedimento impugnato, integri
o meno una motivazione sufficiente.
Passando al secondo motivo di ricorso, con lo stesso si contestano la violazione
dell’art. 31 della l. n. 1150/1942, l’eccesso di potere per difetto dei
presupposti e travisamento dei fatti e la carenza di motivazione, giacché le
opere difformi sarebbero state realizzate in un periodo nel quale non risultava
vigente alcuno strumento urbanistico nel Comune di Cogliate e perciò l’attività
edilizia doveva considerarsi libera e non sottoposta ad alcun titolo.
A dire del ricorrente, avendo la licenza edilizia n. 55, rilasciata il 9 giugno
1962, un termine di efficacia di sei mesi, essa avrebbe consumato i propri
effetti prima dell’approvazione del primo strumento urbanistico di Cogliate (il
Piano di Fabbricazione approvato con decreto del 1963), con la conseguenza che,
al tempo dell’ultimazione dell’edificio, per la disciplina della attività
edilizia, nel caso de quo, doveva farsi riferimento all’art. 31 della l. n.
1150/1942 (nel testo anteriore alle modifiche apportatevi con la l. n.
765/1967). Secondo tale disposizione, la licenza edilizia occorreva solo nel
caso di interventi ricadenti nei centri abitati o nelle zone di espansione dei
Comuni dotati di Piano Regolatore. In assenza di Piano Regolatore (come nel caso
del Comune di Cogliate), dunque, l’attività edilizia doveva reputarsi libera.
Per conseguenza, con riferimento all’immobile per cui è causa, l’incremento
dell’altezza del sottotetto – in difformità dal titolo rilasciato – e la sua
destinazione residenziale (verificatasi prima sia dell’approvazione dello
strumento urbanistico comunale, sia del 1967) sarebbero conformi alla disciplina
all’epoca vigente e, quindi, del tutto legittimi; sarebbe, invece, priva dei
presupposti per la sua adozione e perciò viziata sotto il profilo ora in esame,
l’impugnata ordinanza di demolizione.
Sia nelle note di udienza depositate nella Camera di consiglio per la
discussione dell’istanza cautelare, sia nella memoria depositata in vista
dell’udienza pubblica di merito, il ricorrente ha ulteriormente sviluppato tale
censura, evidenziando che:
- le opere contestate sarebbero state realizzate nel 1962;
- all’epoca dell’ultimazione dell’edificio l’approvazione di uno strumento
urbanistico non era obbligatoria per tutti i Comuni e nondimeno l’art. 34 della
l. n. 1150/1942 stabiliva, per i Comuni privi di Piano Regolatore, l’inclusione
nel proprio regolamento edilizio di un Piano di Fabbricazione, da approvarsi con
decreto interministeriale (Piano che, prima del decreto di approvazione, non
poteva comportare limitazioni allo jus aedificandi);
- nel Comune di Cogliate il Piano di Fabbricazione, già adottato all’epoca
dell’edificazione dell’immobile, venne approvato solo successivamente, e cioè
nel 1963;
- per conseguenza, non essendo ancora conclusa la procedura di approvazione del
Piano di Fabbricazione al momento di ultimazione delle opere, l’area di
proprietà dell’interessato non sarebbe stata subordinata al rispetto di alcuna
disciplina urbanistica e l’attività edilizia non si sarebbe potuta considerare
vincolata, anche in ragione del fatto che le misure di salvaguardia di cui alla
l. n. 1902/1952 non si applicavano al Piano di Fabbricazione (al quale sarebbero
state estese solo con una legge del 1966).
Così esposta la doglianza del ricorrente, osserva il Collegio come essa riceva
in primo luogo smentita dalla condotta del ricorrente stesso, il quale ebbe a
richiedere, per la costruzione del fabbricato in parola, un’apposita licenza di
costruzione, come risulta dal testo della suddetta licenza (cfr. doc. n. 2
allegato al ricorso).
In altri termini, è condivisibile l’affermazione della difesa comunale, secondo
cui il fatto che l’odierno ricorrente avesse all’epoca chiesto (ed ottenuto dal
Comune) il titolo edilizio per la costruzione dell’immobile indica che, per
intervenire nell’area di sua proprietà, occorreva il predetto titolo, il cui
contenuto non avrebbe potuto poi essere disatteso.
Ed invero, a parte la questione dell’inidoneità, all’epoca dei fatti, del Piano
di Fabbricazione a limitare lo jus aedificandi dell’interessato, in quanto
solamente adottato dal Comune e non ancora approvato a livello ministeriale, non
può comunque condividersi che l’attività edilizia relativa al fabbricato in
parola fosse libera, atteso che, come risulta dalla documentazione in atti,
l’art. 3, primo comma, del Regolamento edilizio comunale allora vigente
subordinava la costruzione di edifici entro il perimetro del territorio comunale
al rilascio di apposita licenza da parte del Sindaco.
Sul punto si precisa che è quindi irrilevante che l’immobile non si trovasse nel
centro abitato del Comune di Cogliate, atteso che non è contestato che esso
fosse comunque situato entro il perimetro del territorio comunale, con il
corollario del suo assoggettamento alla disciplina di cui al citato art. 3,
primo comma, del Regolamento edilizio.
Ove, pertanto, si volesse accogliere la ricostruzione contenuta nel gravame,
secondo la quale l’esecuzione delle opere difformi sarebbe avvenuta al tempo
dell’originaria realizzazione del fabbricato, ma dopo la scadenza del termine di
efficacia della licenza n. 55/1962, comunque non si potrebbe ammettere che
l’attività edilizia eseguita sull’immobile fosse libera, dovendo invece
reputarsi che, per essa, occorresse un nuovo titolo (o la proroga di quello
rilasciato). Con il che non muta il giudizio sul carattere abusivo
dell’intervento realizzato.
Peraltro, nel gravame non si adduce alcun elemento a dimostrazione
dell’effettivo svolgersi dei fatti secondo quanto ivi affermato. In particolare,
non vi sono elementi che consentano di sostenere che le opere difformi siano
state in effetti ultimate dopo la scadenza del termine di efficacia della
licenza n. 55 cit. (anche, se, come sopra visto, ciò non muterebbe la soluzione
del problema), e non invece sotto la vigenza di questa. E va da sé che in
argomento si deve condividere l’affermazione della difesa comunale, secondo cui,
una volta ottenuta la licenza di costruzione, il proprietario non poteva
disattenderla, violandone il contenuto precettivo, come invece ammette di aver
fatto, pur negando la vincolatività del titolo.
Nessuna significatività può poi attribuirsi, nell’ambito della vicenda in esame,
al disinteresse che l’ordinamento mostrerebbe per le forme di abusivismo
anteriori alla l. n. 765/1967, sia alla luce di quanto prima visto sulla
disciplina dettata dall’art. 3 del Regolamento edilizio del Comune resistente,
sia in quanto la limitazione del condono agli immobili successivi al 1967,
discendente dall’art. 31, ult. comma, della l. n. 47/1985, non ha alcuna valenza
di limitazione temporale del potere sanzionatorio-repressivo degli abusi
edilizi: potere che, come si è detto più sopra a confutazione del primo motivo
di gravame, non è sottoposto ad alcun termine di prescrizione o di decadenza.
In definitiva, anche la censura ora analizzata risulta priva di fondamento.
Venendo, infine, all’esame del terzo motivo di ricorso, con esso si contestano
la violazione dell’art. 34 del d.P.R. n. 380/2001, il difetto dei presupposti e
la violazione dei principi di ragionevolezza e di proporzionalità, per non avere
l’Amministrazione irrogato la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 34 cit., in
luogo di quella demolitoria, nonostante ricorressero gli estremi per
l’applicazione di detta disposizione.
In particolare, il ricorrente lamenta che il Comune di Cogliate avrebbe omesso
di valutare la possibilità di demolire la porzione dell’immobile oggetto
dell’abuso senza compromettere gravemente la staticità del piano inferiore, la
cui regolare edificazione è indiscussa.
Nel caso di specie, quindi, il provvedimento impugnato sarebbe viziato in quanto
il Comune non avrebbe potuto emetterlo senza prima deliberare in merito
all’eventuale pregiudizio che l’ottemperanza all’ordine di demolizione avrebbe
potuto cagionare alla rimanente parte del fabbricato.
Ne deriverebbe l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 34 del d.P.R. n. 380
cit., tenuto conto che quest’ultimo si applica se non si può demolire la sola
parte del fabbricato realizzata in violazione delle norme poste a salvaguardia
del territorio senza pregiudicare la restante parte del manufatto, pur quando la
costruzione sia avvenuta in mancanza del titolo. Ciò varrebbe a fortiori per la
vicenda in esame, in cui, a ben vedere, sarebbe configurabile una difformità, o
comunque una carenza di titolo, solamente parziale.
La doglianza non può essere condivisa.
In proposito, va subito evidenziato che l’ordinanza gravata qualifica l’abuso
contestato come opera eseguita in totale difformità rispetto al titolo edilizio.
Detta qualificazione – di cui nel ricorso ci si lamenta solo incidentalmente,
affermandone il carattere meramente apodittico e immotivato, ma senza elevare
tale affermazione a vera e propria censura – è confermata sia dalla
ricostruzione dei fatti svolta nello stesso gravame, sia dalla documentazione,
soprattutto quella fotografica, versata in atti.
Occorre premettere che è il medesimo ricorrente a chiarire che l’opera difforme
è consistita nell’esecuzione di un sottotetto diviso in più vani ed avente
un’altezza in gronda di 130/165 cm. ed in colmo di 220/245 cm. (anziché un
sottotetto a vano unico, con altezza in gronda di 50 cm. ed in colmo di 180
cm.). Aggiunge, poi, che il manufatto, reso così di fatto abitabile, ha ricevuto
sin dall’inizio destinazione residenziale, venendo più volte locato.
Da siffatte asserzioni – del resto coincidenti con il contenuto del verbale prot.
n. 3568 del 24 marzo 2005, relativo al sopralluogo del 22 marzo 2005 – risulta
confermata la qualificazione dell’abuso effettuata dall’ordinanza gravata (e,
nell’ultima memoria, dalla difesa comunale) in termini di opera eseguita in
totale difformità dal titolo. Ciò, tenuto conto che l’aumento di altezza ha
comportato un aumento del numero di piani, come si evince dalla documentazione
fotografica in atti, e che l’aumento di volumetria ha implicato la formazione di
un organismo edilizio utilizzabile (ed utilizzato) autonomamente.
Se ne deduce l’applicabilità alla fattispecie non già dell’art. 34, bensì
dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, con conseguente infondatezza della
doglianza avanzata sul punto nel gravame. Ad identica conclusione, del resto, si
perviene ove si voglia qualificare l’abuso in termini di variazione essenziale
al progetto approvato, ai sensi dell’art. 54 della l.r. n. 12/2005, poiché ne
deriva comunque l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 31 e non dell’art. 34
del d.P.R. n. 380/2001.
In definitiva, dunque, il ricorso è infondato e, come tale, va respinto.
Sussistono, comunque, giusti motivi per disporre la compensazione delle spese,
considerata l’esistenza, in ordine al primo motivo di ricorso, di indirizzi
giurisprudenziali difformi.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, sede di Milano, Sezione
Seconda, così definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, lo respinge.
Compensa le spese.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Milano, dal T.A.R. per la Lombardia, Sezione II, nella Camera di
consiglio del 5 luglio 2007, con l’intervento dei signori magistrati:
MARIO AROSIO Presidente
ALESSIO LIBERATI Giudice
PIETRO DE BERARDINIS Giudice, estensore
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